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La lotta emerge in Russia

17 sabato Dic 2011

Posted by Redazione in Boris Kagarlitsky, Russia

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La lotta emerge in Russia

Di Boris Kagarlitsky

e Lee Sustar

 

15 dicembre 2011

 

Le proteste di decine di miglia di persone svoltesi  a Mosca e in altre città il 10 dicembre, sono state di gran lunga le più imponenti dimostrazioni  dal crollo dell’Unione Sovietica avvenuto 20 anni fa.

L’oggetto delle mobilitazioni è stato la frode di enormi dimensioni nelle elezioni parlamentari del 4 dicembre.  Il partito governante, Russia Unita, guidato da Vladimir Putin ha offeso milioni di cittadini con le operazioni     di voto truccate per cercare di raggiungere una maggioranza in parlamento. Questi tentativi spudorati di brogli sono stati documentati sia dagli osservatori ai seggi che da comuni cittadini che hanno scattato fotografie con  i cellulari.

La truffa ha scatenato proteste immediate di due giorni a Mosca e in altre città. Le prime manifestazioni  sono state  affrontate nella maniera tipica della Russia di Putin; con la brutalità della polizia e centinaia di arresti. Tuttavia, dopo la condanna internazionale delle azioni repressive, i dirigenti dei partiti liberali hanno negoziato un patto con il governo per avere il permesso per la dimostrazione del 10 dicembre.

Putin, l’ex presidente che è diventato primo ministro dopo aver installato alla presidenza il suo burattino, Dmitry Medvedev, aveva messo in ridicolo la democrazia all’inizio di questo anno quando ha annunciato che Medvedev si sarebbe fatto da parte per permettere a Putin di candidarsi di nuovo alla presidenza in marzo. Ora queste proteste stanno ridisegnando la politica della Russia: il magnate Mikhail Prokhorov, il terzo uomo più ricco del paese, ha annunciato che sfiderà Putin per la presidenza.

 

Boris Kagarlitsky, ex prigioniero politico nell’ex Unione Sovietica, militante socialista e autore di molti libri sulla Russia, ha parlato con Lee Sustar delle radici delle attuali proteste e delle prospettive per il futuro.

 

FIN DA QUANDO E’ ANDATO al potere nel 1999, Putin è stato capace di governare una situazione di  espansione economica che ha creato una stabilità basata su una specie di contratto sociale, fino quando la crisi economica ha colpito il paese nel 2007-2008. Che cosa è avvenuto da allora?

 

L’economia è cresciuta molto dal 2002 al 2007 circa. Un funzionario del governo quando parlava di quel periodo diceva che molta gente in Russia erano andati dalla miseria alla povertà, come se questo fosse un progresso.

In effetti, era una specie di successo. In quel periodo c’era una reale crescita dell’industria, però la produzione era fornita da apparecchiature vecchie, obsolete del vecchio periodo sovietico, da investimenti stranieri nell’industria più protetta, quella delle automobili. I settori più protetti erano esattamente quelli che attiravano la maggior parte degli investimenti esteri, perché le industrie straniere dovevano costruire impianti in Russia per guadagnarsi l’accesso al mercato di quella nazione.

Le cose, per molti versi quindi, andavano meglio dal punto di vista economico fino al 2008. Dopo il crollo dei prezzi del petrolio, tuttavia, la situazione si è deteriorata molto rapidamente. La produzione industriale è diminuita, è aumentata la disoccupazione, ed è esplosa la crisi sociale. Improvvisamente, la gente ha scoperto che nel periodo di Putin, le parti rimanenti dello stato dell’assistenza sociale dall’Unione Sovietica si erano disfatte o stavano per subire un attacco. Abbiamo quindi cominciato a perdere, uno alla volta, gli elementi dell’assistenza pubblica che avevamo mantenuto dopo le “riforme” degli anni ’90.

Adesso c’è un attacco sistematico all’educazione, all’assistenza sanitaria e ad alcuni elementi di misure sociali. Abbiamo una situazione di austerità, come in Europa. E’ paragonabile a quello che si vede nel resto del mondo capitalista.

Negli ultimi tre anni, quindi, l’economia si  deteriorava, la rabbia  cresceva e  tuttavia non succedeva nulla.

 

Come mai questa reazione fatta di proteste è arrivata così in ritardo?

 

LA GENTE SPERAVA che le cose sarebbero migliorate. Putin  e il suo entourage avevano ancora un po’ di popolarità per quello che avevano fatto   nella prima parte del decennio. Non sono stati, naturalmente, tutti successi loro, ma erano comunque collegati a loro.

Inoltre le forze di opposizione in Russia erano quasi inesistenti. I liberali – non il genere di liberali che ci sono in Occidente che in realtà sono neo- liberali – sono molto peggiori di Putin per quanto riguarda i problemi economici. Le loro critiche su questa base di destra, però, erano impopolari.

Poi ci sono i pagliacci,  come il Partito comunista ufficiale o [il fascista] Vladimir Zhirinovsky, o il finto partito social democratico che si chiama Russia Giusta. Questi non costituiscono affatto un’alternativa politica.

Anche la sinistra non è riuscita a costruire un’organizzazione politica. Aveva poco accesso ai mezzi di informazione. Era marginale, settaria e divisa in gruppi diversi. In quel senso, c’era pochissima attività politica che potesse essere presentata come polo politico di attrazione.

Questa è stata la situazione degli ultimi tre anni. C’era poca attività pubblica. La popolarità di Putin, però, è crollata e quello che è accaduto alle elezioni di dicembre è stato, in un certo senso, un modo per punirlo. La gente o non ha votato o hanno votato per tutti tranne che per  Russia Unita, il partito favorevole al governo. Questo ha significato un crollo assolutamente catastrofico per Russia Unita.

Il progetto iniziale del governo era di ottenere circa il 55% dei voti, e di prepararsi per le successive elezioni presidenziali, nelle quali Putin si sarebbe candidato.

La gente, invece, non ha votato e, ironicamente, quelli che lo hanno fatto, hanno votato contro Russia Unita. Il voto reale per Russia Unita – come è stato dimostrato dagli exit poll e dai conteggi delle sezioni elettorali controllate da osservatori indipendenti, è sceso al 20 /25 per cento. Questo è quello che hanno detto anche a me dei membri di Russia Unita.

In effetti, Russia Unita sapeva che avrebbe perso nelle grandi città, ma era sicura che le piccole città e le zone lontane avrebbero compensato quei risultati. Invece, il voto è crollato dovunque.

E quindi alle 4 di pomeriggio, orario di Mosca, il governo ha deciso improvvisamente di  truccare le elezioni. Garantisco che non c’è stato alcun accordo preliminare per realizzare questa truffa. Un certo livello di brogli è normale in Russia, per far vedere che la situazione è un po’migliore. Questa volta c’è stato l’ordine di realizzare una frode massiccia. La situazione del governo si deteriorava di ora in ora.

Ecco perché la situazione è diventata così scandalosa. Se avessero programmato i brogli elettorali  in anticipo, sarebbero stati in grado di  manipolare le elezioni   più facilmente.

Hanno sbagliato tutto. Sono stati  scoperti  in centinaia di casi. Le cifre diventavano assurde. Almeno tre province hanno avuto un’affluenza alle urne  maggiore del 100%. A Rostov l’affluenza  risultava essere del 140%. Tutte le tecniche  che avevano per truccare i voti sono state completamente inefficaci. Russia Unita ha organizzato una massiccia truffa elettorale e tuttavia non è riuscita a prendere il 50% dei voti.

 

Quale è stata la reazione alla truffa?

 

L’intellighenzia liberale di Mosca era completamente frustrata, ma c’è stata una protesta spontanea di 10.000 persone a Mosca e una analoga a San Pietroburgo.  In questa città in effetti la sinistra aveva organizzato un certo boicottaggio del voto il giorno delle elezioni.

A San Pietroburgo la protesta è stata molto egemonizzata dalla sinistra e dalle forze progressiste. A Mosca c’è stato un miscuglio. I librali di destra lottano duramente per avere l’egemonia del movimento, ma anche i nazionalisti hanno aderito alle proteste.

La protesta del 5 dicembre è continuata il giorno successivo. Ci sono stati parecchi scontri tra studenti e polizia. L’Università Europea di San Pietroburgo ha dovuto cancellare le lezioni del Dipartimento di sociologia perché la maggior parte degli studenti erano stati arrestati. Potete avere idea, quindi, di quanto sia stata massiccia la protesta.

Durante queste manifestazioni, c’è stata una coalizione spontanea di forze diverse a cui è seguita la dimostrazione del 10 dicembre, che doveva aver luogo a Piazza della Rivoluzione. È stata iniziata dal Fronte della Sinistra, una coalizione di diversi gruppi di sinistra.

Poi però i liberali hanno fatto un accordo con il governo – senza consultare i loro colleghi del Fronte della Sinistra – per svolgere una dimostrazione legale da qualche altra parte. E’ stata spostata a Piazza Bolotny e Bolotny significa palude. Si è molto scherzato su questo: “si va dalla rivoluzione alla palude”. Lo scopo dei liberali era di prendere il controllo del movimento di protesta e, in una certa misura, ci sono riusciti.

 

Alla fine c’è stato l’accordo che la sinistra si sarebbe radunata ancora nei pressi di Piazza della Rivoluzione e poi avrebbe marciato fino a Bolotny. E’ stato un risultato importante, ha stabilito che c’era la libertà di dimostrare nelle strade, libertà che era stata negata per anni.

Durante la dimostrazione, però, i liberali controllavano il palco, il messaggio e i mezzi di informazione. La destra sta diventando sempre più emarginata. I liberali però non portano il movimento da nessuna parte. Hanno convocato un’altra manifestazione per il 17 dicembre, un’altra per il 24 dicembre e poi un’altra per il 1° gennaio.

Il movimento sta però gradualmente perdendo energia. Il governo non annullerà le elezioni o non rivedrà la legge elettorale, che è stata una delle richieste più importanti fatte nelle dimostrazioni.

Nella dimostrazione del 10 dicembre, ci è stato un blocco tra i liberali e l’estrema destra. I liberali hanno permesso alla destra di entrare nella piazza con le loro bandiere imperiali e di farli parlare. Per la prima volta c’è stato un neo-nazista che ha parlato a una folla così grande – una situazione scandalosa che ha demoralizzato un numero considerevole di persone. Il movimento si sta quindi demoralizzando e probabilmente verrà sconfitto, almeno nella sua forma attuale.

La gente, però, ha ragione, quando dice che sta iniziando una nuova rivoluzione russa. Il 10 dicembre ci sono state manifestazioni in tutto il paese.  Al contrario che a Mosca, queste proteste erano dominate da gente che parlava di problemi sociali e che esprimevano critiche riguardo al sistema sociale ed economico.

La spaccatura tra i liberali e la sinistra, è una cosa buona. La sinistra partecipa alle proteste con i liberali, ma c’è la sensazione che essi rappresentino un piano di azione diverso e quindi la sinistra dovrebbe separarsi.

Ora, quindi, il compito della sinistra è di organizzarsi separatamente, anche se siamo in grado di appoggiare le richieste democratiche generali. Quello che fanno attualmente i liberali non ha alcuna prospettiva; Dobbiamo organizzarci a livello imprenditoriale,  all’università e nelle scuole e dobbiamo sviluppare altre proteste in forme più radicali, come quelle usate in Occidente dalla forze contrarie alla globalizzazione. Dobbiamo sviluppare dei movimenti sociali a livello di base popolare.

La sinistra, però, non è unita. Alcuni segmenti della sinistra stanno diventando l’ala sinistra dei liberali. Un sacco di gente è felice di  andare alle manifestazioni e di appoggiare le richieste democratiche generali. Sostengono che non si dovrebbero fare dichiarazioni su altri argomenti,  altrimenti la folla si allontanerebbe.

La mia posizione è esattamente opposta. I liberali perdono terreno perché non parlano dei problemi che interessano la loro numerosa base, per esempio l’assistenza sanitaria. Riguardo a questi problemi i liberali non hanno idee diverse da quelle del governo. La sinistra deve elaborare un suo proprio programma più radicale e che  deve essere in contrasto con quello dei liberali.

 

Da Z Net – Lo spirito  della resistenza è vivo –

http://www.znetitaly.org

http://www.zcommunications.org/the-struggle-emerges-in-russia-by-boris-kagarlitsky

Fonte: Socialistworker.org

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Le politiche economiche dopo la morte del capitalismo

13 domenica Nov 2011

Posted by Redazione in Boris Kagarlitsky, Economia, Mondo

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Tag

capitalismo, crisi sistemica, democrazia diretta, finanziarizzazione, globalizzazione, guerra fredda, Institute for Globalisation Studies, mercati interni, neoliberalismo, Palestinian Center for Peace and Democracy, Primo Mondo, privatizzazioni, produzione, protezionismo, rivoluzioni arabe, servizi pubblici, Sozialstaat, stato sociale, sviluppo, tecnologia, Unione Sovietica

di Boris Kagarlitsky – 12 novembre 2011

Il sistema economico internazionale che ha preso forma dopo il collasso dell’Unione Sovietica non è ancora morto, ma sta morendo.  Lo vediamo quotidianamente, non solo in resoconti della crisi ma anche in altre notizie dal mondo che ci raccontano la stessa storia: il sistema non sta funzionando.

La verità è che il sistema non ha mai funzionato per i poveri e per le classi che sudano.  Non è stato creato a quel fine, non importa quanto continuino a dirci i suoi propagandisti e vari intellettuali corrotti.  Il sistema ha funzionato in realtà per le élite; ha generato un’enorme redistribuzione della ricchezza e del potere a favore dei già ricchi e potenti, a favore della borghesia.  Ma ora non funziona più neppure per loro. Anche se le élite sono hanno abbastanza coraggio da ammetterlo, il sistema deve essere trasformato.

Questa è una vera crisi sistemica, se non del capitalismo quanto meno della sua forma neoliberale.  E questa crisi non può essere superata sino a quando il neoliberalismo non sarà eliminato.  Se questa sarà anche la fine del capitalismo dipenderà dalla scala delle lotte globali e dai loro risultati.

Il sistema neoliberale è stato basato sullo sfruttamento del lavoro a basso prezzo.  Questa corsa verso il fondo ha avuto come primo risultato la perdita di posti di lavoro in Europa, ma presto ne sono diventati vittime i lavoratori latinoamericani, quelli nordafricani e persino quelli asiatici. Molti posti di lavoro nell’industria si sono trasferiti in Cina; in effetti l’ascesa della Cina ha colpito lo sviluppo potenziale della periferia del capitalismo mondiale più di quanto abbia colpito il cuore del sistema.

L’Europa non sta più perdendo posti di lavoro a favore della Cina, ma i paesi latinoamericani sì.  In molti modi le rivoluzioni arabe del 2011 sono state provocate da questa logica di crescita senza sviluppo, sono state eliminate opportunità reali di creazione di buona occupazione nell’industria.

La svolta verso le economie dei servizi e della finanza si è così verificata non solo nei paesi chiave bensì anche nelle periferie.  Inoltre non ha avuto nulla a che fare con le nuove tecnologie. E’ stata il risultato della distruzione dello stato sociale, dalla crescente debolezza dei mercati interni a dalla svolta verso il lavoro a basso costo, che di fatto ha bloccato l’innovazione e lo sviluppo tecnologico nel campo della produzione.

Le innovazioni di cui sentiamo parlare in questi giorni raramente hanno molto a che fare con la produzione di beni.  Si tratta principalmente di consumi; la maggior parte dei “prodotti innovativi rivoluzionari” che incontriamo non è nuova per nulla; si tratta di semplicemente di modi per  venderci versioni diverse delle solite merci, fingendo che siano nuove e costringendoci a sostituire quelle vecchie.  I consumatori e il buon senso si oppongono a questa assurdità, rallentando così l’economia globale, che non può andare avanti senza di essa.

La cosiddetta finanziarizzazione del capitalismo globale non è la causa della crisi attuale, ma essa stessa rappresenta una sequenza di cambiamenti molto più importanti , la degenerazione e l’eliminazione dello stato sociale, accompagnate inevitabilmente da paghe più basse e da mercati interni più deboli.  La crescente importanza dei mercati internazionali e globali è inseparabile dalla stagnazione e dal declino delle loro controparti nazionali.  Ora, comunque, stiamo arrivando al punto in cui il declino interno rende impossibile la continuazione della crescita globale.  Senza cambiamenti radicali dei modelli economici e sociali, compresa la ricostruzione dello stato sociale, sarà impossibile spostare le strategie di produzione e sviluppo verso i mercati domestici anche se, tecnicamente parlando, le risorse necessarie esistono.  Persino in Cina, diverrà presto chiaro, i mercati interni non “decollerà” senza l’attuazione di riforme sociali e una grande redistribuzione della ricchezza.

E’ arrivato perciò il momento di voltare pagina e di riorientare le strategie di sviluppo verso la produzione, verso lavoratori più istruiti e meglio pagati, verso la reindustrializzazione e verso programmi sociali e un nuovo stato sociale.  Ma per far questo dobbiamo abbattere le istituzioni economiche e politiche del neoliberalismo, proprio come il neoliberalismo in precedenza ha distrutto le istituzioni socialdemocratiche e comuniste del Sozialstaat (stato sociale) di un tempo.  Ciò si può ottenere senza rivoluzioni?  Forse sì, in alcuni casi, ma solo nel contesto di rivoluzioni altrove, in qualcosa di simile al modo in cui la socialdemocrazia scandinava ha beneficiato della rivoluzione russa del 1917.

Non c’è ritorno al modello keynesiano degli anni ’50 e ’60.  Ciò non è semplicemente perché sono cambiate le tecnologie e le strutture sociali e perché il keynesismo aveva aspetti negativi che ora comprendiamo molto meglio.  Il motivo chiave è che lo stato sociale occidentale dei decenni passati si è conservato nei cosiddetti paesi capitalisti avanzati grazie all’utilizzo di risorse tolte alla periferia.  La democrazia è anche stata riservata, come un lusso, al cosiddetto Primo Mondo sviluppato, con la sola notevole e duratura eccezione dell’India.  Per qualche tempo il modello sovietico dello stato sociale ha funzionato passabilmente bene senza sfruttare la periferia, ma anche senza avere al suo centro la democrazia.  Per molti versi questa mancanza di democrazia ha preparato il terreno per la sconfitta dell’USSR nella guerra fredda e per il collasso sovietico.

Ora affrontiamo il compito formidabile di creare un nuovo modello di stato sociale che non solo includa la democrazia come elemento interno di funzionamento, ma che anche sia basato sull’ampliamento delle pratiche democratiche oltre la politica, nelle sfere economica e sociale.  Il modello non può dipendere dall’attuale gerarchia del sistema mondiale degli stati poveri e ricchi e, in realtà, deve agire come strumento per superarla.  Questo compito è realizzabile?  Penso che lo sia, nel lungo termine, ma solo attraverso un processo rivoluzionario che deve aver luogo a livello internazionale. Questo processo è soltanto appena iniziato e ora siamo nel suo primo stadio.

Nel frattempo è pressante la necessità di nuove politiche economiche. Quali sono le priorità a breve termine per le quali noi, come sinistra, dovremmo batterci ora?  La prima necessità è di uno sviluppo complesso, con la creazione di posti di lavoro produttivi, di opportunità culturali, di strutture d’istruzione e ricerca così come di alloggi e infrastrutture. Tutti questi elementi devono essere interconnessi, e le persone interessate (dai professionisti tecnici ai consumatori e ai residenti locali) devono essere informate, consultate e coinvolte nella pianificazione.  Possono essere utilizzati alcuni elementi di pianificazione tecnocratica – ci sono cose che non si possono fare spontaneamente – ma questi elementi devono affrontare la verifica della discussione e del controllo democratici.  I professionisti sono necessari, ma i buoni professionisti sono investiti della guida dal pubblico; i cattivi professionisti sono quelli che cercano di dire al pubblico cosa fare e poi ignorano i dubbi e le proteste del pubblico quando i suoi membri restano non convinti.

Un aspetto ulteriore di questa nuova politica deve essere la ricreazione e lo sviluppo dei mercati interni.  Ciò non può essere fatto senza protezionismo, ma cosa c’è di sbagliato in ciò?  Il protezionismo ha cattivi risultati quando serve a interessi egoistici di élite locali contro la concorrenza estera, ma non c’è motivo per cui noi non si possa proteggere il proprio benessere e i beni pubblici contro i tentativi di portarceli via. Quando i prodotti sono a basso prezzo per l’ipersfruttamento del lavoro e dell’ambiente, abbiamo diritto di chiudere i nostri mercati a tali merci, contribuendo così al miglioramento dovunque degli standard del lavoro e dell’ambiente.  Lo sviluppo dei mercati locali non dovrebbe comunque essere basato su un rinnovato consumismo; la maggior parte della nuova domanda dovrebbe essere generata da bisogni collettivi e da consumi collettivi.  Sono necessari buoni trasporti pubblici e case accessibili, assieme a un accesso a internet universalmente disponibile e finanziato pubblicamente,  programmi culturali e ricerca e sviluppo scientifici orientati ai bisogni popolari quali l’assistenza sanitaria e il risanamento dell’ambiente.  Ultime, ma non minori,  sono necessarie nuove infrastrutture per fornire acqua, energia e comunicazioni.  Queste sono le nuove richieste che guideranno l’economia al progresso in modo molto più potente dei consumi individuali.

Infine, non possiamo avere una nuova economia senza un nuovo settore pubblico.  La maggior parte degli ultimi decenni si è dimostrata un insieme di fallimenti, qualcosa che ora è ampiamente riconosciuto dal pubblico, dagli esperti e persino dai media.  Le élite ricche sono ora costrette a riconoscere che le privatizzazioni non hanno funzionato, ma per ovvi motivi non voglio invertire la rotta.  I compito di tornare indietro, perciò, ricade su di noi.  Vi è implicato, tuttavia, molto di più che semplicemente ricondurre numerose imprese alla proprietà pubblica.  Dobbiamo ristrutturare tali imprese, interconnettendo le loro tecnologie, pratiche e conoscenze.  Tutti questi elementi devono essere integrati in modo da essere al servizio delle necessità dello sviluppo e l’amministrazione deve essere democratizzata.

Abbiamo bisogno di un nuovo modello di impresa pubblica, basata sulla trasparenza,  sulla cancellazione dei confini tra settori pubblici e su nuovi criteri di efficienza che comprendano il contributo allo sviluppo sociale.  Dobbiamo socializzare il sistema bancario, sopprimere la speculazione finanziaria e incoraggiare gli investimenti, assicurando nel contempo micro-crediti alle piccole imprese, ai comuni, alla creazione di occupazione e alla sperimentazione tecnologica a livello locale.  L’energia e i trasporti devono essere servizi pubblici come l’assistenza sanitaria e l’istruzione, e molta della produzione orientata a questi settori deve anche essere realizzata da imprese pubbliche.  Ciò dovrebbe far parte di uno sforzo generale di realizzare un’integrazione e un’interazione maggiori.  I produttori, gli utenti e i consumatori devono collaborare direttamente attraverso reti pubbliche.

Se una cosa è pubblica non significa automaticamente che appartenga allo stato.  Ciò nonostante la proprietà pubblica è creata attraverso la proprietà statale e se le nazionalizzazioni devono essere attuate (non c’è altro modo per creare un nuovo settore pubblico)  dobbiamo trasformare lo stato. I neoliberali parlano diffusamente dei mali della burocrazia e della corruzione degli uffici ma nel mondo della privatizzazione totale tollerano allegramente entrambe. Hanno inoltre interesse a mantenere inefficiente e corrotto lo stato in modo da impedire al pubblico di desiderare che esso si ampli socializzando proprietà private.  E’ per questo che dopo tre decenni di neoliberalismo in occidente, e due decenni altrove, non c’è stata alcuna riduzione del livello della corruzione, del numero di scandali o nemmeno dell’armata di burocrati spesso incompetenti. Al contrario, c’è stato un aumento dovunque, compresi i paesi europei che sono orgogliosi delle loro tradizioni e della loro efficienza democratiche.  Lo stato deve essere decentralizzato, democratizzato e reso più aperto al pubblico.  Dovremmo ricordare quel che disse Lenin dei soviet nel 1905 e nel 1971. Abbiamo bisogno di organismi che siano direttamente coinvolti con la popolazione. La democrazia parlamentare è una buona cosa, ma non è sufficiente; abbiamo bisogno di istituzioni di democrazia diretta.

Infine abbiamo bisogno di integrazione regionale, che non significa offrire mercati aperti alle società occidentali intente a venderci merci cinesi.  Significa proteggere collettivamente lo sviluppo industriale e introdurre parametri di istruzione che siano adatti alle necessità della regione.  Riguarda la scienza, orientata agli stessi bisogni locali, lo sviluppo di nuove tecnologie che siano poco costose, facili da usare e amiche di un tipo particolare di ambiente.  Significa creare mercati per le industrie locali, non semplicemente riaprendo, nel processo, la strada all’industrializzazione o alla reindustrializzazione, ma collegandole allo sviluppo umano. Riguarda l’integrazione dei sistemi dei trasporti.  Riguarda l’abolizione collettiva dell’assurdo sistema della proprietà intellettuale impostoci dalle imprese multinazionali, esprimendosi contro tali imprese con voce unita.  Non significa l’abolizione della sovranità nazionale, come ha cercato di fare l’Unione Europea, ma rafforzarla attraverso istituzioni rappresentative internazionali responsabili nei confronti del pubblico.

Le rivoluzioni arabe che stanno ora scuotendo il mondo offrono un’opportunità di muovere la regione e l’umanità intera in direzione del cambiamento democratico che nel lungo periodo ci porterà verso il superamento del capitalismo.  Queste rivoluzioni devono portare avanti le questioni dell’integrazione regionale e delle politiche economiche orientare agli interessi sociali.  Ma le rivoluzioni possono anche fallire, essere sconfitte. La lotta per fare le rivoluzioni e per difenderle ha luogo a livello nazionale, ma è davvero internazionale nel suo significato.  Per scatenare una rivoluzione, possono essere sufficienti la rabbia e la volontà di cambiamento, ma perché essa trionfi, è essenziale una seria forza politica.  La sinistra nei paesi arabi affronta il compito di unirsi e di contribuire a costruire tale forza, non solo come modo per contribuire alla trasformazione del mondo arabo, ma al fine di contribuire a cambiare il mondo nella sua totalità.

Boris Kagarlitsky è direttore dell’Institute for Globalisation Studies and Social Movements [Istituto per gli studi sulla globalizzazione e i movimenti sociali]. Questo documento sarà presentato a una conferenza a Ramallah, nella Palestina occupata, il 20 dicembre per discutere di politiche economiche alternative, organizzata dal Palestinian Center for Peace and Democracy.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/economic-policies-after-the-death-of-neoliberalism-by-boris-kagarlitsky

Fonte: Links

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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