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Archivi tag: BCE

Il saccheggio dell’Europa ad opera della Goldman Sachs

19 lunedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, mike carey

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Tag

BCE, crisi europea, Goldman Sachs, grecia, Italia

di Mike Carey– 18 dicembre 2011

Non voglio suonare allarmistico ma sembra quasi che la Goldman Sachs si sia impadronita dell’Europa. Il continente ha finito per soccombere ai dettati della finanza globale, non c’era altra scelta. I banchieri ci ricattano tutti e lo stanno facendo sin dall’inizio della grande crisi finanziaria del 2008.

La reazione del governo tedesco al proprio disastroso collocamento di buoni di una settimana fa offre un grosso indizio riguardo ai giochi multimiliardari giocati nelle sale dei consigli d’amministrazione da New York a Francoforte.  L’economia più potente e resistente d’Europa non è stata in grado di ricevere un’offerta per il 35% dei suoi buoni decennali in asta. Gli osservatori affermano che si è trattato di un avvertimento dei banchieri, da entrambe le sponde dell’Atlantico: “Fa’ quel che diciamo noi, sennò …”

La Germania, attraverso il suo ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble, era stata in prima linea nell’esigere che le banche condividessero le perdite derivanti dai salvataggi sovrani che derivassero dal Meccanismo Europeo di Stabilità, previsto in vigore dall’anno prossimo.  L’asta dei titoli di stato tedeschi fallita è stata la secca risposta delle banche e Schaeuble ha dovuto fare marcia indietro.

Sin dall’inizio della crisi europea le banche hanno brigato. Si ricordi quando l’ex primo ministro greco, George Papandreou, annunciò un plebiscito per ottenere l’assenso popolare al suo piano d’austerità e i mercati sono impazziti e lui è stato scorticato. Sono stati i mercati e le banche, non il popolo greco, ad approvare la sentenza e lui se n’è dovuto andare.

Al di là del Mar Ionio l’ex primo ministro Silvio Berlusconi non aveva fatto abbastanza per soddisfare gli egoisti fantini degli schermi e loro hanno rivolto le loro armi, gli operatori in titoli, le agenzie di rating lecchine e gli speculatori azionari contro l’Italia. Correva voce che Berlusconi si stava dimettendo e la borsa saliva. No, non se ne stava andando, e la borsa scendeva di nuovo con la promessa che sarebbe salita alle stelle quando alla fine, e inevitabilmente, si è piegato alla massiccia pressione finanziaria per le sue dimissioni.  Come la notte segue il giorno, è stato sostituito da un eufemismo, un tecnocrate.  Non ci sono stati da nessuna parte discorsi riguardo ai desideri o diritti degli elettori.

Tutto ciò avrebbe potuto essere mitigato, se non addirittura evitato, se l’amministrazione Obama avesse messo in riga i banchieri tre anni fa incarcerando una dozzina, o giù di lì; ora è troppo tardi! Ma naturalmente ciò non sarebbe mai accaduto visto che la nuova squadra economica del presidente è stata ricavata dalla Goldman Sachs, o aveva forti legami con la banca. Con Summers, Rubin, Geithner e Emanuel a Washington comandava Wall Street.

E’ stato probabilmente per questo che nel 2008 la Goldman Sachs era troppo grande per essere incriminata.  Ha ricevuto più sovvenzioni e fondi di salvataggio di ogni altra banca d’investimento. E come ha ringraziato la Goldman Sachs il popolo statunitense per la sua generosità? Utilizzando miliardi di dollari dei contribuenti per arricchirsi e ricompensare i suoi dirigenti di vertice che, secondo quanto riferito, hanno ricevuto aumenti di paga e bonus incredibili pari a 18 miliardi di dollari nel 2009, 16 miliardi di dollari nel 2010 e 10 miliardi di dollari nel 2011.

Nel frattempo la Goldman Sachs si è sbarazzata di miliardi in titoli spazzatura contribuendo a distruggere l’economia globale. La società ha fuorviato gli investitori riguardo alla vera natura di questa spazzatura e ha celato il fatto che stava scommettendo contro questi stessi titoli. Viene riferito che soltanto in uno di questi contratti la Goldman Sachs ha rastrellato 2 miliardi di dollari.

Torniamo al 2002. La Goldman Sachs acquistò di nascosto 2,3 miliardi di Euro del debito greco, lo convertì in yen e dollari e poi lo rivendette immediatamente alla Grecia, apparentemente in perdita.  La Goldman Sachs aveva concluso un accordo segreto con l’allora governo del libero mercato per celare l’enorme deficit di bilancio.  La perdita confezionata della Goldman era l’immaginario utile della Grecia, semplicemente per soddisfare le richieste dell’Europa che il suo debito non superasse mai il 3% del PIL.  Ora viene riferito che la Goldman realizzò 250 milioni di dollari di commissioni sul contratto e un colpo grosso sull’assicurazione contro il rischio d’insolvenza venduta ai detentori di titoli di stato greci a copertura dell’eventualità che il paese finisse in rovina.

Apparentemente ciò divenne noto al primo ministro George Papandreou e al suo governo socialista quando salirono al potere e gli investitori richiesero tassi d’interesse mostruosi per prestare ulteriore denaro o rinnovare tale debito.

E, dunque, chi è che salverà l’Europa e, per estensione, anche noi?

Il nuovo presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Mario Draghi, conosce bene il campo di gioco.  Dopo tutto è stato vicepresidente e direttore operativo della Goldman Sachs International  a Londra e membro del Comitato di Gestione della Goldman Sachs. Presentandosi al comitato finanziario del Parlamento Europeo è stato rapido nel puntualizzare che tra il 2002 e il 2005 il suo ruolo non aveva implicato la vendita di strumenti finanziari ma era stato soprattutto consultivo.

Mario Draghi è stato anche titolare di posizioni a livello di consiglio di amministrazione o più elevate presso la Banca Mondiale, la Banca d’Italia, la Banca per i Regolamenti Internazionali, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo e la Banca Asiatica per lo Sviluppo (Asian Development Bank).

Ha sottolineato molte volte che non è compito della BCE agire da prestatore di ultima istanza degli stati, ma Draghi è assolutamente lieto di promettere illimitata liquidità alle banche.  Mentre tutti lo sollecitavano ad acquistare titoli governativi riequilibrare la barca lui sottolineava che gli acquisti di titoli da parte della BCE sarebbero stati limitati e temporanei.  In effetti qualsiasi altra operatività sarebbe stata illecita secondo la legge europea.  Secondo il Wall Street Journal del 28 novembre “la BCE ha a lungo temuto che acquistare titoli governativi per importi sufficientemente elevati per abbassare i costi di finanziamento dei paesi avrebbe potuto rendere più facile ai politici nazionali ritardare i bilanci d’austerità e le correzioni economiche che sono necessarie.”

E allora pigliatevi la medicina, scemi!

Mario Monti, il nuovo primo ministro italiano è stato nominato dai mercati, non eletto dal popolo. E, indovinate, prima di ciò è stato membro del Consiglio dei Consulenti Internazionali della Goldman Sachs e membro della Commissione Europea, uno degli organismi di governo dell’Unione Europea.  Monti è presidente europeo della Commissioni Trilaterale, un’organizzazione statunitense che promuove gli interessi USA e membro fondatore del gruppo Spinelli, creato per promuovere l’integrazione europea.

Anche in Grecia un banchiere non eletto è stato incoronato primo ministro nuovo di zecca.

Dal 1994 al 2002 Lucas Papademos è stato governatore della Banca di Grecia al tempo in cui la Goldman Sachs stata contribuendo a mascherare il deficit del paese.  Se non sapeva cosa stava succedendo, avrebbe dovuto saperlo.  Nel periodo 2002-2010 è stato vicepresidente della Banca Centrale Europea ed è anche membro della Commissione Trilaterale statunitense.

E anche se il primo ministro non è stato dipendente della Goldman Sachs, il presidente dell’Agenzia per l’Amministrazione del Debito Pubblico greco, Petros Christodoulos, è stato intermediario nelle operazioni della banca a  Londra.

Tutti concordano sul fatto che il rimedio migliore per le disgrazie dell’Europa consisterebbe nel fatto che la BCE acquistasse titoli del debito italiano e greco in misura sufficiente a mantenere i tassi d’interesse a un livello ragionevole.  Il presidente della BCE Draghi si rifiuta di muoversi sino a quando, dicono gli osservatori, la crisi non sarà tanto brutta da consentirgli di imporre il tipo di pacchetto che allargherebbe il cuore a ogni vero neoliberale: privatizzazione del patrimonio pubblico, sottomissione dei sindacati, reti di assistenza sociale e sovranità consegnate a tecnocrati non eletti. Giovedì Mario Draghi ha presagito questo attacco alla socialdemocrazia europea sollecitando un “nuovo accordo fiscale” e ora il presidente francese Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel passano doverosamente a rimodellare il trattato che regola il governo economico del continente.

Ho visto questa austerità da stretta della cinghia negli anni ottanta quando il FMI detto al Brasile ciò che doveva tagliare per rimborsare il suo debito nei confronti di un  consorzio di banche statunitensi ed europee e della Banca Mondiale.  Ci vollero anni di sofferenza perché il vulcano dell’America Latina si riprendesse dalla sua castrazione economica.  La settimana scorsa ho sentito un commentatore finanziario descrivere la situazione attuale come il mercato che si sceglie la preda più debole mentre ciascuno dei paesi PIIGS è sotto attacco sostenuto.  La natura predatrice della bestia può considerare introdotti i piani d’austerità e le banche europee salvate, ma noi continuiamo a finire nella Seconda Grande Depressione che dovevamo avere. Dovevamo avere? Non c’è altro modo ora per ripulire il sistema, per gettare gli strozzini fuori dal tempio.

—-

Mike Carey è un giornalista vincitore del premio Walkley e produttore che è stato produttore esecutivo per otto anni della SBS Dateline.  Ha lavorato per ABC, SBS, e Al Jazeera vivendo nell’Asia Sud-orientale e in Brasile.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/the-goldman-saching-of-europe-by-mike-carey

Originale: Australian Broadcasting Corporation

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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La crisi dell’Europa e il “successo” della Latvia

18 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Mark Weisbrot

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austerità, BCE, crisi economica, Eurozona, FMI, Latvia, ripresa, svalutazione interna, UE

di Mark Weisbrot  – 18 dicembre 2011

Nei mesi recenti alcuni sostenitori delle politiche d’austerità europee hanno reclamizzato la Latvia come una “storia di successo” che dimostra come “la svalutazione interna” può funzionare.  Questo era stato il tema di un libro pubblicato in precedenza quest’anno dall’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale, uno dei gruppi di esperti più influenti di Washington.  Il libro aveva come coautori Anders Aslund, dell’Istituto, e il primo ministro della Latvia, Valdis Dombrovkis.

Questo caso di studio è molto rilevante per l’Europa perché ci sono importanti somiglianze tra la strategia economica della Latvia a partire dal 2008 e quella promossa dalle autorità europee, la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), altrimenti note come “la Troika”.

A prima vista può sembrare ridicolo definire un “successo” una strategia economica se un paese perde il 24% della sua produttività – il dato mondiale peggiore relativamente al crollo del 2008-2009 – e la disoccupazione ufficiale balza dal 5,3% (2007) a più del 20% (inizio 2010).  Anche se la disoccupazione è ora tornata al 14,4% e l’economia sta crescendo (una stima del 4% per il 2011), si tratta di un prezzo esorbitante da pagare per una ripresa finale non molto rapida.  E’ un po’ come vantarsi del successo della flessione della Grande Depressione del 1929-1933 negli Stati Uniti.

Ma i sostenitori asseriscono che quello della Latvia è stato un successo perché ha mantenuto fisso il rapporto di cambio, legato all’euro. La tesi è che se il paese avesse cercato di perseguire politiche macroeconomiche espansionistiche – ad esempio spesa governativa anticiclica, tassi di interesse più bassi, e, quindi, anche una svalutazione – le conseguenze sarebbero state molto peggiori del peggior declino al mondo.  L’idea fondamentale è che la svalutazione avrebbe avuto effetti devastanti sul “bilancio”: molte famiglie e aziende che si erano indebitate in euro ma il cui reddito era in valuta locale  sarebbero finite in bancarotta, con effetti catastrofici sul sistema bancario, ecc.

Naturalmente è vero che ci sarebbero state gravi conseguenze negative dalla svalutazione nella situazione della Latvia, e perciò questo argomento non può essere “dimostrato” falso.  Tuttavia possiamo considerare l’esperienza di altri paesi che hanno avuto svalutazioni determinate da crisi e hanno sofferto tali perdite.  Per 13 paesi nel corso degli ultimi 20 anni, la perdita media di PIL successiva a una svalutazione è stata del 4,5% del PIL. Tre anni dopo, il paese medio era del 6,5% al di sopra del suo picco ante-svalutazione.

La Latvia, in confronto, non ha svalutato e – tre anni dopo – è tuttora del 21% sotto il proprio livello del PIL ante-crisi.

Dunque la tesi che “le cose sarebbero potute andare molto peggio” non sembra plausibile. Alcuni degli altri paesi hanno sofferto gravi crolli finanziari dopo la svalutazione, come l’Argentina che è stata quasi praticamente esclusa dal credito internazionale dopo la sua svalutazione e l’insolvenza del dicembre 2001-gennaio 2002.  Tuttavia l’Argentina è andata  molto bene dopo la sua svalutazione e insolvenza, con una contrazione iniziale dell’economia del 4,9% e una  crescita  superiore al 90% nei successivi nove anni. Ma tutti questi 13 paesi con svalutazioni determinate da crisi hanno fatto ampiamente meglio della Latvia.

I costi sociali in Latvia sono stati molto più elevati di quanto indichino le cifre ufficiali della disoccupazione. La disoccupazione/sotto-occupazione (comprendenti coloro che sono costretti a lavorare a tempo parziale o che sono stati espulsi dalla forza lavoro) ha toccato l’anno scorso un picco di oltre il 30%. E una percentuale della forza lavoro  stimata nel 10% ha lasciato il paese, un’emigrazione enorme sotto ogni raffronto e una perdita significativa per la Latvia.

Tutta questa disoccupazione e miseria non è un effetto collaterale della strategia della “svalutazione interna”, ma una parte fondamentale di essa.  L’idea di una “svalutazione interna” è che, con il cambio fisso, si devono spingere al ribasso i prezzi e specialmente i salari al fine di rendere il paese più competitivo internazionalmente.  Ciò viene fatto mediante una grave recessione e un’altissima disoccupazione. Il che fa parte dell’attuale strategia della Troika per rendere più competitive la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda.

Ironicamente, la “svalutazione interna” in Latvia non ha funzionato neppure secondo i propri termini. La debole ripresa dello scorso anno e mezzo deve poco o nulla alle esportazioni nette, che sarebbero state il motore della ripresa se la svalutazione interna avesse funzionato davvero e avesse reso più competitive le imprese del paese in concorrenza nelle esportazioni e importazioni. Sembra piuttosto che l’economia si sia ripresa perché il governo ha interrotto la sua stretta sul bilancio  dopo una contrazione economica enorme e perché c’è stata una vampata di inflazione che ha aiutato il paese a uscire dal suo caos deflazionistico.

Neppure nell’Eurozona funziona la “svalutazione interna”, in quanto l’area della moneta comune appare oggi in recessione, secondo le più recenti stime dell’OCSE.  L’altra parte della strategia della Troika, un soccorso da parte delle “fate della fiducia” nei mercati obbligazionari, sta facendo ancor peggio.  I mercati obbligazionari sembrano rendersi conto che l’austerità attuale e persino gli accordi per un’austerità fiscale meglio coordinata in futuro – cosa che le autorità europee hanno annunciato con gran fanfara la settimana scorsa – non faranno che aumentare il carico del debito dell’Eurozona.

Presto o tardi le autorità europee dovranno smettere di costruire quel ponte verso il diciannovesimo secolo e utilizzare la politica economica moderna per spingere fuori dalla recessione l’economia europea.  L’Europa non può permettersi di passare quel che ha passato la Latvia, né può permetterselo il mondo: una recessione più grave in Europa potrebbe creare una crisi finanziaria del tipo di quella che cui abbiamo assistito nel 2008.  Questo è il fuoco il quale stanno giocando oggi le autorità europee.

Mark Weisbrot è codirettore del Centro per la Ricerca Economica e Politica a Washington, D.C.  E’ anche presidente di Just Foreign Policy [Politica Estera Giusta].

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/europe-s-crisis-and-latvia-s-success-by-mark-weisbrot

Originale: The Guardian

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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UE: la transizione mortale dalla socialdemocrazia all’oligarchia

15 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, MIchael Hudson

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banchieri, BCE, crisi, Economia, finanza, FMI, insolvenza

di Michael Hudson   -14 dicembre 2011

Il modo più semplice per comprendere la crisi finanziaria dell’Europa consiste nel guardare alle soluzioni che vengono proposte per risolverla.  Sono il sogno dei banchieri, un palo della cuccagna di regali che pochi elettori probabilmente approverebbero in un referendum democratico. Gli strateghi delle banche hanno imparato a non sottoporre i loro piani al voto democratico, dopo che gli islandesi si sono rifiutati per due volte, nel 2010 e 2011, di approvare la capitolazione del loro governo al rimborso all’Inghilterra e all’Olanda delle perdite incorse dalle mal regolamentate banche islandesi che avevano operato all’estero.  In assenza di un tale referendum le dimostrazioni di massa sono state il solo modo in cui gli elettori greci hanno potuto manifestare la propria opposizione ai 50 miliardi di euro di privatizzazioni svendute pretese dalla Banca Centrale Europea (BCE) nell’autunno 2011.

Il problema è che alla Grecia manca il contante per ripagare i propri debiti e gli interessi.  La BCE sta pretendendo che il paese svenda il proprio patrimonio pubblico – terreni, acqua, sistemi fognari, porti e altri beni del demanio pubblico – e anche tagli le pensioni e altri pagamenti alla popolazione.  Il 99% che sta in basso è comprensibilmente arrabbiato nell’apprendere che lo strato più ricco della popolazione è largamente responsabile del deficit di bilancio avendo messo al sicuro all’estero, a quanto risulta, 45 miliardi di euro nelle sole banche svizzere.  L’idea che i normali salariati siano obbligati a rinunciare alle pensioni per pagare per gli evasori fiscali – e per la generale mancata tassazione della ricchezza a partire dal regime dei colonnelli – rende la maggior parte delle persone comprensibilmente rabbiosa.  Per la “troika” BCE, UE e FMI affermare che, indipendentemente da quanto i ricchi incassino, rubino o evadano, il pagamento deve essere fatto dalla popolazione in generale non è una posizione politicamente neutrale. Discende fortemente dalla posizione dalla parte dei ricchi che ha scorrettamente assunto.

Una politica fiscale democratica ripristinerebbe la tassazione progressiva sul reddito e la proprietà, e ne imporrebbe l’incasso con sanzioni per l’evasione.  Sin dal diciannovesimo secolo i riformatori democratici hanno cercato di liberare le economie dagli sprechi, dalla corruzione e dal “reddito con guadagnato”.  Ma la troika BCE sta imponendo una tassazione regressiva, che può essere imposta soltanto affidando la politica governativa a un gruppo di tecnocrati non eletti.

Chiamare ‘tecnocrati’ gli amministratori di una politica così antidemocratica sembra un cinico eufemismo dal suono scientifico per riferirsi ai lobbisti e burocrati della finanza ritenuti utilmente di mente tanto ristretta da agire da utili idioti nell’interesse dei propri patroni. La loro ideologia è la stessa filosofia dell’austerità che il FMI impose ai debitori del Terzo Mondo dagli anni ’60 agli anni ’80.  Pretendendo di stabilizzare la bilancia dei pagamenti introducendo i liberi mercati, questi dirigenti svendettero i settori esportatori e le infrastrutture fondamentali ad acquirenti delle nazioni creditrici.  L’effetto fu una spinta delle economie tormentate dall’austerità a indebitarsi ancora di più nei confronti delle banche straniere e delle oligarchie nazionali degli stessi paesi.

Questo è il binario sul quale sono state avviate le socialdemocrazie dell’eurozona. Sotto la copertura politica dell’emergenza finanziaria, le paghe e i livelli di vita devono essere ridimensionate e il potere politico deve essere trasferito dal governo eletto a tecnocrati che governino per conto delle grandi banche e istituzioni finanziarie. La manodopera del settore pubblico deve essere privatizzata – e desindacalizzata – mentre l’assistenza sociale, i piani pensionistici e l’assistenza sanitaria devono essere ridimensionati anch’essi.

Questo è il programma politica di base seguito dagli scalatori delle imprese quando svuotano i piani pensionistici delle aziende per rimborsare i propri sostenitori finanziari nelle operazioni di acquisizione a debito [leveraged buy out]. E’ anche così che è stata privatizzata l’economia dell’ex Unione Sovietica dopo il 1991, trasferendo il patrimonio pubblico nelle mani di cleptocrati che hanno collaborato con i banchieri occidentali per fare della borsa russa e di altre le beniamine dei mercati finanziari globali.  Le imposte sul patrimonio furono ridotte mentre vennero imposte tasse fisse sui salari (per un totale del 59% in Latvia).  L’industria fu smantellata mentre i diritti fondiari e minerari venivano trasferiti a stranieri, le economie venivano spinte all’indebitamento e i lavoratori, specializzati e non specializzati, venivano costretti a emigrare per trovare lavoro.

Fingendo di esseri dediti alla stabilizzazione dei prezzi e al libero mercato, i banchieri gonfiarono una bolla creditizia immobiliare.  Il reddito degli affitti fu capitalizzato in finanziamenti bancari e speso per pagare gli interessi. Tutto ciò fu enormemente redditizio per i banchieri ma lasciò i paesi baltici e gran parte dell’Europa Centrale in una situazione debitoria tesa e con un capitale in negativo entro il 2008.  I neoliberali plaudono ai livelli salariali che hanno fatto precipitare e al PIL in calo, come a una storia di successo, perché quei paesi hanno trasferito l’onere fiscale sul lavoro, piuttosto che sulla proprietà o sulla finanza. I governi hanno salvato le banche a spese dei contribuenti.

E’ assiomatico che la soluzione a ogni grande problema sociale tenda a crearne di maggiori, non sempre intenzionalmente! Dal punto di vista del settore finanziario la “soluzione alla crisi dell’Eurozona consiste nell’invertire gli obiettivi dell’Era Progressista di un secolo fa, quella che speranzosamente John Maynard Keynes definì nel 1936 “l’eutanasia di chi vive di rendita (rentier).”  L’idea era di subordinare il sistema bancario a servire l’economia invece del contrario.  Invece la finanza è diventata il nuovo modo di fare la guerra, meno evidentemente sanguinoso ma con gli stessi obiettivi delle invasioni vichinghe di mille anni fa e con la conseguente conquista coloniale dell’Europa: appropriazione di terre e di risorse naturali, di infrastrutture e di qualsiasi altra attività che possa generare un flusso di entrate.  Fu per capitalizzare e stimare tali valori, ad esempio, che Guglielmo il Conquistatore compilò dopo il  1066 il Domesday Book [il ‘libro del giorno del giudizio’, un censimento delle proprietà inglesi – n.d.t.], un modello per  calcoli in stile BCE e FMI di oggi.

L’appropriazione del surplus economico per rimborsare i banchieri sta capovolgendo i valori tradizionali della maggior parte degli europei.  L’imposizione dell’austerità economica, lo smantellamento della spesa sociale, le svendite del patrimonio pubblico, la de-sindacalizzazione del lavoro, i livelli salariali in caduta, il ridimensionamento dei piani pensionistici e dell’assistenza sanitaria in paesi soggetti a regole democratiche richiede di convincere gli elettori che non ci sono alternative. Si afferma che senza un sistema bancario redditizio (non importa quanto predace) l’economia andrà a pezzi con le perdite bancarie sui prestiti cattivi e sui giochi d’azzardo che abbatteranno il sistema dei pagamenti. Nessun organismo regolamentare potrà essere d’aiuto, nessuna miglior politica fiscale, niente se non la consegna del controllo ai lobbisti per salvare le banche dal perdere le pretese finanziarie che hanno costruito.

Quello che vogliono le banche è che il surplus economico sia utilizzato per pagare gli interessi e non sia utilizzato per migliorare il livello di vita, la spesa pubblica o addirittura per nuovi investimenti di capitale. Le attività di ricerca e sviluppo richiedono troppo tempo. La finanza vive nel breve termine. Questa prospettiva di breve termine è autodistruttiva e tuttavia viene presentata come scienza.  L’alternativa, viene detto agli elettori, è la schiavitù: interferire con il “libero mercato” attraverso regolamentazioni della finanza e persino con una fiscalità progressiva.

Naturalmente c’è un’alternativa. E’ quella che la civiltà europea dagli Scolastici del tredicesimo secolo all’Illuminismo e alla fioritura dell’economia politica classica ha cercato di creare: un’economia libera da redditi non guadagnati, libera da poteri forti che utilizzino privilegi speciali per “ricavare una rendita”.  Per mano dei neoliberali, invece, il libero mercato è un mercato libero a favore della classe dei redditieri perché essi ottengano interessi, rendite e monopolio sui prezzi.

Gli interessi dei redditieri [rentier] presentano il proprio comportamento come un’efficiente “creazione di ricchezza”.  Le scuole di economia aziendale insegnano ai privatizzatori come organizzare prestiti finanziari e collocamento di obbligazioni impegnando tutto quello che possono affinché i servizi pubblici infrastrutturali siano ceduti dai governi.  L’idea è di utilizzare le entrate per pagare gli interessi alle banche e agli obbligazionisti e poi conseguire un utile di capitale aumentando i pedaggi per l’accesso alle strade e ai porti, all’acqua e all’utilizzo delle fognature e ad altri servizi fondamentali.  Ai governi viene detto che le economie possono essere gestite in modo più efficiente smantellando i programmi pubblici e svendendone il patrimonio.

Il divario tra lo scopo ostentato e l’effetto reale non è mai stato più ipocrita.  Rendere i pagamenti di interessi (e anche gli utili di capitale) esenti da imposte priva i governi delle entrate dalle tariffe degli utenti cui rinunciano, aumentando così i loro deficit di bilancio.  E invece di promuovere la stabilità dei prezzi (l’apparente priorità della BCE) la privatizzazione aumenta i prezzi delle infrastrutture, degli alloggi e di altri costi del vivere e fa affari con l’addebito di interessi e di altre spese finanziarie generali, e assicura remunerazioni molto più elevate alla dirigenza.  E’ dunque soltanto un’affermazione ideologica automatica che questa politica sia più efficiente semplicemente perché a indebitarsi sono i privatizzatori e non il governo.

Non c’è alcuna necessità tecnica o economica che la dirigenza finanziaria europea imponga la depressione a gran parte della popolazione.  Ma c’è una grande occasione di profitto per le banche che hanno ottenuto il controllo della politica economica della BCE.  A partire dagli anni ’60, la crisi della bilancia dei pagamenti ha offerto ai banchieri e agli investitori liquidi di prendere il controllo della politica fiscale, di trasferire l’onere fiscale sul lavoro e di smantellare la spesa sociale a favore delle sovvenzioni a investitori stranieri e al settore finanziario.  Essi guadagnano dalle politiche d’austerità che riducono la qualità della vita e la spesa sociale.  Una crisi del debito consente all’élite finanziaria nazionale e ai banchieri stranieri di indebitare il resto della società, utilizzando i propri privilegi creditizi (o i risparmi derivanti da politiche fiscali meno progressive) come leva per impossessarsi di beni e per ridurre le popolazioni in uno stato di dipendenza dal debito.

Il tipo di guerra che oggi divora l’Europa è dunque più che economica nella sua portata.  Minaccia di diventare una linea di divisione storica  tra l’epoca dello scorso mezzo secolo di speranza e di potenziale tecnologico e una nuova era di polarizzazione con l’oligarchia finanziaria che prende il posto dei governi democratici e riduce le popolazioni in uno stato di schiavitù del debito.

Perché un’appropriazione del patrimonio e del potere così sfacciata possa riuscire, è necessario che una crisi sospenda i normali processi legislativi politici e democratici che vi si opporrebbero. Il panico e l’anarchia politici creano un vuoto in cui gli arraffoni possono muoversi velocemente, usando la retorica dell’inganno finanziario e di un’economia d’accatto per razionalizzare soluzioni egoistiche attraverso una visione falsa della storia economica e, nel caso dell’odierna BCE, della storia tedesca in particolare.

* * *

I governi non hanno bisogno di indebitarsi presso banchieri commerciali o altri finanziatori. Sin da quando è stata fondata la Banca d’Inghilterra, nel 1694, le banche centrali hanno stampato denaro per finanziare la spesa pubblica. Anche i banchieri creano liberamente denaro quando fanno un prestito e accreditano il conto del cliente in cambio di un pagherò gravato da interessi. Oggi queste banche possono prendere a prestito riserve dalle banche centrali governative a un basso tasso d’interesse (0,25% negli Stati Uniti) e prestare quel denaro a tassi più elevati.  Cosicché le banche sono ben liete di vedere le banche centrali governative creare credito da prestar loro.  Ma quando si tratta di governi che creino  moneta per finanziare i propri deficit di bilancio da spendere nel resto dell’economia, le banche preferirebbero avere questo mercato e i relativi interessi solo per sé.

Le banche commerciali europee sono particolarmente categoriche riguardo al fatto che la Banca Centrale Europea non dovrebbe finanziare i deficit governativi.  Ma la creazione privata di credito non è necessariamente meno inflattiva della monetizzazione governativa dei propri deficit (semplicemente stampando il denaro necessario). La maggior parte dei prestiti delle banche commerciali sono concessi con garanzie su immobili, azioni e obbligazioni, fornendo credito che viene utilizzato per rilanciare i prezzi degli alloggi e dei titoli finanziari (come nel caso delle acquisizioni a debito).

E’ principalmente il governo che spende il credito nell’economia “reale”, nella misura in cui i deficit del bilancio pubblico impiegano lavoro o sono spesi in beni e servizi.  I governi evitano di pagare interessi facendo stampare denaro alle proprie banche centrali sulle proprie tastiere dei computer anziché prendere a prestito da banche che fanno la stessa cosa sulle loro tastiere.  (Abraham Lincoln non fece altro che stampare moneta quando finanziò la Guerra Civile statunitense con il “biglietti verdi”).

Alle banche piacerebbe utilizzare il proprio privilegio di creare credito per ricavare interessi da prestiti ai governi per finanziare i deficit dei bilanci pubblici.  Esse hanno dunque un interesse egoistico a limitare l’ “opzione pubblica” di monetizzare i propri deficit di bilancio.  Per garantirsi il monopolio del proprio privilegio di creare credito, le banche hanno montato una vasta campagna di denigrazione dell’avversario riguardo alla spesa governativa e, in realtà, contro l’autorità governativa in generale, che risulta essere l’unica autorità con un potere sufficiente a controllare il loro potere o a offrire opzioni finanziarie alternative, come fanno le banche del risparmio postale in Giappone, in Russia e in altri paesi.  Questa concorrenza tra banche e governo spiega le false accuse mosse alla creazione di credito da parte del governo in quanto dichiarata più inflazionistica di quella della banche commerciali.

La realtà è chiarita dal confronto tra il modo in cui gli Stati Uniti, l’Inghilterra e l’Europa gestiscono le proprie finanze pubbliche.  Il Tesoro statunitense è di gran lunga il maggior debitore e le sue banche maggiori sembrano avere un capitale negativo, essendo debitrici nei confronti dei propri depositanti e di altre istituzioni finanziarie di somme molto superiori a quelle che possono essere pagate con il loro portafoglio di prestiti, investimenti e giochi finanziari assortiti.  Tuttavia, mentre i disordini finanziari globali si intensificano, gli investitori istituzionali investono il loro denaro in buoni del tesoro USA, in misura così vasta che questi titolo non rendono più dell’1%.  Per contro, un quarto del settore immobiliare USA ha un capitale negativo, gli stati e le amministrazioni cittadine statunitensi si trovano a confrontarsi con l’insolvenza e devono ridimensionare le spese.  Grandi imprese finiscono in bancarotta, i piani pensione sono in arretrati sempre maggiori, e tuttavia l’economia USA resta una calamita per i risparmi globali.

Anche l’economia inglese sta vacillando, e tuttavia il governo paga solo il 2% di interessi. Ma i governi europei pagano più del 7%. Il motivo di tale disparità è che questi ultimi sono privi dell’ “opzione pubblica” di creare moneta. L’avere una Federal Reserve Bank o la Banca d’Inghilterra che possono stampare denaro per pagare interessi o rinnovare i debiti esistenti è ciò che rende gli Stati Uniti e l’Inghilterra diversi dall’Europa. Nessuno si aspetta che queste due nazioni siano costrette a svendere i terreni pubblici e altri beni per raccogliere i fondi per pagare (anche se possono farlo come scelta politica).  Dato che il Tesoro USA e la Federal Reserve possono creare nuova moneta, ne consegue che, fintanto che i debiti del governo sono denominati in dollari, possono firmare abbastanza cambiali sulle tastiere dei propri computer da far sì che l’unico rischio corso dai detentori di buoni del tesoro USA è quello del tasso di cambio del dollaro rispetto alle altre valute.

Per contro, l’Eurozona ha una banca centrale ma l’articolo 123 del Trattato di Lisbona vieta alla BCE di fare quello che le altre banche centrale sono state fondate per fare: creare il denaro per finanziare i deficit di bilancio governativi o per rinnovare prestiti in scadenza.  Gli storici del futuro senza dubbio troveranno notevole che ci sia realmente della razionalità a sostegno di tale politica, o almeno la pretesa di una storia di copertura.  E’ una cosa così inconsistente che qualsiasi studente di storia può capire quanto sia distorta. L’affermazione è che se una banca centrale crea credito, ciò minaccia la stabilità dei prezzi.  A essere considerata inflazionistica è solo la spesa governativa, non il credito privato!

L’amministrazione Clinton ha equilibrato il bilancio del governo USA alla fine degli anni ’90, e tuttavia stava esplodendo l’Economia delle Bolle.  D’altro canto il Tesoro e la Federal Reserve hanno inondato l’economia con 13 trilioni di dollari di crediti al sistema del credito bancario dopo il settembre 2008 e con ulteriori 800 miliardi di dollari l’estate scorsa attraverso il programma di Agevolazione Quantitativa della Federal Reserve (QE2).  E tuttavia i prezzi al consumo e delle materie prime non stanno salendo.  Nemmeno i prezzi degli immobili e del mercato azionario sono rilanciati.  Dunque l’idea che più denaro significhi prezzi più alti (MV=PT *) oggi non funziona.    [* Equazione degli Scambi (ES)di Fisher:MV = PT,  dove M = quantità  di moneta, V = velocità di circolazione della moneta, T = numero di transazioni, P = livello generale dei prezzi – n.d.t.].

Le banche commerciali creano debito. E’ il loro prodotto. La leva su debito è stata utilizzata per più di un decennio per rilanciare i prezzi – rendendo più costoso per i cittadini statunitensi avere una casa o acquistare una polizza che garantisca un reddito pensionistico – ma l’economia odierna sta soffrendo di una deflazione da debito con i redditi personali, quelli da attività e le entrate fiscali che sono dirottati a rimborsare i debiti anziché a spendere in beni o a investire o ad assumere.

Molto più impressionante è la parodia della storia tedesca che viene ripetuta in continuazione, come se la ripetizione in qualche modo possa far smettere alla gente di ricordare quello che in realtà è accaduto nel ventesimo secolo.  A sentir raccontare la storia dai dirigenti della BCE, sembrerebbe avventato da parte di una banca centrale finanziare il governo, a motivo del rischio di super-inflazione. Vengono esibiti ricordi dell’inflazione di Weimar in Germania negli anni ’20.   Ma, esaminato, ciò risulta essere quello che gli psichiatri chiamano un ricordo artificiale: una condizione in cui un paziente è convinto di aver sofferto un trauma che sembra reale, ma che in realtà  non esiste.

Quel che è accaduto nel 1921 non è stato un caso di governi indebitatisi presso banche centrali per finanziare spese interne come programmi sociali, pensioni o assistenza sanitaria come oggi.  Piuttosto l’obbligo della Germania di pagare le riparazioni ha portato la Reichsbank a inondare i mercati delle valute estere di marchi tedeschi per ottenere la valuta necessaria per comprare sterline inglesi, franchi francesi e altre valute per pagare gli Alleati, che usavano quel denaro per rimborsare i debiti degli eserciti Inter-Alleati verso gli Stati Uniti.  L’iperinflazione della nazione ha avuto origine dal suo obbligo di pagare le sue obbligazioni in valuta estera.  Nessun importo di tassazione interna avrebbe raccolto la valuta straniera di cui era programmato il pagamento.

Arrivati agli anni ’30 questo fenomeno era ben noto, spiegato da Keynes e da altri che avevano analizzato i limiti strutturali della capacità di pagare il debito estero imposto indipendentemente dalla capacità di attingere ai bilanci valutari nazionali in essere.  Dal testo del 1931 di Salomon Flink ‘The Reichsbank and Economic Germany’ agli studi sulle iper-inflazioni cilena e di altri paesi del Terzo Mondo, gli economisti hanno scoperto all’opera una causa comune, basata sulla bilancia dei pagamenti. Per primo arriva un crollo dei rapporti di cambio. Ciò aumenta il prezzo delle importazioni e, in conseguenza, il livello nazionale dei prezzi.  Servono più soldi per effettuare acquisti a prezzi più alti.  La sequenza statistica e la catena causale portano dal deficit della bilancia dei pagamenti al deprezzamento della moneta aumentando i costi delle importazioni e da questo aumento dei prezzi alla immissioni di liquidità, non il contrario.

Gli odierni sostenitori del “libero mercato” che scrivono nella tradizione monetarista di Chicago (fondamentalmente quella di David Ricardo) escludono dai loro calcoli le dimensioni del debito estero e di quello nazionale.  E’ come se il “denaro” e il “credito” fossero beni da barattare contro merci.  Ma un conto bancario o altre forme di credito si traduce in debito sull’altra colonna del bilancio. Il debito di una parte è il risparmio di un’altra parte e la maggior parte dei risparmi oggi viene prestata a interesse, assorbendo denaro dai settori non finanziari dell’economia.  Il dibattito è ridotto a un rapporto semplicistico tra la fornitura di denaro e il livello dei prezzi e, in realtà, solo il livello dei prezzi al consumo,  non dei prezzi del patrimonio. Nella loro ansia di opporsi alla spesa governativa – e in realtà di smantellare il governo e sostituirlo con pianificatori finanziari – i monetaristi neoliberali trascurano il carico del debito imposto oggi dalla Latvia all’Islanda all’Irlanda alla Grecia, Italia, Spagna e Portogallo.

Se l’euro andrà a pezzi sarà a motivo dell’obbligo dei governi di rimborsare i banchieri con soldi che devono essere presi a prestito invece che creati dalle banche centrali.  Diversamente dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra che possono creare credito da parte delle banche centrali sulle tastiere dei loro computer per evitare che l’economia avvizzisca o diventi insolvente, la costituzione tedesca e il Trattato di Lisbona impediscono alla banca centrale di fare altrettanto.

L’effetto è l’obbligo per i governi di indebitarsi a interesse presso le banche centrali.  Ciò dà ai banchieri la capacità di creare una crisi, minacciando di portare le economie fuori dall’Eurozona se non si sottomettono alle “condizioni” loro imposte in quella che sta rapidamente diventando una guerra di classe della finanza contro il mondo del lavoro.

Togliere alla banca centrale dell’Europa il diritto di privare i governi del potere di creare moneta

Una delle tre caratteristiche che definiscono uno stato-nazione è il potere di creare moneta. Una seconda caratteristica è il potere di riscuotere imposte. Entrambi questi poteri sono in corso di trasferimento dalle mani di rappresentanti democraticamente eletti a quelle del settore finanziario, come effetto dell’aver legato le mani al governo.

La terza caratteristica di uno stato-nazione è il potere di dichiarare guerra.  Quello che accade oggi è l’equivalente di una guerra, ma contro il potere del governo! E’, soprattutto, una modalità finanziaria di condurre la guerra e gli scopi di questa appropriazione finanziaria sono gli stessi di quelli di una conquista militare: primo, la terra e le ricchezze del sottosuolo su cui imporre rendite come tributo; poi le infrastrutture pubbliche per ricavare rendite dalle tariffe di accesso; e, terzo, ogni altra impresa o bene di demanio pubblico.

In questa nuova guerra finanziarizzata, i governi sono spinti ad agire da forze dell’ordine per conto dei conquistatori finanziari contro le loro stesse popolazioni nazionali.  Di certo questa non è una cosa nuova.  Abbiamo visto la Banca Mondiale e il FMI imporre l’austerità a dittature latinoamericane, a capitribù militari africani e ad altre oligarchie vassalle dagli anni ’60 fino agli anni ’80. L’Irlanda e la Grecia, la Spagna e il Portogallo devono ora essere assoggettate a un simile spogliamento mentre le decisioni politiche pubbliche sono trasferite a organismi finanziari sovra-governativi che agiscono per conto dei banchieri e, attraverso essi, per conto dell’1% della popolazione.

Quando i debiti non possono essere rimborsati o rinnovati arriva il tempo dei pignoramenti.  Per i governi ciò significa svendita di privatizzazioni per rimborsare i creditori. In aggiunta al fatto di essere un arraffamento della proprietà, la privatizzazione mira a sostituire la manodopera del settore pubblico con una forza lavoro non sindacalizzata che abbia minori diritti alla pensione, all’assistenza sanitaria o voce in capitolo sulle condizioni di lavoro.  La vecchia guerra di classe è così di nuovo all’opera, con una svolta finanziaria.  Facendo rattrappire l’economia, la deflazione da debito contribuisce a spezzare la capacità di resistenza del mondo del lavoro.

Inoltre dà ai creditori il controllo sulla politica fiscale.  In assenza di un parlamento pan-europeo con il potere di fissare le regole fiscali, la politica fiscale passa alla BCE.  Agendo per conto delle banche la BCE sembra favorire un’inversione della spinta del ventesimo secolo a una tassazione progressiva.  E, come ha chiarito un lobbista finanziario statunitense, la pretesa dei creditori è che i governi ridefiniscano gli obblighi sociali pubblici come “costi d’utenza”, da finanziare mediante trattenute sulle remunerazioni da passare alle banche perché le amministrino (o ne facciano cattiva amministrazione, a seconda dei casi).  Trasferire l’onere fiscale dalla proprietà immobiliare e dalla finanza al lavoro e all’economia “reale” minaccia così di diventare un arraffamento fiscale che va a sommarsi all’arraffamento delle privatizzazioni.

Questa è un’ottica di breve termine autodistruttiva.  L’ironia è che i deficit di bilancio dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) si sono originati in larga misura dal non aver tassato la proprietà e un’ulteriore svolta fiscale peggiorerà, anziché stabilizzarli, i bilanci governativi.  Ma i banchieri guardano solo a ciò che possono prendere nel breve periodo.  Sanno che qualsiasi imposta a carico dei patrimoni e delle imprese cui l’esattore rinunci è “disponibile” per gli acquirenti da impegnare presso le banche come interesse.  Così alla Grecia e ad  altre economie oligarchiche  viene detto di “pagarsi il biglietto” tagliando la spesa sociale governativa (ma non la spesa militare per l’acquisto di armi tedesche e francesi) e spostando le tasse sul lavoro e l’industria, e sui consumatori sotto forma di tariffe d’utenza più elevate per i servizi pubblici non ancora privatizzati.

In Inghilterra il primo ministro Cameron afferma che ridimensionare ulteriormente il governo sulla scia della Thatcher e di Blair renderà disponibili ancor più risorse e manodopera da assumere da parte del settore privato.  I tagli fiscali metteranno effettivamente sulla strada molti lavoratori, o almeno li costringeranno a trovare lavori pagati di meno e con meno diritti.  Ma tagliare la spesa pubblica farà avvizzire anche il settore imprenditoriale, peggiorando i problemi fiscali e debitori spingendo le economie ancor più profondamente nella recessione.

Se i governi tagliano la spesa per ridurre la dimensione dei loro deficit di bilancio – o se raccolgono imposte dall’economia in generale per generare un surplus – allora quei surplus risucchieranno denaro dall’economia, lasciando meno da spendere in beni e servizi.  La conseguenza può essere soltanto la disoccupazione, ulteriori insolvenze e fallimenti.  Possiamo considerare l’Islanda e la Latvia come i canarini nelle miniere di carbone finanziarie.  La loro esperienza recente dimostra che la deflazione debitoria porta all’emigrazione, a aspettative di vita minori, a tassi di nascite, di matrimoni e di formazione di famiglie inferiori, ma offre grandi occasioni ai fondi predatori per risucchiare ricchezza verso il vertice della piramide finanziaria.

La crisi economica attuale è una questione di scelta politica, non di necessità.  Secondo la battuta del segretario generale del presidente Obama, Rahm Emanuel: “Una crisi è un’occasione troppo buona per sprecarla.”  In tali casi la spiegazione più logica che debba beneficiarne qualche potere forte.  Le depressioni aumentano la disoccupazione, contribuendo a schiacciare il potere dei lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati. Gli Stati Uniti stanno assistendo a una stretta di bilancio a livello statale e locale (mentre cominciano a essere annunciate bancarotte) con i primi tagli che si verificano nella sfera delle insolvenze pensionistiche.  L’alta finanza viene rimborsata non rimborsando la popolazione che lavora dei risparmi e delle promesse fatte come parte di contratti di lavoro e dei piani privati di previdenza. I pesci grossi stanno mangiando i pesci piccoli.

Questa sembra essere l’idea che il settore finanziario ha di una buona pianificazione economica.  Ma è peggio di un piano a somma zero, in cui l’utile di una parte è la perdita dell’altra.  Si rattrappiranno le economie nel loro complesso e cambieranno forma polarizzandosi tra debitori e creditori.  La democrazia economica cederà il passo all’oligarchia finanziaria, invertendo la tendenza degli ultimi secoli.

L’Europa è pronta a compiere questo passo? Gli elettori riconoscono che spogliare il governo dell’opzione pubblica di creare denaro trasferirà tale privilegio alle banche sotto forma di monopolio? Quanti osservatori hanno identificato la quasi inevitabile conseguenza: il trasferimento della pianificazione economica all’allocazione creditizia bancaria?

Anche se i governi ricorressero all’ “opzione pubblica” creando il proprio denaro per finanziare i loro deficit di bilancio e fornendo all’economia credito produttivo per ricostruire le infrastrutture, rimane un grave problema: che fare del complesso del debito esistente che ora costituisce un peso morto per l’economia? I banchieri e i politici che essi sostengono si rifiutano di svalutare i debiti per riflettere la capacità di rimborso. I legislatori non hanno fornito alla società una procedura legale per le svalutazioni dei debiti, salvo la legge sulla cessione fraudolenta [Fraudulent Conveyance Law] dello Stato di New York che prescrive che i debiti siano annullati se i finanziatori hanno fatto credito senza assicurarsi della capacità di rimborso del debitore.

I banchieri non vogliono assumere la responsabilità dei cattivi prestiti.  Ciò pone il problema finanziario di ciò che i legislatori dovrebbero fare quando le banche sono state così irresponsabili nell’allocare il credito. Ma qualcuno deve subire la perdita.  Dovrebbe essere la società in generale o dovrebbero essere i banchieri?

Non è un problema che i banchieri sono preparati a risolvere. Loro vogliono trasferire il problema ai governi e definire il problema in termini di come i governi possono “rimetterli in sesto”.  Quella che definiscono una “soluzione” al problema dei cattivi debiti consiste nel fatto che governo dia loro titoli buoni in cambio di prestiti cattivi (“contanti in cambio di spazzatura”), da pagare in pieno da parte dei contribuenti.  Avendo organizzato un enorme aumento di ricchezza per sé stessi, i banchieri ora vogliono prendere i soldi e scappare, lasciando le economie tormentate dai debiti. Le entrate che non possono essere pagate dai debitori saranno ora distribuite, per il pagamento, all’intera economia, aumentando enormemente il costo della vista e del fare impresa per tutti.

Perché dovrebbero essere “rimessi in sesto” a spese del rattrappimento del resto dell’economia?  La risposta dei banchieri è che  i debiti vanno corrisposti ai piani pensionistici dei lavoratori, ai consumatori con depositi bancari e che l’intero sistema crollerà se i governi mancheranno di rimborsare un titolo.   Se messi sotto pressione, i banchieri ammettono di aver acceso assicurazioni sui rischi, di detenere obbligazioni con collaterale debitorio e altre coperture dei rischi.  Ma gli assicuratori sono in gran parte banche USA e il governo USA sta premendo sull’Europa affinché non diventi insolvente danneggiando così il sistema bancario statunitense.  Così il garbuglio del debito è diventato politicizzato a livello internazionale.

Dunque per i banchieri la linea di resistenza consiste nell’incoraggiare l’illusione che non ci sia necessità che essi accettino l’insolvenza degli alti debiti non rimborsabili che hanno incoraggiato.  I creditori insistono sempre sul fatto che il debito generale può essere mantenuto se soltanto i governi ridurranno altre spese, aumentando contemporaneamente le imposte a carico dei singole e delle imprese non finanziarie.

Il motivo per cui ciò non funzionerà è che cercare di incassare l’odierna dimensione del debito colpirà la sottostante economia “reale”, rendendola ancor meno in grado di pagare i propri debiti.  Quello che è iniziato come un problema finanziario (“cattivi debiti”) si trasformerà ora in un problema fiscale (“cattive imposte”). Le tasse sono un costo per le imprese allo stesso modo in cui è un costo rimborsare un debito. Entrambi i costi devono riflettersi sui prezzi dei prodotti.  Quando in contribuenti sono gravati di tasse e di debiti dispongono di meno entrate disponibili per i consumi.  Così i mercati avvizziscono, ponendo sotto ulteriore pressione la redditività delle imprese nazionali.  Tale combinazione rende qualsiasi paese che segua un politica simile un produttore ad alto costo e, in conseguenza, un paese meno competitivo sui mercati globali.

Questo tipo di pianificazione finanziaria – e la sua parallela svolta fiscale – porta alla deindustrializzazione.  Creando denaro a corso forzoso da parte della BCE o del FMI si lascia il debito al suo posto, mantenendo la ricchezza e il controllo dell’economia nelle mani del settore finanziario.  Le banche possono ricevere il pagamento dei debiti incorsi per proprietà eccessivamente gravate da mutui ipotecari solo se i debitori sono sollevati da qualche tassa sul patrimonio immobiliare.  Imprese industriali a corto di disponibilità a causa dei debiti possono rimborsarli solo ridimensionando gli impegni pensionistici, l’assistenza sanitaria e gli stipendi dei propri dipendenti, o riducendo i pagamenti di imposte e tasse al governo. In pratica “onorare i debiti” finisce per tradursi in una deflazione da  debito e in una stretta economica generale.

Questo è il piano economico dei finanzieri.  Ma lasciare la politica fiscale e la pianificazione centralizzata nelle mani dei banchieri finisce per essere l’opposto di ciò su cui verteva l’economia del libero mercato degli ultimi secoli.  L’obiettivo classico consisteva nel minimizzare il debito generale, nel tassare le rendite fondiarie e da risorse naturali e nel mantenere i prezzi monopolistici in linea con gli effettivi costi di produzione (“valori”).  I banchieri hanno prestato sempre più a valere sulle stesse entrate che gli economisti del libero mercato consideravano la base fiscale naturale.

Dunque qualcosa deve cedere.  Si tratterà degli ultimi secoli di filosofia economica liberale del libero mercato, con la cessione ai banchieri della pianificazione del surplus economico? O la società riaffermerà la filosofia economica classica e i principi dell’Era Progressista, e riaffermerà il modello sociale dei mercati finanziati intesi a promuovere la crescita a lungo termine con minimi costi per la vita e l’imprenditoria?

Almeno nei paesi più pesantemente indebitati, gli elettori europei si stanno risvegliando davanti a un colpo di stato oligarchico in cui la tassazione e la pianificazione e il controllo dei bilanci stanno passando nelle mani di dirigenti nominati dal cartello internazionale dei banchieri.  Questo risultato è l’opposto di tutto ciò su cui si è incentrata l’economia del libero mercato degli ultimi secoli.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul Frankfurter Allgemeine Zeitung del 3 dicembre 2011 sotto il titolo “Der Krieg der Banken gegen das Volk” [La guerra delle banche contro il popolo].

 

MICHAEL HUDSON è un ex economista di Wall Street. Professore insigne di ricerca all’Università del Missouri a Kansas City (UMKC) è autore di numerosi libri tra cui  ‘Superimperialism: The Economic Strategy of American Empire’ [Il super-imperialismo: strategia economica dell’impero statunitense] (nuova edizione, Pluto Press, 2002). Ha contribuito a ‘Hopeless: Barack Obama and the Politics of Illusion’ [Senza speranza: Barack Obama e la politica dell’illusione] in uscita presso AK Press.  Può essere raggiunto sul suo sito web a mh@michael-hudson.com

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/europe-s-deadly-transition-from-social-democracy-to-oligarchy-by-michael-hudson

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Uccidere l’euro

04 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in America, Economia, Europa, Paul Krugman

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Austria, BCE, bolla, crisi, debito, default, deficit, Economia, euro, Finlandia, grecia, inflazione, politiche espansive, prezzi, ripresa, sistema bancario, stagnazione, usa

di Paul Krugman  – 03 dicembre  2011

L’euro può essere salvato? Non molto tempo fa ci veniva detto che i possibili peggiori sviluppi consistevano in un’inadempienza della Grecia. Ora sembra sin troppo probabile un disastro molto più vasto.

E’ vero, la pressione dei mercati si è allentata un po’ mercoledì, dopo che le banche centrali hanno fatto un reboante annuncio di linee di credito ampliate (il che, di fatto, non produrrà quasi alcuna differenza).  Ma persino gli ottimisti ora vedono l’Europa avviata alla recessione, mentre i pessimisti ammoniscono che l’euro può diventare l’epicentro di un’altra crisi finanziaria globale.

Com’è che le cose sono andate in modo così sbagliato?  La risposta che sentirete di continuo è che la crisi dell’euro è stata causata dall’irresponsabilità fiscale.  Accendete la televisione e probabilmente vi ritroverete con qualche guru che dichiara che se gli Stati Uniti non tagliano le spese finiremo come la Grecia. La GRECIA!

Ma è vero quasi il contrario.  Anche se i capi dell’Europa continuano a insistere che il problema è la troppa spese delle nazioni debitrici, il problema vero è che c’è troppo poca spesa nell’Europa nel suo complesso.  E i loro tentativi di sistemare le cose chiedendo un’austerità sempre più severa hanno svolto un ruolo principale nel rendere peggiore la situazione.

La storia sin qui:  negli anni che hanno portato alla crisi del 2008 l’Europa, come gli Stati Uniti, ha avuto un sistema bancario al galoppo e un rapido accumulo del debito.  Nel caso dell’Europa, tuttavia, molti dei prestiti sono stati oltreconfine, come ad esempio fondi tedeschi affluiti in Europa meridionale.  Questi prestiti erano percepiti come a basso rischio.  Ehi!, i beneficiari stavano tutti nell’euro, cosa avrebbe potuto andar storto?

Per la maggior parte, a proposito, questi prestiti sono andati al settore privato, non ai governi.  Solo la Grecia era incorsa in ampi deficit di bilancio in quegli anni buoni; la Spagna di fatto aveva un surplus alla vigilia della crisi.

Poi è scoppiata la bolla.  La spesa privata nelle nazioni debitrici è caduta a picco. E la domanda che i capi europei avrebbero dovuto porsi era come evitare che quei tagli alle spese causassero una flessione di livello europeo.

Hanno invece reagito all’inevitabile crescita dei deficit guidata dalla recessione chiedendo che tutti i governi – non solo quelli delle nazioni debitrici – tagliassero le spese e aumentassero le tasse.  Avvertimenti che ciò avrebbe aggravato il crollo erano ignorati.  “L’idea che le misure d’austerità possano innescare la stagnazione è scorretta” dichiarava Jean-Claude Trichet, allora presidente della Banca Centrale Europea.  Perché? Perché “politiche che ispirino fiducia favoriranno, e non intralceranno, la ripresa economica.”

Ma la favola della fiducia è stata uno spettacolo mancato.

Aspettate, c’è di più.  Negli anni del denaro facile, i prezzi e i salari nell’Europa meridionale erano aumentati in modo significativamente più rapido che nell’Europa settentrionale. Questa diversità deve ora essere invertita, o con prezzi in discesa al sud o con prezzi in ascesa al nord.  Il che comporta che, se l’Europa meridionale viene costretta ad aprirsi la via alla competitività deflazionando, pagherà un caro prezzo in termini di occupazione e peggiorerà i propri problemi del debito.  Le probabilità di successo sarebbe molto maggiori se la diversità fosse colmata attraverso un aumento dei prezzi al nord.

Ma per chiudere il divario aumentando i prezzi al nord, chi decide della politica dovrebbe accettare un’inflazione temporaneamente più elevata per l’area euro nel suo complesso.  Ed è stato detto chiaramente che non sarà fatto.  Lo scorso aprile, in effetti, la Banca Centrale Europea ha cominciato ad aumentare i tassi d’interesse, anche se era ovvio alla maggior parte degli osservatori che l’inflazione sottostante era, caso mai, troppo bassa.

E probabilmente non è una coincidenza che aprile sia stato anche il periodo in cui la crisi dell’euro è entrata nella sua nuova e più tremenda fase.  Lasciamo perdere la Grecia che per l’Europa è circa quel che Miami e dintorni è per gli Stati Uniti.  A questo punto i mercati hanno perso la fiducia nell’euro nel suo complesso, spingendo al rialzo i tassi d’interesse anche di paesi come l’Austria e la Finlandia che certamente non sono noti per dissolutezza.  E non è difficile vedere il perché.  La combinazione di un’austerità per tutti e di una banca centrale morbosamente ossessionata dall’inflazione rende sostanzialmente impossibile ai paesi indebitati sfuggire alla trappola del debito ed è, perciò, una ricetta per diffuse inadempienze, corse alle banche e un collasso finanziario generale.

Spero, per il bene nostro e loro, che gli europei cambieranno corso prima che sia troppo tardi.  Ma, per essere onesto, non credo che lo faranno.  In effetti è molto più probabile che li seguiremo lungo la via verso la rovina.

Poiché negli Stati Uniti, come in Europa, l’economia è trascinata in basso da debitori tormentati, nel nostro caso principalmente i proprietari di abitazioni.  E anche al riguardo noi abbiamo un bisogno disperato di politiche monetaria e fiscali espansive a sostegno dell’economia, mentre tali debitori lottano per recuperare la salute finanziaria.  Tuttavia, come in Europa, il dibattito pubblico è dominato da rimproveri per il debito e ossessioni per l’inflazione.

Così la prossima volta che sentite qualcuno affermare che se non taglieremo la spesa ci trasformeremo nella Grecia, la vostra risposta dovrebbe essere che è proprio se taglieremo la spesa mentre l’economia è ancora in depressione che ci trasformeremo nell’Europa. Di fatto, siamo sulla buona strada.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/killing-the-euro-by-paul-krugman

Fonte: The New York Times

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Crisi dell’Eurozona – Domande e risposte

20 domenica Nov 2011

Posted by Redazione in Economia, Ed Lewis, Europa, Hugo Radice

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di Hugo Radice e Ed Lewis – 19 novembre 2011

L’economista politico Hugo Radice è membro a vita della Scuola di Studi Internazionali e Politici all’Università di Leeds.  In un’intervista a Ed Lewis del New Left Project [NLF – Progetto della Nuova Sinistra] affronta una serie di domande sull’intensificarsi della crisi nell’Eurozona.

Ci viene detto che l’Eurozona si confronta con una crisi del debito sovrano. E’ vero e, se lo è, cosa significa?

Sì, è vero. La crisi è incentrata sull’indisponibilità degli investitori globali ad acquistare titoli denominati in euro emessi da governi dell’Eurozona che si ritiene abbiano accumulato livelli eccessivi di debito sovrano. Giorno per giorno la prova di questa indisponibilità è riflessa dai prezzi di mercato dei titoli già emessi da questi governi.

Un tema di discussione virtualmente universale nei media inglesi è che i problemi che l’Europa ora affronta sono causati significativamente dagli enormi debiti assunti dagli stati greco e italiano al fine di finanziare gli alti livelli di spesa per l’assistenza e per il settore pubblico.  Il crollo finanziario del 2008 a volte compare sullo sfondo delle discussioni; le cause più profonde di esso (ad esempio la disuguaglianza di reddito) sono virtualmente invisibili.  Qual è la tua valutazione della diagnosi convenzionale della crisi? Cosa direbbero dei media più onesti?

La diagnosi convenzionale è fermamente basata sull’idea che i mercati “liberi” – liberi, cioè, dall’interferenza o dalla regolamentazione pubbliche – sono naturalmente efficienti, intendendo con ciò che essi tendono a dare una valutazione “reale” delle attività finanziarie.  Keynes giustamente fece notare che la maggior parte degli intermediari si limita a seguire il gregge; così se una percentuale sufficiente di loro pensa che il governo greco non possa o non voglia onorare il servizio del debito e il programma di rimborso, allora diventa una profezia che si autoavvera. Ciò nonostante devono esserci fatti oggettivi all’avvio di questo processo di giudizio collettivo. In questo caso il “fatto oggettivo” è che il crollo del 2008-9 ha spinto alcuni stati ‘periferici’ dell’Eurozona a livelli di debito pubblico che erano chiaramente molto più difficili da onorare di quelli della Germania.  Per i mercati ha avuto allora senso chiedere il pagamento di tassi di interesse molto più alti ai paesi periferici, in confronto a quelli richiesti alla Germania (o all’Inghilterra, quanto a questo).

I media sicuramente devono giustificare la visione convenzionale.  Quando singoli o banche hanno prestato fondi al governo greco negli anni precedenti la crisi, è stato perché in quel momento i finanziatori ritenevano che i titoli greci fossero l’investimento migliore (e più redditizio) a disposizione. La “tosatura”, termine con cui si intende la disponibilità ad accettare un valore dei titoli inferiore al nominale quando scadono per il rimborso, riflette la necessità che tali finanziatori si assumano la responsabilità dei loro precedenti errori di giudizio.  Più in generale, in questo caso specifico, dobbiamo chiederci perché non c’erano opportunità di investimento più redditizie in Germania, se l’economia di quel paese è un esempio così brillante di buona amministrazione politica ed economica.  O, quanto a questo, perché non hanno investito nella produzione di beni e servizi nella periferia dell’Europa, piuttosto che in attività finanziarie e in speculazioni immobiliari.

Una delle principali ragioni per questo comportamento degli investitori è la globalizzazione della finanza. Se sei costretto a investire solo nel tuo paese, puoi tenere sotto controllo molto più facilmente  le prospettive delle diverse parti dell’economia. Ma l’esistenza dei mercati globali significa che, anziché spendere un mucchio di soldi per scoprire quali siano le effettive prospettive dei, diciamo, titoli del governo greco, puoi ridurre il rischio che deriva dalla tua ignoranza diversificando le tue scommesse, comprando titoli di molti governi diversi. Inoltre la crescente disponibilità e i costi in caduta dei mercati globali dei titoli significano che puoi (pensi di potere) sempre sbolognare i titoli greci se cominciano ad apparire inaffidabili e tenerti stretti gli altri e più sicuri, diciamo, titoli francesi. In breve, la globalizzazione riduce la competenza media degli investitori e aumenta la loro capacità di autoilludersi; offre anche un ambiente ideale al contagio, nel quale le dicerie si trasformano molto velocemente in realtà.

Dici che parte della responsabilità della crisi del debito va attribuita agli investitori che hanno mal valutato la redditività dei titoli greci. Ma la questione della responsabilità su cui ci si concentra ha a che vedere con la spesa pubblica greca e italiana.  C’è stata dell’irresponsabilità da parte di questi stati riguardo alla spesa pubblica eccessivamente generosa?

Per essere un po’ più precisi gli investitori hanno mal valutato il rischio dei titoli greci, cioè la possibilità che potessero non essere onorati e rimborsati secondo i termini in base ai quali erano stati emessi. Ma, sì, i governi greco e italiano sono stati colpevoli.  Sapevano che sin dal Trattato di Maastricht (sottoscritto nel 1993) gli stati membri della UE erano tenuti a limitare il loro indebitamento al 60% del PIL.  Anche se la misura in cui un qualsiasi particolare livello è sostenibile dipende da variabili imprevedibili come il tasso di crescita economica e il tasso d’inflazione, in una crisi questi fattori passano in secondo piano rispetto al sentimento del mercato, e il limite del 60% è da molto tempo accettato dai mercati obbligazionari come se fosse un limite preciso. Il problema è che un notevole numero di stati della UE ha infranto quel limite,  alcuni (come il Belgio e l’Italia) per molti anni, senza subire conseguenze; c’è stato perciò un certo grado di compiacenza tra finanziatori e debitori durante gli anni del denaro facile sino al 2008.  In breve, il limite del 60% è “irrazionale” in tale forma semplice, ma ha un effetto molto reale una volta che la fiducia del mercato è persa.

C’è stata molta discussione sul fatto che i paesi non onorino i loro debiti. Prima di concentrarci sui particolari puoi dirci cosa comportano le inadempienze dei governi, chi in generale si trova a beneficiare degli inadempimenti e chi tende a perderci. E ci sono modi diversi di finire in mora che comportano conseguenze significativamente diverse?

L’inadempienza si verifica quando un governo non rispetta i termini del contratto stipulato con i finanziatori originali.  Anche se in casi estremi ciò può implicare l’incapacità del governo di effettuare un pagamento di interessi alla scadenza (come il Messico nel 1982), più tipicamente si verifica quando il governo non è in grado di effettuare il rimborso richiesto alla fine del periodo del finanziamento, perché non dispone della liquidità (ad esempio riveniente dalle entrate fiscali) e non riesce a raccogliere altri fondi (è questo che si intende con “rinnovare” i prestiti). Storicamente, quasi ogni governo in un’occasione o nell’altra è risultato inadempiente riguardo ai propri debiti; l’Inghilterra è una eccezione molto rara.  L’inadempienza può assumere due forme principali: o l’inadempienza è negoziata, o “regolare”, il che significa che il finanziatore accetta una certa misura di responsabilità per aver “prestato in eccesso” oppure è unilaterale, che è il caso in cui il governo semplicemente non paga. In quest’ultimo caso la conseguenza è solitamente che per alcuni anni – spesso fino a quando non c’è una significativo cambiamento nel regime dello stato inadempiente o dell’ambiente economico o geopolitico (ad esempio la scoperta di risorse naturali) – il governo semplicemente non è in grado di ottenere ulteriori finanziamenti.  Ma si può finire in qualche modo a metà strada: è il caso dell’inadempienza dell’Argentina nel 2002, e anche se la maggior parte dei detentori stranieri del debito governativo argentino ha accettato una significativa perdita, alcuni hanno rifiutato di farlo e in conseguenza il governo argentino è tuttora impossibilitato a raccogliere finanziamenti all’estero (anche se è in grado di indebitarsi all’interno).

E’ già in atto un piano per una “tosatura” del debito greco.  Concordi con alcuni che a sinistra affermano che la Grecia dovrebbe rendersi totalmente inadempiente circa i propri debiti? E ciò comporterebbe anche uscire dall’Eurozona?

Se la Grecia si dichiarasse totalmente inadempiente, senza un previo accordo con i suoi creditori, ciò porterebbe al caos e al collasso nel sistema finanziario europeo. Anche le banche europee (comprese quelle inglesi) sarebbero in grado di assorbire il costo attingendo alle proprie esistenti riserve di capitale, si ritiene che “i mercati” presumerebbero immediatamente che il Portogallo o la Spagna o l’Italia si sentirebbero allora liberi di fare la stessa cosa.  Ma considerata la piccolissima dimensione dell’economia greca (2% dell’Eurozona) un’inadempienza totale concordata è perfettamente fattibile, se gli altri membri dell’Eurozona (cioè fondamentalmente la Germania) fossero disponibili ad accettarla.  E anche se un’inadempienza unilaterale totale condurrebbe indubbiamente (nel caos che ne seguirebbe) all’uscita della Grecia dall’Eurozona, un’inadempienza concordata potrebbe e dovrebbe assumere la forma di una specie di Piano Marshall dell’Eurozona, sulla falsariga degli aiuti USA all’Europa concordati nel 1947.

E l’Italia? Quali sarebbero le implicazioni di un’inadempienza o dell’uscita dell’Italia dall’Eurozona?

L’Italia ha un’economia molto più grande di quella greca.  E’ uno dei principali partner commerciali della Germania. Se si rendesse inadempiente unilateralmente senza l’accordo con i creditori, l’Eurozona crollerebbe sicuramente. Una riduzione negoziata del debito nel contesto di un “Piano Marshall dell’Eurozona” sarebbe fattibile, ma richiederebbe una radicale ricostruzione delle istituzioni della zona.

Restano intense le pressioni della Germania per consentire che la Banca Centrale Europea agisca da prestatore di ultima istanza. Ma il presupposto sottostante tali pressioni è che la BCE sarebbe allora nella condizione di porre un limite inferiore alla crisi.  Pensi che tale presupposto sia corretto o la dimensione della crisi è tale che nessuna banca centrale sarebbe in grado di calmare i detentori di obbligazioni?

Il presupposto è effettivamente corretto. La BCE potrebbe allora fornire garanzie di liquidità sia ai membri dell’Eurozona sia alle loro banche. Ma i mercati obbligazionari andrebbero convinti che gli stati membri fossero permanentemente impegnati alla nuova architettura che ciò richiederebbe, e specialmente all’”unione fiscale” che renderebbe credibile la cosa avendo entrate fiscali a livello della zona a puntellare i finanziamenti della BCE.

Il governo inglese e i suoi sostenitori hanno martellato sui resoconti convenzionali al fine di dipingere i problemi che affliggono la Grecia e l’Italia come conferma della saggezza delle loro misure d’austerità.  L’agenzia di valutazione del credito Standard & Poor’s è apparentemente d’accordo, affermando che la sua decisione di mantenere la valutazione della tripla A per il debito inglese a lungo termine si troverebbe di fronte a una “pressione al ribasso” se il governo cambiasse corso sull’austerità. Qual è la tua opinione al riguardo?

Il fatto che il governo inglese e Standard & Poor’s condividano la stessa posizione fornisce una prova chiara che c’è una strategia a livello europeo, in realtà a livello mondiale, per far pagare ai cittadini comuni gli errori del settore dei servizi finanziari, trasferendo tutte le responsabilità sui governi e sulle famiglie. Specialmente in considerazione della massiccia redistribuzione dai poveri ai ricchi che ha avuto luogo in quasi ogni paese negli ultimi trent’anni (con la Cina che è soltanto l’esempio più straordinario), l’intero problema avrebbe potuto essere risolto all’istante espropriando una piccola percentuale della ricchezza dell’1% più ricco.  Questa è una verità fondamentale del movimento Occupy.

Naturalmente le agenzie di valutazione del credito, come Standard & Poor’s, sono dipinte come aventi un interesse politicamente neutrale alla capacità degli stati di rimborsare i loro debiti. Ma tu stai dicendo che la loro devozione all’austerità svela il loro programma politico, giusto?

Non penso che le agenzie di valutazione abbiano un programma politico esplicito. Piuttosto riflettono il programma dei loro padroni, che sono le grandi istituzioni finanziarie globali che finanziano il loro lavoro (e dietro di loro, a loro volta, i super-ricchi).

La sinistra, naturalmente, ha avvertito che la probabilità di una recessione a doppio picco è aumentata dal pacchetto d’austerità inglese.  Sei d’accordo su tale diagnosi? Come vedi il futuro dell’economia se proseguiamo lungo il nostro percorso attuale?

Sì, ora sono certamente d’accordo su questo. Per tutto il 2010 e sino agli inizi del 2011 la mia idea era che la spinta della ripresa in Asia e in altre economie “emergenti”, e lo stimolo di una spesa pubblica extra in Europa e in Nord America, sarebbero state sufficienti a mantenere in moto una lenta ripresa. Ma la crisi del debito dell’Eurozona ha avuto un effetto raggelante sulle aspettative di ripresa economica dovunque, compresa l’Asia, e ora sembra esserci poca speranza di evitare un doppio picco.  L’unico modo per gestire la cosa ora (almeno all’interno del capitalismo) consiste in un programma coordinato di inversione dell’austerità e di investimento dei fondi pubblici in energia verde, infrastrutture, istruzioni e edilizia abitativa, creando posti di lavoro e portando a un recupero della fiducia.

Quello che accade ora crea un’opportunità per la sinistra e, in caso affermativo, che tipo di reazione ritieni sarebbe efficace?

Crea opportunità, naturalmente; il problema sta nel tradurre tali opportunità in risultati.  Dopo tre anni di crisi, è chiaro che i popoli europei restano convinti che sono i loro banchieri e politici a dover essere considerati responsabili, e non i lavoratori, che si tratti di quelli del settore pubblico o di quelli del settore privato.  Ma l’attuale sistema di rappresentanza politica è così profondamente compromesso che nessuno dei maggiori partiti di tutti i paesi può accettare una simile conclusione radicale. In realtà la sostituzione di Papandreou in Grecia e di Berlusconi in Italia da parte di banchieri-economisti dimostra che la democrazia parlamentare, in quanto tale, è effettivamente sospesa, a favore del governo dei mercati obbligazionari.  E dietro i mercati obbligazionari sta l’oligarchia globale dei super-ricchi.

In queste circostanze, sta ai cittadini proporre alternative che aprano il sistema politico e la sua cultura. Per ottenere seguito presso i media e i concittadini, queste alternative devono affrontare bisogni sociali specifici, e offrire piani concreti per la loro attuazione.  Il recente Piano B elaborato dalla New Political Economy Network  [Rete per una nuova politica economica] è un buon inizio al riguardo in Inghilterra. Altrove in Europa, la rete ATTAC e il gruppo Euromemorandum stanno facendo anch’essi un eccellente lavoro.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/eurozone-crisis-q-and-a-by-hugo-radice

Fonte: New Left Project

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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La Troika ai PIIGS: zitti e prendete la medicina

14 lunedì Nov 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Mike Epitropoulos

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BCE, FMI, grecia, Italia, Karatzaferis, LAOS, LOukas Papademos, Monti, Nuova Democrazia, Papandreou, Pasok, PIGS, PIIGS, tagli, TINA, treek, troika, UE

di Mike Epitropoulos  – 13 novembre 2011

La stampa convenzionale di tutto il mondo si sta occupando giubilante del cambiamento ai vertici in Grecia e in Italia, mentre i popoli di questi paesi di altri PIIGS * continuano a vedersi imposte aspre misure d’austerità.  [ *PIIGS: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna – l’acronimo, inizialmente PIGS, prima dell’inclusione dell’Italia, suonava ‘maiali’- n.d.t.]  In Grecia il nuovo primo ministro è Loukas Papademos, un ex vicepresidente della Banca Centrale Europea (BCE), ex governatore della banca centrale greca e partecipante alla Commissione Trilaterale.  In Italia è l’economista ed ex commissario europeo Mario Monti, che sostituisce Silvio Berlusconi come primo ministro.

In entrambi i casi la Troika – UE, BCE e FMI – ha esercitato pesanti pressioni su questi governi già per conto loro conservatori per aumentare la velocità e la severità dei tagli alla spesa pubblica, dei tagli al settore pubblico e agli stipendi, e naturalmente delle privatizzazioni.  La storia della UE del ‘prima l’economia e poi la politica’ è di nuovo in bella mostra.  La democrazia (di ogni genere) è sotto attacco aperto.

In Grecia le danze si sono aperte quanto il primo ministro del PASOK, George A. Papandreou, ha sconvolto il mondo politico chiedendo un referendum nazionale sull’accordo che aveva raggiunto con la Troika il 26 ottobre, che aveva calmato i mercati finanziari, assieme al voto di fiducia al suo governo.  Alcuni in occidente sono rimasti impressionati dal suo impulso “democratico”, ma chiunque abbia remota familiarità con la Grecia sa che quello cui si è assistito è stato un ‘treek’ (trucco). La domanda immediata in casi simili deve essere “quali sono i motivi e le conseguenze e le reazioni al referendum?”

Sino a quel punto tutti i partiti d’opposizione del parlamento greco erano contro il referendum e sollecitavano elezioni. Il referendum è stato negato nel giro di un giorno.  Ma la richiesta di un referendum ha smascherato Nuova Democrazia (ND), il ramo conservatore del duopolio partitico greco (l’altro partito ‘democratico’ è il PASOK). Il capo di ND, Antonis Samaras, è venuto fuori a chiedere un “governo di transizione” per approvare l’accordo del 26 ottobre – legando così la Grecia politicamente e giuridicamente all’austerità della Troika – e poi tenere elezioni generali.

Tutto questo è un raggirare il popolo.  I greci sono costantemente nelle strade da maggio, rispecchiando gli indignados spagnoli e i dimostranti italiani, come precursori del nostro stesso movimento OWS.

Il leggendario cantante/compositore greco Mikis Theodorakis, si è chiesto ad alta voce se il “treek” del referendum e il voto di fiducia di Papandreou fosse un segno che il primo ministro aveva totalmente perso la ragione oppure se ciò rappresentasse l’azione di “consulenti internazionali” il cui unico scopo consiste nel disattivare qualsiasi impulso popolare democratico in Grecia e suggellare l’accordo a favore delle banche e della Troika.

Il nuovo ministro greco, Loukas Papademos, non ha assolutamente alcuna base politica popolare. Contrariamente ai lusinghieri articoli della stampa occidentale e finanziaria, questo “governo di unità” non è affatto rappresentativo dello spirito del popolo greco, anche se si volessero considerare soltanto i numeri dei sondaggi politici convenzionali.  Il governo Papademos è composto dal duopolio partitico greco – PASOK e ND – e dai nazionalisti di estrema destra di George Karatzaferis, il LAOS.  Essi si oppongono tutti con veemenza a qualsiasi genere di partecipazione popolare all’assunzione di qualsiasi decisione riguardante le misure d’austerità e l’accordo del 26 ottobre e il prossimo bilancio nazionale.

I media greci continuano a presentare le notizie nello spirito del concetto di Margaret Thatcher  del “non c’è alternativa”, T.I.N.A. [there is no alternative]. Nel presentare il nuovo gabinetto Papademos si rivolgono ai propri giornalisti a Bruxelles, New York e Washington dove essi riferiscono di come siano felici gli euro-tecnocrati, gli investitori di Wall Street e gli specialisti del FMI. Dalla Grecia intervistano i presidenti della Confindustria greca (SEB), della Confcommercio greca (ESEE) e della Camera di Commercio e Industria di Atene (EBEA). Tutto ciò descrivendo la totale approvazione dell’élite, dell’ “1%”, se si vuole. E al tempo stesso la totale indifferenza per il popolo, che per la maggior parte non è responsabile del disastro in cui si trova.

La Troika  – UE, BCE, FMI – sta apertamente usano il duopolio partitico per  dirottare la Grecia con i neonazisti in quella che sta diventando una tragedia della democrazia. Dichiarano “non democratica” ogni e qualsiasi opposizione popolare alle proprie decisioni, al proprio dominio e alla propria legittimità, etichettando questo come un “tempo per l’unità nazionale”. O si è “con loro  o contro di loro”. Risuona qualche campanello?

Gli obietti a breve termine sono di una chiarezza cristallina: Austerità, Privatizzazioni e Smantellamento dello stato sociale greco.  Questa è una versione moderna dei condizionamenti del FMI, compresi i giri di vite sull’opposizione politica, anche se in modi nuovi, di maggior ‘finezza’.

Quel che è davvero buffo è che gli economisti e gli esperti tradizionali continuano a dire che anche attuando tutte queste severe misure, con la tosatura del 50%, la Grecia non verrà tirata fuori dal debito per anni a venire.

Dopo quel che abbiamo passato, come e perché dovremmo essere incantati e felici di avere economisti, banchieri e tecnocrati che salgono al potere? Essi sono precisamente gli architetti dell’attuale crisi capitalista globale. Dovrebbero essere messi al posto che loro compete, parecchi addirittura in galera.

Come tratterà il governo Papademos i manifestanti di Piazza Syntagma? Molti amici, la famiglia e i colleghi in Grecia si stanno interrogando  e preoccupando  riguardo a come sarà gestita l’imminente commemorazione, il 17 novembre, della rivolta del 1974 contro la giunta militare. Dovremmo davvero attenderci che i cittadini greci comuni improvvisamente abbraccino un governo essenzialmente imposto?

Sta a tutti noi prestare grande attenzione a come i nuovi banchieri-tecnocrati in Grecia (Papademos) e in Italia (Monti) gestiranno sia il governo politico sia quello economico.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/troika-to-piigs-shut-up-and-take-your-medicine-by-mike-epitropoulos

traduzione di Giuseppe Volpe

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La Grecia, patria della democrazia, privata di un voto

13 domenica Nov 2011

Posted by Redazione in Dean Baker, Economia, Europa

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Argentina, austerità, BCE, default, FMI, Francia, Germania, Goldman Sachs, grecia, inadempienza, Papandreou, pensioni, referendum, salvataggio, swap, troika, UE

di Dean Baker – 12 novembre 2011

Il primo ministro greco George Papandreou ha scatenato una tempesta la settimana scorsa quando ha proposto di sottoporre a un voto popolare il pacchetto d’austerità progettato dalla ‘troika’ (FMI, BCE e UE). L’idea che il popolo greco potesse essere direttamente in grado di decidere del proprio futuro ha terrorizzato i leader d’Europa e del mondo.  I mercati finanziari sono entrati nel panico, facendo precipitare le azioni ed esplodere i tassi.

Tuttavia, entro la fine della settimana, le cose sono tornate sotto controllo. I capi della Francia e della Germania hanno apparentemente impartito una lezione a Papandreou ed egli ha ritirato i piani del referendum. Mentre il governo sta collassando in Grecia il mondo può ora essere rassicurato circa il fatto che il popolo greco non avrà la possibilità di votare sul proprio futuro.

Questa è una disgrazia, poiché significa che il futuro della Grecia sarà probabilmente deciso da politici che possono non avere gli interessi del popolo greco al primo posto nella propria mente.  Secondo le loro stesse previsioni, il pacchetto d’austerità progettato dalla troika promette un decennio d’austerità, con alta disoccupazione, crollo delle paghe reali e forti riduzioni dei servizi pubblici e delle pensioni. E le loro previsioni si sono costantemente dimostrate eccessivamente ottimistiche.

Se ne avessero avuta la possibilità, i greci avrebbero avallato questo tipo di pacchetto d’austerità? La risposta dipende naturalmente dall’alternativa.

La via alternativa quasi certamente si traduce in un’inadempienza caotica e in un abbandono dell’euro.  Non è un bel quadro.  Se la Grecia seguisse la strada  dell’Argentina, l’ultimo paese a operare una rottura simile, allora probabilmente l’economia finirebbe per un certo tempo in caduta libera.  La durata di tale caduta libera dipenderebbe da quanto ci vorrebbe al governo per adottare una nuova moneta e costruire una qualche formula provvisoria per convertire in tale nuova moneta i contratti denominati in euro.

In Argentina tale periodo è durato tre mesi, con altri tre mesi di stagnazione prima che l’economia iniziasse un boom sostenuto. Il processo in Grecia potrebbe essere più difficile, sia perché il paese è legato in modo più esteso ai paesi dell’eurozona, sia perché l’Argentina aveva almeno la propria moneta.

Tuttavia, persino nel caso della Grecia, una tale rottura non sarebbe impossibile. Ci sarebbe il desiderio della nuova moneta. Il governo deve semplicemente imporre una nuova tassa sulla proprietà che sia pagabile solo nella nuova moneta.

La gente vorrà acquistare proprietà fronte mare nelle isole greche  ai piedi dell’Acropoli e così ci sarebbe richiesta della nuova moneta.  Inoltre la prospettiva di un’esplosione del turismo, una volta che i prezzi greci scendano del 50% rispetto all’Italia, alla Spagna e ad altre destinazioni popolari farà molto per sostenere l’economia greca.

Se il popolo greco potesse convincersi che questa sarebbe un’alternativa plausibile, allora farebbe alcune richieste alla troika.  In primo luogo potrebbe dire che dieci anni d’austerità continua non sono accettabili.

Sì, i greci si sono indebitati avventatamente, ma le banche europee sono state anch’esse avventate nel finanziarli. E’ vero che il governo greco ha mentito sulla situazione del proprio bilancio. Ma la voce che circola negli ambienti della finanza è che tutti sapevano che i greci stavano mentendo e hanno partecipato alla commedia.  La Goldman Sachs ha addirittura costruito un ingegnoso swap  [contratto a copertura del rischio di inadempienza – n.d.t.] che le ha consentito di trarre profitto dalle bugie.

Invece che sull’austerità, il popolo greco potrebbe insistere affinché la BCE si concentrasse su un programma di crescita.  Ciò significherebbe che la BCE dovrebbe abbandonare la sua ossessione di un obiettivo di inflazione al 2% e cominciare ad operare come una banca centrale vera.  La BCE potrebbe cominciare con il garantire il debito di Italia e Spagna, entrambi paesi che rischiano una spirale mortale di inadempienza per un carico crescente di debito/interessi, se non vi fosse una garanzia credibile a copertura dei loro debiti.

Potrebbe anche cominciare a promuovere politiche più espansionistiche. E’ sempre difficile ammettere di avere sbagliato, ma la politica BCE-FMI di crescita attraverso l’austerità non funziona.  Ogni mese abbiamo prova di questo fatto, con dati che dimostrano che la crescita è inferiore alle attese e che disoccupazione è più elevata delle previsioni.  Ci sono altre prove che potrebbero far sì che questa gente cambi idea prima di distruggere le economie europee? Forse il popolo greco avrebbe potuto costringere la troika a guardare davvero i dati.

Ci sarebbe anche altro potenziale divertimento in questi negoziati. Il popolo greco, che è già stato costretto ad accettare un’età di pensionamento più elevata e pensioni inferiori, potrebbe suggerire la stessa cosa per gli economisti del FMI.  Questi tizi così duramente lavoratori possono spesso andare in pensione quando sono sulla cinquantina.  Invece delle misere pensioni greche di un centinaio di euro al mese che hanno fatto così arrabbiare i banchieri, i dipendenti del FMI possono intascare fino a 10.000 euro al mese di pensione.  Forse le pensioni del FMI sarebbero emerse nel dibattito se il popolo greco avesse davvero dovuto essere convinto che un salvataggio era per il suo bene.

Ma la possibilità di far entrare il popolo greco nella discussione è stata frettolosamente negata.  Siamo di nuovo a una conversazione tra banchieri e politici. Non c’è spazio per la democrazia in questa storia, ma possiamo continuare a sognare.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/greece-home-of-democracy-deprived-of-a-vote-by-dean-baker

Fonte: The Guardian

traduzione di Giuseppe Volpe

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L’italia sull’orlo del baratro a causa dell’ortodossia fiscale della BCE

12 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Mark Weisbrot

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BCE, berlusconi, crisi finanziaria, deficit, Europa, Fed, grecia, Italia, Mario Draghi, titoli di stato

di Mark Weistbrot  – 11 novembre 2011

Alcuni di noi stanno ammonendo da mesi riguardo allo scenario di crisi che sta accelerando oggi in Europa.  Io ho fatto notare  che le autorità europee stavano spingendo l’Italia su un sentiero pericoloso, in modo simile a quanto avevano fatto con la Grecia.  La formula è mortale: costringere a stringere i cordoni del bilancio un’economia che sta già avvizzendo o è sull’orlo della recessione. Ciò blocca ulteriormente l’economia, facendo sì che le entrate del governo crollino e rendendo necessarie ulteriori restrizioni, necessarie per raggiungere il deficit di bilancio individuato come obiettivo.  I costi di indebitamento del governo salgono perché i mercati capiscono in che direzione vanno le cose.  Ciò rende ancor più difficile raggiungere gli obiettivi, e l’intero caos può finire fuori controllo.

Mercoledì i mercati finanziari hanno reagito violentemente a questo processo in Italia, con rendimenti dei titoli del governo italiano sia a dieci, sia a due anni, schizzati oltre il 7%.  Facciamo un po’ di conti. Un anno fa l’Italia poteva finanziarsi al 4% con i titoli a dieci anni. Oggi tali rendimenti sono arrivati al 7,7%.  Si moltiplichi questa differenza (3,7%) per il 365 miliardi di euro (491 miliardi di dollari) che l’Italia deve rifinanziare l’anno prossimo.  Si arriva a 13,2 miliardi di euro (18,2 miliardi di dollari) di costi addizionali del finanziamento, ovvero a circa l’1% del PIL italiano.

L’Italia ha concordato una riduzione del deficit del 3,9% del PIL per il 2013, con circa l’1,7% di essa in da effettuare l’anno prossimo.  Il primo ministro Silvio Berlusconi ha annunciato che si dimetterà, in parte per le difficoltà politiche di realizzare questi cambiamenti in un’economia debole.  Ora si aggiunga un 1% del PIL per conseguire lo stesso obiettivo – e tenendo presente che l’obiettivo cambierà perché l’economia si contrarrà ulteriormente – e si può immaginare che l’Italia non ce la farà a raggiungere tali obiettivi.  Il che è quel che proprio adesso immaginano i mercati.

Di fatto gli operatori in titoli possono essere ancor più immaginativi di così.  Hanno notato che quando i rendimenti dei titoli di Portogallo e Grecia hanno superato il 7%  sono rapidamente schizzati a cifre a due numeri.  Quei governi sono stati poi costretti a finanziarsi presso il FMI e le autorità europee  anziché affidarsi ai mercati finanziari.

Le autorità europee non sono preparate a gestire una situazione simile. L’Italia è l’ottava economia più grande del mondo, e il suo debito di 2,6 trilioni di dollari è molto maggiore di quello di Irlanda, Portogallo, Grecia e persino Spagna messi insieme.  Le stanze di compensazione europee hanno recentemente cominciato a richiedere maggiori garanzie collaterali per il debito italiano, il che ha anch’esso innervosito i mercati.  Molto del debito italiano è detenuto da banche europee e la caduta dei prezzi dei titoli italiani causa problemi anche ai loro bilanci, aumentando il rischio di peggiorare la crisi finanziaria che già sta rallentando l’economia mondiale.

Cosa si può fare in proposito? La Banca Centrale Europea (BCE) risulta essere intervenuta pesantemente sul mercato dei titoli italiani e i suoi acquisti sono probabilmente ciò che ha ridotto un po’ dai loro picchi i rendimenti dei titoli italiani.  Ma questo non è neppur lontanamente sufficiente a risolvere la crisi. La BCE è il problema principale. E’ amministrata da persone che difendono una visione estremista della responsabilità delle banche centrali e dei governi in situazioni di crisi e di recessione.  Anche quando i fatti le contraddicono quotidianamente, si attengono testardamente alla visione secondo cui ulteriori restrizioni di bilancio ripristineranno la fiducia dei mercati finanziari e risolveranno la crisi.

I governi devono adottare “misure radicali per consolidare la finanza pubblica” ha detto martedì  il membro del comitato esecutivo della BCE, Jurgen Stark.   Ma naturalmente queste misure non faranno che gettare altra benzina sul fuoco, spingendo ulteriormente l’Europa verso la recessione ed esacerbando i problemi del debito e del bilancio delle economie più deboli dell’eurozona. E il nuovo capo della BCE, Mario Draghi, solo una settimana fa ha scartato l’idea che la banca centrale svolga un ruolo di prestatore di ultima istanza, un ruolo tradizionale delle banche centrali.

Le autorità della BCE ritengono di aver già fatto troppo acquistando 252 miliardi di dollari di titoli dell’eurozona nell’ultimo anno e mezzo.  Ma si confronti questo con la Federal Reserve, che ha creato più di 2 trilioni di dollari in sforzi per impedire che  l’economia USA affondasse nella recessione.  La BCE potrebbe por fine alla crisi intervenendo  come ha fatto la Federal Reserve negli Stati Uniti.  Ma continua a insistere sul fatto che quello non è il suo ruolo. E’ questo il cuore del problema e fino a quando tale politica non sarà invertita è probabile che l’economia europea continuerà a peggiorare.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/italy-pushed-to-the-brink-by-ecb-fiscal-orthodoxy-by-mark-weisbrot

Fonte: The Guardian

traduzione di Giuseppe Volpe

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Dov’è finita la sinistra?

06 domenica Nov 2011

Posted by Redazione in Europa, Serge Halimi

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. Partito Brasiliano del Lavoro, BCE, Benoit Hamon, Berlu8sconi, CE, Ed Miliband, Elena Panaritis, elezioni, FMI, Francois Hollande, Francois MItterand, Fronte della Sinistra, Goldman Sachs, grecia, Irlanda, JOsè Luis Zapatero, Karl Polanyi, Lionel Jospen, Margaret Thatcher, Mario Draghi, Massimo d'Alema, Merkel, Obama, ordine neoliberale, Papandreou, Partito Socialista Europeo, PCF, Portogallo, PS, Sarkozy, Sigmar Gabriel, sinistra, spagna, Sud America

 

 

 

di Serge Halimi  – 5 novembre 2011

Le proteste di Occupy Wall Street negli Stati Uniti sono anche dirette contro i rappresentanti della Street nel Partito Democratico e alla Casa Bianca.  I manifestanti probabilmente non sanno che in Francia i socialisti tuttora considerato esemplare Barack Obama perché, da presidente, diversamente dal Presidente Sarkozy, ha avuto la preveggenza di agire contro le banche.  C’è un malinteso? Quelli che non sono  disponibili o non sono in grado  di attaccare i pilastri dell’ordine neoliberale (finanziarizzazione, globalizzazione dei movimenti dei capitali e delle merci) sono tentati di personalizzare il disastro, di attribuire la crisi del capitalismo a pianificazione scadente o a cattiva gestione da parte di propri oppositori politici.  In Francia si tratta di Sarkozy, in Italia di Berlusconi, in Germania della Merkel; sono loro da condannare.  E altrove?

Altrove, e non solo negli Stati Uniti, dirigenti politici da lungo tempo considerati modelli dalla sinistra moderata si confrontano anch’essi con folle arrabbiate.  In Grecia, il presidente dell’Internazionale Socialista, George Papandreu, sta perseguendo una politica di estrema austerità; privatizzazioni, tagli ai dipendenti pubblici, e consegna della sovranità economica e sociale a una “troika” ultra-neoliberale (1). La condotta dei governi spagnolo, portoghese e sloveno ci ricorda che il termine “sinistra” è ormai così svuotato che non è più associato ad alcun contenuto politico specifico.

L’attuale portavoce del Partito Socialista Francese spiega molto chiaramente  la situazione impossibile della socialdemocrazia europea: nel suo nuovo libro Tourner la page , Benoit Hamon scrive: “Nell’Unione Europea, il Partito Socialista Europeo è storicamente associato, mediante il compromesso che lo collega alla Democrazia Cristiana, alla strategia della liberalizzazione del mercato interno e alle sue implicazioni per i diritti sociali e i servizi pubblici.  Governi socialisti hanno negoziato le misure d’austerità che l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale hanno voluto. In Spagna, Portogallo e Grecia  l’opposizione alle misure d’austerità è naturalmente diretta contro il Fondo Monetario Internazionale e la Commissione Europea, ma anche contro i governi socialisti … Parte della sinistra europea non nega più che sia necessario, come [ritiene] la destra europea, sacrificare lo stato sociale al fine di equilibrare il bilancio e compiacere i mercati … Abbiamo bloccato la marcia del progresso in numerose parti del mondo. Non posso rassegnarmi a questo.” (2)

Altri pensano che lo svilimento sia irreversibile perché è collegato alla trasformazione dei socialisti europei in un’aristocrazia e per la loro mancanza di contatto con il mondo del lavoro.

Il Partito Brasiliano del Lavoro (PT), un partito in genere moderato, ritiene che la sinistra latinoamericana dovrebbe sostituirsi alla sinistra del Vecchio Mondo, troppo capitalistica, troppo atlanticista, e non convincente nella sua pretesa di difendere gli interessi del popolo: “La dirigenza ideologica della sinistra si sta trasferendo in un’altra parte del mondo” secondo un documento per il Congresso del PT di settembre. “Il Sud America è l’esempio saliente (vedasi Latin America Pink Tide [La marea rosa dell’America Latina]) … La sinistra dei paesi europei, che ha avuto una così grande influenza sulla sinistra mondiale dagli inizi del diciannovesimo secolo, non è più riuscita a produrre una risposta adeguata alla crisi e sembra capitolare alle forze del neoliberalismo.” (3)  Il declino dell’Europa può anche segnalare la fine dell’influenza ideologica del continente in cui sono nati i sindacati, il socialismo e il comunismo. L’Europa appare ora più rassegnata di altri alla propria fine.

Una cerimonia rituale

E’ tutto finito? Gli elettori e i militanti di sinistra interessati al contenuto più che all’etichetta possono sperare di combattere la destra (anche nei paesi occidentali) quando i partiti per i quali votano si sono convertiti al neoliberalismo ma conservano il potere di vincere le elezioni?  E’ diventata una cerimonia rituale: la distinzione tra la sinistra riformista e i conservatori viene mantenuta durante la campagna elettorale mediante un’illusione ottica.  Poi, se ne ha l’opportunità, la sinistra governa il paese esattamente come i propri oppositori, facendo attenzione a non turbare l’ordine economico.

La maggior parte dei candidati di sinistra con un occhio a un posto nel governo insiste sul fatto che il cambiamento sociale è necessario, persino urgentemente necessario.  Ma per realizzare tale cambiamento devono vedere in ciò qualcosa di più di uno slogan elettorale e devono vincere le elezioni.  Ed è in quel preciso momento che la sinistra moderata fa la paternale ai “radicali” e agli altri “protestatari”.  Non si  attende un “grande dibattito” (vedasi The US left’s great debate, pag. 12 [Il grande dibattito nella sinistra USA]) né  sogna una società alternativa molto lontana dal mondo, abitata da gente eccezionale.  Per citare il dirigente socialista francese Francois Hollande, non intende “opporsi anziché tentare, frenare anziché agire, resistere invece che conquistare.” Crede che “non battere la destra significa mantenerla in vita, e questo significa sceglierla” (4).  La sinistra radicale preferirebbe, nelle parole di Hollande, “sfruttare ogni rabbia al massimo possibile” invece che “optare per il realismo” (5).

La sinistra al governo ha una briscola: ha dietro di sé, qui ed ora, gli elettori e ha una squadra professionale e impaziente di insediarsi. Ma la vittoria sulla destra non è un sostituto di un programma.  Una volta che le elezioni sono vinte, le strutture già in essere, nazionali, europee o internazionali, probabilmente limiteranno il desiderio di cambiamento espresso nel corso della campagna elettorale.  Negli USA, Obama ha potuto affermare che i gruppi di pressione dell’industria e le mosse di blocco dei Repubblicani al Congresso hanno tolto linfa allo spirito proattivo del governo (“Yes, we can” [Sì, possiamo]) nonostante il sostegno popolare.

Altrove i governi di sinistra hanno spiegato la propria prudenza, o la propria codardia, con discorsi sui limiti e sui problemi ereditati (un settore produttivo non competitivo a livello internazionale, un alto livello del debito) che hanno lasciato scarso spazio di manovra.  Come disse nel 1992 Lionel Jospin: “La nostra vita pubblica è dominata da una strana dicotomia. Da un lato il governo [socialista] è biasimato per la disoccupazione, i problemi nelle periferie, il malcontento sociale, l’estremismo della destra e la disperazione della sinistra.  Dall’altro, viene sollecitato a non abbandonare una politica economico-finanziaria che rende molto difficile gestire questi problemi” (6).

Le sue parole suonano oggi attuali e pertinenti. I socialisti le ricordano ogni volta che argomentano a favore del voto tattico: se la sinistra perde le prossime elezioni, la destra vittoriosa scatenerà immediatamente riforme neoliberali, privatizzazioni, freni ai diritti sindacali, tagli alla spesa pubblica che distruggeranno gli strumenti che potrebbero modellare una nuova politica. Di qui il voto tattico alla sinistra moderata.  E tuttavia ci possono essere lezioni da ricavare dalle sconfitte. Benoit Hamon ammette che in Germania “il risultato delle elezioni parlamentari [del settembre 2009], in cui la percentuale dei voti allo SPD (23%) è stata la più bassa da cent’anni a questa parte, ha convinto la dirigenza che era necessario un cambiamento di direzione” (7).

Analisi politiche ugualmente modeste sono state condotte in Francia dopo la sconfitta socialista del 1993 e in Inghilterra dopo la (parziale) vittoria dei Conservatori nel 2010.  Lo stesso processo probabilmente si ripeterà  presto in Spagna e in Grecia, visto che è improbabile che i governi socialisti attribuiscano la loro imminente sconfitta a politiche rivoluzionarie.  Difendendo Papandreou, la parlamentare socialista greca Elena Panaritis ha citato un esempio inatteso: “A Margaret Thatcher ci sono voluti undici anni per completare le sue riforme in un paese in cui i problemi strutturali non erano così gravi.  Il nostro programma è andato avanti per soli 14 mesi” (8). Ovvero: Papandreou è meglio della Thatcher.

Uscire da questo circolo vizioso significa elencare le condizioni necessarie per mettere in riga la globalizzazione finanziaria. C’è un problema immediato: data la pletora di meccanismi sofisticati che hanno collegato lo sviluppo economico nazionale alla speculazione capitalista negli ultimi 30 anni, anche una politica di riforme relativamente morbida (correggere le tasse non eque, aumentare il potere d’acquisto, conservare il bilancio dell’istruzione) richiede ora significative rotture con il passato sia con l’attuale ordine europeo sia con le precedenti politiche socialiste.

Partiremo male se non rivedremo l’”indipendenza” della Banca Centrale Europea (garantita dai trattati europei che la sua politica monetaria non sarà assoggettata al controllo democratico); se non introdurremo flessibilità nel patto di stabilità e di crescita (che, in una crisi, soffoca una strategia proattiva per gestire la disoccupazione); se non condanneremo l’alleanza liberale-socialdemocratica nel parlamento europeo (che ha portato i socialdemocratici a sostenere Mario Draghi, ex vicepresidente e amministratore delegato della Goldman Sachs, come candidato al posto di presidente della BCE) e se non affronteremo il libero scambio (la politica preferita dalla Commissione Europea) e la revisione del debito pubblico (per evitare di rimborsare speculatori che hanno scommesso contro i paesi più deboli dell’eurozona) (9).

La partita può addirittura essere persa prima di cominciare. Non c’è motivo di credere che Francois Hollande in Francia, Sigmar Gabriel in Germania o Ed Miliband in Inghilterra riusciranno dove hanno fallito Obama, Josè Luis Zapatero e Papandreou.  Immaginare, come spera Massimo d’Alema, che “un’alleanza che ponga l’unione politica dell’Europa al centro della propria politica ravviverà il movimento progressista” (10) è un sogno. Nell’attuale situazione politica e sociale, un’Europa federale rafforzerebbe i già soffocanti meccanismi neoliberali e ridurrebbe il potere sovrano del popolo trasferendolo a organismi tecnocratici ombra. La moneta e il commercio sono già stati federati.

Comunque, fino a quando i partiti della sinistra moderata continueranno a rappresentare la maggior parte degli elettori progressisti, o perché essi appoggiano le politiche di tali partiti o perché essi credono che tali politiche offrano la sola prospettiva di cambiamento nell’immediato futuro, entità politiche più radicali resteranno relegate a piccole parti o saranno mandate dietro le quinte.  Persino con il 15% dei voti, 44 parlamentari, quattro ministri e un’organizzazione che comprendeva decine di migliaia di militanti, il Partito Comunista Francese (PCF) non ha mai influenzato le politiche pubbliche, economiche e finanziarie di Francois Mitterand tra il 1981 e il 1984. Il partito di Rifondazione Comunista in Italia, intrappolato in un’alleanza con partiti di centrosinistra, ha fallito e non ispira; il suo scopo era di evitare, a ogni costo, che Berlusconi tornasse, ma egli tornato comunque, più tardi.

In Francia il Fronte della Sinistra (che comprende il PCF) spera di sconfiggere la tendenza. Esercitando pressioni sul PS spera di contribuire a sfuggire alla tirannia del passato.  Può sembrare un’illusione, persino disperata. Ma, anche se in questo c’è più che la forza elettorale relativa e le costrizioni istituzionali, ci sono anche alcuni precedenti storici.  Nessuna delle grandi conquiste sociali del Fronte Popolare (ferie pagate, la settimana di 40 ore) erano incluse nel modesto programma della coalizione che vinse nell’aprile-maggio 1936; furono gli scioperi di giugno che costrinsero i datori di lavoro francesi ad accettarle.

Quella, comunque, non è soltanto una storia dell’irresistibile forza di un movimento sociale e della pressione che impose a partiti di sinistra timidi e spaventati.  Fu la vittoria elettorale del Fronte Popolare  che diede il via alla rivolta sociale, dando ai lavoratori la sensazione che non sarebbero più stati repressi dalla polizia e dai padroni, come erano stati prima.  Presero coraggio, ma sapevano anche che i partiti per i quali avevano votato non avrebbero dato loro nulla se non vi fossero stati costretti. Di qui la vincente ma rara dialettica tra elezioni e mobilitazione, cabine elettorali e fabbriche. Come stanno le cose ora, un governo di sinistra risparmiato da tale pressione convolerebbe immediatamente a solide nozze  con i tecnocrati, che conoscono solo il neoliberalismo.  La loro ossessione consisterebbe nell’averla vinta sulle agenzie di rating, che immediatamente abbasserebbero la valutazione di qualsiasi paese che perseguisse una genuina politica di sinistra.

E allora, attaccare con audacia o attenersi alla linea  e impantanarsi immediatamente?   I rischi dell’attacco (isolamento, inflazione, declassamento) sono inculcati in noi.  Ma che dire dei rischi di mettersi in riga?  Esaminando la situazione dell’Europa negli anni ’30, lo storico Karl Polanyi ha ricordato che “l’impasse raggiunta dal capitalismo liberale” aveva portato certi paesi a “una riforma dell’economia di mercato ottenuta al prezzo dello sradicamento di tutte le istituzioni democratiche” (11).  Persino Michel Rocard, un socialista estremamente moderato, è allarmato da tale prospettiva: imporre condizioni più dure ai greci potrebbe tradursi nella fine della democrazia greca. “Considerata la rabbia che proverà il popolo” ha scritto il mese scorso, “è dubbio se un qualsiasi governo greco possa reggere senza il sostegno dell’esercito.  Questa triste osservazione si applica probabilmente anche al Portogallo e/o all’Irlanda e/o ad altri, più grandi, paesi.  Sin dove ci si spingerà?” (12).

La repubblica del centro ha dietro di sé istituzioni e media, ma vacilla.  La competizione  è aperta tra un duro autoritarismo neoliberale e una rottura con il capitalismo.  Sembrano cose ancora lontane. Ma quando la gente smette di credere a un gioco politico in cui i dadi sono truccati, quando vede che i governi sono spogliati della loro sovranità, quando chiede che le banche siano messe in riga, quando si mobilita senza sapere dove porterà la sua rabbia, allora la sinistra è ancora molto attiva.

Note

(1)  Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale

(2) Benoit Hamon, Tourner la page, Flammarion, Parigi, 2011,   pagg. 14-19

(3) AFP, 4 settembre 2011

(4) Francois Hollande, Devoirs de verité, Stock, Parigi, pagg. 91 e 206.

(5) Ibidem, pagg. 51 e 43

(6) Lionel Jospin, “Reconstruire la Gauche”, Le Monde, 11 aprile 1992

(7) Benoit Hamon, op.cit. pag. 180

(8) Citato da Alain Salles “L’odyssée de Papandréou”, Le Monde, 16 settembre 2011.

(9) Leggere “ Quand la gauche renoncait au nom de l’Europe”, Le Monde diplomatique, giugno 2005.

(10) Massimo D’Alema, “Le succès de la gauche au Danemark annonce un renouveau européen”, Le Monde, 21 settembre 2011.

(11)  Karl Polanyi, La Grande Transformation, Gallimard, Paris, 1983, p. 305. [In italiano, “La grande trasformazione”, Einaudi, 2010 http://www.einaudi.it/libri/libro/karl-polanyi/la-grande-trasformazione/978880620560 – n.d.t.]

(12) Michel Rocard, “Un système bancaire à repenser”, Le Monde, 4 ottobre 2011.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/where-did-the-left-go-by-serge-halimi

Fonte:  Le Monde Diplomatique   

traduzione di Giuseppe Volpe

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Giustificazione morale

30 domenica Ott 2011

Posted by Redazione in Economia, Mondo, Noam Chomsky

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11 settembre, 99%, Afghanistan, Arabia Saudita, austerità, BCE, brasile, BRIC, Bush, CIA, Cina, concentrazione di ricchezza, droni, egitto, Emirati Arabi Uniti, FBI, figlio unico, finanziarizzazione, Francia, Germaniia, Gheddafi, grecia, Guantanamo, India, inflazione, Inghilterra, iran, libia, Medio Oriente, Obama, Osama bin Laden, pacchetto di stimolo, pakistan, politica estera, Portogallo, presunzione d'innocenza, primavera araba, recessione, Russia, Shanghai Cooperation Organization, Siria, spagna, stagnazione, terrorismo, triumvirato imperiale, Tunisia, Turchia, Unione Africana, Unione Europea, usa, Yemen

 

di Noam Chomsky e Dean Carroll (27 ottobre 2011)

 

Tu sei stato uno dei principali critici della politica estera statunitense in passato. Qual è il tuo punto di vista sulla prestazione in quest’area di Barack Obama da presidente, da quando ha assunto la carica? So che sei stato critico riguardo alla missione per uccidere Osama bin Laden.

Esisteva un principio nella legge anglo-statunitense chiamato principio d’innocenza sino a che la colpevolezza non sia provata in tribunale.  Quanto un sospetto viene preso e può facilmente essere condotto in giudizio, assassinarlo è semplicemente un crimine.  Per inciso, anche l’invasione del Pakistan è stata una violazione della legge internazionale.

C’è allora una qualsiasi giustificazione morale per gli attacchi di droni della CIA in paesi come lo Yemen e il Pakistan, che hanno presumibilmente avuto luogo durante la dirigenza della Casa Bianca da parte di Obama?

Non c’è alcuna giustificazione per gli assassinii mirati.  Erano cose che avvenivano in precedenza, sotto l’ultimo presidente, ma l’amministrazione Obama ha esteso procedure precedenti a una campagna globale di assassinii diretta contro persone sospette di incoraggiare altri a compiere quelle che gli Stati Uniti definiscono azioni terroristiche. Che cosa sia definito “azione terroristica” è qualcosa che solleva questioni piuttosto serie, e questo è un eufemismo.  Si prenda, ad esempio il caso di Guantanamo di un quindicenne che è stato accusato di aver preso un fucile per difendere il suo villaggio, in Aghanistan, quando è stato attaccato da soldati statunitensi. E’ stato accusato di terrorismo e poi inviato a Guantánamo per un totale di otto anni. Dopo otto anni di una prigionia nei quali quel che succede non è un segreto, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato ad altri otto anni di prigione. E’ terrorismo questo? Un ragazzo di quindici anni che difende il suo villaggio dal terrorismo?

Dunque tu pensi che, potenzialmente, l’approccio alla politica estera di Obama sia stato peggiore di quello di George W. Bush, in certe aree?

In termini di terrorismo di stato (ed è così che chiamerei questo) devo dire di sì, e ciò è già stato fatto presente dagli analisti dell’esercito.  La politica dell’amministrazione Bush era di rapire i sospetti e di inviarli a prigioni segrete in non erano trattati molto educatamente, come sappiamo.  Ma l’amministrazione Obama ha intensificato quella politica arrivando a non rapirli, ma a ucciderli.  Ora, ricordiamolo, si tratta di sospetti, anche nel caso di Osama bin Laden.  E’ plausibile che abbia effettivamente pianificato gli attacchi dell’11 settembre, ma quel che è plausibile e quel che è provato sono due cose diverse. Merita essere ricordato che otto mesi dopo gli attacchi, nell’aprile 2002, il capo dello FBI, nella sua più dettagliata comunicazione alla stampa, fu soltanto in grado di affermare di ritenere che il complotto fosse stato ordito in Afghanistan da bin Laden ma realizzato negli Emirati Arabi Uniti, in Germania e negli Stati Uniti. Da allora non è stata prodotta alcuna prova certa, almeno pubblicamente. La commissione sull’11 settembre, creata dal governo, ha ricevuto una quantità di materiale che costituiva una prova indiziaria che ciò era ragionevolmente plausibile, ma è dubbio che una qualsiasi parte di esso reggerebbe in un tribunale indipendente.  Le prove di cui si dispone sono state fornite alla commissione dal governo in base a interrogatori di sospetti in condizioni molto crudeli, come sappiamo.  E’ altamente improbabile che un tribunale indipendente avrebbe potuto prendere sul serio prove simili.

Come vedi il conflitto libico? Le forze occidentali, europee in particolare, hanno fatto bene a  intervenire?

Le tre tradizionali potenze imperiali, Inghilterra, Francia e Stati Uniti, hanno partecipato a una guerra civile dalla parte dei ribelli che non aveva nulla a che vedere con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Che l’azione del triumvirato imperiale sia stata appropriata è questione che penso debba essere discussa e dibattuta.  Certamente non è stata, internazionalmente, una mossa popolare; voglio dire, viene definita comunità internazionale, ma la maggior parte del mondo vi si oppone.  La Libia è un paese africano e l’Unione Africana sollecitava negoziati e diplomazia, ed è stata ignorata.  Brasile, Russia, India e Cina – i paesi BRIC – hanno tenuto all’epoca una riunione in Cina ed hanno anche diffuso una dichiarazione che sollecitava la diplomazia e i negoziati. Persino la Turchia, all’inizio, è stata tiepida e l’Egitto non ha appoggiato l’azione, e dal mondo arabo non è venuto praticamente alcun sostegno.

La domanda vera è: il mandato dell’ONU di proteggere i civili poteva essere attuato mediante la diplomazia? La Libia è una società altamente tribale e vi sono una quantità di conflitti tra le tribù; chi sa cosa verrà fuori da tutto questo!  Il governo di transizione ha già sottolineato che vi sarà una stretta osservanza della legge della Sharia e che verranno negati i diritti delle donne e così via.  Pochissimi in occidente sanno granché di tutto questo.  D’altro canto c’è stato un enorme sostegno popolare a farla finita con Gheddafi, che era un prevaricatore terribile.

E vedi un allargamento e un approfondimento della Primavera Araba con il passare del tempo e con i ribelli in stati come la Siria e l’Iran che prendono coraggio dalle conquiste dei già oppressi cittadini libici?

L’Iran è un caso diverso; ha un regime oppressivo, ma una situazione molto diversa. La Siria è in una situazione estremamente brutta che sta degenerando in guerra civile.  Nessuno ha proposto una politica sensata per gestire la cosa.  In larghe parti del mondo arabo le rivolte a favore della democrazia sono state rapidamente represse.  In Arabia Saudita, lo stato islamista più radicalmente estremo e alleato più stretto degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, ci sono stati timidi sforzi tentativi di protesta e sono stati repressi parecchio rapidamente, in modo tale che la gente ha avuto paura di scendere di nuovo in strada.  Lo stesso vale per il Kuwait e per l’intera regione, la regione del petrolio.  In Bahrain le proteste sono state inizialmente tollerate prima di essere represse violentemente con l’assistenza della forza d’invasione guidata dai sauditi in modi molti brutti, come irrompere in un ospedale ed aggredire medici e pazienti.

In Egitto e in Tunisia c’è stato un progresso significativo, ma limitato.  In Egitto l’esercito non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il suo controllo sulla società, anche se ora il paese ha una stampa libera e un movimento sindacale è stato in grado di organizzarsi ed agire in modo indipendente. Anche la Tunisia ha già una storia di attivismo sindacale. E pertanto il progresso verso la democrazia e la libertà è correlato molto strettamente con l’ascesa dell’attivismo militante di lungo termine. Ciò non dovrebbe sorprendere gli occidentali perché è esattamente quel che è accaduto in occidente.

Come vedi dispiegarsi la geopolitica nei prossimi decenni, con l’ascesa dei BRIC, la mancanza di stabilità in Medio Oriente e il declino dell’occidente?

Gli USA e l’Europa hanno problema in qualche misura diversi.  L’Europa fronteggia problemi finanziari molto gravi, questo non è un segreto, che sono in parte riconducibili all’approccio relativamente umano all’integrazione dei paesi più poveri con le nazioni più ricche.  Prima che fosse creata l’Unione Europea e i paesi del sud più poveri, come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, fossero fatti entrare, c’erano stati tentativi di ridurre la nette differenze tra i paesi avanzati ricchi e quelli più poveri, in modo tale che i lavoratori dell’Europa settentrionale non dovessero affrontare la concorrenza della classe lavoratrice impoverita e sfruttata del sud. Ci sono stati finanziamenti compensativi e altre misure che, naturalmente, non hanno eliminato il divario, ma lo hanno rimosso in misura sufficiente a far sì che le nazioni più povere fossero fatte entrare [nella UE] senza effetti pesanti su quelle ricche del nord.

L’Europa sta ora pagando il prezzo di un approccio relativamente umano e il suo non aver gestito alcuni problemi molto seri, come la straordinaria indipendenza della Banca Centrale Europea e la sua dedizione religiosa alle politiche anti-inflattive, che non sono quelle che dovrebbero essere adottate in un periodo di declino e di recessione. L’Europa dovrebbe fare l’opposto, come gli Stati Uniti dove le politiche sono in qualche modo più realistiche.

Quale ruolo pensi svolgeranno l’Europa e gli Stati Uniti in questo nuovo ordine mondiale che potenzialmente riflette la multipolarità piuttosto che l’egemonia occidentale?

L’Europa e gli Stati Uniti rappresentano ancora una parte enorme dell’economia globale; non ci sono dubbi al riguardo. Se l’Europa riesce a rimettere le proprie cose in ordine, e io penso che dovrà modificare le sue politiche economiche, ha delle opzioni.  Ciò di cui l’Europa ha bisogno ora non è un programma d’austerità, bensì  un pacchetto di stimolo che ripristini la crescita in modo da potere in seguito occuparsi del problema del debito.  Lo stesso vale per gli Stati Uniti.  E’ disponibile una quantità di denaro per programmi di stimolo in entrambe le regioni.  Ciò potrebbe aumentare il debito, ma quello è un problema più a lungo termine.  Le nostre società sono ricolme di ricchezza; la questione è come si intende utilizzarla.

Il tema comune di tutto la letteratura sugli affari internazionali è quello che viene chiamato il declino dell’occidente e la conclusione, a corollario, che il potere globale sta nuovamente passando alle potenze emergenti, Cina e India.  Tale tesi non è plausibile; la crescita economica della Cina è stata per molti versi decisamente spettacolare, ma si tratta di paesi molto poveri.  Il reddito pro capite è ben al di sotto di quello dell’occidente e hanno enormi problemi interni. La Cina, considerata il principale motore economico, è oggi ancora un impianto di assemblaggio.  Se si calcola accuratamente  il deficit commerciale USA nei confronti della Cina in termini di valore aggiunto, si rileva che il dato scende di circa il 25%, mentre aumenta nei confronti del Giappone, di Taiwan e della Corea approssimativamente della stessa percentuale.  Il motivo è che le parti, i componenti e l’alta tecnologia affluiscono in Cina da società periferiche, più industrializzate, così come dagli USA e dall’Europa, e la Cina assembla il tutto. Se si acquista un iPad o roba simile sul quale c’è scritto “esportato dalla Cina”, ben poco del valore aggiunto è cinese.

Certamente, in prosieguo la Cina salirà sulla scala della tecnologia, ma si tratta di una salita difficile e il paese ha problemi interni molto gravi, incluso un problema demografico.  Il periodo di crescita del paese è stato associato a un grande aumento di lavoratori giovani, tra i ventenni o trentenni, ma le cose stanno cambiando, in parte a motivo della politica del “figlio unico”.  Quel che sta arrivando è un declino della popolazione in età da lavoro e un aumento della popolazione più anziana. I cinesi senza dubbio cresceranno e saranno importanti, ma l’India è ancor più impoverita con centinaia di milioni di persone che vivono in miseria. Il mondo sta diventando vario e sta arrivando anche un secolo più vario.  Con l’ascesa dei BRIC, è in arrivo una distribuzione del potere. Per quanto riguarda il declino statunitense, esso è iniziato negli anni quaranta, quando possedeva letteralmente,  con incredibile sicurezza, la metà della ricchezza e della produzione del mondo; non c’era mai stato nulla di simile nella storia. Ciò ha cominciato a declinare molto rapidamente e la cosiddetta “perdita della Cina” si è verificata nel 1949.  Si dava per scontato che noi possedessimo il mondo, che ne fossimo proprietari.  Ben presto ci fu la “perdita del Sud Est Asiatico”. E per  che si sono avute le guerre inter-cinesi e il colpo di stato in Indonesia.

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a quella che è stata chiamata la “perdita del Sud America”. Il Sud America ha cominciato a muoversi in direzione dell’indipendenza e dell’integrazione e gli Stati Uniti sono stati espulsi da tutte le basi militari dell’area. Ed è in corso la creazione di unioni in America Latina, Sud America, Africa e Medio Oriente. L’occidente e i suoi alleati stanno cercando con forza di controllare ciò, ma la cosa sta proseguendo.  E in Cina vi è l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, che comprende gli stati dell’Asia Centrale, con Russia, India e Pakistan quali osservatori. Gli Stati Uniti sono stati esclusi e, sinora, si tratta un’organizzazione internazionale basata sull’energia, basata sull’economia.  E tuttavia è un’altra parte di questa diversificazione del potere nel mondo.

Il declino statunitense è in misura significativa autoinflitto. A partire dagli anni ’70, le economie occidentali hanno operato una svolta netta.  Nel corso della storia la tendenza era stata in direzione della crescita e della speranza. Ciò è cambiato negli anni ’70, quando c’è stata una svolta dell’economia verso la finanziarizzazione e il trasferimento della produzione all’estero a motivo del declino del tasso di profitto dell’industria.  Quella che si è verificata è stata un’altissima concentrazione della ricchezza, per la maggior parte in una parte minuscola del settore finanziario, e la stagnazione e il declino per la maggior parte della popolazione.  Oggi abbiamo slogan del tipo “99% e 1%”. Le cifre non sono del tutto corrette, ma il quadro generale lo è. E’ un problema molto serio e ha portata a una ricchezza spettacolare in pochissime tasche, anche se ciò è molto dannoso per i paesi interessati. Le proteste cui assistiamo in tutto il mondo in questo momento sono un altro sintomo di ciò.

 

Noam Chomsky è professore di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti. E’ autore di più di un centinaio di libri, compreso ‘Current Issues in Linguistic Theory’ [Problemi attuali della teoria linguistica].

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/moral-justification-by-noam-chomsky

Fonte: Public Service Europe

traduzione di Giuseppe Volpe

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