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Archivi tag: FMI

La crisi dell’Europa e il “successo” della Latvia

18 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Mark Weisbrot

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Tag

austerità, BCE, crisi economica, Eurozona, FMI, Latvia, ripresa, svalutazione interna, UE

di Mark Weisbrot  – 18 dicembre 2011

Nei mesi recenti alcuni sostenitori delle politiche d’austerità europee hanno reclamizzato la Latvia come una “storia di successo” che dimostra come “la svalutazione interna” può funzionare.  Questo era stato il tema di un libro pubblicato in precedenza quest’anno dall’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale, uno dei gruppi di esperti più influenti di Washington.  Il libro aveva come coautori Anders Aslund, dell’Istituto, e il primo ministro della Latvia, Valdis Dombrovkis.

Questo caso di studio è molto rilevante per l’Europa perché ci sono importanti somiglianze tra la strategia economica della Latvia a partire dal 2008 e quella promossa dalle autorità europee, la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), altrimenti note come “la Troika”.

A prima vista può sembrare ridicolo definire un “successo” una strategia economica se un paese perde il 24% della sua produttività – il dato mondiale peggiore relativamente al crollo del 2008-2009 – e la disoccupazione ufficiale balza dal 5,3% (2007) a più del 20% (inizio 2010).  Anche se la disoccupazione è ora tornata al 14,4% e l’economia sta crescendo (una stima del 4% per il 2011), si tratta di un prezzo esorbitante da pagare per una ripresa finale non molto rapida.  E’ un po’ come vantarsi del successo della flessione della Grande Depressione del 1929-1933 negli Stati Uniti.

Ma i sostenitori asseriscono che quello della Latvia è stato un successo perché ha mantenuto fisso il rapporto di cambio, legato all’euro. La tesi è che se il paese avesse cercato di perseguire politiche macroeconomiche espansionistiche – ad esempio spesa governativa anticiclica, tassi di interesse più bassi, e, quindi, anche una svalutazione – le conseguenze sarebbero state molto peggiori del peggior declino al mondo.  L’idea fondamentale è che la svalutazione avrebbe avuto effetti devastanti sul “bilancio”: molte famiglie e aziende che si erano indebitate in euro ma il cui reddito era in valuta locale  sarebbero finite in bancarotta, con effetti catastrofici sul sistema bancario, ecc.

Naturalmente è vero che ci sarebbero state gravi conseguenze negative dalla svalutazione nella situazione della Latvia, e perciò questo argomento non può essere “dimostrato” falso.  Tuttavia possiamo considerare l’esperienza di altri paesi che hanno avuto svalutazioni determinate da crisi e hanno sofferto tali perdite.  Per 13 paesi nel corso degli ultimi 20 anni, la perdita media di PIL successiva a una svalutazione è stata del 4,5% del PIL. Tre anni dopo, il paese medio era del 6,5% al di sopra del suo picco ante-svalutazione.

La Latvia, in confronto, non ha svalutato e – tre anni dopo – è tuttora del 21% sotto il proprio livello del PIL ante-crisi.

Dunque la tesi che “le cose sarebbero potute andare molto peggio” non sembra plausibile. Alcuni degli altri paesi hanno sofferto gravi crolli finanziari dopo la svalutazione, come l’Argentina che è stata quasi praticamente esclusa dal credito internazionale dopo la sua svalutazione e l’insolvenza del dicembre 2001-gennaio 2002.  Tuttavia l’Argentina è andata  molto bene dopo la sua svalutazione e insolvenza, con una contrazione iniziale dell’economia del 4,9% e una  crescita  superiore al 90% nei successivi nove anni. Ma tutti questi 13 paesi con svalutazioni determinate da crisi hanno fatto ampiamente meglio della Latvia.

I costi sociali in Latvia sono stati molto più elevati di quanto indichino le cifre ufficiali della disoccupazione. La disoccupazione/sotto-occupazione (comprendenti coloro che sono costretti a lavorare a tempo parziale o che sono stati espulsi dalla forza lavoro) ha toccato l’anno scorso un picco di oltre il 30%. E una percentuale della forza lavoro  stimata nel 10% ha lasciato il paese, un’emigrazione enorme sotto ogni raffronto e una perdita significativa per la Latvia.

Tutta questa disoccupazione e miseria non è un effetto collaterale della strategia della “svalutazione interna”, ma una parte fondamentale di essa.  L’idea di una “svalutazione interna” è che, con il cambio fisso, si devono spingere al ribasso i prezzi e specialmente i salari al fine di rendere il paese più competitivo internazionalmente.  Ciò viene fatto mediante una grave recessione e un’altissima disoccupazione. Il che fa parte dell’attuale strategia della Troika per rendere più competitive la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda.

Ironicamente, la “svalutazione interna” in Latvia non ha funzionato neppure secondo i propri termini. La debole ripresa dello scorso anno e mezzo deve poco o nulla alle esportazioni nette, che sarebbero state il motore della ripresa se la svalutazione interna avesse funzionato davvero e avesse reso più competitive le imprese del paese in concorrenza nelle esportazioni e importazioni. Sembra piuttosto che l’economia si sia ripresa perché il governo ha interrotto la sua stretta sul bilancio  dopo una contrazione economica enorme e perché c’è stata una vampata di inflazione che ha aiutato il paese a uscire dal suo caos deflazionistico.

Neppure nell’Eurozona funziona la “svalutazione interna”, in quanto l’area della moneta comune appare oggi in recessione, secondo le più recenti stime dell’OCSE.  L’altra parte della strategia della Troika, un soccorso da parte delle “fate della fiducia” nei mercati obbligazionari, sta facendo ancor peggio.  I mercati obbligazionari sembrano rendersi conto che l’austerità attuale e persino gli accordi per un’austerità fiscale meglio coordinata in futuro – cosa che le autorità europee hanno annunciato con gran fanfara la settimana scorsa – non faranno che aumentare il carico del debito dell’Eurozona.

Presto o tardi le autorità europee dovranno smettere di costruire quel ponte verso il diciannovesimo secolo e utilizzare la politica economica moderna per spingere fuori dalla recessione l’economia europea.  L’Europa non può permettersi di passare quel che ha passato la Latvia, né può permetterselo il mondo: una recessione più grave in Europa potrebbe creare una crisi finanziaria del tipo di quella che cui abbiamo assistito nel 2008.  Questo è il fuoco il quale stanno giocando oggi le autorità europee.

Mark Weisbrot è codirettore del Centro per la Ricerca Economica e Politica a Washington, D.C.  E’ anche presidente di Just Foreign Policy [Politica Estera Giusta].

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/europe-s-crisis-and-latvia-s-success-by-mark-weisbrot

Originale: The Guardian

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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UE: la transizione mortale dalla socialdemocrazia all’oligarchia

15 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, MIchael Hudson

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banchieri, BCE, crisi, Economia, finanza, FMI, insolvenza

di Michael Hudson   -14 dicembre 2011

Il modo più semplice per comprendere la crisi finanziaria dell’Europa consiste nel guardare alle soluzioni che vengono proposte per risolverla.  Sono il sogno dei banchieri, un palo della cuccagna di regali che pochi elettori probabilmente approverebbero in un referendum democratico. Gli strateghi delle banche hanno imparato a non sottoporre i loro piani al voto democratico, dopo che gli islandesi si sono rifiutati per due volte, nel 2010 e 2011, di approvare la capitolazione del loro governo al rimborso all’Inghilterra e all’Olanda delle perdite incorse dalle mal regolamentate banche islandesi che avevano operato all’estero.  In assenza di un tale referendum le dimostrazioni di massa sono state il solo modo in cui gli elettori greci hanno potuto manifestare la propria opposizione ai 50 miliardi di euro di privatizzazioni svendute pretese dalla Banca Centrale Europea (BCE) nell’autunno 2011.

Il problema è che alla Grecia manca il contante per ripagare i propri debiti e gli interessi.  La BCE sta pretendendo che il paese svenda il proprio patrimonio pubblico – terreni, acqua, sistemi fognari, porti e altri beni del demanio pubblico – e anche tagli le pensioni e altri pagamenti alla popolazione.  Il 99% che sta in basso è comprensibilmente arrabbiato nell’apprendere che lo strato più ricco della popolazione è largamente responsabile del deficit di bilancio avendo messo al sicuro all’estero, a quanto risulta, 45 miliardi di euro nelle sole banche svizzere.  L’idea che i normali salariati siano obbligati a rinunciare alle pensioni per pagare per gli evasori fiscali – e per la generale mancata tassazione della ricchezza a partire dal regime dei colonnelli – rende la maggior parte delle persone comprensibilmente rabbiosa.  Per la “troika” BCE, UE e FMI affermare che, indipendentemente da quanto i ricchi incassino, rubino o evadano, il pagamento deve essere fatto dalla popolazione in generale non è una posizione politicamente neutrale. Discende fortemente dalla posizione dalla parte dei ricchi che ha scorrettamente assunto.

Una politica fiscale democratica ripristinerebbe la tassazione progressiva sul reddito e la proprietà, e ne imporrebbe l’incasso con sanzioni per l’evasione.  Sin dal diciannovesimo secolo i riformatori democratici hanno cercato di liberare le economie dagli sprechi, dalla corruzione e dal “reddito con guadagnato”.  Ma la troika BCE sta imponendo una tassazione regressiva, che può essere imposta soltanto affidando la politica governativa a un gruppo di tecnocrati non eletti.

Chiamare ‘tecnocrati’ gli amministratori di una politica così antidemocratica sembra un cinico eufemismo dal suono scientifico per riferirsi ai lobbisti e burocrati della finanza ritenuti utilmente di mente tanto ristretta da agire da utili idioti nell’interesse dei propri patroni. La loro ideologia è la stessa filosofia dell’austerità che il FMI impose ai debitori del Terzo Mondo dagli anni ’60 agli anni ’80.  Pretendendo di stabilizzare la bilancia dei pagamenti introducendo i liberi mercati, questi dirigenti svendettero i settori esportatori e le infrastrutture fondamentali ad acquirenti delle nazioni creditrici.  L’effetto fu una spinta delle economie tormentate dall’austerità a indebitarsi ancora di più nei confronti delle banche straniere e delle oligarchie nazionali degli stessi paesi.

Questo è il binario sul quale sono state avviate le socialdemocrazie dell’eurozona. Sotto la copertura politica dell’emergenza finanziaria, le paghe e i livelli di vita devono essere ridimensionate e il potere politico deve essere trasferito dal governo eletto a tecnocrati che governino per conto delle grandi banche e istituzioni finanziarie. La manodopera del settore pubblico deve essere privatizzata – e desindacalizzata – mentre l’assistenza sociale, i piani pensionistici e l’assistenza sanitaria devono essere ridimensionati anch’essi.

Questo è il programma politica di base seguito dagli scalatori delle imprese quando svuotano i piani pensionistici delle aziende per rimborsare i propri sostenitori finanziari nelle operazioni di acquisizione a debito [leveraged buy out]. E’ anche così che è stata privatizzata l’economia dell’ex Unione Sovietica dopo il 1991, trasferendo il patrimonio pubblico nelle mani di cleptocrati che hanno collaborato con i banchieri occidentali per fare della borsa russa e di altre le beniamine dei mercati finanziari globali.  Le imposte sul patrimonio furono ridotte mentre vennero imposte tasse fisse sui salari (per un totale del 59% in Latvia).  L’industria fu smantellata mentre i diritti fondiari e minerari venivano trasferiti a stranieri, le economie venivano spinte all’indebitamento e i lavoratori, specializzati e non specializzati, venivano costretti a emigrare per trovare lavoro.

Fingendo di esseri dediti alla stabilizzazione dei prezzi e al libero mercato, i banchieri gonfiarono una bolla creditizia immobiliare.  Il reddito degli affitti fu capitalizzato in finanziamenti bancari e speso per pagare gli interessi. Tutto ciò fu enormemente redditizio per i banchieri ma lasciò i paesi baltici e gran parte dell’Europa Centrale in una situazione debitoria tesa e con un capitale in negativo entro il 2008.  I neoliberali plaudono ai livelli salariali che hanno fatto precipitare e al PIL in calo, come a una storia di successo, perché quei paesi hanno trasferito l’onere fiscale sul lavoro, piuttosto che sulla proprietà o sulla finanza. I governi hanno salvato le banche a spese dei contribuenti.

E’ assiomatico che la soluzione a ogni grande problema sociale tenda a crearne di maggiori, non sempre intenzionalmente! Dal punto di vista del settore finanziario la “soluzione alla crisi dell’Eurozona consiste nell’invertire gli obiettivi dell’Era Progressista di un secolo fa, quella che speranzosamente John Maynard Keynes definì nel 1936 “l’eutanasia di chi vive di rendita (rentier).”  L’idea era di subordinare il sistema bancario a servire l’economia invece del contrario.  Invece la finanza è diventata il nuovo modo di fare la guerra, meno evidentemente sanguinoso ma con gli stessi obiettivi delle invasioni vichinghe di mille anni fa e con la conseguente conquista coloniale dell’Europa: appropriazione di terre e di risorse naturali, di infrastrutture e di qualsiasi altra attività che possa generare un flusso di entrate.  Fu per capitalizzare e stimare tali valori, ad esempio, che Guglielmo il Conquistatore compilò dopo il  1066 il Domesday Book [il ‘libro del giorno del giudizio’, un censimento delle proprietà inglesi – n.d.t.], un modello per  calcoli in stile BCE e FMI di oggi.

L’appropriazione del surplus economico per rimborsare i banchieri sta capovolgendo i valori tradizionali della maggior parte degli europei.  L’imposizione dell’austerità economica, lo smantellamento della spesa sociale, le svendite del patrimonio pubblico, la de-sindacalizzazione del lavoro, i livelli salariali in caduta, il ridimensionamento dei piani pensionistici e dell’assistenza sanitaria in paesi soggetti a regole democratiche richiede di convincere gli elettori che non ci sono alternative. Si afferma che senza un sistema bancario redditizio (non importa quanto predace) l’economia andrà a pezzi con le perdite bancarie sui prestiti cattivi e sui giochi d’azzardo che abbatteranno il sistema dei pagamenti. Nessun organismo regolamentare potrà essere d’aiuto, nessuna miglior politica fiscale, niente se non la consegna del controllo ai lobbisti per salvare le banche dal perdere le pretese finanziarie che hanno costruito.

Quello che vogliono le banche è che il surplus economico sia utilizzato per pagare gli interessi e non sia utilizzato per migliorare il livello di vita, la spesa pubblica o addirittura per nuovi investimenti di capitale. Le attività di ricerca e sviluppo richiedono troppo tempo. La finanza vive nel breve termine. Questa prospettiva di breve termine è autodistruttiva e tuttavia viene presentata come scienza.  L’alternativa, viene detto agli elettori, è la schiavitù: interferire con il “libero mercato” attraverso regolamentazioni della finanza e persino con una fiscalità progressiva.

Naturalmente c’è un’alternativa. E’ quella che la civiltà europea dagli Scolastici del tredicesimo secolo all’Illuminismo e alla fioritura dell’economia politica classica ha cercato di creare: un’economia libera da redditi non guadagnati, libera da poteri forti che utilizzino privilegi speciali per “ricavare una rendita”.  Per mano dei neoliberali, invece, il libero mercato è un mercato libero a favore della classe dei redditieri perché essi ottengano interessi, rendite e monopolio sui prezzi.

Gli interessi dei redditieri [rentier] presentano il proprio comportamento come un’efficiente “creazione di ricchezza”.  Le scuole di economia aziendale insegnano ai privatizzatori come organizzare prestiti finanziari e collocamento di obbligazioni impegnando tutto quello che possono affinché i servizi pubblici infrastrutturali siano ceduti dai governi.  L’idea è di utilizzare le entrate per pagare gli interessi alle banche e agli obbligazionisti e poi conseguire un utile di capitale aumentando i pedaggi per l’accesso alle strade e ai porti, all’acqua e all’utilizzo delle fognature e ad altri servizi fondamentali.  Ai governi viene detto che le economie possono essere gestite in modo più efficiente smantellando i programmi pubblici e svendendone il patrimonio.

Il divario tra lo scopo ostentato e l’effetto reale non è mai stato più ipocrita.  Rendere i pagamenti di interessi (e anche gli utili di capitale) esenti da imposte priva i governi delle entrate dalle tariffe degli utenti cui rinunciano, aumentando così i loro deficit di bilancio.  E invece di promuovere la stabilità dei prezzi (l’apparente priorità della BCE) la privatizzazione aumenta i prezzi delle infrastrutture, degli alloggi e di altri costi del vivere e fa affari con l’addebito di interessi e di altre spese finanziarie generali, e assicura remunerazioni molto più elevate alla dirigenza.  E’ dunque soltanto un’affermazione ideologica automatica che questa politica sia più efficiente semplicemente perché a indebitarsi sono i privatizzatori e non il governo.

Non c’è alcuna necessità tecnica o economica che la dirigenza finanziaria europea imponga la depressione a gran parte della popolazione.  Ma c’è una grande occasione di profitto per le banche che hanno ottenuto il controllo della politica economica della BCE.  A partire dagli anni ’60, la crisi della bilancia dei pagamenti ha offerto ai banchieri e agli investitori liquidi di prendere il controllo della politica fiscale, di trasferire l’onere fiscale sul lavoro e di smantellare la spesa sociale a favore delle sovvenzioni a investitori stranieri e al settore finanziario.  Essi guadagnano dalle politiche d’austerità che riducono la qualità della vita e la spesa sociale.  Una crisi del debito consente all’élite finanziaria nazionale e ai banchieri stranieri di indebitare il resto della società, utilizzando i propri privilegi creditizi (o i risparmi derivanti da politiche fiscali meno progressive) come leva per impossessarsi di beni e per ridurre le popolazioni in uno stato di dipendenza dal debito.

Il tipo di guerra che oggi divora l’Europa è dunque più che economica nella sua portata.  Minaccia di diventare una linea di divisione storica  tra l’epoca dello scorso mezzo secolo di speranza e di potenziale tecnologico e una nuova era di polarizzazione con l’oligarchia finanziaria che prende il posto dei governi democratici e riduce le popolazioni in uno stato di schiavitù del debito.

Perché un’appropriazione del patrimonio e del potere così sfacciata possa riuscire, è necessario che una crisi sospenda i normali processi legislativi politici e democratici che vi si opporrebbero. Il panico e l’anarchia politici creano un vuoto in cui gli arraffoni possono muoversi velocemente, usando la retorica dell’inganno finanziario e di un’economia d’accatto per razionalizzare soluzioni egoistiche attraverso una visione falsa della storia economica e, nel caso dell’odierna BCE, della storia tedesca in particolare.

* * *

I governi non hanno bisogno di indebitarsi presso banchieri commerciali o altri finanziatori. Sin da quando è stata fondata la Banca d’Inghilterra, nel 1694, le banche centrali hanno stampato denaro per finanziare la spesa pubblica. Anche i banchieri creano liberamente denaro quando fanno un prestito e accreditano il conto del cliente in cambio di un pagherò gravato da interessi. Oggi queste banche possono prendere a prestito riserve dalle banche centrali governative a un basso tasso d’interesse (0,25% negli Stati Uniti) e prestare quel denaro a tassi più elevati.  Cosicché le banche sono ben liete di vedere le banche centrali governative creare credito da prestar loro.  Ma quando si tratta di governi che creino  moneta per finanziare i propri deficit di bilancio da spendere nel resto dell’economia, le banche preferirebbero avere questo mercato e i relativi interessi solo per sé.

Le banche commerciali europee sono particolarmente categoriche riguardo al fatto che la Banca Centrale Europea non dovrebbe finanziare i deficit governativi.  Ma la creazione privata di credito non è necessariamente meno inflattiva della monetizzazione governativa dei propri deficit (semplicemente stampando il denaro necessario). La maggior parte dei prestiti delle banche commerciali sono concessi con garanzie su immobili, azioni e obbligazioni, fornendo credito che viene utilizzato per rilanciare i prezzi degli alloggi e dei titoli finanziari (come nel caso delle acquisizioni a debito).

E’ principalmente il governo che spende il credito nell’economia “reale”, nella misura in cui i deficit del bilancio pubblico impiegano lavoro o sono spesi in beni e servizi.  I governi evitano di pagare interessi facendo stampare denaro alle proprie banche centrali sulle proprie tastiere dei computer anziché prendere a prestito da banche che fanno la stessa cosa sulle loro tastiere.  (Abraham Lincoln non fece altro che stampare moneta quando finanziò la Guerra Civile statunitense con il “biglietti verdi”).

Alle banche piacerebbe utilizzare il proprio privilegio di creare credito per ricavare interessi da prestiti ai governi per finanziare i deficit dei bilanci pubblici.  Esse hanno dunque un interesse egoistico a limitare l’ “opzione pubblica” di monetizzare i propri deficit di bilancio.  Per garantirsi il monopolio del proprio privilegio di creare credito, le banche hanno montato una vasta campagna di denigrazione dell’avversario riguardo alla spesa governativa e, in realtà, contro l’autorità governativa in generale, che risulta essere l’unica autorità con un potere sufficiente a controllare il loro potere o a offrire opzioni finanziarie alternative, come fanno le banche del risparmio postale in Giappone, in Russia e in altri paesi.  Questa concorrenza tra banche e governo spiega le false accuse mosse alla creazione di credito da parte del governo in quanto dichiarata più inflazionistica di quella della banche commerciali.

La realtà è chiarita dal confronto tra il modo in cui gli Stati Uniti, l’Inghilterra e l’Europa gestiscono le proprie finanze pubbliche.  Il Tesoro statunitense è di gran lunga il maggior debitore e le sue banche maggiori sembrano avere un capitale negativo, essendo debitrici nei confronti dei propri depositanti e di altre istituzioni finanziarie di somme molto superiori a quelle che possono essere pagate con il loro portafoglio di prestiti, investimenti e giochi finanziari assortiti.  Tuttavia, mentre i disordini finanziari globali si intensificano, gli investitori istituzionali investono il loro denaro in buoni del tesoro USA, in misura così vasta che questi titolo non rendono più dell’1%.  Per contro, un quarto del settore immobiliare USA ha un capitale negativo, gli stati e le amministrazioni cittadine statunitensi si trovano a confrontarsi con l’insolvenza e devono ridimensionare le spese.  Grandi imprese finiscono in bancarotta, i piani pensione sono in arretrati sempre maggiori, e tuttavia l’economia USA resta una calamita per i risparmi globali.

Anche l’economia inglese sta vacillando, e tuttavia il governo paga solo il 2% di interessi. Ma i governi europei pagano più del 7%. Il motivo di tale disparità è che questi ultimi sono privi dell’ “opzione pubblica” di creare moneta. L’avere una Federal Reserve Bank o la Banca d’Inghilterra che possono stampare denaro per pagare interessi o rinnovare i debiti esistenti è ciò che rende gli Stati Uniti e l’Inghilterra diversi dall’Europa. Nessuno si aspetta che queste due nazioni siano costrette a svendere i terreni pubblici e altri beni per raccogliere i fondi per pagare (anche se possono farlo come scelta politica).  Dato che il Tesoro USA e la Federal Reserve possono creare nuova moneta, ne consegue che, fintanto che i debiti del governo sono denominati in dollari, possono firmare abbastanza cambiali sulle tastiere dei propri computer da far sì che l’unico rischio corso dai detentori di buoni del tesoro USA è quello del tasso di cambio del dollaro rispetto alle altre valute.

Per contro, l’Eurozona ha una banca centrale ma l’articolo 123 del Trattato di Lisbona vieta alla BCE di fare quello che le altre banche centrale sono state fondate per fare: creare il denaro per finanziare i deficit di bilancio governativi o per rinnovare prestiti in scadenza.  Gli storici del futuro senza dubbio troveranno notevole che ci sia realmente della razionalità a sostegno di tale politica, o almeno la pretesa di una storia di copertura.  E’ una cosa così inconsistente che qualsiasi studente di storia può capire quanto sia distorta. L’affermazione è che se una banca centrale crea credito, ciò minaccia la stabilità dei prezzi.  A essere considerata inflazionistica è solo la spesa governativa, non il credito privato!

L’amministrazione Clinton ha equilibrato il bilancio del governo USA alla fine degli anni ’90, e tuttavia stava esplodendo l’Economia delle Bolle.  D’altro canto il Tesoro e la Federal Reserve hanno inondato l’economia con 13 trilioni di dollari di crediti al sistema del credito bancario dopo il settembre 2008 e con ulteriori 800 miliardi di dollari l’estate scorsa attraverso il programma di Agevolazione Quantitativa della Federal Reserve (QE2).  E tuttavia i prezzi al consumo e delle materie prime non stanno salendo.  Nemmeno i prezzi degli immobili e del mercato azionario sono rilanciati.  Dunque l’idea che più denaro significhi prezzi più alti (MV=PT *) oggi non funziona.    [* Equazione degli Scambi (ES)di Fisher:MV = PT,  dove M = quantità  di moneta, V = velocità di circolazione della moneta, T = numero di transazioni, P = livello generale dei prezzi – n.d.t.].

Le banche commerciali creano debito. E’ il loro prodotto. La leva su debito è stata utilizzata per più di un decennio per rilanciare i prezzi – rendendo più costoso per i cittadini statunitensi avere una casa o acquistare una polizza che garantisca un reddito pensionistico – ma l’economia odierna sta soffrendo di una deflazione da debito con i redditi personali, quelli da attività e le entrate fiscali che sono dirottati a rimborsare i debiti anziché a spendere in beni o a investire o ad assumere.

Molto più impressionante è la parodia della storia tedesca che viene ripetuta in continuazione, come se la ripetizione in qualche modo possa far smettere alla gente di ricordare quello che in realtà è accaduto nel ventesimo secolo.  A sentir raccontare la storia dai dirigenti della BCE, sembrerebbe avventato da parte di una banca centrale finanziare il governo, a motivo del rischio di super-inflazione. Vengono esibiti ricordi dell’inflazione di Weimar in Germania negli anni ’20.   Ma, esaminato, ciò risulta essere quello che gli psichiatri chiamano un ricordo artificiale: una condizione in cui un paziente è convinto di aver sofferto un trauma che sembra reale, ma che in realtà  non esiste.

Quel che è accaduto nel 1921 non è stato un caso di governi indebitatisi presso banche centrali per finanziare spese interne come programmi sociali, pensioni o assistenza sanitaria come oggi.  Piuttosto l’obbligo della Germania di pagare le riparazioni ha portato la Reichsbank a inondare i mercati delle valute estere di marchi tedeschi per ottenere la valuta necessaria per comprare sterline inglesi, franchi francesi e altre valute per pagare gli Alleati, che usavano quel denaro per rimborsare i debiti degli eserciti Inter-Alleati verso gli Stati Uniti.  L’iperinflazione della nazione ha avuto origine dal suo obbligo di pagare le sue obbligazioni in valuta estera.  Nessun importo di tassazione interna avrebbe raccolto la valuta straniera di cui era programmato il pagamento.

Arrivati agli anni ’30 questo fenomeno era ben noto, spiegato da Keynes e da altri che avevano analizzato i limiti strutturali della capacità di pagare il debito estero imposto indipendentemente dalla capacità di attingere ai bilanci valutari nazionali in essere.  Dal testo del 1931 di Salomon Flink ‘The Reichsbank and Economic Germany’ agli studi sulle iper-inflazioni cilena e di altri paesi del Terzo Mondo, gli economisti hanno scoperto all’opera una causa comune, basata sulla bilancia dei pagamenti. Per primo arriva un crollo dei rapporti di cambio. Ciò aumenta il prezzo delle importazioni e, in conseguenza, il livello nazionale dei prezzi.  Servono più soldi per effettuare acquisti a prezzi più alti.  La sequenza statistica e la catena causale portano dal deficit della bilancia dei pagamenti al deprezzamento della moneta aumentando i costi delle importazioni e da questo aumento dei prezzi alla immissioni di liquidità, non il contrario.

Gli odierni sostenitori del “libero mercato” che scrivono nella tradizione monetarista di Chicago (fondamentalmente quella di David Ricardo) escludono dai loro calcoli le dimensioni del debito estero e di quello nazionale.  E’ come se il “denaro” e il “credito” fossero beni da barattare contro merci.  Ma un conto bancario o altre forme di credito si traduce in debito sull’altra colonna del bilancio. Il debito di una parte è il risparmio di un’altra parte e la maggior parte dei risparmi oggi viene prestata a interesse, assorbendo denaro dai settori non finanziari dell’economia.  Il dibattito è ridotto a un rapporto semplicistico tra la fornitura di denaro e il livello dei prezzi e, in realtà, solo il livello dei prezzi al consumo,  non dei prezzi del patrimonio. Nella loro ansia di opporsi alla spesa governativa – e in realtà di smantellare il governo e sostituirlo con pianificatori finanziari – i monetaristi neoliberali trascurano il carico del debito imposto oggi dalla Latvia all’Islanda all’Irlanda alla Grecia, Italia, Spagna e Portogallo.

Se l’euro andrà a pezzi sarà a motivo dell’obbligo dei governi di rimborsare i banchieri con soldi che devono essere presi a prestito invece che creati dalle banche centrali.  Diversamente dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra che possono creare credito da parte delle banche centrali sulle tastiere dei loro computer per evitare che l’economia avvizzisca o diventi insolvente, la costituzione tedesca e il Trattato di Lisbona impediscono alla banca centrale di fare altrettanto.

L’effetto è l’obbligo per i governi di indebitarsi a interesse presso le banche centrali.  Ciò dà ai banchieri la capacità di creare una crisi, minacciando di portare le economie fuori dall’Eurozona se non si sottomettono alle “condizioni” loro imposte in quella che sta rapidamente diventando una guerra di classe della finanza contro il mondo del lavoro.

Togliere alla banca centrale dell’Europa il diritto di privare i governi del potere di creare moneta

Una delle tre caratteristiche che definiscono uno stato-nazione è il potere di creare moneta. Una seconda caratteristica è il potere di riscuotere imposte. Entrambi questi poteri sono in corso di trasferimento dalle mani di rappresentanti democraticamente eletti a quelle del settore finanziario, come effetto dell’aver legato le mani al governo.

La terza caratteristica di uno stato-nazione è il potere di dichiarare guerra.  Quello che accade oggi è l’equivalente di una guerra, ma contro il potere del governo! E’, soprattutto, una modalità finanziaria di condurre la guerra e gli scopi di questa appropriazione finanziaria sono gli stessi di quelli di una conquista militare: primo, la terra e le ricchezze del sottosuolo su cui imporre rendite come tributo; poi le infrastrutture pubbliche per ricavare rendite dalle tariffe di accesso; e, terzo, ogni altra impresa o bene di demanio pubblico.

In questa nuova guerra finanziarizzata, i governi sono spinti ad agire da forze dell’ordine per conto dei conquistatori finanziari contro le loro stesse popolazioni nazionali.  Di certo questa non è una cosa nuova.  Abbiamo visto la Banca Mondiale e il FMI imporre l’austerità a dittature latinoamericane, a capitribù militari africani e ad altre oligarchie vassalle dagli anni ’60 fino agli anni ’80. L’Irlanda e la Grecia, la Spagna e il Portogallo devono ora essere assoggettate a un simile spogliamento mentre le decisioni politiche pubbliche sono trasferite a organismi finanziari sovra-governativi che agiscono per conto dei banchieri e, attraverso essi, per conto dell’1% della popolazione.

Quando i debiti non possono essere rimborsati o rinnovati arriva il tempo dei pignoramenti.  Per i governi ciò significa svendita di privatizzazioni per rimborsare i creditori. In aggiunta al fatto di essere un arraffamento della proprietà, la privatizzazione mira a sostituire la manodopera del settore pubblico con una forza lavoro non sindacalizzata che abbia minori diritti alla pensione, all’assistenza sanitaria o voce in capitolo sulle condizioni di lavoro.  La vecchia guerra di classe è così di nuovo all’opera, con una svolta finanziaria.  Facendo rattrappire l’economia, la deflazione da debito contribuisce a spezzare la capacità di resistenza del mondo del lavoro.

Inoltre dà ai creditori il controllo sulla politica fiscale.  In assenza di un parlamento pan-europeo con il potere di fissare le regole fiscali, la politica fiscale passa alla BCE.  Agendo per conto delle banche la BCE sembra favorire un’inversione della spinta del ventesimo secolo a una tassazione progressiva.  E, come ha chiarito un lobbista finanziario statunitense, la pretesa dei creditori è che i governi ridefiniscano gli obblighi sociali pubblici come “costi d’utenza”, da finanziare mediante trattenute sulle remunerazioni da passare alle banche perché le amministrino (o ne facciano cattiva amministrazione, a seconda dei casi).  Trasferire l’onere fiscale dalla proprietà immobiliare e dalla finanza al lavoro e all’economia “reale” minaccia così di diventare un arraffamento fiscale che va a sommarsi all’arraffamento delle privatizzazioni.

Questa è un’ottica di breve termine autodistruttiva.  L’ironia è che i deficit di bilancio dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) si sono originati in larga misura dal non aver tassato la proprietà e un’ulteriore svolta fiscale peggiorerà, anziché stabilizzarli, i bilanci governativi.  Ma i banchieri guardano solo a ciò che possono prendere nel breve periodo.  Sanno che qualsiasi imposta a carico dei patrimoni e delle imprese cui l’esattore rinunci è “disponibile” per gli acquirenti da impegnare presso le banche come interesse.  Così alla Grecia e ad  altre economie oligarchiche  viene detto di “pagarsi il biglietto” tagliando la spesa sociale governativa (ma non la spesa militare per l’acquisto di armi tedesche e francesi) e spostando le tasse sul lavoro e l’industria, e sui consumatori sotto forma di tariffe d’utenza più elevate per i servizi pubblici non ancora privatizzati.

In Inghilterra il primo ministro Cameron afferma che ridimensionare ulteriormente il governo sulla scia della Thatcher e di Blair renderà disponibili ancor più risorse e manodopera da assumere da parte del settore privato.  I tagli fiscali metteranno effettivamente sulla strada molti lavoratori, o almeno li costringeranno a trovare lavori pagati di meno e con meno diritti.  Ma tagliare la spesa pubblica farà avvizzire anche il settore imprenditoriale, peggiorando i problemi fiscali e debitori spingendo le economie ancor più profondamente nella recessione.

Se i governi tagliano la spesa per ridurre la dimensione dei loro deficit di bilancio – o se raccolgono imposte dall’economia in generale per generare un surplus – allora quei surplus risucchieranno denaro dall’economia, lasciando meno da spendere in beni e servizi.  La conseguenza può essere soltanto la disoccupazione, ulteriori insolvenze e fallimenti.  Possiamo considerare l’Islanda e la Latvia come i canarini nelle miniere di carbone finanziarie.  La loro esperienza recente dimostra che la deflazione debitoria porta all’emigrazione, a aspettative di vita minori, a tassi di nascite, di matrimoni e di formazione di famiglie inferiori, ma offre grandi occasioni ai fondi predatori per risucchiare ricchezza verso il vertice della piramide finanziaria.

La crisi economica attuale è una questione di scelta politica, non di necessità.  Secondo la battuta del segretario generale del presidente Obama, Rahm Emanuel: “Una crisi è un’occasione troppo buona per sprecarla.”  In tali casi la spiegazione più logica che debba beneficiarne qualche potere forte.  Le depressioni aumentano la disoccupazione, contribuendo a schiacciare il potere dei lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati. Gli Stati Uniti stanno assistendo a una stretta di bilancio a livello statale e locale (mentre cominciano a essere annunciate bancarotte) con i primi tagli che si verificano nella sfera delle insolvenze pensionistiche.  L’alta finanza viene rimborsata non rimborsando la popolazione che lavora dei risparmi e delle promesse fatte come parte di contratti di lavoro e dei piani privati di previdenza. I pesci grossi stanno mangiando i pesci piccoli.

Questa sembra essere l’idea che il settore finanziario ha di una buona pianificazione economica.  Ma è peggio di un piano a somma zero, in cui l’utile di una parte è la perdita dell’altra.  Si rattrappiranno le economie nel loro complesso e cambieranno forma polarizzandosi tra debitori e creditori.  La democrazia economica cederà il passo all’oligarchia finanziaria, invertendo la tendenza degli ultimi secoli.

L’Europa è pronta a compiere questo passo? Gli elettori riconoscono che spogliare il governo dell’opzione pubblica di creare denaro trasferirà tale privilegio alle banche sotto forma di monopolio? Quanti osservatori hanno identificato la quasi inevitabile conseguenza: il trasferimento della pianificazione economica all’allocazione creditizia bancaria?

Anche se i governi ricorressero all’ “opzione pubblica” creando il proprio denaro per finanziare i loro deficit di bilancio e fornendo all’economia credito produttivo per ricostruire le infrastrutture, rimane un grave problema: che fare del complesso del debito esistente che ora costituisce un peso morto per l’economia? I banchieri e i politici che essi sostengono si rifiutano di svalutare i debiti per riflettere la capacità di rimborso. I legislatori non hanno fornito alla società una procedura legale per le svalutazioni dei debiti, salvo la legge sulla cessione fraudolenta [Fraudulent Conveyance Law] dello Stato di New York che prescrive che i debiti siano annullati se i finanziatori hanno fatto credito senza assicurarsi della capacità di rimborso del debitore.

I banchieri non vogliono assumere la responsabilità dei cattivi prestiti.  Ciò pone il problema finanziario di ciò che i legislatori dovrebbero fare quando le banche sono state così irresponsabili nell’allocare il credito. Ma qualcuno deve subire la perdita.  Dovrebbe essere la società in generale o dovrebbero essere i banchieri?

Non è un problema che i banchieri sono preparati a risolvere. Loro vogliono trasferire il problema ai governi e definire il problema in termini di come i governi possono “rimetterli in sesto”.  Quella che definiscono una “soluzione” al problema dei cattivi debiti consiste nel fatto che governo dia loro titoli buoni in cambio di prestiti cattivi (“contanti in cambio di spazzatura”), da pagare in pieno da parte dei contribuenti.  Avendo organizzato un enorme aumento di ricchezza per sé stessi, i banchieri ora vogliono prendere i soldi e scappare, lasciando le economie tormentate dai debiti. Le entrate che non possono essere pagate dai debitori saranno ora distribuite, per il pagamento, all’intera economia, aumentando enormemente il costo della vista e del fare impresa per tutti.

Perché dovrebbero essere “rimessi in sesto” a spese del rattrappimento del resto dell’economia?  La risposta dei banchieri è che  i debiti vanno corrisposti ai piani pensionistici dei lavoratori, ai consumatori con depositi bancari e che l’intero sistema crollerà se i governi mancheranno di rimborsare un titolo.   Se messi sotto pressione, i banchieri ammettono di aver acceso assicurazioni sui rischi, di detenere obbligazioni con collaterale debitorio e altre coperture dei rischi.  Ma gli assicuratori sono in gran parte banche USA e il governo USA sta premendo sull’Europa affinché non diventi insolvente danneggiando così il sistema bancario statunitense.  Così il garbuglio del debito è diventato politicizzato a livello internazionale.

Dunque per i banchieri la linea di resistenza consiste nell’incoraggiare l’illusione che non ci sia necessità che essi accettino l’insolvenza degli alti debiti non rimborsabili che hanno incoraggiato.  I creditori insistono sempre sul fatto che il debito generale può essere mantenuto se soltanto i governi ridurranno altre spese, aumentando contemporaneamente le imposte a carico dei singole e delle imprese non finanziarie.

Il motivo per cui ciò non funzionerà è che cercare di incassare l’odierna dimensione del debito colpirà la sottostante economia “reale”, rendendola ancor meno in grado di pagare i propri debiti.  Quello che è iniziato come un problema finanziario (“cattivi debiti”) si trasformerà ora in un problema fiscale (“cattive imposte”). Le tasse sono un costo per le imprese allo stesso modo in cui è un costo rimborsare un debito. Entrambi i costi devono riflettersi sui prezzi dei prodotti.  Quando in contribuenti sono gravati di tasse e di debiti dispongono di meno entrate disponibili per i consumi.  Così i mercati avvizziscono, ponendo sotto ulteriore pressione la redditività delle imprese nazionali.  Tale combinazione rende qualsiasi paese che segua un politica simile un produttore ad alto costo e, in conseguenza, un paese meno competitivo sui mercati globali.

Questo tipo di pianificazione finanziaria – e la sua parallela svolta fiscale – porta alla deindustrializzazione.  Creando denaro a corso forzoso da parte della BCE o del FMI si lascia il debito al suo posto, mantenendo la ricchezza e il controllo dell’economia nelle mani del settore finanziario.  Le banche possono ricevere il pagamento dei debiti incorsi per proprietà eccessivamente gravate da mutui ipotecari solo se i debitori sono sollevati da qualche tassa sul patrimonio immobiliare.  Imprese industriali a corto di disponibilità a causa dei debiti possono rimborsarli solo ridimensionando gli impegni pensionistici, l’assistenza sanitaria e gli stipendi dei propri dipendenti, o riducendo i pagamenti di imposte e tasse al governo. In pratica “onorare i debiti” finisce per tradursi in una deflazione da  debito e in una stretta economica generale.

Questo è il piano economico dei finanzieri.  Ma lasciare la politica fiscale e la pianificazione centralizzata nelle mani dei banchieri finisce per essere l’opposto di ciò su cui verteva l’economia del libero mercato degli ultimi secoli.  L’obiettivo classico consisteva nel minimizzare il debito generale, nel tassare le rendite fondiarie e da risorse naturali e nel mantenere i prezzi monopolistici in linea con gli effettivi costi di produzione (“valori”).  I banchieri hanno prestato sempre più a valere sulle stesse entrate che gli economisti del libero mercato consideravano la base fiscale naturale.

Dunque qualcosa deve cedere.  Si tratterà degli ultimi secoli di filosofia economica liberale del libero mercato, con la cessione ai banchieri della pianificazione del surplus economico? O la società riaffermerà la filosofia economica classica e i principi dell’Era Progressista, e riaffermerà il modello sociale dei mercati finanziati intesi a promuovere la crescita a lungo termine con minimi costi per la vita e l’imprenditoria?

Almeno nei paesi più pesantemente indebitati, gli elettori europei si stanno risvegliando davanti a un colpo di stato oligarchico in cui la tassazione e la pianificazione e il controllo dei bilanci stanno passando nelle mani di dirigenti nominati dal cartello internazionale dei banchieri.  Questo risultato è l’opposto di tutto ciò su cui si è incentrata l’economia del libero mercato degli ultimi secoli.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul Frankfurter Allgemeine Zeitung del 3 dicembre 2011 sotto il titolo “Der Krieg der Banken gegen das Volk” [La guerra delle banche contro il popolo].

 

MICHAEL HUDSON è un ex economista di Wall Street. Professore insigne di ricerca all’Università del Missouri a Kansas City (UMKC) è autore di numerosi libri tra cui  ‘Superimperialism: The Economic Strategy of American Empire’ [Il super-imperialismo: strategia economica dell’impero statunitense] (nuova edizione, Pluto Press, 2002). Ha contribuito a ‘Hopeless: Barack Obama and the Politics of Illusion’ [Senza speranza: Barack Obama e la politica dell’illusione] in uscita presso AK Press.  Può essere raggiunto sul suo sito web a mh@michael-hudson.com

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/europe-s-deadly-transition-from-social-democracy-to-oligarchy-by-michael-hudson

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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La Cina non può salvare il mondo dalla crisi

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Economia, Jean Sanuk

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Asia, assemblaggio, Cambogia, Cina, consumi, Corea del Sud, crisi economica, crisi finanziaria, esportazioni, Europa, FIlippine, FMI, G20, G7, Giappone, India, Indonesia, Malesia, OCSE, piano di salvataggio, PIL, politica monetaria, prodotti finiti, recessione, redditi, sfruttamento, spesa pubblica, Tailandia, tasso di cambio, tasso di interesse, usa, Vietnam

 

di Jean Sanuk  – 26 novembre 2011

Mentre il Nord America e l’Europa sono stati colpiti duramente, la Cina ha resistito alla crisi internazionale del 2008 grazie a un piano di salvataggio che ha combinato enormi spese pubbliche, un basso tasso di interesse e sovvenzioni ai consumi. Il tasso di crescita della Cina ha raggiunto il 9% nel 2009 e il 10,40% nel 2010, trascinando fuori dalla crisi sulla sua scia l’Asia e l’America Latina.  E’ anche riuscito a mantenere la disoccupazione a un livello sostenibile.  La Cina ha persino superato il Giappone, nel 2010, come seconda economia maggiore del mondo in termini di PIL e sta colmando il divario che la separa dagli Stati Uniti. Nel complesso l’ascesa della Cina sembra non toccata dalla crisi dei subprime. Uno sguardo più attento dimostra che i problemi stanno per arrivare. Continua a leggere →

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Ispirazione dall’America Latina

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in America, Eva Golinger

≈ 1 Commento

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bolivia, Caracas, Caracazo, Carlos Andres Perez, cile, colpo di stato, diritti umani, Ecuadro, egitto, Europa, evo morales, FMI, Hugo Chavez, Medio Oriente, occupywallstreet, primavera araba, Rafael Correa, repressione, repressione poliziesca, rivoluzoine bolivariana, spagna, Tunisia, usa, venezuela

di Eva Golinger  – 25 novembre 2011

Le proteste di Occupy Wall Street che si allargano agli interi Stati Uniti si sono alla fine guadagnate l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. La prolungata crisi economica e la struttura politica escludente hanno spinto migliaia di persone negli Stati Uniti a uscire dai loro locali confortevoli e a scendere in strada a sollecitare il cambiamento.  La brutale repressione della polizia in reazione a dimostrazioni pacifiche in città di tutti gli Stati Uniti ha riempito i titoli dei giornali internazionali, evidenziando l’ipocrisia di un governo veloce nell’accusare e criticare gli altri per le violazioni dei diritti umani mentre perpetua lo stesso, se non peggiore, disgustoso comportamento in patria.

Molti analisti e commentatori hanno attribuito le proteste negli USA alla cosiddetta “Primavera Araba” che ha luogo in Tunisia, Egitto e altre nazioni del Medio Oriente e dell’Africa. I movimenti negli USA e nel mondo arabo hanno condiviso tattiche e caratteristiche simili, compreso l’uso di media sociali come Twitter, Youtube e Facebook, per mobilitare dimostrazioni e pubblicizzare attività di protesta e repressione statale. I protagonisti di queste rivolte sono stati principalmente i giovani e gli indignati e scontenti nei confronti di sistemi che li hanno abbandonati e hanno lasciato senza opportunità milioni di persone impoverite.

In Spagna e in Cile, dimostrazioni analoghe hanno luogo dall’inizio del 2011 e hanno portato migliaia di giovani e studenti a contestare sistemi politici ed economici iniqui e scorretti.  Le rivendicazioni di tutte queste proteste, dal mondo arabo all’Europa agli Stati Uniti, hanno incluso diritti basilari quali l’istruzione gratuita, lavori dignitosi, alloggi, assistenza sanitaria e una maggior inclusione e partecipazione alla politica e al governo.  “Minor rappresentanza, minor partecipazione” sono i gridi che salgono dagli “indignados” di tutto il mondo.

Quello che pochi hanno notato, o hanno intenzionalmente omesso, è come i popoli dell’America Latina siano insorti all’inizio di questo secolo con rivendicazioni e sogni identici a quelli di coloro che protestano oggi negli Stati Uniti, in Europa e nelle nazioni arabe, e come sono stati capaci di prendere democraticamente il potere e cominciare a ricostruire le proprie nazioni. L’influenza delle rivoluzioni del ventunesimo secolo in America Latina sul Movimento Occupiamo e sulla Primavera Araba non può essere sottovalutata.

ISPIRAZIONE A SUD DEL CONFINE

Slogan, cori e commenti dei dimostranti di Occupiamo Wall Street (OWS) che sollecitano la fine del dominio delle imprese e chiedono una spesa pubblica più equa e opportunità per la maggioranza (il 99%) sono analoghi a quelli che si sono sentiti in tutto il Venezuela negli anni ’90, quando la privatizzazione si è impossessata del paese ricco di petrolio, le multinazionali hanno governato e il popolo è stato relegato nelle baraccopoli.

Decenni di esclusione, repressione e cattiva amministrazione del governo e delle risorse in Venezuela hanno portato il popolo (il 99%) alla rivolta, nel 1989, contro un’amministrazione che stava vendendo rapidamente il paese al miglior offerente.  Il “Caracazo” del 27 febbraio 1989 è stato una rivolta popolare di massa nella capitale del Venezuela, Caracas, contro le privatizzazioni e la globalizzazione; contro il governo delle imprese [‘corporatocracy’ nell’originale – n.d.t.]. Il governo, guidato dal presidente Carlo Andres Perez, ha reagito con la repressione brutale.  Più di 3.000 persone sono state uccise dalla violenza delle autorità statali. I corpi sono stati gettati in fosse comuni e lasciati a marcire.

Ma la brutalità della violenza statale non ha fermato la maggioranza venezuelana. Lungo tutti gli anni ’90, il popolo ha cominciato a organizzare la propria frustrazione in una coalizione su scala nazionale nel tentativo di liberarsi del sistema “rappresentativo” bipartitico che aveva governato per decenni.  Al vacillare dell’economia e al crollare delle banche, e con  i politici si sono appropriavano , con il furto, di tutto quello che potevano e cercavano  di vendere il resto, il popolo si è mobilitato.  Nel 1998 è stato eletto da questo movimento di base  un nuovo presidente, ponendo fine al dominio dello governo delle imprese travestito da democrazia.

Il nuovo governo, guidato da Hugo Chavez, ha promesso una completa trasformazione del sistema. Sarà smontato e ricostruito dal popolo.  La democrazia non sarà più “rappresentativa” ma sarà partecipativa.  Ci sarà una redistribuzione delle risorse pubbliche per garantire che il 99% vi sia incluso.  L’assistenza sanitaria e l’istruzione saranno gratuite, universali e accessibili a tutti.  Sarà stilata una nuova costituzione, da ratificarsi dal popolo, per riflettere i bisogni, i sogni e le realtà della società odierna.  Il popolo governerà a livello di base mediante consigli e assemblee delle comunità che controlleranno le risorse locali e daranno ai membri delle comunità il potere decisionale su come le risorse debbano essere utilizzate.  Fioriranno media pubblici, alternativi e comunitari, e saranno incoraggiati dallo stato, al fine di ampliare l’accesso e garantire che tutte le voci siano udite.

Si porrà fine all’indebitamento con l’estero e ai rapporti con le istituzioni finanziarie internazionali.  Importanti risorse strategiche saranno nazionalizzate, recuperate  dalle imprese multinazionali e poste sotto il controllo dei lavoratori.  Le imprese pubbliche saranno gestite dai lavoratori e saranno di loro proprietà.  La politica estera sarà basata sulla sovranità e il rispetto delle altre nazioni, con un accento sull’integrazione, la cooperazione e la solidarietà, invece che sullo sfruttamento, la competizione e il dominio.

Questa non è un’utopia; questa è la Rivoluzione Bolivariana del Venezuela. Ci sono voluti anni per costruirla e ci sono ancora decenni da percorrere e molti problemi e difficoltà da superare, ma il popolo del Venezuela, il 99%, è stato capace di prendere il potere democraticamente e di trasformare la propria nazione.

Nel 2005 i popoli indigeni della Bolivia hanno conquistato il potere attraverso elezioni democratiche, dopo secoli di esclusione, colonialismo e dominazione da parte di una classe dominante di minoranza.  Si sono sollevati e mobilitati contro il governo razzista delle imprese che dominava la nazione e si sono reimpossessati del potere.  Sotto la presidenza di Evo Morales, il primo capo di stato indigeno della nazione, è stata stilata una nuova costituzione che è stata ratificata dal popolo in un referendum nazionale e hanno preso ad aver luogo trasformazioni sociali per realizzare un sistema di giustizia sociale.

In Ecuador, dopo anni di tumulti politici ed economici, colpi di stato e numerosi presidenti cacciati, il popolo ha eletto Rafael Correa e la Rivoluzione dei Cittadini è salita al potere nel 2007. Liberare la nazione dalle redini del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ravvivare l’economia e trasferire il potere al popolo, sono azioni che stanno trasformando l’Ecuador in una nazione sovrana e dignitosa.

 

NEUTRALIZZARE, DISTRUGGERE O COOPTARE LA RIVOLUZIONE

Anche se tutte queste rivoluzioni latinoamericane sono tuttora in corso, il loro accento sulla costruzione di una nazione dalla base, sul potere del popolo, sulla giustizia sociale e una sovranità vera hanno chiaramente ispirato altri nel mondo a combattere per il cambiamento nelle proprie nazioni.  Ma perché così tanti hanno mancato di vedere l’importanza dell’influenza di queste rivoluzioni in ciò che accade oggi negli Stati Uniti, in Europa e nel mondo arabo?

Principalmente perché si tratta di rivoluzioni riuscite, democratiche, pacifiche operate dal popolo, appartenenti al popolo e fatte per il popolo. Non vi sono state influenze “esterne” a dirigerle, manipolarle o tentare di “cooptarle”, come è accaduto nel caso della “Primavera Araba”. Non si sono realizzate in seguito a guerre o rivolte violente bensì piuttosto attraverso processi democratici.  Naturalmente ci sono stati molti tentativi di neutralizzare e distruggere queste rivoluzioni latinoamericane, compreso un colpo di stato in Venezuela nel 2002, un tentativo di colpo di stato in Bolivia nel 2008 e un altro tentato colpo di stato in Ecuador nel 2010. Sino ad oggi sono tutti falliti.

Agenzie USA come il National Endowment for Democracy [Fondo nazionale per la democrazia], l’International Republican Institute [Istituto internazionale Repubblicano], il National Democratic Institute [Istituto Nazionale Democratico], l’Open Society Institute [Istituto per la società aperta] e la US Agency for International Development (USAID) [Agenzia USA per lo sviluppo Internazionale] hanno finanziato e manipolato in continuazione molti di questi gruppi e organizzazioni coinvolte in nelle diverse rivolte nelle nazioni arabe.  L’amministrazione Obama è stata pesantemente coinvolta nei movimenti in Tunisia e in Egitto, circostanza provata dalle continue visite di rappresentanti del Dipartimento di Stato a queste nazioni per assicurarsi che il risultato politico fosse favorevole agli interessi statunitensi.  Washington ha anche tentato di promuovere rivolte analoghe in paesi con governi scomodi, come la Siria e l’Iran.  La guerra brutale contro la Libia e l’assassinio extragiudiziale di Muammar al-Gheddafi un tentativo obliquo degli USA di fronteggiare una “rivoluzione popolare” nella nazione nordafricana.

La manipolazione e l’infiltrazione di forze esterne nei movimenti del mondo arabo hanno contribuito al loro caos, disordine e fallimento nel concretarsi in rivoluzioni vere, vere trasformazioni delle loro strutture politiche, economiche e sociali. Sarebbe una sconfitta amara e tumultuosa per gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali se queste nazioni arabe dovessero costruire i movimenti rivoluzionari sovrani che milioni di persone di quei paesi domandano.

E, tornando agli Stati Uniti, la violenta repressione contro il movimento Occupiamo è un chiaro tentativo di neutralizzare e screditare la prima possibile coalizione che potrebbe crescere sino a diventare una forza politica potente che potrebbe liberare il paese dal regno Democratico-Repubblicano.  Mentre questo movimento lotta per consolidare e definire i suoi obiettivi, le rivoluzioni a sud del confine continuano ad estendersi.

I media delle imprese censurano, distorcono e tentano di imporre il silenzio sui progressi dei movimenti popolari in Bolivia, Ecuador, Venezuela e in altre nazioni latinoamericane. I capi di tali movimenti sono demonizzati dai mass media in un tentativo di sminuire l’importanza delle loro azioni e di farli passare per personaggi pericolosi considerati “matti”.

Nonostante questi tentativi di offuscarle, le rivoluzioni latinoamericane del ventunesimo secolo hanno preparato il terreno per altri nel Sud Globale, e nel Nord, affinché elevino le proprie voci e si uniscano per costruire un mondo migliore.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/inspiration-south-of-the-border-by-eva-golinger

Fonte: Postcards from the Revolutions [Cartoline dalle rivoluzioni]

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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La Troika ai PIIGS: zitti e prendete la medicina

14 lunedì Nov 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Mike Epitropoulos

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BCE, FMI, grecia, Italia, Karatzaferis, LAOS, LOukas Papademos, Monti, Nuova Democrazia, Papandreou, Pasok, PIGS, PIIGS, tagli, TINA, treek, troika, UE

di Mike Epitropoulos  – 13 novembre 2011

La stampa convenzionale di tutto il mondo si sta occupando giubilante del cambiamento ai vertici in Grecia e in Italia, mentre i popoli di questi paesi di altri PIIGS * continuano a vedersi imposte aspre misure d’austerità.  [ *PIIGS: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna – l’acronimo, inizialmente PIGS, prima dell’inclusione dell’Italia, suonava ‘maiali’- n.d.t.]  In Grecia il nuovo primo ministro è Loukas Papademos, un ex vicepresidente della Banca Centrale Europea (BCE), ex governatore della banca centrale greca e partecipante alla Commissione Trilaterale.  In Italia è l’economista ed ex commissario europeo Mario Monti, che sostituisce Silvio Berlusconi come primo ministro.

In entrambi i casi la Troika – UE, BCE e FMI – ha esercitato pesanti pressioni su questi governi già per conto loro conservatori per aumentare la velocità e la severità dei tagli alla spesa pubblica, dei tagli al settore pubblico e agli stipendi, e naturalmente delle privatizzazioni.  La storia della UE del ‘prima l’economia e poi la politica’ è di nuovo in bella mostra.  La democrazia (di ogni genere) è sotto attacco aperto.

In Grecia le danze si sono aperte quanto il primo ministro del PASOK, George A. Papandreou, ha sconvolto il mondo politico chiedendo un referendum nazionale sull’accordo che aveva raggiunto con la Troika il 26 ottobre, che aveva calmato i mercati finanziari, assieme al voto di fiducia al suo governo.  Alcuni in occidente sono rimasti impressionati dal suo impulso “democratico”, ma chiunque abbia remota familiarità con la Grecia sa che quello cui si è assistito è stato un ‘treek’ (trucco). La domanda immediata in casi simili deve essere “quali sono i motivi e le conseguenze e le reazioni al referendum?”

Sino a quel punto tutti i partiti d’opposizione del parlamento greco erano contro il referendum e sollecitavano elezioni. Il referendum è stato negato nel giro di un giorno.  Ma la richiesta di un referendum ha smascherato Nuova Democrazia (ND), il ramo conservatore del duopolio partitico greco (l’altro partito ‘democratico’ è il PASOK). Il capo di ND, Antonis Samaras, è venuto fuori a chiedere un “governo di transizione” per approvare l’accordo del 26 ottobre – legando così la Grecia politicamente e giuridicamente all’austerità della Troika – e poi tenere elezioni generali.

Tutto questo è un raggirare il popolo.  I greci sono costantemente nelle strade da maggio, rispecchiando gli indignados spagnoli e i dimostranti italiani, come precursori del nostro stesso movimento OWS.

Il leggendario cantante/compositore greco Mikis Theodorakis, si è chiesto ad alta voce se il “treek” del referendum e il voto di fiducia di Papandreou fosse un segno che il primo ministro aveva totalmente perso la ragione oppure se ciò rappresentasse l’azione di “consulenti internazionali” il cui unico scopo consiste nel disattivare qualsiasi impulso popolare democratico in Grecia e suggellare l’accordo a favore delle banche e della Troika.

Il nuovo ministro greco, Loukas Papademos, non ha assolutamente alcuna base politica popolare. Contrariamente ai lusinghieri articoli della stampa occidentale e finanziaria, questo “governo di unità” non è affatto rappresentativo dello spirito del popolo greco, anche se si volessero considerare soltanto i numeri dei sondaggi politici convenzionali.  Il governo Papademos è composto dal duopolio partitico greco – PASOK e ND – e dai nazionalisti di estrema destra di George Karatzaferis, il LAOS.  Essi si oppongono tutti con veemenza a qualsiasi genere di partecipazione popolare all’assunzione di qualsiasi decisione riguardante le misure d’austerità e l’accordo del 26 ottobre e il prossimo bilancio nazionale.

I media greci continuano a presentare le notizie nello spirito del concetto di Margaret Thatcher  del “non c’è alternativa”, T.I.N.A. [there is no alternative]. Nel presentare il nuovo gabinetto Papademos si rivolgono ai propri giornalisti a Bruxelles, New York e Washington dove essi riferiscono di come siano felici gli euro-tecnocrati, gli investitori di Wall Street e gli specialisti del FMI. Dalla Grecia intervistano i presidenti della Confindustria greca (SEB), della Confcommercio greca (ESEE) e della Camera di Commercio e Industria di Atene (EBEA). Tutto ciò descrivendo la totale approvazione dell’élite, dell’ “1%”, se si vuole. E al tempo stesso la totale indifferenza per il popolo, che per la maggior parte non è responsabile del disastro in cui si trova.

La Troika  – UE, BCE, FMI – sta apertamente usano il duopolio partitico per  dirottare la Grecia con i neonazisti in quella che sta diventando una tragedia della democrazia. Dichiarano “non democratica” ogni e qualsiasi opposizione popolare alle proprie decisioni, al proprio dominio e alla propria legittimità, etichettando questo come un “tempo per l’unità nazionale”. O si è “con loro  o contro di loro”. Risuona qualche campanello?

Gli obietti a breve termine sono di una chiarezza cristallina: Austerità, Privatizzazioni e Smantellamento dello stato sociale greco.  Questa è una versione moderna dei condizionamenti del FMI, compresi i giri di vite sull’opposizione politica, anche se in modi nuovi, di maggior ‘finezza’.

Quel che è davvero buffo è che gli economisti e gli esperti tradizionali continuano a dire che anche attuando tutte queste severe misure, con la tosatura del 50%, la Grecia non verrà tirata fuori dal debito per anni a venire.

Dopo quel che abbiamo passato, come e perché dovremmo essere incantati e felici di avere economisti, banchieri e tecnocrati che salgono al potere? Essi sono precisamente gli architetti dell’attuale crisi capitalista globale. Dovrebbero essere messi al posto che loro compete, parecchi addirittura in galera.

Come tratterà il governo Papademos i manifestanti di Piazza Syntagma? Molti amici, la famiglia e i colleghi in Grecia si stanno interrogando  e preoccupando  riguardo a come sarà gestita l’imminente commemorazione, il 17 novembre, della rivolta del 1974 contro la giunta militare. Dovremmo davvero attenderci che i cittadini greci comuni improvvisamente abbraccino un governo essenzialmente imposto?

Sta a tutti noi prestare grande attenzione a come i nuovi banchieri-tecnocrati in Grecia (Papademos) e in Italia (Monti) gestiranno sia il governo politico sia quello economico.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/troika-to-piigs-shut-up-and-take-your-medicine-by-mike-epitropoulos

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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La Grecia, patria della democrazia, privata di un voto

13 domenica Nov 2011

Posted by Redazione in Dean Baker, Economia, Europa

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Argentina, austerità, BCE, default, FMI, Francia, Germania, Goldman Sachs, grecia, inadempienza, Papandreou, pensioni, referendum, salvataggio, swap, troika, UE

di Dean Baker – 12 novembre 2011

Il primo ministro greco George Papandreou ha scatenato una tempesta la settimana scorsa quando ha proposto di sottoporre a un voto popolare il pacchetto d’austerità progettato dalla ‘troika’ (FMI, BCE e UE). L’idea che il popolo greco potesse essere direttamente in grado di decidere del proprio futuro ha terrorizzato i leader d’Europa e del mondo.  I mercati finanziari sono entrati nel panico, facendo precipitare le azioni ed esplodere i tassi.

Tuttavia, entro la fine della settimana, le cose sono tornate sotto controllo. I capi della Francia e della Germania hanno apparentemente impartito una lezione a Papandreou ed egli ha ritirato i piani del referendum. Mentre il governo sta collassando in Grecia il mondo può ora essere rassicurato circa il fatto che il popolo greco non avrà la possibilità di votare sul proprio futuro.

Questa è una disgrazia, poiché significa che il futuro della Grecia sarà probabilmente deciso da politici che possono non avere gli interessi del popolo greco al primo posto nella propria mente.  Secondo le loro stesse previsioni, il pacchetto d’austerità progettato dalla troika promette un decennio d’austerità, con alta disoccupazione, crollo delle paghe reali e forti riduzioni dei servizi pubblici e delle pensioni. E le loro previsioni si sono costantemente dimostrate eccessivamente ottimistiche.

Se ne avessero avuta la possibilità, i greci avrebbero avallato questo tipo di pacchetto d’austerità? La risposta dipende naturalmente dall’alternativa.

La via alternativa quasi certamente si traduce in un’inadempienza caotica e in un abbandono dell’euro.  Non è un bel quadro.  Se la Grecia seguisse la strada  dell’Argentina, l’ultimo paese a operare una rottura simile, allora probabilmente l’economia finirebbe per un certo tempo in caduta libera.  La durata di tale caduta libera dipenderebbe da quanto ci vorrebbe al governo per adottare una nuova moneta e costruire una qualche formula provvisoria per convertire in tale nuova moneta i contratti denominati in euro.

In Argentina tale periodo è durato tre mesi, con altri tre mesi di stagnazione prima che l’economia iniziasse un boom sostenuto. Il processo in Grecia potrebbe essere più difficile, sia perché il paese è legato in modo più esteso ai paesi dell’eurozona, sia perché l’Argentina aveva almeno la propria moneta.

Tuttavia, persino nel caso della Grecia, una tale rottura non sarebbe impossibile. Ci sarebbe il desiderio della nuova moneta. Il governo deve semplicemente imporre una nuova tassa sulla proprietà che sia pagabile solo nella nuova moneta.

La gente vorrà acquistare proprietà fronte mare nelle isole greche  ai piedi dell’Acropoli e così ci sarebbe richiesta della nuova moneta.  Inoltre la prospettiva di un’esplosione del turismo, una volta che i prezzi greci scendano del 50% rispetto all’Italia, alla Spagna e ad altre destinazioni popolari farà molto per sostenere l’economia greca.

Se il popolo greco potesse convincersi che questa sarebbe un’alternativa plausibile, allora farebbe alcune richieste alla troika.  In primo luogo potrebbe dire che dieci anni d’austerità continua non sono accettabili.

Sì, i greci si sono indebitati avventatamente, ma le banche europee sono state anch’esse avventate nel finanziarli. E’ vero che il governo greco ha mentito sulla situazione del proprio bilancio. Ma la voce che circola negli ambienti della finanza è che tutti sapevano che i greci stavano mentendo e hanno partecipato alla commedia.  La Goldman Sachs ha addirittura costruito un ingegnoso swap  [contratto a copertura del rischio di inadempienza – n.d.t.] che le ha consentito di trarre profitto dalle bugie.

Invece che sull’austerità, il popolo greco potrebbe insistere affinché la BCE si concentrasse su un programma di crescita.  Ciò significherebbe che la BCE dovrebbe abbandonare la sua ossessione di un obiettivo di inflazione al 2% e cominciare ad operare come una banca centrale vera.  La BCE potrebbe cominciare con il garantire il debito di Italia e Spagna, entrambi paesi che rischiano una spirale mortale di inadempienza per un carico crescente di debito/interessi, se non vi fosse una garanzia credibile a copertura dei loro debiti.

Potrebbe anche cominciare a promuovere politiche più espansionistiche. E’ sempre difficile ammettere di avere sbagliato, ma la politica BCE-FMI di crescita attraverso l’austerità non funziona.  Ogni mese abbiamo prova di questo fatto, con dati che dimostrano che la crescita è inferiore alle attese e che disoccupazione è più elevata delle previsioni.  Ci sono altre prove che potrebbero far sì che questa gente cambi idea prima di distruggere le economie europee? Forse il popolo greco avrebbe potuto costringere la troika a guardare davvero i dati.

Ci sarebbe anche altro potenziale divertimento in questi negoziati. Il popolo greco, che è già stato costretto ad accettare un’età di pensionamento più elevata e pensioni inferiori, potrebbe suggerire la stessa cosa per gli economisti del FMI.  Questi tizi così duramente lavoratori possono spesso andare in pensione quando sono sulla cinquantina.  Invece delle misere pensioni greche di un centinaio di euro al mese che hanno fatto così arrabbiare i banchieri, i dipendenti del FMI possono intascare fino a 10.000 euro al mese di pensione.  Forse le pensioni del FMI sarebbero emerse nel dibattito se il popolo greco avesse davvero dovuto essere convinto che un salvataggio era per il suo bene.

Ma la possibilità di far entrare il popolo greco nella discussione è stata frettolosamente negata.  Siamo di nuovo a una conversazione tra banchieri e politici. Non c’è spazio per la democrazia in questa storia, ma possiamo continuare a sognare.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/greece-home-of-democracy-deprived-of-a-vote-by-dean-baker

Fonte: The Guardian

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Islanda: un nano contro i giganti della finanza internazionale

07 lunedì Nov 2011

Posted by Redazione in Deena Stryker, Economia, Europa

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bancarotta, banche, Christine Lagarde, crisi finanziaria, Fareed Zakaria, FMI, Glitnir, Inghilterra, Interpol, Islanda, Kaptjhing, Landbanki, Olaf Ragnar Grimmson, Olanda, Sigurdur Einarsson

 

di Deena Stryker – 6 novembre 2011

Un trasmissione di un programma radio italiano sulla rivoluzione in corso il Islanda è un esempio sbalorditivo di quanto poco i nostri media ci dicano del resto del mondo. I cittadini statunitensi ricorderanno che all’inizio della crisi finanziaria del 2008 l’Islanda fece letteralmente bancarotta. I motivi furono citati solo di passaggio e da allora questo membro poco conosciuto dell’Unione Europea è ricaduto nell’oblio.

Mentre un paese europeo dopo l’altro fallisce o rischia di fallire, mettendo in pericolo l’euro, con ripercussioni nel mondo intero, l’ultima cosa che i poteri al comando vogliono è che l’Islanda si trasformi in un esempio. Ecco perché:

Cinque anni di puro regime neoliberale hanno reso l’Islanda (popolazione 320.000, niente esercito) uno dei paesi più ricchi del mondo. Nel 2003 tutte le banche del paese furono privatizzate e, nel tentativo di attirare investitori stranieri, hanno offerto servizi bancari online i cui minimi costi permisero loro di offrire tassi relativamente altri di profitto. I conti, chiamati IceSave, attirarono molti piccoli investitori inglesi e danesi. Ma con il crescere degli investimenti crebbe anche il debito estero delle banche.

Nel 2003 il debito dell’Islanda era pari a 200 volte il suo PIL, ma nel 2007 era pari al 900 per cento. Nel 2008 la crisi finanziaria mondiale è stata il colpo di grazia. Le tre principali banche islandesi, Landbanki, Kapthing e Glitnir hanno perso l’85% del loro valore rispetto all’euro. Alla fine dell’anno l’Islanda ha dichiarato bancarotta.

Contrariamente a quel che ci si poteva aspettare, la conseguenza della crisi è stata che gli islandesi hanno recuperato i loro diritti sovrani attraverso un processo di democrazia diretta partecipativa che alla fine ha portato a una nuova Costituzione. Ma solo dopo molta sofferenza.

Geir Haarde, il primo ministro di un governo socialdemocratico di coalizione, ha negoziato un prestito da 2,1 miliardi di dollari al quale i paesi nordici hanno aggiunto altri 2,5 miliardi. Ma la comunità finanziaria straniera ha sollecitato l’Islanda a imporre misure drastiche. Il FMI e l’Unione Europea volevano rilevare il suo debito affermando che era l’unico modo attraverso il quale il paese rimborsasse l’Olanda e l’Inghilterra, che avevano promesso di rimborsare i propri cittadini.

Le proteste e i tumulti sono continuati, costringendo alla fine il governo a dimettersi. Le elezioni sono state anticipare ad aprile 2009 e sono sfociate in una coalizione di sinistra che ha condannato il sistema economico neoliberale, ma ha immediatamente ceduto alle sue richieste che l’Islanda rimborsasse un totale di 3,5 miliardi di euro.  Ciò corrispondeva a pretendere che ogni  cittadino islandese pagasse 100 euro al mese (o circa 130 dollari) per quindici anni, al tasso d’interesse del 5,5%, per rimborsare un debito assunto da soggetti privati nei confronti di altri soggetti privati. E’ stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.  [Nell’originale: ‘è stata la paglia  che ha spezzato la schiena della renna’ variazione del proverbio arabo ‘la paglia che spezza la schiena del cammello’ – n.d.t.]

Quel che è accaduto dopo è stato straordinario. L’idea che i cittadini dovessero pagare per gli errori di un monopolio finanziario, che una nazione intera dovesse essere tassata per rimborsare debiti privati è stata demolita, trasformando il rapporto tra i cittadini e le loro istituzioni politiche e portando alla fine i leader islandesi dalla parte del loro elettorato. Il Capo dello Stato, Olafur Ragnar Grimmson, si è rifiutato di ratificare la legge che avrebbe reso i cittadini islandesi responsabili dei debiti dei propri banchieri, e ha accettato le richieste di un referendum.  

Ovviamente la comunità internazionale non ha fatto che aumentare le pressioni sull’Islanda. L’Inghilterra e l’Olanda hanno minacciato tremende rappresaglie che avrebbero isolato il paese. Mentre gli islandesi andavano al voto, i banchieri stranieri hanno minacciato di bloccare qualsiasi aiuto del FMI. Il governo inglese ha minacciato di congelare i depositi e i conti correnti islandesi. Come ha detto Grimmson: “Ci venne detto che se rifiutavamo le condizioni della comunità internazionale saremmo diventati la Cuba del nord. Ma se avessimo accettato saremmo diventati l’Haiti del nord.” (Quante volte ho scritto che quando i cubani osservano la situazione orribile del loro vicino, Haiti, si considerano fortunati!)

Nel referendum del marzo 2010 il 93% ha votato contro il rimborso del debito. Il FMI ha immediatamente congelato il suo prestito. Ma la rivoluzione (anche se non trasmessa in televisione negli Stati Uniti) non si è fatta intimidire. Con il sostegno della cittadinanza furiosa il governo ha lanciato indagini civili e penali sui responsabili della crisi finanziaria. L’Interpol ha emesso un mandato internazionale d’arresto per l’ex presidente della Kaupthing, Sigurdur Einarsson, mentre gli altri banchieri implicati nel crollo fuggivano dal paese.

Ma gli islandesi non si sono fermati qui: hanno deciso di stilare una nuova Costituzione che liberi il paese dal potere esagerato della finanza internazionale e del denaro virtuale. (Quella in suo era stata scritta quando l’Islanda conquistò l’indipendenza dalla Danimarca, nel 1918; l’unica differenza con la costituzione danese era che il termine “presidente” sostituiva il termine “re”.)

Per scrivere la nuova costituzione, il popolo islandese ha eletto venticinque cittadini tra 522 adulti  non appartenenti ad alcun partito politico ma raccomandati almeno da trenta cittadini.  Questo documento non è stato il lavoro di un pugno di politici, ma è stato scritto su internet.  Le riunioni dei costituenti sono trasmesse in rete e i cittadini possono inviare i loro commenti e suggerimenti, assistendo al documento mentre prende forma. La costituzione che alla fine emergerà da questo processo democratico partecipativo sarà sottoposta per l’approvazione al parlamento dopo le prossime elezioni.

Alcuni lettori ricorderanno che il collasso agrario dell’Islanda del nono secolo è stato descritto nel libro di Jared Diamond dallo stesso titolo. Oggi il paese sta recuperando dal proprio collasso finanziario in modi esattamente opposti a quelle considerati generalmente inevitabili, come è stato confermato ieri dal nuovo capo del FMI, Christine Lagarde a Fareed Zakaria.  Al popolo greco è stato detto che la privatizzazione del suo settore pubblico è l’unica soluzione. E i popoli dell’Italia, della Spagna e del Portogallo si stanno confrontando con la stessa minaccia.

Dovrebbero guardare all’Islanda. Rifiutandosi di piegarsi a interessi stranieri, quel piccolo paese ha dichiarato forte e chiaro che la sovranità è del popolo.

E’ per questo che non se ne parla più sui media.

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo http://www.zcommunications.org/why-iceland-should-be-in-the-news-but-is-not-by-deena-stryker

Fonte: Sacsis.org

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Egitto: Cancellare il debito odioso

07 lunedì Nov 2011

Posted by Redazione in Africa, Economia, Eric Walberg

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. Mubarak, 2000 Jubilee debt relief, Abdul Monem Abul Fouthou, agenzie di rating, Ahmed Al-Naggar, Al-Ahram Centre, Cairo, cleptocrazia, debito odioso, declassamento, dittatura del debito, Drop Egypt Debt, Ecuador, egitto, Fathi Chamkhi, FMI, Francia, Hamdeen Sabhi, Hazem al-Biblawi, iraq, Kamal Abbas, Karama, Khaled Ali, Tagammu, Tunisia, Wael Gamal, Zine Al-Abidine Ben Ali

 

 

 

di Eric Walberg  – 6 novembre 2011

La Campagna Popolare per Abbattere il Debito dell’Egitto è stata lanciata il 31 ottobre all’Unione Giornalisti, con un colorato gruppo di oratori che comprendeva il redattore capo del Centro Al-Ahram per gli Studi Politici e Strategici, Ahmed Al-Naggar, il capo del Sindacato Indipendente, Kamal Abbas, il leggendario crociato anticorruzione, Khaled Ali e il capo della campagna gemella tunisina, dottor Fathi Chamki.

Il moderatore, Wael Gamal, un giornalista finanziario, ha descritto come egli e un nucleo di rivoluzionari abbiano iniziato, dopo il 25 febbraio, la campagna con una pagina Facebook, DropEgyptDept.  L’offerta del Fondo Monetario Internazionale, a giugno, di un finanziamento multimiliardario in dollari è stata come il drappo rosso davanti a un toro per Gamal, e la loro campagna si è messa davvero in moto dopo di ciò, culminando nel lancio formale di questa settimana, giusto mentre sta salendo la febbre elettorale.

“Il solo servizio del debito egiziano [il pagamento delle rate – n.d.t.] costa quasi 3 miliardi all’anno, più di tutte le sovvenzioni alimentari di cui insiste a parlare il FMI, più della nostra spesa sanitaria” ha affermato con rabbia Gamal. “Siamo gravati da un debito di 35 miliardi di dollari nei confronti di banche straniere, per la maggior parte frutto di indebitamenti del regime di Hosni Mubarak, nessuno dei quali per aiutare il popolo.”

Ali  ha spiegato le basi della campagna che non sollecita la cancellazione totale del debito bensì una revisione riga per riga dei termini e dell’utilizzo dei finanziamenti per stabilire: se il finanziamento è stato perfezionato con il consenso del popolo egiziano, se serve agli interessi del popolo e in quale misura è stata sprecato attraverso la corruzione.  Ha spiegato che le istituzioni finanziatrici straniere, quando lo hanno inondato di denaro,  sapevano perfettamente che Mubarak era un dittatore che conduceva elezioni fasulle e dunque non rifletteva la volontà del popolo e devono essere loro a subirne le conseguenze, non il popolo egiziano.

Queste sono condizioni internazionalmente accettate alla base della pratica legittima del ripudio del “debito odioso”, che è stata utilizzata dagli Stati Uniti (anche se sottovoce) nel 2003 per stracciare il debito iracheno, e dall’Ecuador nel 2009. “L’Ecuador ha avuto una rivolta molto simile alla nostra rivoluzione e dopo le successive elezioni il presidente ha formato un comitato di revisione ed è riuscito a cancellare due terzi dei 13 miliardi di dollari di debito,” ha osservato Gamal, lasciando il pubblico a meditare su cosa un governo davvero rivoluzionario in Egitto potrebbe fare per il settore sanitario e per l’occupazione.

Al-Naggar ha raccontato come i finanziamenti abbiano sostenuto l’economia mentre essere veniva sconvolta dal programma di privatizzazioni del Fondo Monetario Internazionale dal 1990 in poi, consentendo a società straniere e ai compari di Mubarak di intascare centinaia di milioni di dollari e di farli sparire all’estero.  Nel contempo gli investimenti che riuscivano a sgocciolar giù dai prestiti andavano a finanziare progetti di infrastrutture di prestigio come l’ampliamento dell’aeroporto del Cairo, crivellato dalla corruzione e che serve loro l’élite egiziana.  Virtualmente tutti i prestiti di quel periodo dovrebbero essere considerati suscettibili di cancellazione.

Nessun dirigente governativo si è degnato di presentarsi, o ha osato farlo, alla conferenza. Al contrario, il Ministro egiziano delle Finanze, Hazem Al-Biblawi, ha detto ad Al-Sharouk che essa diffamava l’Egitto agli occhi del mondo, affermando: “come nel proverbio, ‘sembra all’esterno una benedizione, ma dentro vi è l’inferno’”.

Sia Gamal sia Al-Naggar hanno criticato Biblawi per aver distorto il loro intento, che non è dipingere l’Egitto come alla bancarotta, come la Grecia, ma di trasferire l’onere dei cattivi prestiti alle parti responsabili, i finanziatori, e aiutare così la rivoluzione. “E’ la controrivoluzione che scredita l’Egitto. E sono quelli del vecchio regime, che hanno ricevuto i finanziamenti, li hanno mal utilizzati e ora cercano di screditare la rivoluzione.  La comunità internazionale dovrebbe spontaneamente cancellare i presiti odiosi, se vuole che la rivoluzione abbia successo” ha esortato Al-Naggar.

L’entusiasmo e il senso di determinazione alla conferenza sono stati contagiosi. In effetti questa campagna è senza dubbio la chiave per stabilire se la rivoluzione ha successo o meno. Ma richiede una spina dorsale politica che solo un governo eletto può sperare di raccogliere.  Lo strisciare di Al-Bablawi – questa settimana ha ospitato un’altra missione del FMI – sembra più la prestazione di qualcuno dell’era Mubarak, non di qualcuno delegato a proteggere la rivoluzione.  Ha dato il benvenuto alla delegazione e alla “possibilità che essa offra aiuto all’Egitto”.

Al-Naggar ha puntualizzato che lo scopo del FMI non è di aiutare il popolo egiziano, bensì di legare il governo ai dettati internazionali.  Le agenzia di valutazione [rating] partecipano a questo, declassando il merito di credito dell’Egitto dopo la rivoluzione.  Perché? Perché l’Egitto è meno democratico? O perché sarà più difficile ingolfare l’Egitto con nuovi finanziamenti a vantaggio delle società occidentali e mantenere il governo egiziano allineato all’agenda politica occidentale?  “Il silenzio è d’oro”, Al-Naggar ha consigliato Biblawi, intendendo “Se non hai qualcosa di valido da dire, non dire nulla.”

Chamkhi ha portato il calore tunisino a questa riunione, anche se ha ulteriormente acceso l’uditorio spiegando come lo schema del debito occidentale è la diretta conseguenza del colonialismo del diciannovesimo secolo. Ha raccontato come la Francia ha colonizzato la Tunisia, l’ha derubata della miglior terra agricola e poi come il quasi indipendente governo del 1956 ha dovuto sottoscrivere prestiti francesi per riacquistare la terra che la Francia aveva rubato, vincolando così di nuovo la Tunisia a una nuova forma di colonialismo.  Il debito estero è realmente esploso con la cleptocrazia di  Zine Al-Abidine Ben Ali, proprio come è successo in Egitto sotto Mubarak.  Chamki ha eloquentemente espresso come “i debiti non sono per il nostro sviluppo, ma per renderci poveri. Per creare una dittatura del debito.”

Le prime elezioni democratiche della Tunisia hanno portato al Congresso per la Repubblica, che appoggia la campagna di revisione del debito, 30 seggi.   Sinora in Egitto, secondo l’organizzatrice Salmaa Hussein, il Tagammu, i Nasseriani e il Karama appoggiano i loro sforzi, insieme con i promettenti candidati alla presidenza Hamdeen Sabhi e Abdul Monem Abul Fotouh.

C’è una campagna internazionale che data dagli anni ’90, il movimento Giubileo 2000 per la liberazione dal debito, e la conferenza del Cairo ha saputo di un rapporto da Londra sugli sforzi per conto di molti paesi del terzo mondo – che ora includono Egitto e Tunisia – da parte di inglesi dotati di senso civico.  Il successo delle storie della Primavera Araba ha ora un nucleo deciso e politicamente accorto di attivisti che sanno come stanno le cose e che eserciteranno pressioni sui rispettivi governi rivoluzionari per ripudiare i debiti dei regimi corrotti che hanno rovesciato a costo di centinaia di vite.  Come ha urlato il fiero capo del Sindacato Indipendente, Abbas, aggiungendo una frase appropriata allo slogan rivoluzionario dell’Egitto: “Abbattiamo il regime, abbattiamo i suoi debiti!”

Eric Walberg scrive per Al-Aram Weekly, http://weekly.ahram.org.eg/ . Può essere raggiunto a http://ericwalberg.com/ . Il suo ‘Postmodern Imperialism: Geopolitics and the Great Games’ [L’imperialismo postmoderno: la geopolitica e i grandi giochi] è disponibile presso http://claritypress.com/Walberg.html

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/egypt-to-imf-topple-their-debts-by-eric-walberg

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Dov’è finita la sinistra?

06 domenica Nov 2011

Posted by Redazione in Europa, Serge Halimi

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. Partito Brasiliano del Lavoro, BCE, Benoit Hamon, Berlu8sconi, CE, Ed Miliband, Elena Panaritis, elezioni, FMI, Francois Hollande, Francois MItterand, Fronte della Sinistra, Goldman Sachs, grecia, Irlanda, JOsè Luis Zapatero, Karl Polanyi, Lionel Jospen, Margaret Thatcher, Mario Draghi, Massimo d'Alema, Merkel, Obama, ordine neoliberale, Papandreou, Partito Socialista Europeo, PCF, Portogallo, PS, Sarkozy, Sigmar Gabriel, sinistra, spagna, Sud America

 

 

 

di Serge Halimi  – 5 novembre 2011

Le proteste di Occupy Wall Street negli Stati Uniti sono anche dirette contro i rappresentanti della Street nel Partito Democratico e alla Casa Bianca.  I manifestanti probabilmente non sanno che in Francia i socialisti tuttora considerato esemplare Barack Obama perché, da presidente, diversamente dal Presidente Sarkozy, ha avuto la preveggenza di agire contro le banche.  C’è un malinteso? Quelli che non sono  disponibili o non sono in grado  di attaccare i pilastri dell’ordine neoliberale (finanziarizzazione, globalizzazione dei movimenti dei capitali e delle merci) sono tentati di personalizzare il disastro, di attribuire la crisi del capitalismo a pianificazione scadente o a cattiva gestione da parte di propri oppositori politici.  In Francia si tratta di Sarkozy, in Italia di Berlusconi, in Germania della Merkel; sono loro da condannare.  E altrove?

Altrove, e non solo negli Stati Uniti, dirigenti politici da lungo tempo considerati modelli dalla sinistra moderata si confrontano anch’essi con folle arrabbiate.  In Grecia, il presidente dell’Internazionale Socialista, George Papandreu, sta perseguendo una politica di estrema austerità; privatizzazioni, tagli ai dipendenti pubblici, e consegna della sovranità economica e sociale a una “troika” ultra-neoliberale (1). La condotta dei governi spagnolo, portoghese e sloveno ci ricorda che il termine “sinistra” è ormai così svuotato che non è più associato ad alcun contenuto politico specifico.

L’attuale portavoce del Partito Socialista Francese spiega molto chiaramente  la situazione impossibile della socialdemocrazia europea: nel suo nuovo libro Tourner la page , Benoit Hamon scrive: “Nell’Unione Europea, il Partito Socialista Europeo è storicamente associato, mediante il compromesso che lo collega alla Democrazia Cristiana, alla strategia della liberalizzazione del mercato interno e alle sue implicazioni per i diritti sociali e i servizi pubblici.  Governi socialisti hanno negoziato le misure d’austerità che l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale hanno voluto. In Spagna, Portogallo e Grecia  l’opposizione alle misure d’austerità è naturalmente diretta contro il Fondo Monetario Internazionale e la Commissione Europea, ma anche contro i governi socialisti … Parte della sinistra europea non nega più che sia necessario, come [ritiene] la destra europea, sacrificare lo stato sociale al fine di equilibrare il bilancio e compiacere i mercati … Abbiamo bloccato la marcia del progresso in numerose parti del mondo. Non posso rassegnarmi a questo.” (2)

Altri pensano che lo svilimento sia irreversibile perché è collegato alla trasformazione dei socialisti europei in un’aristocrazia e per la loro mancanza di contatto con il mondo del lavoro.

Il Partito Brasiliano del Lavoro (PT), un partito in genere moderato, ritiene che la sinistra latinoamericana dovrebbe sostituirsi alla sinistra del Vecchio Mondo, troppo capitalistica, troppo atlanticista, e non convincente nella sua pretesa di difendere gli interessi del popolo: “La dirigenza ideologica della sinistra si sta trasferendo in un’altra parte del mondo” secondo un documento per il Congresso del PT di settembre. “Il Sud America è l’esempio saliente (vedasi Latin America Pink Tide [La marea rosa dell’America Latina]) … La sinistra dei paesi europei, che ha avuto una così grande influenza sulla sinistra mondiale dagli inizi del diciannovesimo secolo, non è più riuscita a produrre una risposta adeguata alla crisi e sembra capitolare alle forze del neoliberalismo.” (3)  Il declino dell’Europa può anche segnalare la fine dell’influenza ideologica del continente in cui sono nati i sindacati, il socialismo e il comunismo. L’Europa appare ora più rassegnata di altri alla propria fine.

Una cerimonia rituale

E’ tutto finito? Gli elettori e i militanti di sinistra interessati al contenuto più che all’etichetta possono sperare di combattere la destra (anche nei paesi occidentali) quando i partiti per i quali votano si sono convertiti al neoliberalismo ma conservano il potere di vincere le elezioni?  E’ diventata una cerimonia rituale: la distinzione tra la sinistra riformista e i conservatori viene mantenuta durante la campagna elettorale mediante un’illusione ottica.  Poi, se ne ha l’opportunità, la sinistra governa il paese esattamente come i propri oppositori, facendo attenzione a non turbare l’ordine economico.

La maggior parte dei candidati di sinistra con un occhio a un posto nel governo insiste sul fatto che il cambiamento sociale è necessario, persino urgentemente necessario.  Ma per realizzare tale cambiamento devono vedere in ciò qualcosa di più di uno slogan elettorale e devono vincere le elezioni.  Ed è in quel preciso momento che la sinistra moderata fa la paternale ai “radicali” e agli altri “protestatari”.  Non si  attende un “grande dibattito” (vedasi The US left’s great debate, pag. 12 [Il grande dibattito nella sinistra USA]) né  sogna una società alternativa molto lontana dal mondo, abitata da gente eccezionale.  Per citare il dirigente socialista francese Francois Hollande, non intende “opporsi anziché tentare, frenare anziché agire, resistere invece che conquistare.” Crede che “non battere la destra significa mantenerla in vita, e questo significa sceglierla” (4).  La sinistra radicale preferirebbe, nelle parole di Hollande, “sfruttare ogni rabbia al massimo possibile” invece che “optare per il realismo” (5).

La sinistra al governo ha una briscola: ha dietro di sé, qui ed ora, gli elettori e ha una squadra professionale e impaziente di insediarsi. Ma la vittoria sulla destra non è un sostituto di un programma.  Una volta che le elezioni sono vinte, le strutture già in essere, nazionali, europee o internazionali, probabilmente limiteranno il desiderio di cambiamento espresso nel corso della campagna elettorale.  Negli USA, Obama ha potuto affermare che i gruppi di pressione dell’industria e le mosse di blocco dei Repubblicani al Congresso hanno tolto linfa allo spirito proattivo del governo (“Yes, we can” [Sì, possiamo]) nonostante il sostegno popolare.

Altrove i governi di sinistra hanno spiegato la propria prudenza, o la propria codardia, con discorsi sui limiti e sui problemi ereditati (un settore produttivo non competitivo a livello internazionale, un alto livello del debito) che hanno lasciato scarso spazio di manovra.  Come disse nel 1992 Lionel Jospin: “La nostra vita pubblica è dominata da una strana dicotomia. Da un lato il governo [socialista] è biasimato per la disoccupazione, i problemi nelle periferie, il malcontento sociale, l’estremismo della destra e la disperazione della sinistra.  Dall’altro, viene sollecitato a non abbandonare una politica economico-finanziaria che rende molto difficile gestire questi problemi” (6).

Le sue parole suonano oggi attuali e pertinenti. I socialisti le ricordano ogni volta che argomentano a favore del voto tattico: se la sinistra perde le prossime elezioni, la destra vittoriosa scatenerà immediatamente riforme neoliberali, privatizzazioni, freni ai diritti sindacali, tagli alla spesa pubblica che distruggeranno gli strumenti che potrebbero modellare una nuova politica. Di qui il voto tattico alla sinistra moderata.  E tuttavia ci possono essere lezioni da ricavare dalle sconfitte. Benoit Hamon ammette che in Germania “il risultato delle elezioni parlamentari [del settembre 2009], in cui la percentuale dei voti allo SPD (23%) è stata la più bassa da cent’anni a questa parte, ha convinto la dirigenza che era necessario un cambiamento di direzione” (7).

Analisi politiche ugualmente modeste sono state condotte in Francia dopo la sconfitta socialista del 1993 e in Inghilterra dopo la (parziale) vittoria dei Conservatori nel 2010.  Lo stesso processo probabilmente si ripeterà  presto in Spagna e in Grecia, visto che è improbabile che i governi socialisti attribuiscano la loro imminente sconfitta a politiche rivoluzionarie.  Difendendo Papandreou, la parlamentare socialista greca Elena Panaritis ha citato un esempio inatteso: “A Margaret Thatcher ci sono voluti undici anni per completare le sue riforme in un paese in cui i problemi strutturali non erano così gravi.  Il nostro programma è andato avanti per soli 14 mesi” (8). Ovvero: Papandreou è meglio della Thatcher.

Uscire da questo circolo vizioso significa elencare le condizioni necessarie per mettere in riga la globalizzazione finanziaria. C’è un problema immediato: data la pletora di meccanismi sofisticati che hanno collegato lo sviluppo economico nazionale alla speculazione capitalista negli ultimi 30 anni, anche una politica di riforme relativamente morbida (correggere le tasse non eque, aumentare il potere d’acquisto, conservare il bilancio dell’istruzione) richiede ora significative rotture con il passato sia con l’attuale ordine europeo sia con le precedenti politiche socialiste.

Partiremo male se non rivedremo l’”indipendenza” della Banca Centrale Europea (garantita dai trattati europei che la sua politica monetaria non sarà assoggettata al controllo democratico); se non introdurremo flessibilità nel patto di stabilità e di crescita (che, in una crisi, soffoca una strategia proattiva per gestire la disoccupazione); se non condanneremo l’alleanza liberale-socialdemocratica nel parlamento europeo (che ha portato i socialdemocratici a sostenere Mario Draghi, ex vicepresidente e amministratore delegato della Goldman Sachs, come candidato al posto di presidente della BCE) e se non affronteremo il libero scambio (la politica preferita dalla Commissione Europea) e la revisione del debito pubblico (per evitare di rimborsare speculatori che hanno scommesso contro i paesi più deboli dell’eurozona) (9).

La partita può addirittura essere persa prima di cominciare. Non c’è motivo di credere che Francois Hollande in Francia, Sigmar Gabriel in Germania o Ed Miliband in Inghilterra riusciranno dove hanno fallito Obama, Josè Luis Zapatero e Papandreou.  Immaginare, come spera Massimo d’Alema, che “un’alleanza che ponga l’unione politica dell’Europa al centro della propria politica ravviverà il movimento progressista” (10) è un sogno. Nell’attuale situazione politica e sociale, un’Europa federale rafforzerebbe i già soffocanti meccanismi neoliberali e ridurrebbe il potere sovrano del popolo trasferendolo a organismi tecnocratici ombra. La moneta e il commercio sono già stati federati.

Comunque, fino a quando i partiti della sinistra moderata continueranno a rappresentare la maggior parte degli elettori progressisti, o perché essi appoggiano le politiche di tali partiti o perché essi credono che tali politiche offrano la sola prospettiva di cambiamento nell’immediato futuro, entità politiche più radicali resteranno relegate a piccole parti o saranno mandate dietro le quinte.  Persino con il 15% dei voti, 44 parlamentari, quattro ministri e un’organizzazione che comprendeva decine di migliaia di militanti, il Partito Comunista Francese (PCF) non ha mai influenzato le politiche pubbliche, economiche e finanziarie di Francois Mitterand tra il 1981 e il 1984. Il partito di Rifondazione Comunista in Italia, intrappolato in un’alleanza con partiti di centrosinistra, ha fallito e non ispira; il suo scopo era di evitare, a ogni costo, che Berlusconi tornasse, ma egli tornato comunque, più tardi.

In Francia il Fronte della Sinistra (che comprende il PCF) spera di sconfiggere la tendenza. Esercitando pressioni sul PS spera di contribuire a sfuggire alla tirannia del passato.  Può sembrare un’illusione, persino disperata. Ma, anche se in questo c’è più che la forza elettorale relativa e le costrizioni istituzionali, ci sono anche alcuni precedenti storici.  Nessuna delle grandi conquiste sociali del Fronte Popolare (ferie pagate, la settimana di 40 ore) erano incluse nel modesto programma della coalizione che vinse nell’aprile-maggio 1936; furono gli scioperi di giugno che costrinsero i datori di lavoro francesi ad accettarle.

Quella, comunque, non è soltanto una storia dell’irresistibile forza di un movimento sociale e della pressione che impose a partiti di sinistra timidi e spaventati.  Fu la vittoria elettorale del Fronte Popolare  che diede il via alla rivolta sociale, dando ai lavoratori la sensazione che non sarebbero più stati repressi dalla polizia e dai padroni, come erano stati prima.  Presero coraggio, ma sapevano anche che i partiti per i quali avevano votato non avrebbero dato loro nulla se non vi fossero stati costretti. Di qui la vincente ma rara dialettica tra elezioni e mobilitazione, cabine elettorali e fabbriche. Come stanno le cose ora, un governo di sinistra risparmiato da tale pressione convolerebbe immediatamente a solide nozze  con i tecnocrati, che conoscono solo il neoliberalismo.  La loro ossessione consisterebbe nell’averla vinta sulle agenzie di rating, che immediatamente abbasserebbero la valutazione di qualsiasi paese che perseguisse una genuina politica di sinistra.

E allora, attaccare con audacia o attenersi alla linea  e impantanarsi immediatamente?   I rischi dell’attacco (isolamento, inflazione, declassamento) sono inculcati in noi.  Ma che dire dei rischi di mettersi in riga?  Esaminando la situazione dell’Europa negli anni ’30, lo storico Karl Polanyi ha ricordato che “l’impasse raggiunta dal capitalismo liberale” aveva portato certi paesi a “una riforma dell’economia di mercato ottenuta al prezzo dello sradicamento di tutte le istituzioni democratiche” (11).  Persino Michel Rocard, un socialista estremamente moderato, è allarmato da tale prospettiva: imporre condizioni più dure ai greci potrebbe tradursi nella fine della democrazia greca. “Considerata la rabbia che proverà il popolo” ha scritto il mese scorso, “è dubbio se un qualsiasi governo greco possa reggere senza il sostegno dell’esercito.  Questa triste osservazione si applica probabilmente anche al Portogallo e/o all’Irlanda e/o ad altri, più grandi, paesi.  Sin dove ci si spingerà?” (12).

La repubblica del centro ha dietro di sé istituzioni e media, ma vacilla.  La competizione  è aperta tra un duro autoritarismo neoliberale e una rottura con il capitalismo.  Sembrano cose ancora lontane. Ma quando la gente smette di credere a un gioco politico in cui i dadi sono truccati, quando vede che i governi sono spogliati della loro sovranità, quando chiede che le banche siano messe in riga, quando si mobilita senza sapere dove porterà la sua rabbia, allora la sinistra è ancora molto attiva.

Note

(1)  Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale

(2) Benoit Hamon, Tourner la page, Flammarion, Parigi, 2011,   pagg. 14-19

(3) AFP, 4 settembre 2011

(4) Francois Hollande, Devoirs de verité, Stock, Parigi, pagg. 91 e 206.

(5) Ibidem, pagg. 51 e 43

(6) Lionel Jospin, “Reconstruire la Gauche”, Le Monde, 11 aprile 1992

(7) Benoit Hamon, op.cit. pag. 180

(8) Citato da Alain Salles “L’odyssée de Papandréou”, Le Monde, 16 settembre 2011.

(9) Leggere “ Quand la gauche renoncait au nom de l’Europe”, Le Monde diplomatique, giugno 2005.

(10) Massimo D’Alema, “Le succès de la gauche au Danemark annonce un renouveau européen”, Le Monde, 21 settembre 2011.

(11)  Karl Polanyi, La Grande Transformation, Gallimard, Paris, 1983, p. 305. [In italiano, “La grande trasformazione”, Einaudi, 2010 http://www.einaudi.it/libri/libro/karl-polanyi/la-grande-trasformazione/978880620560 – n.d.t.]

(12) Michel Rocard, “Un système bancaire à repenser”, Le Monde, 4 ottobre 2011.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/where-did-the-left-go-by-serge-halimi

Fonte:  Le Monde Diplomatique   

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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I greci dicono no alla povertà

22 sabato Ott 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Patrick Cockburn

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Tag

BCE, FMI, grecia, salvataggio, sciopero, UE, Venizelos

 

 

 

di Patrick Cockburn (20 ottobre 2011)

 

La Grecia è stata paralizzata da uno sciopero di 48 ore che è iniziato ieri e che getta dubbi sulla capacità dell’impopolare governo di attuare le riforme pretese dall’Unione Europee in cambio di ulteriori fondi di salvataggio.

Giovani con maschere nere hanno lanciato pezzi di marmo e bombe molotov alla polizia antisommossa di fronte all’edificio del Parlamento nel centro di Atene. La polizia ha reagito con granate stordenti e gas lacrimogeni mentre gli scontri si estendevano alle strade vicine dopo le manifestazioni di massa in cui i manifestanti chiedevano uno stop all’aumento delle tasse e ai tagli dei salari che affermano che li stanno riducendo alla povertà.  Acri pennacchi di fumo salivano da bidoni incendiati di spazzatura non raccolta e si mischiavano con le nuvole bianche del gas lacrimogeno.  Pezzi di pietra e di vetri rotti ricoprivano le strade attorno al Parlamento.

“Stiamo tornando al livello di vita dei nostri nonni” ha detto Eliza Giannakaromi, che ha marciato con i dipendenti comunali. “Sta accadendo a ogni livello della società, quindi l’unica scelta per i giovani consiste nell’emigrare.”

Stelios Georgiu, un netturbino che reggeva uno striscione lì vicino, ha detto: “Vogliamo cacciare questo governo.  Guadagnavo 1.200 euro al mese e ora ne prendo 700.  Dovremmo stare addosso agli evasori delle tasse, non a noi.”

Ad Atene hanno marciato circa 100.000 persone.  Alcuni dei partecipanti hanno cercato di costringere chiunque indossasse un passamontagna a toglierselo, accusando quelli che si rifiutavano di essere anarchici o agenti di polizia travestiti.  Arrivati alla sera, gli scontri nelle strade si sono estesi a Ermou, una popolare via dei negozi.

Nonostante lo sciopero, ci si attende che il Parlamento greco approvi oggi nuove leggi che ridurranno ulteriormente il reddito della maggior parte dei greci.  Ma è dubbio se un parlamento profondamente sfiduciato possa realizzare riforme che la gente considera dettate da banche e governi stranieri.

Questa perdita di  sovranità è profondamente sentita.  Un pensionato, che ha detto di chiamarsi Nikos e agitava una grande bandiera greca bianca e blu, ha detto: “Mio figlio entra nell’esercito lunedì e io non so se essere contento o triste.”

Lo sciopero generale e il voto parlamentare sulle riforme richieste dai creditori internazionali arrivano prima di un vertice, domenica, dei capi dell’Unione Europea, quando la Grecia dovrebbe ricevere 8 miliardi di euro, senza i quali il paese rimarrà privo di liquidità entro novembre.  In Parlamento il ministro delle finanze, Evangelos Venizelos, ha detto ai parlamentari che la Grecia non ha altra scelta che accettare nuove ristrettezze. “Dobbiamo spiegare a questa gente indignata, che vede cambiare la propria vita, che quello che il  paese sta vivendo non è lo stadio peggiore della crisi” ha detto.

“E’ uno sforzo angosciato e necessario per evitare il livello finale, più profondo e più duro, della crisi. La differenza tra una situazione difficile e una catastrofe è immensa.”

Ma per molti greci, la catastrofe si è già verificata e le proteste coinvolgono sempre più la classe media colta. Lo sciopero di ieri ha coinvolto controllori del traffico aereo,  funzionari delle imposte, farmacisti e medici così come autisti di taxi, lavoratori portuali e operatori della nettezza urbana. Le scuole sono rimaste chiuse e gli ospedali erano aperti solo per casi d’emergenza.  Ogni strada di Atene ha un cumulo di immondizie che marciscono nonostante un’ingiunzione del tribunale al sindacato dei servizi pubblici di por fine allo sciopero.

Ci sono dubbi crescenti tra i piccoli commercianti e i professionisti che un’austerità severa non porterà a niente se non a spingere ancor più la Grecia nella recessione.  C’è anche una profonda sfiducia nella classe politica.  Nicolas Kominis, un fotografo, ha affermato di non ritenere che il governo abbia grandi scelte, se non di adeguarsi alle richieste del Fondo Monetario Internazionale, della Commissione Europea e della Banca Centrale Europea. “Il problema è che nessuno ha fiducia nel governo o nell’opposizione per ad entrambi viene attribuita la responsabilità, innanzitutto,  di aver scatenato la crisi” ha affermato.

La sensazione che quelli che hanno scatenato la crisi la facciano franca sta danneggiando il governo.  Uno striscione della marcia di ieri diceva: “Quando l’ingiustizia prevale, la resistenza è un dovere.” Vasilis Zorbas, un medico che è sindaco del distretto di Agia Paraskevi ad Atene ha detto: “I greci sono scontenti a causa dell’impunità di quelli che hanno fatto i soldi a loro spese.” Ha detto di avere due figli disoccupati, la cui unica possibilità potrebbe essere l’emigrazione.

Un ex ministro del partito di governo Pasok, che ha richiesto l’anonimato, ha affermato: “E’ questa sensazione di mancanza di giustizia che rende la gente arrabbiatissima.  Tutti conoscono i nomi dei ministri che si sono serviti (alla cassa) e hanno intascato tangenti, ma nessuno li tocca.” Viene ripetutamente asserito che i ministri e i parlamentari non hanno tagliato i loro stipendi in misura significativa sebbene il sistema dei bonus e delle indennità sia così complicato che è difficile confermarlo.

I capi della marcia hanno dichiarato che lo stereotipo del settore pubblico greco rigonfio rispetto al resto dell’Unione Europea è scorretto.  Balasopoulos Themis, il capo della Federazione Pan-ellenica di Dipendenti delle Organizzazioni delle Amministrazioni Locali, ha detto che questa è propaganda e che la cifra spesso citata di 768.000 dipendenti pubblici su una forza lavoro di quattro milioni, comprende l’esercito, la polizia e persino il clero.

Ha detto che, nel complesso, il reddito dei membri del suo sindacato si è ridotto del 40% a causa degli aumenti delle tasse e dei tagli ai salari.

E’ improbabile che una vera riforma in Grecia venga da un governo che ha perso la fiducia in quanto egoista e corrotto; l’ex ministro ha detto di non aver avuto la forza politica per imporre il cambiamento quando si è scontrato con potenti interessi speciali.

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.zcommunications.org/greece-crippled-as-its-people-say-no-to-poverty-by-patrick-cockburn

Fonte: The Independent

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

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