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Archivi della categoria: America

L’ “occupottero” di Occupy Wall Street: chi controlla chi?

22 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Noel Sharkey, Sarah Knuckey

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Tag

dimostrazioni, droni sorveglianza aerea, Occupy Wall Street, polizia, privacy

 

 

di Noel Sharkey e Sarah Knuckey – 21 dicembre 2011

 

[‘Occucopter’ nell’originale: più o meno ‘il drone di OWS che sorveglia la polizia’]

Il drone  di Tim Pool al servizio dei cittadini che tiene sorvegliata la polizia può sollevare lo spirito ai manifestanti, ma potrebbe portare a un incubo della sorveglianza.

L’”occupottero” di Tim Pool è una risposta all’espulsione dei manifestanti di Occupy Wall Street da parco Zuccotti, a New York.

La polizia presto potrebbe osservarvi nel vostro orto mentre raccogliere la vostra verdura, o osservare il vostro sedere.  Mentre prendono forma i piani della polizia per un’accresciuta sorveglianza aerea a mezzo velivoli senza pilota, c’è una nuova svolta. I privati cittadini possono ora acquistare i propri droni di sorveglianza  per controllare  la polizia.

Questa settimana a New York i dimostranti di Occupy Wall Street hanno un nuovo giocattolo che li aiuta a denunciare azioni potenzialmente dubbie del dipartimento di polizia di New York. Reagendo alla costante sorveglianza, violenza e migliaia di arresti ad opera della polizia, i dimostranti di Occupy Wall Street e gli osservatori legali hanno diretto le proprie telecamere sulla polizia.  Ma la polizia a volte ha reso difficili le riprese mediante ostruzionismo fisico e “zone interdette”.  Ciò si è verificato in misura più considerevole durante l’espulsione dei dimostranti dal parco Zuccotti, a Lower Manhattan, dove la polizia ha impedito l’ingresso anche a giornalisti accreditati.

Ora i manifestanti contrattaccano con il loro proprio drone di sorveglianza. Tim Pool, un dimostrante di Occupy Wall Street, ha acquistato un drone Parrot AR che lui chiamato in modo divertente “occupottero”. E’ un elicotterino leggero a quattro rotori che si può acquistare a buon prezzo su Amazon e controllare con il proprio iPhone.  Ha una telecamera a bordo così si può vedere tutto ciò su cui punta il proprio cellulare.  Pool ha modificato il software per mettere in rete video dal vivo in modo che possiamo osservare l’azione mentre si svolge.  Qui si possono vedere spezzoni video dei suoi primi esperimenti.  Ci ha detto che il motivo per cui lo fa “sta nel  dare alla gente comune gli stessi strumenti che queste società mediatiche multimilionarie possiedono. Offre una scappatoia abile a certe restrizioni, tipo quando la polizia impedisce ai giornalisti di scattare foto di un incidente.”

Pool sta tentando di verificare lo strumento sulla polizia: “Stiamo cercando di ottenere una trasmissione video stabile in modo che possa essere controllata da 50 persone in serie.  Se i poliziotti ti vedono che la controlli da un computer possono bloccarti, ma allora il controllo potrebbe passare automaticamente a qualcun altro.”

Questa è roba forte, e non si ferma qui.  Sta anche lavorando a un controller 3G in modo che “si possa controllare l’occupottero a New York da Sheffield in Inghilterra”.  Gli abbiamo chiesto se lo preoccupava il fatto che la polizia potesse abbatterlo. “No,” ha dichiarato con decisione. “Non possono sparare in aria semplicemente perché potrebbero ferire gravemente qualcuno. Non avrebbero scuse perché l’occupottero non è illegale in senso stretto.  La loro unica possibilità sarebbe di renderlo illegale, ma è solo un giocattolo e allora potrebbero rendere illegale anche la stampa; hanno già arrestato 30 giornalisti qui.”

La gente comune che dispone di tecnologia per controllare il guardiano non è qualcosa che George Horwell avesse previsto nella sua visione futuristica nel 1984.  Egli ci ha proposto l’idea di uno stato totalitario che utilizza una sorveglianza totale per reprimere l’intera popolazione.  E’ per questo che le telecamere a circuito chiuso e i droni della polizia che ci osservano non visiti producono brividi lungo la schiena a così tanti fra noi.  Non siamo tanto preoccupati della dirigenza politica attuale quanto lo siamo della possibilità di una tecnologia che consenta la creazione di un regime repressivo.

Ciò avrebbe minori probabilità di verificarsi quando gli stessi sistemi di sorveglianza fossero rivolti contro le autorità.  Ma non si tratta solo di buone notizie. Questi dispositivi possono anche ampliare la gamma delle violazioni potenziali della privacy.  Si può volare sopra il giardino dei vicini, o alla finestra della loro camera da letto.  E i droni potrebbero essere un grande vantaggio per i criminali per “ispezionare  l’obiettivo” o per controllare l’arrivo della polizia.

C’è anche la preoccupazione che il lancio di droni dei cittadini possa essere utilizzato strumentalmente dalla polizia per giustificare e accelerare l’acquisizione e l’uso da parte della polizia di droni per sorvegliare le manifestazioni.  I dipartimenti di polizia inglesi e statunitensi sono ansiosi di utilizzare i droni, ma c’è stata scarsa o nulla discussione riguardo agli impatti sulla sicurezza, privacy e libertà pubbliche.  E certamente non c’è stato alcun impegno pubblico riguardo all’ampliamento di questa sorveglianza poliziesca.

Probabilmente non ci vorrà molto prima che ci siano cause sperimentali in tribunale o prima che siano introdotte leggi per impedire il decollo dei droni dei cittadini. Ci ha tirato su lo spirito parlare con Pool del suo occupottero, e tuttavia ci sentiamo a disagio riguardo all’utilizzo sempre crescente della sorveglianza mediante droni. Come tutti gli strumenti può essere utilizzata per il bene e per il male, e per la repressione e la resistenza.

La domanda è: vogliamo davvero finire nell’incubo paranoico del nostro spazio aereo inquinato da droni della polizia e nostri personali con tutti noi che controlliamo i nostri controllori?  Non siamo sicuri di come la cosa si svilupperà, ma siamo sicuri che il risultato sarà imprevedibile come lo sono gli stessi sviluppi della tecnologia.

DA Z NET ITALY – Lo Spirito della resistenza è vivo!

http://www.znetitaly.org

Fonte: http://www.guardian.co.uk/commentisfree/cifamerica/2011/dec/21/occupy-wall-street-occucopter-tim-pool

Originale: The Guardian UK

Traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Il patto di collaborazione strategica tra Stati Uniti e Afghanistan è ‘parte di un programma globale di militarizzazione del mondo’?

20 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Afghanistan, Noam Chomsky, Usa

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Tag

Afghanistan, militarizzazione, Stati Uniti

 

Il patto di collaborazione   strategica tra Stati Uniti e Afghanistan è “parte di un programma globale di militarizzazione del mondo”.

 

Di Noam Chomsky e

dei Giovani Volontari Afgani per la pace

19 dicembre 2011

[Nota del redattore: questa è la trascrizione tra i membri dei Giovani Volontari Afgani per la pace e Noam Chomsky, che si è tenuta il 21 settembre 2011. Ogni domanda è stata fatta in lingua Dari ed è stata tradotta da Hakim.]

 

Hakim: Parliamo dall’altopiano di Bamyan, nell’Afghanistan Centrale e volevamo iniziare ringraziandola sinceramente per la guida e la saggezza che lei ha dato alle persone con i suoi insegnamenti e i suoi discorsi in molti luoghi della terra. Cominciamo con un a domanda di Faiz.

FaizI: in un articolo di Ahmed Rashid pubblicato di recente sul New York Times, l’autore diceva che “dopo 10 anni, dovrebbe essere chiaro che la guerra in questa zona non può essere vinta soltanto con la forza militare…..I Pakistani hanno un bisogno disperato di discorsi nuovi….ma dove è la dirigenza che racconti questa storia nel modo giusto? I militari se la cavano con il loro modo di pensare antiquato perché nessuno offre un’alternativa, e senza un’alternativa nulla progredirà per molto tempo ancora.” Lei pensa che attualmente nel mondo ci siano dei dirigenti in grado di proporre una soluzione alternativa  non militare per l’Afghanistan e se non ci sono da dove o da chi dovrebbe arrivare questa guida per una soluzione di questo tipo?

Noam Chomsky: Penso che sia capito bene dai capi  militari e anche dai dirigenti politici degli Stati Uniti e dei loro alleati che non possono raggiungere una soluzione militare del tipo che vogliono. Questo vuol dire mettere da parte il problema: quello scopo è stato mai giustificato? Adesso mettiamolo da parte. Sanno perfettamente che non possono raggiungere una soluzione militare in base ai loro termini.

C’è una forza politica alternativa che potrebbe operare verso un tipo di accordo politico? Sapete, che in realtà la forza più importante che potrebbe servire a realizzare quello scopo, è l’opinione pubblica. La gente è già fortemente contraria alla guerra lo è stata da molto tempo, ma questo atteggiamento non si è tradotto in un movimento popolare attivo, impegnato, convinto che cerchi di cambiare politica. E questa è la cosa  che deve essere fatto in questo paese.

La mia sensazione personale è che la conseguenza più importante degli sforzi di pace molto significativi che sono in corso in Afghanistan potrebbero certo stimolare i movimenti in occidente tramite contatti    soltanto tra persona e persona: questo contribuirebbe a imporre una pressione sugli Stati Uniti e in particolare sulla Gran Bretagna per porre fine alla fase militare di questo conflitto e a andare verso quello che dovrebbe essere fatto: un accordo  pacifico e uno sviluppo economico onesto e realistico.

Abdulai: Il dottor Ramazon Bashardost ha detto una volta ai Giovani Volontari Afgani per la pace che il popolo afgano non ha scelta perché tutte le opzioni disponibili in Afghanistan non sono buone. Gli Afgani, quindi, non hanno scelta tranne quella di scegliere la meno brutta delle opzioni brutte. In questa situazione, degli Afgani, e in particolare molti che vivono a Kabul, ritengono che l’opzione meno brutta sia quella che le forze statunitensi della coalizione restino in Afghanistan. Lei pensa che la presenza costante  delle forse statunitensi nel nostro paese sia l’opzione meno cattiva? Altrimenti, quali sono le possibili opzioni buone per gli Afgani comuni?

 

Noam Chomsky: Sono d’accordo che non sembra esserci alcuna opzione valida e che quindi purtroppo dobbiamo tentare di cercare le opzioni la meno cattiva  delle opzioni cattive. Questo giudizio lo devono dare gli Afgani. Voi siete sulla scena degli avvenimenti. Voi siete le persone che vivranno con le conseguenze della scelta. Voi siete le persone che hanno il diritto e la responsabilità di fare queste scelte delicate e  spiacevoli. Io ho la mia opinione che però non ha nessun peso. Quello che importa sono le vostre opinioni.

La mia opinione è che fino a quando le forze armate saranno lì, esse aumenteranno probabilmente le tensioni e mineranno le possibilità di un patto a più lungo termine. Penso che questo sia  stata la situazione   degli ultimi 10 anni e questo è anche la situazione in altri posti, in  Iraq per esempio. La mia sensazione, quindi è che un ritiro in fasi successive  del tipo che di fatto è contemplato,  potrebbe certo essere la meno cattiva delle opzioni cattive, ma se viene  unita ad altri sforzi. Non basta soltanto ritirare le truppe. Ci devono essere delle alternative da stabilire. Una di queste, per esempio, che è stata ripetutamente raccomandata,  è la cooperazione  tra potenze  nella zona che comprenderebbero, naturalmente, il Pakistan, l’Iran, l’India, la nazioni al nord  e tutte queste  insieme con i rappresentanti afgani, potrebbero essere in grado di  elaborare  un programma di sviluppo che dovrebbe essere significativo,  e di collaborare per realizzarlo, spostando l’obiettivo delle attività dall’uccidere al ricostruire e al costruire. Il nocciolo dei problemi, però, deve essere trattato in Afghanistan.

 

Mohamed Hussein: Hanno annunciato che le forze straniere dovrebbero lasciare l’Afghanistan entro il 2014 e trasferire la responsabilità della sicurezza agli Afgani. Tuttavia, quella che abbiamo di fronte appare come una situazione molto disonesta e corrotta del governo statunitense che firma un patto di collaborazione strategica con il governo afgano per installare basi militari permanenti congiunte in Afghanistan oltre il 2014.  Sembra quindi ai Giovani Volontari Afgani per la pace, che il ritiro del 2014 sia quindi  illogico alla luce dei piani a più lunga scadenza che prevedono  di tenere i militari in Afghanistan. Potrebbe fare un commento su questi fatti?

Noam Chomsky: Sono molto sicuro che queste aspettative sono corrette. Ci sono pochi dubbi che il governo statunitense intenda mantenere un controllo militare effettivo sull’Afghanistan con diversi mezzi: sia come se fosse uno stato cliente con basi militari e di appoggio per quelle che chiameranno truppe afgane. Anche altrove c’è questo modello. Per esempio, dopo aver bombardato la Serbia nel 1999, gli Stati Uniti mantengono un’enorme base militare in Kosovo, e questa era lo scopo dei bombardamenti. In Iraq stanno ancora costruendo basi militari anche se si sta facendo molta retorica sul ritiro da quel paese. E presumo che faranno la stessa cosa anche  in Afghanistan, il che è considerata dagli Stati Uniti un’iniziativa di importanza strategica a lungo termine, all’interno dei piani di mantenimento del controllo soprattutto delle risorse energetiche e altre risorse di  quella zona, compresa l’Asia occidentale e centrale. Questo è uno dei piani  in corso che di fatto risalgono alla Seconda guerra mondiale.

Proprio adesso, gli Stati Uniti sono impegnati militarmente in modi diversi in quasi cento nazioni, con basi, operazioni di forze speciali, appoggio per le forze nazionali militari e di sicurezza. Questo è un programma globale di militarizzazione del mondo che fondamentalmente che va fatto risalire al quartier generale a Washington, e l’Afghanistan ne fa parte. Toccherà agli Afgani vedere se, prima di tutto, lo vogliono; secondo, se possono operare in modi che lo escludano. E’ quasi la stessa cosa che accade ora in Iraq. Ancora agli inizi del 2008, gli Stati Uniti insistevano ufficialmente che mantenevano basi militari e che erano in grado di eseguire operazioni di combattimento in Iraq e che il governo iracheno doveva privilegiare gli  statunitensi che investivano in petrolio e sistemi energetici. Bene, la resistenza irachena ha costretto gli Stati Uniti a recedere abbastanza da questo piano, di fatto in maniera considerevole. Gli sforzi, però continueranno ancora. Questi sono conflitti in corso basati su principi di vecchia data. Qualsiasi successo reale che vada verso la demilitarizzazione e la ricostruzione di relazioni, richiederà soprattutto l’impegno degli Afgani, ma anche lo sforzo congiunto di gruppi popolari delle potenze occidentali perché facciano pressione sui loro governi.

Faiz: Dopo tre decenni di guerra, e dato che siamo alla fine     dell’interferenza militare regionale e globale in Afghanistan, la gente si sente perduta e senza speranza. La gente sta perdendo anche la speranza e non hanno fiducia che le Nazioni Unite, che , in base al loro statuto, devono allontanare il flagello della guerra da tutte le generazioni,  siano in grado di offrire una soluzione alternativa. Abbiamo parlato con associazioni di pacifisti sulla possibilità che un gruppo individui di alta qualità che potrebbe comprendere anche dei Premi Nobel,   potrebbe pronunciarsi e fare una dichiarazione sulla spaventosa situazione umanitaria in Afghanistan e forse aprire un dibattito nel mondo sulle alternative da offrire ai cittadini afgani che stanno perdendo ogni speranza.  Lei pensa che ci sia una qualche possibilità che le Nazioni Unite intervengano per  offrire delle  idee diverse in questa situazione disperata? E c’è una possibilità  di un  gruppo indipendente di esperti costruttori  di pace che possano offrirci una via di uscita?

Noam Chomsky: Dobbiamo tenere presente che le Nazioni Unite non possono agire in modo indipendente. Possono agire soltanto nella misura in cui glielo permettono le grandi potenze, cioè in primo luogo gli Stati Uniti e anche la Gran Bretagna e la Francia, i membri permanenti del Consiglio di sicurezza che pongono dei limiti a quello che possono fare le Nazioni Unite. Possono agire nell’ambito delle limitazioni che essi impongono loro; gli Stati Uniti hanno l’influenza maggiore.

Per darvi soltanto un’indicazione di questo, date un’occhiata al registri dei veti al Consiglio di Sicurezza. Nei primi tempi delle Nazioni Unite, che cominciato a operare alla fine degli anni ’40, il potere degli Stati Uniti era così ha schiacciante nel mondo, che l’ONU erano fondamentalmente uno strumento degli Stati Uniti. Quando le altre nazioni industriali si sono riprese dalla guerra ed è iniziata la colonizzazione, l’ONU in un certo modo ha rappresentato di più i popoli del mondo. E’ diventato meno controllato dagli Stati Uniti che hanno cominciato a porre il veto alle risoluzioni.  Gli Stati Uniti hanno posto il loro primo veto è nel 1965, e da allora, gli Stati Uniti sono di gran lunga al primo posto nel porre il veto alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, il che blocca l’azione. Al momento il secondo paese è la Gran Bretagna e gli altri sono più lontani.  E questo andazzo continua ancora adesso. Probabilmente ci sarà un altro veto statunitense la settimana prossima. Questo è quello che avviene in generale. Se gli Stati Uniti rifiutano di permettere che si faccia una certa azione, l’ONU non può farci nulla. Altre grandi potenze hanno una certa influenza, ma minore. Il vero problema  quindi è: gli Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno d’accordo a permettere azioni del tipo che sono delineate in questa domanda? E penso che  possa accadere,  a ancora una volta, torniamo a dove eravamo prima.

Abdulai: A nome dei giovani afgani di Bamyan e anche di quelli che ci ascoltano da Kabul la ringraziamo per il tempo che ci ha dedicato.

Le auguriamo ogni bene e ottima salute.

Noam Chomsky: Vi ringrazio moltissimo per avermi dato l’opportunità di parlarvi brevemente. E’ un grande privilegio, e ammiro tanto il meraviglioso lavoro che state facendo.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.znetitaly.org

http://www.zcommunications.org/the-u-s-afghanistan-strategic-partnership-agreement-is-part-of-a-global-program-of-world-militarization-by-noam-chomsky

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly– Licenza Creative Commons  CC BY-NC-SA  3.0

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La formazione del 99% americano e il crollo dellla classe media

20 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Barbara Ehrenreich, Usa

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Tag

sociologia

La formazione  del 99% americano e il crollo della classe media

 

Di Barbara Ehrenreich

E John Ehrenreich

 

16 dicembre 2011

 

“Le classi nascono per caso  quando alcuni uomini, come risultato di esperienze comuni (ereditate o condivise), sentono e esprimono l’identità dei loro interessi sai tra se stessi  che contro altri uomini i cui interessi sono diversi (e di solito opposti) ai loro.”

 

E.P: Thompson, La formazione della classe lavoratrice inglese

 

Gli “altri uomini” (e, naturalmente le altre donne) nell’attuale allineamento  della classe americana, sono coloro che fanno parte dell’1% della distribuzione della ricchezza: banchieri,  gestori dei fondi di investimento, direttori generali che sono stati l’obiettivo del movimento “Occupiamo Wall Street”. Sono stati in circolazione per molto tempo, sotto varie forme, ma soltanto in anni recenti hanno cominciato a emergere come gruppo  distinto e visibile, chiamato, in modo informale, i “super ricchi”.

Livelli fuori del normale  di consumi  hanno aiutato ad attirare l’attenzione su di loro: jet privati, dimore che si misurano in multipli di circa 170mq, cioccolatini da 25.000 dollari ornati con  polvere d’oro. Fino a quando, tuttavia, la classe medie riusciva ancora a mettere insieme  il credito per le tasse universitarie, e saltuari migliorie della casa, sembrava una cosa da ignoranti criticare i ricchi Poi è arrivato il crollo finanziario del 2007-2008, seguito dalla Grande Recessione, e l’1% ai quali avevamo affidato le nostre pensioni, la nostra economia, e il nostro sistema politico si sono rivelati come una banda di narcisisti irresponsabili, avidi e forse sociopatici.

Tuttavia, fino a pochi mesi fa,  il 99% non era certo un gruppo in grado di (come dice Thompson) di esprimere “l’identità dei loro interessi.” Comprendeva, come anche adesso, la maggior parte dei “comuni” ricchi, insieme a professionisti della classe media, lavoratori delle fabbriche, camionisti e minatori, nonché  molte delle persone più povere che fanno le pulizie nelle case, lavorano come manicure, e curano i prati dei ricchi.

Nel 99% non c’erano soltanto queste divisioni di classe, ma anche quelle più evidenti di razza ed etnia – una divisione che è diventata più profonda dal 2008. Gli Afro-Americani e i lavoratori di origine latino-americana di tutti i livelli di reddito hanno perso le case in maniera sproporzionata  a causa del pignoramento nel 2007 e nel 2008 e poi hanno perso il lavoro in maniera sproporzionata nell’ondata di  licenziamenti che è seguita. Alla vigilia  del movimento “Occupiamo”, la classe media della gente di colore era stata già distrutta. In effetti, gli unici movimenti politici che sono sorti dal 99% prima che apparisse “Occupiamo”, sono stati il movimento Tea Party e, all’altra estremità dello spettro politico, la resistenza alle restrizioni

alla contrattazione  collettiva in Wisconsin.

Il movimento “Occupiamo” non sarebbe potuto nascere, però, se larghe fasce   del 99% non avessero cominciato a scoprire di avere degli interessi comuni, o, almeno, a mettere da parte alcune delle divisioni esistenti tra di loro. Per decenni, la divisione più stridente che veniva sostenuta all’interno del 99% era tra quelle che la destra chiama  la “élite liberale”- composta di professori universitari, giornalisti, personaggi del mondo dell’informazione, ecc. e quasi tutti gli altri.

Come ha brillantemente spiegato l’opinionista di Harper’s Magazine, Tom Frank, la destra ha guadagnato la sua  rivendicazione  spuria al populismo avendo come obiettivo quella “élite liberale” che si suppone sia a favore delle spese avventate che fa il governo e che richiedono livelli oppressivi di tasse, che appoggia politiche sociali di “redistribuzione” e programmi che riducono le opportunità per la classe media dei bianchi, che riduce i posti di lavoro per la classe lavoratrice e promuove innovazioni stravaganti contro culturali come i matrimoni tra omosessuali. L’élite liberale, insistevano a dire gli intellettuali conservatori, guardava dall’alto in basso gli Americani “comuni” delle classe media e dei lavoratori, trovandoli insipidi e politicamente scorretti. La “élite” era il nemico, mentre i super-ricchi erano come chiunque altro, soltanto un po’ più “determinati”  e forse forniti  di contatti migliori.

Naturalmente la “élite liberale” non ha  mai avuto alcun senso sociologico. Non tutti i professori universitari o i personaggi del mondo dell’informazione sono liberali (Newt Gingrich, Geoge Will, Rupert Murdoch). Molti manager colti e ingegneri di valore possono essere a favore del latte invece che della Red Bull, (bevanda commerciale energetica prodotta in Austria, n.d.T.))   ma non sono stati mai nel mirino della destra. E come potevano gli avvocati penalisti essere membri di quella élite nefanda, mentre le loro consorti esperte di diritto societario    nelle industrie non lo erano?

 

Uno scivolo, non una rete di protezione

 

La “élite liberale” è stata sempre una categoria politica travestita da categoria sociologica. Ciò che tuttavia ha  fornito una certa trazione all’idea di élite liberale, almeno per un po’, è stato il fatto che la grande maggioranza di noi non aveva mai  incontrato un membro  della vera     élite, l’1%  per la maggior parte  si chiudevano nella  loro bolla di aerei privati, comunità recintate e proprietà fortificate

Le figure importanti  che la maggior parte delle persone ha più probabilità di incontrare nella vita quotidiana sono gli insegnanti, i dottori, gli assistenti sociali e i professori. Questi gruppi (insieme a dirigenti di medio livello e ad altri “colletti bianchi” che lavorano nelle grosse imprese) occupano una posizione inferiore nella gerarchia di classe. Hanno costituito quello che abbiamo descritto in un saggio del 1976 come la “classe dirigenziale professionale”. Come abbiamo scritto a quell’epoca, in base alla nostra esperienza dei movimenti radicali degli anni ’60 e ’70, ci sono stati dei veri risentimenti della classe lavoratrice verso i  professionisti della classe media che la destra populista ha abilmente deviato verso i “liberali”, hanno contribuito in modo significativo alla precedente epoca nella quale la ribellione non è riuscita a costruire un movimento progressista duraturo.

Guarda caso, l’idea di “élite liberale” non è riuscita a sopravvivere alla depredazione ad opera dell’1% in questi ultimi anni. Da una parte è stata sommariamente eclissata dalla scoperta dalla vera élite di base a Wall Street e dei loro crimini. Paragonati a questa, i professionisti e i direttori di azienda, per quanto irritanti, erano soltanto delle persone meschine. Il medico o il preside della scuola potevano essere dispotici, il professore e l’assistente sociale potevano essere condiscendenti, ma soltanto quell’1% vi ha portato via le case.

C’era anche un altro problema inevitabile insito nella strategia populista della destra: anche nel 2000, e certamente nel 2010, la classe di persone che poteva qualificarsi come parte della “élite liberale”, era in una situazione sempre più precaria. I tagli al bilancio del settore pubblico e le riorganizzazione che si rifacevano alle grosse imprese stavano decimando i ranghi dei professori universitari che avevano stipendi decorosi, e che venivano sostituiti da professori a contratto che lavoravano con guadagni che gli permettevano soltanto di sopravvivere. Le società dei mezzi di informazione riducevano le redazioni e i bilanci editoriali. Gli studi legali cominciavano a trasferire i loro lavori di routine in India. Gli ospedali        trasmettevano le radiografie a radiologi stranieri perché li pagavano  poco. Si erano prosciugati i fondi per le iniziative senza scopo di lucro in campo culturale e nel pubblico servizio. Da questo l’icona del movimento Occupiamo: il laureato con decine di migliaia di dollari di debiti per ripagare il prestito studentesco e un lavoro pagato 10 dollari all’ora o nessun lavoro.

. Questo andamento di cose c’era anche prima del crollo finanziario, ma ci è voluto il crollo e le sue spaventose conseguenze per risvegliare il 99% a una vasta consapevolezza di comune pericolo. Nel 2008, l’intenzione di “Joe l’idraulico” (metafora dell’Americano della classe media) di guadagnare  250.000 dollari all’anno, era ancora minimamente plausibile. Dopo due anni di recessione, tuttavia, l’improvvisa mobilità verso il basso era diventata un’esperienza convenzionale degli Americani, e perfino alcuni dei più affidabili esperti di mezzi di informazione cominciavano ad annunciare che qualche cosa era andata  storta nel sogno americano

Chi una volta era ricco ha perduto le proprie riserve di denaro mentre i  prezzi degli immobili sono diminuiti vertiginosamente.  I dirigenti anziani licenziati dalle ditte e i professionisti sono stati sconcertati quando hanno scoperto che la loro età li rendeva repellenti per i sgradevoli ai probabili datori di lavoro. I debiti per l’assistenza medica hanno avviato le famiglie al fallimento. Il vecchio detto dei conservatori : non è saggio criticare (o tassare) i ricchi perché tu stesso puoi essere uno di loro un giorno o l’altro,  ha ceduto il passo alla nuova consapevolezza  che la classe dove era soprattutto possibile che si sarebbe migrati non era quella dei ricchi, ma quella dei poveri.

E c’era un’altra cosa che molte persone della classe media stavano scoprendo: il tuffo verso la povertà poteva verificarsi a velocità vertiginosa. Un motivo per cui il concetto di un 99% economico ha messo radici prima in America invece che, poniamo, in Irlanda o in Spagna, è che gli Americani sono particolarmente sensibili al dissesto economico. Abbiamo poco come stato assistenziale per fermare la caduta libera  di una famiglia o di un individuo. Le indennità di disoccupazione non durano più di sei mesi o di un anno, sebbene, in un periodo di recessione economica, questi periodi vengono estesi dal Congresso. Attualmente, anche con questa estensione, raggiungono soltanto la metà circa dei disoccupati. L’assistenza non è stata certo abolita 15 anni fa e l’assicurazione sanitaria è stata tradizionalmente legata all’occupazione.

In effetti, una volta che un Americano comincia a scivolare in basso, subentrano una serie di forze che aiutano ad accelerare la caduta. Si stima che un 60% di ditte americane ora controllano l’affidabilità creditizia dei richiedenti, e la discriminazione nei riguardi dei disoccupato è diffusa abbastanza da  giustificare  la preoccupazione del Congresso.  Perfino la bancarotta è una posizione che ha un costo proibitivo e spesso è difficilissima  da ottenere. Non riuscire a pagare le multe o le tasse imposte dal governo, può portare perfino, tramite una concatenazione di casi sfortunati, a un mandato di arresto o a essere iscritto nella lista dei  precedenti penali.   Mentre altre nazioni che una volta erano ricche hanno una rete di protezione, l’America offre uno scivolo unto che porta verso l’indigenza a velocità allarmante.

 

Dare un senso al  99%

 

Gli accampamenti di Occupiamo che hanno  animato circa 1.400 città questo autunno, hanno fornito un vivace modello per il crescente senso di unità del 99%. C’erano migliaia di persone – forse non sapremo mai il numero esatto – di tutti   che vivevano all’aperto, nelle strade e nei parchi, più o meno come hanno sempre vissuto i più poveri dei poveri: senza elettricità, riscaldamento, acqua o bagni. Mano mano sono riusciti a creare delle comunità autosufficienti.

Le assemblee generali hanno riunito una mescolanza mai vista prima di giovani che si sono laureati di recente, giovani professionisti, anziani, tute-blu licenziati, e molti dei senza tetto cronici per fare   quelli che sono stati scambi per lo più costruttivi e civili. Quello che era cominciato come una protesta diffusa contro l’ingiustizia economica, è diventata un esperimento di vaste proporzioni di costruzione di una classe. IL 99% che poteva sembrare una categoria che si poteva auspicare solo pochi mesi fa, ha cominciato a essere fermamente decisa a esistere.

E’ possibile che l’unità che è stata  coltivata negli accampamenti sopravviva quando il movimento “Occupiamo” si avvierà a una fase più decentralizzata.  All’interno di quel 99%  rimangono tutti i tipi di divisioni di classe, razziali e culturali, e anche la sfiducia tra i membri della ex “élite liberale” e coloro che sono meno privilegiati. Ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse successo. L’esperienza di vita di un giovane avvocato o di un assistente sociale  è molto diversa da quella di un operaio il cui lavoro può di rado permettergli il tempo le necessità biologiche in un intervallo per mangiare o per andare al bagno. I gruppi che in circolo suonano i tamburi, quelli del processo  decisionale consensuale  e le maschere continuano a essere elementi esotici per circa il 905. Il pregiudizio della “classe media” contro i senza tetto, alimentato da decenni di demonizzazione dei poveri  fatta dalla destra, ha ancora molta presa sulla gente.

A volte queste differenze hanno portato a degli scontri negli attendamenti di “Occupiamo” – per esempio riguardo al ruolo di coloro che sono perennemente senza casa o sull’uso della marijuana a Los Angeles- ma, sorprendentemente, malgrado tutti gli avvertimenti ufficiali riguardo alla salute e alle minacce per la  sicurezza, non c’è stato alcun “momento di Altamont”*, nessun incendio e quasi nessun atto di violenza. Stare insieme infatti, produceva delle convergenze inimmaginabili: c’erano appartenenti a ambienti confortevoli che imparava dai senza tetto come sopravvivere per strada, un illustre professore di scienze politiche che  discuteva con un dipendente delle poste sul processo decisionale orizzontale in contrapposizione  a quello verticale, militari in uniforme che comparivano per difendere gli occupanti dalla polizia.  

 

La classe nasce per caso, come ha detto Thompson, ma nasce nel modo più decisivo quando la gente è pronta nutrirla e costruirla. Se il “99%”  deve diventare più di un comportamento  alla moda,  se deve diventare una forza che cambi il mondo, alla fine dovremo inevitabilmente affrontare alcune delle divisioni di classe e di razza che vi sono insite. Dobbiamo però farlo con pazienza, con rispetto e sempre con un occhio alla successiva azione importante – la dimostrazione, o l’occupazione costruttiva, o la lotta contro i pignoramenti, fatte in base a  quanto richiede la situazione.

 

* Nel dicembre dello stesso anno (1969), durante un concerto ad Altomont, California, Mick Jagger incita gli Heel’s Angels a provocare disordini che si concludono con l’uccisione di alcuni spettatori. Da http://www.scaruffi.com/vol1/stones.html

 

Barbara Ehrenreich,che collabora regolarmente ai TomDispatch, è autrice di: Nickel  and Dimed: On (Not) Getting By in America (Pagati con gli  spiccioli:  come (non) tirare avanti   in America)  (ora nell’edizione fatta per il decimo anniversario e con una nuova postfazione).

P.S.  http://www.feltrinellieditore.it/SchedaLibroRecensioni?id_volume=5000222 (n.d.T.)

 

 

John Ehrenreich è professore di psicologia alla StateUniversity  di New York, al College Old Westbury. Ha scritto: The Humanitarian Companion:A Guide for International Aid, Development, and Human Rights Workers.

 

Questo è un articolo congiunto TomDispatch/Nation ed è pubblicato sulla rivista Nation

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su TomDispatch.com, un weblog del Nation Institute, che offre un flusso continuo di fonti alternative, notizie e opinioni da parte di Tom Engelhardt, direttore editoriale, co-fondatore dell’American Empire Project, autore del libro : The End of Victory Culture (La fine della cultura della vittoria) e anche del romanzo: The Last Days of Publishing (Gli ultimi giorni dell’editoria). Il suo libro più recente è: The American way of War:How Bush’s Wars Became Obama’s (Haymarket Books) ( Lo stile bellico Americano: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama).

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo –

http://www.znetitaly.org

http://www.zcommunications.org/the-making-of-the-american-99-and-the-collapse-of-the-middle-class-by-barbara-ehrenreich

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly– Licenza Creative Commons  CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

 

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Cuba: Operazione Peter Pan

19 lunedì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Nelson P. Valdés, Saul Landau

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anticastristi, bambini cubani, CIA, cuba

di Saul Landau e Nelson P.Valdés – 18 dicembre 2011

“Los ninos nacen para ser felices.” – José Marti

Il 19 novembre 2011 la NPR ha trasmesso il programma “I bambini di Cuba ricordano il loro volo verso gli Stati Uniti”. Il giornalista Greg Allen ha affermato che il viaggio da Cuba agli Stati Uniti di più di 14.000 bambini cubani nel 1960-62 “fu reso possibile grazie a un accordo concluso da un sacerdote della diocesi di Miami [padre Bryan Walsh] … con il Dipartimento di Stato USA. L’accordo gli consentiva di firmare visti per bambini da 16 anni in giù.”  Allen ha poi intervistato numerosi cubani americani di destra per offrire una prospettiva “obiettiva” dei fatti relativi all’Operazione Peter Pan.

Curiosamente Allen ha omesso la CIA dal suo rapporto, anche se ampie prove dimostrano che l’Agenzia, agli inizi degli anni ’60, ha cospirato con la Chiesa per portar via bambini da Cuba.

Una volta entro i confini di allevamento del paese più grande del mondo “i bambini di Pedro Pan hanno fatto una bella riuscita,” ha concluso Allen, senza spiegare cosa significhi “bella”.  Ora gli adulti, ex bambini di Pedro Pan, restano “fermamente contrari a qualsiasi normalizzazione delle relazioni con il regime di Castro, il regime che è stato responsabile di separare le loro famiglie e di costringerli ad andarsene dalla propria patria.”

I collaboratori della NPR avrebbero potuto scoprire una storia molto più complessa e sinistra, se solo avessero approfondito.  La CIA si rifiuta di pubblicare i documenti dell’Operazione Peter Pan, ma testimonianze abbondanti dimostrano che l’Agenzia aveva falsificato documenti e diffuso menzogne, insieme a padre Walsh e alla gerarchia cattolica della regione.  Il loro obiettivo:  separare i bambini dell’élite (un drenaggio di cervelli cubani) e generare instabilità politica.

Un cospiratore dell’Operazione Peter Pan, Antonio Veciana, che ora vive a Miami, ci ha detto come Maurice Bishop (alias il funzionario della CIA David Atlee Phillips) lo aveva reclutato nel 1960 “per scatenare una guerra psicologica, al fine di destabilizzare il governo.”  Veciana ha descritto come l’Agenzia falsificò una legge per far credere ai cubani facoltosi che il governo rivoluzionario aveva in programma di usurpare il controllo dei genitori.  Gli agenti di Bishop a Cuba diffusero la voce, sostenuti da una simulazione falsa della presunta legge, presso membri delle classi professionali e proprietarie.  Il falso “dichiarava che i genitori avrebbero perso il contro dei loro figli a favore dello stato.”

Veciana ha raccontato come “gli agenti della CIA affermarono di aver trafugato il documento dal governo cubano.”  Questo falso documento “creò un panico tremendo”. Il 26 ottobre 1960, la stazione radio controllata dalla CIA dell’isola di Swan, a sud di Cuba, diffuse “notizie” in un’edizione straordinaria. Il governo di Cuba, dichiarò la radio, aveva in programma di togliere i figli ai genitori in modo da indottrinarli. Radio Swan diffuse anche un’altra menzogna: l’opposizione clandestina cubana aveva ottenuto copia della “legge” imminente.

Una ricerca minimale avrebbe rivelato che Leopoldina e Ramòn Grau Alsina, nipoti dell’ex presidente cubano Ramòn Grau San Martin, avevano confessato a funzionari della polizia cubana, dopo essere stati arrestati nel 1965, di aver stampato la falsa legge all’Avana, di averla fatta circolare clandestinamente e di aver mentito ai genitori.

L’articolo 3 del documento apocrifo affermava: “All’entrata in vigore della presente legge,  la custodia delle persone di età inferiore ai vent’anni sarà esercitata dallo stato attraverso persone o organizzazioni alle quali sarà delegato il relativo potere.”  Sacerdoti e agenti della CIA reclutarono bambini e persuasero i genitori a “fidarsi di noi. Il governo USA di prenderà cura di loro.”

Il clero fece circolare il documento falso presso il loro gregge cubano della classe media superiore.  I dirigenti delle scuole cattoliche temevano che  il programma di istruzione pubblica in rapida espansione di Castro avrebbe compromesso il loro virtuale monopolio educativo sui segmenti facoltosi.

Nel marzo del 1960 il presidente Eisenhower ordinò alla CIA di rovesciare il governo cubano. Cospiratori dell’Agenzia organizzarono l’Operazione Peter Pan perché si accompagnasse alla propaganda politica e alle politiche di strangolamento economico.  Questi percorsi paralleli avrebbero indebolito il governo di Castro mentre gli istruttori statunitensi preparavano una forza d’invasione di cubani in esilio che, a sua volta, si sarebbe coordinata con terroristi e guerriglieri urbani appoggiati dalla CIA.

L’Operazione Peter Pan (ricordate il film della Disney?) utilizzò i bambini e i genitori cubani per perseguire  il proprio obiettivo: rovesciare il governo rivoluzionario. L’affermazione della NPR dell’ “assenza di prove” del coinvolgimento della CIA sarebbe stata sconfessata se avessero sentito Veciana o avessero chiesto perché la CIA continua a rifiutarsi di rendere pubblici i suoi più di 1.500 documenti relativi a tale Operazione, mentre ha desegretato gli archivi relativi alla Baia dei Porci e alla Crisi dei Missili del 1962.

Il padre dello scrittore  Alvaro Fernandez, Angel Fernandez Varela, reclutato dalla CIA all’Avana,  insegnava presso il collegio Belen, gestito dai gesuiti. Prima di morire a Miami, ha scritto Alvaro, Angel disse alla sua famiglia “di essere uno dei responsabili della stesura della falsa legge che aveva dato origine all’isteria.”

Il rapporto della NPR non chiede: chi ottenne i visti e i biglietti aerei dei bambini, i contatti all’estero e perché le compagnie aeree KLM e Pan American emisero biglietti gratuiti per i bambini dell’Operazione Peter Pan?

Né Allen, della NPR, ha controllato il seguito.  Il governo USA non mantenne i contatti tra i genitori e i bambini, né assicurò visti alla maggior parte dei genitori, che rimasero a Cuba.  L’Alto Commissario dell’ONU cercò di riunire genitori e figli ma Washington non lo sostenne.

Veciana contribuì ad agevolare questo sporco gioco, ma in seguito rifletté: “A posteriori mi chiesi: fu quella la cosa giusta da fare? Perché in effetti creammo il panico riguardo al governo, ma anche separammo tanti bambini dai loro genitori.”

Di fatto Cuba ha ottenuto elogi per il suo trattamento dei bambini.  “A Cuba non ci sono bambini lasciati nelle strade, non ci sono bambini che non frequentano la scuola, non ci sono bambini privi di accesso a servizi sanitari e all’istruzione, e non ci sono bambini non protetti senza possibilità di sviluppo” ha affermato Jose Juan Ortiz, rappresentante dell’UNICEF a Cuba. (http://english.people.com.cn/90001/90777/90856/7398806.html)

Paradossalmente la CIA attribuì al governo cubano gli stessi propri obiettivi: separare i bambini dai genitori.  Forse se i collaboratori della NPR avesse considerato la cosa da un punto di vista ironico, avrebbero realizzato un rapporto più accurato riguardo all’Operazione Peter Pan.

 

‘Will The Real Terrorist Please Stand Up’ [Il terrorista vero vuole alzarsi in piedi, per favore?]di Saul Landau è disponibile su DVD presso cinemalibrestore@gmail.com. Counterpunch ha pubblicato il suo ‘Bush and Botox World’.

Nelson Valdes arrivò in Florida nell’ambito dell’Operazione Peter Pan ed è professore emerito all’Università del New Mexico.

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/where-s-captain-hook-in-npr-s-peter-pan-by-saul-landau

Originale: Daily Censored

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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OccupyWallStreet: un’introduzione al processo del consenso ed all’Assemblea Generale

18 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in America, Amy Goodman, Economia, Una Spenser

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assemblea generale, consenso, occupywallstreet, organizzazione

di Una Spenser –  8 ottobre 2011

Ho tenuto un diario delle mie esperienze presso #OccupyBoston qui e qui. Ciò che queste esperienze hanno messo in luce è che, mentre il movimento #Occupiamo si diffonde in centinaia di città degli Stati Uniti, sentiamo parlare di questi raduni chiamati “Assemblee Generali” e di “consenso”.  Ma cosa sappiamo davvero di queste cose?

Questo movimento è ispirato direttamente dalla Primavera Araba e dalle Campanadas in Spagna. Abbiamo visto il popolo egiziano riunirsi lentamente al Cairo come folla disorganizzata, assolutamente criticato dalle voci internazionali per essere soltanto una élite di giovani istruiti e per essere privo di capi e non avere obiettivi chiari.  Suona familiare?

Un punto di svolta è stato il giorno in cui hanno dispiegato, sul lato di un edificio, una lista di rivendicazioni che formulavano chiaramente i passi per passare dalla tirannia della brutale cleptocrazia di Mubarak a una società democratica più giusta. Poi i lavoratori hanno aderito alla loro causa e hanno cominciato a scioperare. Improvvisamente il mondo ha saputo che si trattava di una cosa seria.

Come sono passati dall’essere una “folla” disorganizzata priva di capi a essere un movimento galvanizzato con un piano grandioso? Hanno abbracciato un sistema di democrazia orizzontale noto come democrazia diretta e hanno utilizzato il Pensiero Collettivo.

Dal primo giorno, Piazza Tahrir è stata davvero un mini-esempio di quello che è la democrazia diretta.  La gente si è fatta carico di tutto; spazzatura, cibo, sicurezza. E’ stata un’entità autosufficiente. E in mezzo a ciò, sotto ogni tenda, a ogni angolo, la gente dibatteva le proprie rivendicazioni, il futuro, come le cose dovevano andare economicamente e politicamente. E’ stato affascinante. E’ stato uno specchio di ciò che l’Egitto avrebbe amato essere se fosse stato democratico. E si è sottratto allo stereotipo perpetuato dal regime e dai media occidentali circa il fatto che gli arabi sono supposti essere politicamente apatici.

In tale sistema non c’è gerarchia. Chiunque può formare un Gruppo di Lavoro per valutare le necessità e costruire possibili soluzioni. I Gruppi di Lavoro trasferiscono tali soluzioni possibili, come proposte, a un’Assemblea Generale perché l’intera comunità le prenda in considerazione. Il processo utilizzato per valutare una proposta è chiamato consenso.

Le cleptocrazie possono emergere da molte forme di governo. L’Egitto era un governo autocratico. Qui abbiamo una democrazia che si suppone rappresentativa, tuttavia quella che è in vigore è in realtà una cleptocrazia.  Ogni volta che si assiste a disparità di reddito come quelle che abbiamo qui, è in vigore una cleptocrazia. Se il sistema del Pensiero Collettivo ha potuto rovesciare Mubarak, si può capire come sia imperativo sperimentarlo qui. Soltanto, è necessario che apprendiamo ciò che stiamo per tentare.

Seguitemi oltre e vi offrirò un’introduzione al pensiero collettivo, alle assemblee generale e al processo decisionale del consenso.

La Commissione sulle Dinamiche di Gruppo nelle Assemblee del Campo di Protesta di Puerta del Sol (Madrid) ha definito il pensiero collettivo come segue:

Per quanto a nostra conoscenza il Pensiero Collettivo è diametricalmente opposto al tipo di pensiero proposto dal sistema attuale. Ciò rende difficile assimilarlo e applicarlo. E’ necessario tempo e comporta un processo lungo. Di fronte a una decisione la reazione normale di due persone con opinioni diverse tende a essere aggressiva. Ciascuno difende la propria opinione allo scopo di convincere l’avversario, fino a quando tale opinione risulta vincente oppure, al massimo, viene raggiunto un compromesso.

Lo scopo del Pensiero Collettivo, d’altro canto, è di costruire. Cioè due persone con idee diverse collaborano per costruire qualcosa di nuovo. Non viene dato perciò peso alla mia idea o alla tua; piuttosto il concetto è che due idee insieme produrranno qualcosa di nuovo, qualcosa che né tu né io avevamo immaginato all’inizio. Quest’ottica esige  da noi un ascolto attivo, piuttosto che la mera preoccupazione di preparare la nostra reazione.

Il Pensiero Collettivo nasce quando comprendiamo che, nel generare il consenso, devono essere valutate tutte le opinioni, le nostre e le altrui, e che una volta che il consenso è indirettamente costruito, esso può trasformarci.

Un modo per immaginare la cosa potrebbe consistere nel valutare i sondaggi che utilizziamo qui a Daily Kos.  Qualcuno propone delle scelte e noi dobbiamo deciderne una. Quella con il maggior numero di voti vince. Io spesso litigo con i sondaggi e i test a risposta multipla perché la risposta che sceglierei non c’è quasi mai. In un modello di pensiero collettivo, non verrebbe mai proposto un sondaggio simile. Si potrebbe presentare una lista di opzioni ma invece di sceglierne una si lavorerebbe insieme per modificare la lista trasformandola in un’unica risposta che rifletta le preoccupazioni e le idee di tutti. Si arriverebbe a una risposta che tutti potrebbero accettare e cui tutti potrebbero consentire. E’ molto probabile che la risposta risultante non sarebbe simile a nulla di ciò che era contenuto nella lista di scelte originale.

Nel pensiero competitivo, ci affidiamo a singoli o a piccole organizzazioni per formulare soluzioni e o vi acconsentiamo o le rifiutiamo e scegliamo le soluzioni di un’altra persona. E’ altamente probabile che nessuna opzione sia ottima, ma siamo costretti a scegliere. Poi consideriamo quelli che hanno avanzato la proposta vincente come leader e tendiamo a delegare a loro le nostre decisioni future.

Nel pensiero collettivo, ciò non accadrebbe mai. Se qualcuno propone una soluzione, essa viene portata alla valutazione del collettivo per idee su come potrebbe essere resa ancora migliore e la garanzia che tutte le preoccupazioni riguardanti la proposta siano affrontate. La soluzione risultante appartiene a tutti e nessuno è considerato un leader e a nessuno sono delegate le decisioni future. Il potere di attuare proposte e di ricoprire posizioni di tipo dirigenziale è temporaneo e al servizio della comunità.

Ora cominciamo a comprendere il concetto di Pensiero Collettivo. Diamo un’occhiata alla sede in cui si svolge il Pensiero Collettivo: l’Assemblea. L’Assemblea è un modello di riunione. I gruppi di lavoro possono operare come un’assemblea. Quando in una comunità si riuniscono tutti si parla di Assemblea Generale o di Assemblea Cittadina o di Assemblea Popolare.

La Campagna per la Democrazia Reale definisce l’Assemblea Popolare così:

(1) Le Assemblee Popolari  assumono le decisioni orizzontalmente

(2) Le Assemblee Popolari sono interessate ad apprendere, sperimentare e incorporare nuove pratiche democratiche

E’ davvero così semplice. Un’assemblea è un organismo decisionale. L’organizzazione Giornata USA della Rabbia  descrive ulteriormente ciò che un’assemblea è, e ciò che non è:

Cos’è un’Assemblea Popolare?

E’ un organismo decisionale partecipativo che lavora per raggiungere il consenso.

L’Assemblea ricerca gli argomenti migliori per assumere decisioni che riflettano ogni opinione, non posizioni in contrasto le une con le altre come accade quando si vota.

Un’Assemblea non dovrebbe essere incentrata su un dibattito ideologico; dovrebbe invece occuparsi di questioni pratiche:

  • Di cosa abbiamo bisogno?
  • Come possiamo ottenerlo?

L’Assemblea è basata sull’associazione libera; se non si è d’accordo con ciò che viene deciso non si è tenuti ad attuarlo. Tutti sono liberi di fare quello che desiderano; l’Assemblea cerca di produrre un’informazione collettiva e linee condivise di pensiero e azione. Incoraggia il dialogo e la conoscenza reciproca.

Un’Assemblea è un luogo di riunione in cui persone che hanno obiettivi comuni possono incontrarsi su un piano di parità. Può occuparsi di:

  • Informazioni: i partecipanti condividono informazioni di mutuo interesse. Non discutono il contenuto di tali informazioni.
  • Riflessioni: esaminare  a fondo insieme una questione, una situazione o un problema. Devono essere fornite le informazioni ma non occorre arrivare a una decisione immediata.
  • Decisioni: quando il gruppo deve arrivare a una conclusione o a una decisione unitaria riguardo a un argomento in cui è stato coinvolto. Per arrivare a questo e al fine di costruire il consenso devono essere stati attuati i due passi precedenti (disporre delle informazioni e riflettere su di esse).

Nella mia esperienza delle occupazioni, sin qui, non comprendere ciò che un’Assemblea Generale è, e ciò che non è, è fonte di un mucchio di confusione e, quindi, di frustrazione. Le persone sono costrette ad aderire a questo movimento a motivo del fatto che, essendo state  private dei loro diritti, si sono ritrovate a sentirsi arrabbiate e disperate.  Temono per il proprio futuro. Vogliono unirsi ad altri nella stessa barca. La sola cosa che sappiamo fare riguardo all’assunzione di questa posizione politica è manifestare insieme.  Siamo abituati a riunirci e ad ascoltare persone che ci parlano e ci infervorano e ci ispirano con le loro idee. Ci aspettiamo che siano loro a guidarci e a farsi carico dei problemi al posto nostro. Deleghiamo loro la nostra responsabilità sociale collettiva.

Il problema è che questo è ciò che siamo andati facendo per più di 200 anni e siamo in una condizione di fallimento. Dobbiamo fare qualcosa in modo diverso. Questo movimento è una protesta, certo, ma è anche un’offerta.  Offre un modo alternativo di affrontare i nostri bisogni sociali. Tale modo è una democrazia partecipativa diretta in cui ogni persona è equanime, responsabile e deve rendere conto appieno delle decisioni che assumiamo su come governarci. Ciò significa mettersi  al lavoro sul serio.

Quel che è brillante in questo sistema è che si tratta di arrivare a soluzioni. Non si tratta di lamentarsi. Se si ha un problema, va sviluppata una proposta. Non si è in grado di elaborarla da soli? Si crei un gruppo di lavoro.

Non si tratta di pontificare. Se si hanno informazioni da condividere – informazioni reali, concrete, non opinioni – vanno assolutamente fornite per contribuire ad assumere decisioni. Si deve restare attaccati ai fatti. Non importa quale sia l’opinione personale. Abbiamo un problema da affrontare e dobbiamo costruire una soluzione. Vanno offerte proposte o correzioni, non opinioni intangibili.

Non c’è spazio per i partiti politici in questo sistema. Se hai un’idea costruttiva da aggiungere alla costruzione di una soluzione, esprimila qui. Non importa se proviene da qualche sfondo ideologico. Marxisti, Comunisti, Democratici, Socialisti … queste etichette non significheranno nulla. O l’idea affronta la necessità di cui ci si occupa oppure no. Sarà presa in considerazione e adottata o rifiutata in base al fatto che si tratti di qualcosa che tutti possono riconoscere come soluzione per una necessità.

Molti si perdono quando partecipano a un’Assemblea Generale. Ho visto gente in continuazione lamentarsi che “stiamo parlando di cose reali!” Ho assistito alla formazione di un gruppo dirigenziale anarchico qui a Boston. Hanno espresso frustrazione per il fatto che non c’è dibattito all’Assemblea Generale. Ma l’Assemblea Generale non è una sede di dibattito. E’ una sede di costruzione di soluzioni pratiche. Dunque, se hai una proposta, avanzala. Se hai informazioni da condividere, mettiti in coda (stack) e, assolutamente, condividile.

Che cos’è una coda (stack)? Le code sono liste di chi ha chiesto di parlare. Chi gestisce le code chiamerà le persone per ordine al momento opportuno. All’Assemblea Generale di Boston, ad esempio, ora utilizziamo una coda per gli Annunci dei Gruppi, una coda per le Proposte dei Gruppi e una coda Individuale.  Quando qualcuno parla si utilizzano mini-code. Tutti hanno diritto di parlare senza essere interrotti. Se qualcuno ha una richiesta di chiarimento (requisito molto importante) o una richiesta di informazioni direttamente rilevante, fa un gesto. Un Gestore del Tempo del Pubblico metterà queste persone in coda per parlare quando l’oratore ha finito. Se il Gestore del Tempo del Pubblico decide che la domanda è a fini di chiarimento o che l’informazione richiesta non è direttamente rilevante, la persona può scegliere di essere posta sulla coda Individuale. A nessuno è negata la possibilità di parlare.

Va notato che a New York e a Boston utilizziamo uno strumento chiamato ‘coda progressiva’. Il gestore della coda verifica che si ascolti una pluralità di voci. Se un gruppo demografico è ascoltato troppo spesso, il gestore della coda ha la facoltà di dare precedenza nella coda a qualcuno che rappresenti un gruppo demografico diverso.  La cosa più tipicamente si verifica riguardo al genere. Si prenotano nella coda per parlare più uomini che donne. Può capitare di sentir parlare cinque uomini di seguito e il gestore della coda sposterà allora in cima alla coda una donna. Con il conoscerci meglio a vicenda la gestione della coda progressiva probabilmente si affinerà in modo che possano essere messe più spesso in posizioni di priorità nella coda più voci emarginate.

Ciò che un’Assemblea Generale non è, è stato un concetto impegnativo da affrontare. Così quello che abbiamo visto emergere è una versione modificata dell’Assemblea in cui la “coda Individuale” è più che altro un microfono aperto alla fine dell’Assemblea.  Colpisce costatare come le persone si impegnino durante il processo di valutazione di una proposta e quanti abbandonino l’Assemblea una volta che inizia il microfono aperto.  Immagino che dovremo dividere la coda Individuale in una coda propositiva e in una coda di condivisione in modo da non perdere la considerazione, da parte del collettivo, di proposte valide solo perché la gente se n’è andata.

A Boston c’è voluto un po’ per consolidare una struttura di Assemblea Generale propria dell’accampamento e cui l’accampamento aderisce.  Essere passati attraverso la struttura gerarchica calata dall’alto del “governo della maggioranza” della nostra società e attraverso tutti i sentimenti di oppressione che ne sono derivati, ci ha lasciati impauriti e privi di fiducia. C’è stata una reazione da riflesso condizionato all’avere persone che “impongano” regole e strutture. E’ stato prevalente un pregiudizio sottostante nei confronti dell’oppressione autoritaria di una classe dominante autoeletta. Dopo diverse assemblee fallite, tuttavia, un quasi ammutinamento del Gruppo di Lavoro Agevolativo ha portato a un appello sentito del tipo “proviamoci, per favore, e facciamoci partecipi del miglioramento delle cose che non funzionano bene”. E’ stato un momento di tensione, con gli agevolatori che volevano andarsene se i partecipanti non avessero consentito a sperimentare la struttura. Lo hanno fatto, comunque, e abbiamo avuto la nostra prima esperienza di un vero lavoro attraverso il consenso. I partecipanti sono arrivati a comprendere davvero che non si trattava di un’imposizione autoritaria, bensì di una garanzia di sicurezza per chiunque volesse parlare. Stiamo ancora mettendo a punto dei dettagli, ma ora stiamo progredendo con un senso di fiducia.

OK, cos’è dunque, esattamente, la procedura del consenso? Non c’è un insieme di regole per raggiungere il consenso. Il sito ConsensusDecisionMaking.org  ha questo da dire:

Che cos’è il processo decisionale incentrato sul consenso?

Ci sono molti significati del termine “consenso”. E ci sono molte variazioni riguardo al modo in cui i gruppi usano il “processo decisionale incentrato sul consenso”.  Queste differenze sono espresse in articoli e altre risorse di questo sito web.  I seguenti principi unificatori, tuttavia, formano un tronco comune da cui si dipartono rami diversi.

Il sito elenca ed elabora i seguenti principi:

  • Inclusività
  • Ricerca di accordo
  • Collaborazione
  • Costruzione di rapporti
  • Pensiero dell’intero gruppo

Sul sito si possono trovare molte discussioni sulle variazioni che possono essere impiegate per raggiungere il consenso. I passi fondamentali implicati sono:

  1. Discussione
  2. Identificazione di una proposta
  3. Identificazione di problemi non risolti
  4. Modifica collaborativa della proposta
  5. Valutazione del sostegno
  6. Completamento della decisione o ritorno ai passi 1 o 3

La chiave per fare ciò consiste nel dar tempo a tutte le voci per esprimere i propri dubbi e per costruire la proposta in modo tale che tutti i membri si dicano d’accordo di poterla accettare. Non si lasciano problemi in sospeso procedendo oltre. E’ in questo modo che sono protetti i gruppi di minoranza.

Per #OccupyBoston abbiamo lavorato alla nostra procedura di consenso. Un paio di noi ha avviato la stesura di  un documento di lavoro ed è in corso una discussione riguardo ai dettagli. Poiché i 5 passi fondamentali elencati più sopra non vi danno un’idea esatta di come potrebbe effettivamente essere il processo, incollo la versione in corso  della procedura di consenso con le nostre note attuali:

Questa è una guida per i Facilitatori riguardo a come OccupyBoston sta attualmente attuando il processo del consenso. Il Gruppo di Lavoro per la Facilitazione sta preparando una proposta da presentare all’Assemblea Generale con tutti i dettagli per la gestione di un’Assemblea Generale.

Cos’è il consenso

Il consenso è una procedura di risoluzione nonviolenta dei conflitti. L’espressione di preoccupazioni e di idee contrastanti è considerata desiderabile e importante. Quando un gruppo crea un’atmosfera che alimenta e sostiene il dissenso senza ostilità o paura, costruisce le fondamenta per decisioni più forti e più creative.

Consenso diretto

1. Chiedere al gruppo o alla persona di manifestare le proprie proposte

2. Chiedere di attendere mentre voi:

a. chiedete se ci sono richieste di chiarimenti

b. chiedete se ci sono informazioni necessarie/da condividere

c. chiedete se ci sono preoccupazioni od obiezioni forti fornendo le seguenti spiegazioni:

– “Prima di condividere le preoccupazioni, ricordiamo che in un processo di consenso, quando si condivide una preoccupazione  esso diventa una preoccupazione  del gruppo. Saremo tutti responsabili di assicurarci che sia affrontata, prima di votare.”

– faremo delle pause di silenzio; più impegnativo il tema, più lunghe le pause, per consentire a ciascuno di pensare ed esprimersi,

– in questo momento stiamo soltanto elencando, non affrontando o risolvendo dubbi od obiezioni; tale processo avrà luogo dopo (è a questo fine che sono previste le modifiche e le valutazioni dei cambiamenti da parte del proponente),

– chiediamo che i dubbi e le obiezioni siano formulati partendo dal presupposto che il gruppo cercherà di trovarvi soluzione,

d. chiedere se ci sono modifiche costruttive per affrontare i dubbi e le obiezioni espressi.

NOTA: nel corso di questa sezione (ad eccezione della parte a) non dovrebbero esserci reazioni dirette.  Le persone si sentiranno più sicure nell’esprimere dubbi e obiezioni se sapranno di non dover affrontare immediatamente idee o contestazioni.  Le modifiche proposte sono la reazione a contestazioni e obiezioni. Il tempo lasciato ai proponenti per valutare la modifica delle proprie proposte è un modo per affrontare o risolvere dubbi e obiezioni. L’obiettivo consiste nel restare non aggressivi e nel concentrarsi sul costruire soluzioni insieme presupponendo che ogni input è un mattone della costruzione delle soluzioni e che ogni nuovo input è un mattone posto sulle fondamenta che tutti gli altri mattoni hanno già creato.
3. Dare ai proponenti un momento per valutare se affronteranno i dubbi e le obiezioni facendo una delle cose seguenti:

a. spiegando quanti dubbi e obiezioni sono già trattati

b. ritirando la proposta

c. modificando la proposta in base a dubbi e obiezioni

d. adottando alcune delle modifiche proposte, o

e. mantenendo la proposta nei suoi termini originali

4. Chiedere  ai proponenti di ripetere la proposta (modificata o meno).

NOTA: ciò viene fatto, anche se non ci sono cambiamenti, per consentire un rinnovato ascolto e per lasciare spazio affinché le persone valutino nuovamente se hanno preoccupazioni, obiezioni o modifiche da sottoporre. Non passare a richiedere il consenso fino a quando non si avverta che tutto ciò è stato espresso.

4. [sic, probabilmente da cancellare, vedi oltre il punto 5 – n.d.t.] Ripercorrere i passi 2 e 3.

5. Ripetere i passaggi da 2 a 4 fino a quando non ci siano più obiezioni o modifiche.

NOTA: dobbiamo decidere quante di queste ripetizione effettuare prima di passare al Consenso Indiretto.

6. Chiedere se esistono richieste di bloccare le proposte e definire cos’è un blocco.

NOTA: In tutti i modelli che Allison ha osservato, un blocco può effettivamente opporsi al consenso. (E’ fondamentale definire come ciò si verifica). Ciò è diverso da una “preoccupazione grave” che potrebbe essere  fatta rilevare ma che non blocca il consenso.  Dobbiamo decidere  se vogliamo consentire i blocchi (possono esserci gravi svantaggi nel consentire i blocchi ma possono essere suscitati timori che voci emarginate possano essere oppresse se non vi è un chiaro accordo sui limiti del potere individuale sui gruppi) e, in caso affermativo, come ciò possa verificarsi. (Può un singolo, se il gruppo considera il blocco essere una questione di principio, far valere un blocco? O qualcuno deve esprimere i propri motivi per un blocco e poi deve ottenere una certa percentuale di sostegno al blocco?)

(da Wikipedia: i blocchi sono in generale considerati una misura estrema, utilizzati soltanto quando un membro sente che una proposta “mette in pericolo l’organizzazione o i suoi partecipanti o viola la missione dell’organizzazione (ovvero un’obiezione di principio). Il gruppo decide se consentire o meno il blocco.)

7. Se la proposta non è bloccata chiedere “Potete accettare questa proposta?” e misurare la reazione.

NOTA: Allison chiarisce, con “Potete accettare questa proposta?”, come si formula la richiesta del consenso in quanto, prima di questo, non abbiamo avuto una formulazione esplicita. Si suppone che il consenso riguardi una decisione che tutti possano accettare.  Non significa che tutti siano d’accordo. Significa che tutti acconsentono. E’ importante operare la distinzione tra l’acconsentire (da cui il consenso) e il condividere.

8. Se c’è un consenso del 75%, farsi confermare dai partecipanti che tutti rilevano un consenso del 75% e poi annunciare che è stato raggiunto il consenso e che la proposta è adottata.

9. (Se necessario). Se non c’è il consenso ma la proposta non è bloccata si può passare al consenso indiretto.

Consenso indiretto

Implica mini-presentazioni e possibile creazione di sottogruppi_

1. Chiedere a tre persone che appoggiano la proposta e a tre persone che vi si oppongono di parlare ciascuno da 30 secondi a due minuti, alternando sostenitori e oppositori.

2. Riformulare la proposta e chiedere “potete accettare questa proposta?” prima di misurare la reazione.

3. Se non viene raggiunto il consenso chiedere all’assemblea di suddividersi in piccoli gruppi di discussione per 3 – 5 minuti.

(NOTA: ci sono diversi tipi di gruppi di discussione. Possiamo scegliere di utilizzarne uno o avere un menu da cui l’agevolatore possa scegliere il tipo più adatto.

4. Richiamare i partecipanti all’assemblea e

a. chiedere se ci sono richieste di chiarimento

b. chiedere se si sono necessità di informazione

c. chiedere se vi sono preoccupazioni gravi o obiezioni fornendo le seguenti spiegazioni:

– faremo delle pause di silenzio; più impegnativo il tema, più lunghe le pause, per consentire a ciascuno di pensare ed esprimersi,

– in questo momento stiamo soltanto elencando, non affrontando o risolvendo dubbi od obiezioni;

– chiediamo che i dubbi e le obiezioni siano formulati partendo dal presupposto che il gruppo cercherà di trovarvi soluzione,

d. chiedere se ci sono modifiche costruttive

5.  Dare ai proponenti un momento per valutare se vogliono:

a. spiegare quanti dubbi e obiezioni sono già trattati

b. ritirare la proposta

c. modificare  la proposta in base a dubbi e obiezioni

d. adottare alcune delle modifiche proposte, o

e. mantenere la proposta nei suoi termini originali

6. Chiedere ai proponenti di ripetere la proposta (modificata o meno)

7. Spiegare cos’è un blocco e chiedere se ce ne sono.

8. Se la proposta non è bloccata chiedere “Potete accettare questa proposta?” e misurare le reazioni.

9. Se non viene raggiunto il consenso si possono ripetere i passaggi da 1 a 8 o rimandare la proposta a un gruppo di lavoro (se la proposta era di un singolo, questi dovrebbe essere indirizzato a collaborare con un gruppo di lavoro per rivedere la proposta.)

COMUNICAZIONI A GESTI

1. Sono d’accordo, mi piace, questa cosa mi fa sentire bene:  mani in alto, dita che si muovono verso l’alto.

2. Sono neutrale, mi sento così-così: mani piatti, dita che si muovono in avanti.

3. Non sono d’accordo, non mi piace, la cosa non mi fa sentire bene: mani in basso, dita che si muovono verso il basso.

4. Necessità d’informazioni: dito indice puntato verso l’alto.

5. Questione di procedura: unire le punte degli indici in una linea orizzontale.

6. Domanda di chiarimento: dito indice e medio a formare una “C”

7. Modifica costruttiva: segno di “pace”

8. Prosegui, sentiamo cos’hai da dire: ruotare i pugni uno attorno all’altro

10. Preoccupazioni/Obiezioni: ????

Come potete vedere leggendo questo, il consenso richiede tempo. In una società in cui ci viene l’infarto se dobbiamo attendere su un’auto davanti al semaforo rosso o se una pagina web ci mette più di due secondi a caricarsi, dobbiamo essere consapevoli che non siamo addestrati ad avere la pazienza necessaria per questa procedura.  Siamo una banda di “più grossi, migliori, più veloci”.  Soltanto che la nostra definizione di “migliore” può essere rimandata.  Dobbiamo dunque concederci spazio per errori e fallimenti.  Diciamoci “Sì, mi prenderò tempo per ascoltare”.  Facciamo così perché è solo ascoltando tutti che si possono costruire soluzioni che servono tutti.  Quando tutti sono serviti bene, il sistema è sostenibile.  Le persone si sentono collegate alle soluzioni e l’una all’altra e c’è molta più soddisfazione  che in un sistema in cui il 51% delle persone vota per una soluzione con la quale il 49% è in disaccordo.

Come ho detto in precedenza, abbiamo avuto fallimenti spettacolari con l’Assemblea Generale a #OccupyBoston. Abbiamo imparato da quei fallimenti. Ci siamo fermati, abbiamo fatto un passo indietro e ci siamo chiesti: “Vogliamo fallire? Se non lo vogliamo, continuiamo a provare e continuiamo a imparare.”  C’è stata dedizione sufficiente per perseverare cosicché siamo passati in modo altrettanto spettacolare dalla quasi rinuncia a esperienze davvero ispiratrici di Assemblea Generale. Si tratta di un lavoro in corso. Un lavoro collettivo in corso. Un lavoro in cui le decisioni per rivolvere i problemi e i dubbi che incontriamo lungo il cammino sono affrontate collaborativamente e le soluzioni sono decise attraverso il consenso. E’ una bella atmosfera in cui lavorare. E’ lenta. Può essere confusionaria. Può annoiare. Può far sentire che non si arriverà da nessuna parte. Poi è sorprendente come qualcosa emerge e l’energia è piena di creatività e di speranza e la comunità prende forma. Quando ciò accade ci si sente come se si avesse il potere di fare qualsiasi cosa. Forse persino il potere di rovesciare una cleptocrazia plutocratica e di costruire un sistema di governo equo e giusto.

POSTATO IN ORIGINE SU  UnaSpenser SABATO 8 OTTOBRE 2011 ALLE 10:14 PDT.

RIPUBBLICATO ANCHE DA   Occupy Wall Street, Occupy Virtual America: OCCUPY BEYOND WALLSTREET, Occupy our homes!, DKOMA, E ClassWarfare Newsletter: WallStreet VS Working Class Global Occupy movement.

NOTA DEL TRADUTTORE: Per materiali in italiano sul processo del consenso vedere Wikipedia.

DA Z NET ITALY – Lo spirito della resistenza è vivo!

http://www.znetitaly.org

Fonte:  http://www.dailykos.com/story/2011/10/08/1022710/–occupywallstreet:-a-primer-on-consensus-and-the-General-Assembly

Originale: dailykos.com

Traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Le missioni segrete di addestramento condotte dal Pentagono in Medio Oriente

16 venerdì Dic 2011

Posted by Redazione in nick turse, Usa

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usa

Le missioni segrete di addestramento del Pentagono in  Medio Oriente

 

Di Nick Turse

 

14 dicembre 2011

 

Mentre sbocciava  la Primavera Araba  e il presidente Obama era incerto se parlare in favore dei dimostranti che cercavano un cambiamento nel Greater Middle East (Oriente Grande :è un termine entrato di recente nella geopolitica che indica, oltre il Medio Oriente propriamente detto, anche l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan), il Pentagono ha agito con decisione.  Ha creato legami sempre più forti con alcuni dei regimi più repressivi della zona, costruendo basi militari e  negoziando vendite e trasferimenti di armi ai despoti dal Bahrein allo Yemen.

Mentre le forze di sicurezza di tutta la zona usavano la mano pesante contro il dissenso dei democratici, il Pentagono mandava ripetutamente truppe per missioni di addestramento per i militari alleati di quelle zone. Nel corso di più di 40 operazioni di questo genere, che si chiamavano: Eager Lion  Friendship Two, che a volte duravano settimane e mesi ognuna, insegnavano alle forze di sicurezza del Medio Oriente gli aspetti più raffinati della contro insurrezione tattiche per piccole unità,  raccolta di informazioni, e operazioni informative, tutte abilità fondamentali per sconfiggere le insurrezioni popolari.

Questi esercitazioni  di addestramento congiunto, raramente riportate dai mezzi di informazione, e raramente citate al di fuori dell’ambiente militare, costituiscono il nocciolo di un sistema elaborato di vecchia data che lega il Pentagono ai militari dei regimi repressivi di tutto il Medio Oriente. Sebbene il Pentagono stenda un velo di segretezza su queste esercitazioni, rifiutandosi di rispondere a domande importanti sulla loro portata, scopo o costo, un’indagine fatta dal sito TomDispatch rivela le linee generali di un programma di addestramento in tutta la zona che ha grandi ambizioni e che è del tutto in disaccordo con gli obiettivi professati da Washington di appoggio alle riforme democratiche nel Greater Middle East.

 

Leoni, marines e Marocchini  – Oh, mamma mia!

 

Il 19 maggio, il presidente Obama si è finalmente interessato della Primavera Araba in modo serio. Ha dichiarato chiaramente di stare con i dimostranti e di essere contro i governi repressivi, asserendo che “gli interessi dell’America non sono contrari alle speranze della gente, ma sono essenziali per realizzarle.”

Quattro giorni prima, proprio i dimostranti dei quali il presidente aveva preso le parti,  avevano dimostrato a Temara, in Marocco.  Erano diretti a una struttura che si sospettava ospitasse un centro  segreto per gli interrogatori autorizzati dal governo. E’ stato allora che le forze di sicurezza del regno hanno attaccato.(Vedi: rumori dal Mediterraneo.blogspot.com/2011/05/tempra-le-torture-della-nuova-era.html)

“Ero in un gruppo di circa 11 dimostranti, inseguiti dalle auto della polizia.,” ha detto allo Human Rights Watch (HRW) – Osservatorio per i diritti umani, Oussama el-Khlifi, un dimostrante di 23 anni della capitale, Rabat. “Mi hanno costretto a dire: “Lunga vita al re”  e mi hanno colpito a una spalla. Quando hanno visto che non ero caduto, mi hanno colpito la testa  con una  mazza e ho perso conoscenza. Quando sono rinvenuto, mi sono trovato in ospedale con il naso rotto e una lesione a una spalla.”

A circa cinque ore di macchina verso sud, c’era un altro raduno in condizioni molto più favorevoli. Nella città di mare di Agadir, era in corso una cerimonia per festeggiare il trasferimento di un comando militare. “Siamo qui per appoggiare ….impegni bilaterali con uno dei nostri più importanti alleati nella zona,” ha detto il colonnello John Caldwell del Corpo dei Marines degli Stati Uniti al raduno che segnava l’inizio della seconda fase dall’African Lion, un’esercitazione annuale congiunta per l’addestramento fatta  insieme alle forze armate del Marocco.

Il Comando statunitense per l’Africa (AFRICOM), cioè il quartier generale che sovrintende alle operazioni in Africa, ha programmato 13 importanti esercitazioni congiunte di questo tipo soltanto nel 2011, dall’Uganda al Sud Africa,dal Senegal al Ghana, che comprendono anche l’esercitazione African Lion. La maggior parte delle missioni di addestramento nel Greater Middle East sono, tuttavia, realizzate dal Comando centrale (CENTCOM), che sovrintende alle guerre e ad altre attività militari in 20 nazioni di quell’area.

“Ogni anno lo USCENTCOM (Comando centrale statunitense) realizza più di 40 esercitazioni con una vasta gamma di nazioni che collaborano con noi    nella zona,” ha detto a TomDispatch un portavoce militare. “Dato che le nazioni che ci ospitano sono politicamente sensibili,  lo USCENTCOM non discute la natura di molte delle nostre esercitazioni al di fuori delle nostre relazioni bilaterali.”

Delle molte esercitazioni congiunte di addestramento che ha patrocinato, il CENTCOM  ne riconosce due delle quali fa il nome: Leading Edge, un’esercitazione di 30 nazioni centrata sulla contro-proliferazione, svoltasi negli Emirati Arabi Uniti  (United Arab Emirates – UAE) alla fine del 2010 e Eager Resolve, un’esercitazione annuale per simulare una reazione coordinata a un attacco chimico, biologico, radiologico, nucleare o con esplosivi ad alto potenziale; vi partecipano gli stati membri del Consiglio della cooperazione del Golfo: Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Saudi Arabia e gli UAE.

Tuttavia i documenti militari, i rapporti  di dominio pubblico, ed altri dati analizzati da TomDispatch, aprono una finestra sui rapporti con altre nazioni per l’ addestramento che il CENTCOM ha rifiutato di riconoscere. Mentre i dettagli di queste missioni nel caso migliore sono scarsi,  i risultati sono chiari: durante il 2011, le truppe statunitensi hanno operato regolarmente con le forze di sicurezza che hanno anche addestrato, appartenenti a numerosi regimi che stavano attivamente respingendo le proteste democratiche e soffocando il dissenso all’interno dei confini dei loro paesi.

 

Diventare amici del  Regno

 

In gennaio, per esempio, il governo dell’Arabia Saudita  ha ridotto la scarsa libertà di espressione che esisteva in quel regno, per mezzo dell’istituzione di nuove restrizioni sulle notizie su Internet e i commenti fatti dai cittadini riguardo a queste. Lo stesso mese, le autorità saudite hanno avviato azioni repressive per le dimostrazioni pacifiche. Poco dopo, sei Sauditi hanno richiesto al governo il riconoscimento del primo partito politico del paese che, secondo quanto riferisce l’Osservatorio dei Diritti Umani, aveva tra gli scopi dichiarati, “maggiore democrazia e protezione dei diritti umani.” Sono stati subito arrestati.

Il 19 febbraio, soltanto tre giorni dopo quegli arresti, le forze statunitensi e quelle saudite hanno avviato la Friendship Two, un esercitazione di addestramento a Tabuk, in Arabia Saudita. Per dieci giorni, 4.100 soldati americani e sauditi si sono esercitati in manovre di combattimento e in tattiche di contro insurrezione  sotto il sole implacabile del deserto. “Questa è un’esercitazione fantastica  in una sede  fantastica e stiamo mandando un messaggio veramente ottimo alla gente di questa zona,” continuava a dire il Maggiore  Bob Livingston , un comandante della Guardia Nazionale che prendeva parte alla missione. “Gli impegni che abbiamo con l’esercito dell’Arabia Saudita  riguardano il loro esercito, il nostro esercito ma dimostrano anche alla popolazione di questa zona la nostra capacità di collaborare reciprocamente e la nostra capacità di operare insieme.”

 

Eager Lights  e Eager Lions

 

Quando la Primavera Araba ha deposto i despoti alleati degli Stati Uniti in Tunisia e in Egitto, il regno di Giordania, dove criticare il re Abdallah o protestare anche pacificamente contro le politiche del governo è un reato, ha continuato a soffocare il dissenso.  L’anno scorso, per esempio, le forze statali di sicurezza hanno preso d’assalto la casa del ventiquattrenne studente di informatica Imad al-Din al-Ash e lo hanno arrestato. Il suo reato? Un articolo in rete nel quale chiamava il re “effeminato.”

In marzo le forze giordane di sicurezza non sono riuscite a entrare in azione e alcune si sono anche unite ai dimostranti favorevoli al governo quando  questi hanno attaccato dei militanti pacifici che chiedevano riforme politiche.  Poi sono arrivare le dichiarazioni che forze governative avevano torturato i militanti islamisti.

Nel frattempo, in marzo, le truppe statunitensi si sono unite alle forze giordane nella Eager Light, un’esercitazione di addestramento ad Amman, la capitale della Giordania, focalizzata sull’addestramento per operazioni di contro insurrezione. Poi, dall’11 al 30 giugno, migliaia di soldati delle forze di sicurezza giordane e di truppe statunitensi hanno condotto l’esercitazione Eager Lion centrata su missioni di operazioni speciali e  di guerra irregolare e anche contro insurrezione. (http://www.disarmiamoli.org/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=231).

In novembre, Christophe Wilcke, dell’Osservatorio per i Diritti Umani,    ha rimproverato duramente  la Giordani a per il processo di 150 dimostranti arrestati in primavera con accusa di terrorismo dopo una rissa in  pubblico cui partecipavano sostenitori del regime. “Soltanto i membri dell’opposizione sono soggetti a un procedimento giudiziario. Il processo….è seriamente scorretto,” ha scritto Wilcke. Sceglie gli islamisti in base ad accuse di terrorismo e getta dubbi sulla strada presa dal regime verso reali riforme politiche, l’impegno per un governo di diritto, e il dichiarato desiderio di proteggere i diritti della libertà di espressione e di riunione.”

Più o meno nello stesso periodo, le truppe statunitensi stavano  preparando     l’Operazione  Flexible Saif. Per circa quattro mesi le truppe americane si sono impegnate nell’addestramento essenziale dei militari giordani, secondo gli Americani che vi hanno preso parte, concentrandosi su argomenti che andavano dai fondamenti del servizio militare fino ai fondamenti per la raccolta di informazioni.

 

Chi sono i fortunati guerrieri del Kuwait?

 

All’inizio di quest’anno, le forze di sicurezza del Kuwait hanno assaltato e arrestato i dimostranti “Bidun”(senza nazionalità), ** una minoranza della popolazione che chiedevano diritto di cittadinanza dopo avere avuto per 50 anni uno status di apolidi nel regno ricco di petrolio. “Le autorità del Kuwait ….dovrebbero permettere ai dimostranti di parlare e di riunirsi liberamente , come è nel loro diritto,” ha scritto Sarah Leah Whitson, Direttrice per  dell’Osservatorio per i Diritti Umani in  Medio Oriente. Di recente il Kuwait ha usato la mano pesante contro i militanti  che usano internet. In luglio, Priyanka Motaparthy dell’Osservatorio per i Diritti Umani ha scritto sulla rivista Foreign Policy che il ventiseienne Nasser Abul è stato portato bendato  e ammanettato in un’aula di tribunale del Kuwait. Il suo reato, secondo quanto riferisce Motaparthy, è stato “di aver    scritto alcune volte  Twitter  per criticare le famiglie al potere in Bahrein e in Arabia Saudita.”

Questa primavera, le truppe statunitensi hanno partecipato alla Lucky Warrior, un’esercitazione di addestramento di 4 giorni in Kuwait destinata a perfezionare le abilità specifiche  per combattere in quella zona. Lo scarso materiale disponibile dalle forze armate non parla di un coinvolgimento diretto del Kuwait nella Lucky Warrior, ma i documenti esaminati da TomDispatch indicano che sono stati usati  traduttori in  altre “edizioni” dell’esercitazione, facendo quindi pensare a un coinvolgimento del Kuwait e/o di altre nazioni arabe nell’operazione. La segretezza del Pentagono, tuttavia, rende impossibile sapere la portata completa della partecipazione dei collaboratori del Pentagono in quella zona.

TomDispatch ha identificato altre operazioni di addestramento nella zona che il CENCOM ha mancato di riconoscere, compresa la Steppe Eagle, un’esercitazione annuale multilaterale realizzata nel Kazakistan, nazione repressiva, dal 31 luglio al 23 agosto durante la quale si è svolto l’addestramento delle truppe locali in: missioni di scorta, operazioni  di transennamento di una zona destinata ad essere perquisita.  Poi c’è stato il  Raduno della Falcon Air, un’esercitazione  per tattiche di supporto aereo   ravvicinato * che comprendeva anche una “gara” di bombardamento, svolta in ottobre dall’aviazione  statunitense, giordana, e turca nella base aerea di Shaheed Mwaffaq Salti in Giordania.

Le forze armate statunitensi hanno anche organizzato un seminario sulla attualità e le informazioni sulle  operazioni militari, con membri delle forze armate libanesi che comprendeva, secondo un Americano che  vi ha partecipato, una discussione “sull’uso della propaganda come supporto dell’informazione sulle operazioni militari”.

Queste missioni di addestramento sono soltanto una piccola delle molte che si svolgono in segreto, lontano dagli occhi indiscreti della stampa o delle popolazioni locali. Sono una componente fondamentale di un sistema enorme di sostegno del Pentagono che  trasporta anche  aiuti e armi a una serie di regni  medio orientali e di dittature alleati degli Stati Uniti. Queste missioni congiunta assicurano stretti legami tra le forze armate statunitensi e le forze di sicurezza di governi repressivi in tutta la zona, offrendo a Washington accesso e influenza e ai paesi che ospitano queste esercitazioni le più moderne strategie militari, le tattiche e gli strumenti del commercio in un momento in cui sono, o temono di essere, assediati dai dimostranti che cercano di   lo spirito democratico che cercano di trarre vantaggio dallo  spirito democratico che si sta propagando nella zona.

 

Segreti e bugie

 

Le forze armate statunitensi hanno ignorato le richieste di TomDispatch che avevano lo scopo di sapere se delle operazioni congiunte erano state rimandate, se c’erano stati dei cambiamenti di data,  o se erano state  cancellate in seguito alle dimostrazioni della Primavera Araba. In agosto, tuttavia, la Agenzia French Press ha riferito che la Bright Star, un’esercitazione biannuale di addestramento cui partecipano le forze militari statunitensi ed egiziane, era stata cancellata in seguito all’insurrezione popolare che aveva deposto il presidente Hosni Mubarak, alleato di Washington.

Il numero delle esercitazioni di addestramento in tutta la zona  sconvolta  dalle proteste democratiche, e perfino le informazioni essenziali sul numero complessivo delle missioni di addestramento del Pentagono nella zona, sul luogo dove si svolgono, sulla durata, su chi vi partecipa,  rimangono in gran parte sconosciute. Il CENTCOM tiene regolarmente segrete queste informazioni per gli Americani per non parlare delle popolazioni di tutto il Grande Medio Oriente.

I militari hanno si sono anche rifiutati di fare commenti sulle esercitazioni in programma per il 2012. Ci sono tuttavia buone ragioni per credere che il loro numero aumenterà perché i despoti della zona pensano di respingere le forze popolari che vogliono un  cambiamento. “Con la fine dell’operazione New Dawn in Iraq e la riduzione delle forze   in Afghanistan, le esercitazioni della USCENTCOM continueranno ad avere come obiettivo….la preoccupazione per la reciproca sicurezza e l’intensificazione dei rapporti già forti e duraturi in quella zona,” ha fatto sapere  un portavoce della CENTCOM a TomDispatch in una mail.

Dato che le dimostrazioni a favore della democrazia e la rivolta popolare sono le “preoccupazioni per la sicurezza” dei regimi dall’Arabia Saudita e dal Bahrein alla Giordania e allo Yemen, non è difficile immaginare come i moderni metodi di addestramento usati dal Pentagono, la sua scuola per le tattiche di contro insurrezione, e il suo aiuto nelle tecniche di raccolta di informazioni segrete potrebbero essere usate nei mesi prossimi.

Questa primavera,  quando si svolgeva  l’operazione African Lion  e i dimostranti marocchini che erano stati malmenati, si curavano le ferite, il presidente Obama affermava che “gli Stati Uniti sono contrari all’uso della violenza e della repressione contro il popolo della zona” e difende i diritti umani fondamentali dei cittadini di tutto il Greater Middle East. Ha aggiunto: “Questi diritti comprendono la libertà di espressione, la libertà di associazione pacifica, libertà di religione, parità tra uomini e donne davanti alla legge e il diritto di scegliere i propri dirigenti, sia che si viva a Baghdad o a Damasco, a Sanaa o a Tehran.”

Rimane la domanda: gli Stati Uniti credono che le stesse cose si possano dire per le persone che vivono ad Amman, a Kuwait City, a Rabat o a Riyhad? E se è così, perché il Pentagono sta rinforzando la posizione dei governanti repressivi di quelle capitali?

 

  • http://it.wikipedia.org/wiki/Supporto_aereo_ravvicinato

 

** http://it.globalvoicesonline.org/2011/06/kuwait-capovolgi-il-tuo-avatar-sostieni-i-bidun/

 

 

Nick Turse è direttore associato di TomDispatch.com. Ha vinto dei premi di giornalismo e i suoi articoli sono apparsi sul Los Angeles Times, The Nation e regolarmente su TomDispatch. Questo articolo è il terzo della sua nuova serie sul cambiamento dell’impero americano. Potete seguirlo su Twitter@NickTurse, su Tumbir e su Facebook.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su TomDispatch.com, un weblog del Nation Institute, che offre un flusso continuo di fonti alternative, notizie e opinioni da parte di Tom Engelhardt, direttore editoriale, co-fondatore dell’American Empire Project, autore del libro : The End of Victory Culture (La fine della cultura della vittoria) e anche del romanzo: The Last Days of Publishing (Gli ultimi giorni dell’editoria). Il suo libro più recente è: The American way of War:How Bush’s Wars Became Obama’s (Haymarket Books) ( Lo stile bellico Americano: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama).

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.znetitaly.org

http://www.zcommunications.org/the-pentago-s-secret-training-missions-in-the-middle-east-by-nick-turse

Fonte: TomDispatch.com

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly–Licenza Creative Commons   CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

 

 

 

 

 

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“L’America è eccezionale.” Ripetetelo fino alla nausea

15 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Tom Engelhardt

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“L’America è eccezionale.” Ripeterlo fino alla nausea

 

di Tom Engelhardt

13 dicembre 2011

 

Se volete la misura di un’America che sta scivolando verso il basso, potreste dare un’occhiata al recente sondaggio commissionato dal quotidiano The Hill, nel quale la sorprendente percentuale del 69% delle persone interrogate ha detto che considerano il loro paese ormai in declino. Potreste anche considerare il linguaggio alato che usano i candidati alla presidenza in questo periodo. Mitt Romney,* in un recente dibattito dei Repubblicani sulla politica estera, ne ha dato un esempio tipico, insistendo a dire che “questo secolo deve essere un secolo americano” durante il quale “l’America guida il mondo libero e il mondo libero guida il mondo intero.”

Il presidente Barack Obama tende ad usare il linguaggio infuocato dell’eccezionalità americana, annunciando spesso la sua intenzione di fare in modo che il 21° secolo sia “un altro secolo americano.”

Dato che ho 67 anni, sono cresciuto nell’era successiva alla Seconda guerra mondiale che, sotto ogni aspetto, era il culmine del primo secolo americano. Dato che gran parte del resto del mondo avanzato lottava per ricostruire le città devastate, gli Stati Uniti non hanno potuto essere più eccezionali, una nazione unica nel suo genere nel fabbricare  articoli costosi utili in pace e in guerra, spesso prodotti dalle stesse grosse imprese industriali.

A quei tempi non c’era bisogno che i presidenti o i candidati alla presidenza si alzassero e ripetutamente rassicurassero il popolo americano del  fatto che eravamo così eccezionali. Era troppo ovvio per affermarlo. Dopo tutto, quando si ha una cosa, non c’è bisogno di sbandierarla.

La prossima volta, quindi, che sentite un qualsiasi politico insistere a dire che questa nazione è eccezionale nello stile del secolo, consideratela una specie di confessione segreta che invece non siamo così. In questi giorni si può sentire il ringhio (o il gemito) di difesa che si cela nell’insistenza che la nostra nazione non è soltanto una delle  nazioni potenti che  si trova  a un punto morto in politica e in una situazione economica difficile.

Pensate ora, se volete, ai muscoli di Rambo che a modo loro erano una confessione di insicurezza molto simile ai discorsi sull’ eccezionalità che fa Romney. Molto tempo fa, l’eroe dei film western o dei film di guerra, Gary Cooper or John Wayne, forse erano forti e silenziosi, ma il fisico “mostruoso”  non era certo la loro qualità principale. Quell’eroe non era  ultra-muscoloso  o enorme come si usa rappresentarlo nei cartoni animati. Essendo un uomo di quel momento del secolo realmente americano, non doveva  cambiare stile per mettere in risalto il fatto di essere un eroe e la sua potenza fisica.

Rambo è arrivato sugli schermi negli anni  dopo la guerra del Vietnam come una  creatura della sconfitta americana. Era un periodo in cui chi era forte e silenzioso non convinceva più abbastanza, quando una corsa alle armi vera sembrava necessaria, quando i pettorali del potere americano avevano bisogno di essere ultra gonfiati per essere ultra esibiti.

 

Romney e il suo equipaggio sono, letteralmente, i Rambo di questo  momento americano del 21° secolo e la loro versione dell’eccezionalità sempre presente si adatta bene a un’altra caratteristica che si ripete spesso   nel panorama attuale: l’esaltazione del soldato americano come eroe degli eroi, un modello  per la nazione.

Molte di queste cose avrebbero avuto un suono davvero strano per le orecchie degli Americani dell’epoca della mia infanzia. Avevano la loro serie di enormi paure, ma vivevano ancora in una nazione con un esercito di cittadini del quale la coscrizione assicurava che quasi tutti potessero far parte. Nella maggior parte delle famiglie, compresa la mia, c’era  allora almeno un reduce della Seconda Guerra mondiale.

Nessuno, tuttavia, parlava delle più grandi generazioni americane o dei loro eroi o, come Obama e George W. Bush prima di lui, della “più bel esercito del modo” (o “che il mondo abbia mai conosciuto”). Il soldato era semplicemente un Americano.

Adesso, nel mondo dell’esercito fatto tutto di volontari, mentre gli Stati Uniti sono continuamente in guerra in tutto il mondo, anche se con notevoli insuccessi, i militari esistono per lo più in una sfera separata, dato che  molti Americani non hanno nessun rapporto diretto con le guerre combattute nel loro nome e con i soldati che le combattono.

Oggi, tuttavia, sostenere le truppe (o “i guerrieri dell’America,” come ora vengono spesso chiamati), è diventato un dovere quasi religioso. Questa insistenza ricorrente del bisogno che hanno di appoggio, dovrebbe, come l’eccezionalità di Romney, essere considerato un altro tipo di ammissione segreta.

Dopo tutto, il più grande errore della nostra era è stato indubbiamente questo: quando l’Unione Sovietica è scomparsa improvvisamente nel 1991, i nostri capi hanno immaginato che di aver ottenuto una specie di vittoria americana che non si era mai vista prima. Dove, per secoli, c’erano state due o più grandi potenze rivali, adesso c’era soltanto l’unica superpotenza (o anche iperpotenza) del pianeta Terra, senza che ci fossero minacce  importanti in nessun posto.

A qualcuno è sembrato che questo fosse, per definizione, un secondo momento simile a quello del dopo II Guerra mondiale, pieno di eccezionalità americana. Mentre confondevano la potenza militare con la supremazia mondiale, non hanno notato che anche la più forte potenza della Guerra Fredda stava scivolando lentamente verso il basso in una nuvola di autocompiacimento. Al momento stiamo vivendo il resto di questa triste storia.

Quel momento americano e il  “secolo” che lo accompagnava, se ne sono  andati. Il declino incombe su di noi e qualsiasi rassicurazione che non è così serve soltanto, anche se in modo subliminale, a rinforzare quella realtà. A parte  il ritmo  che adotteranno,  i nostri “guerrieri” ed “eroi” tornano a casa in un paese infelice, dove non c ‘è eroismo né sicurezza, dove mancano i posti di lavoro. Nel frattempo, i nostri  capi protestano davvero troppo.

 

  • vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Mitt_Romney

 

Tom Engelhardt, co-fondatore dell’American Empire Project, dirige il sito del Nation Institute TomDispatch.com

 

Da Z Net –Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.znetitaly.org

http://wwws.zcommunications.org/america-is-exceptional-repeat-ad-nauseam-by-tom-engelhardt

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

CC)= 2011 ZNET Italy –Licenza Creative Commons  CC BY-NC-SA 3.0

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Precipitando nel baratro

09 venerdì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Ecologia, Noam Chomsky

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AP, cambiamento climatico, carbonio, catastrofe climatica, combustibili fossili, Convenzione ONU, Durban, emissioni, energia, Fatih Birol, IEA, IPCC, John Reilly, Kissinger, lemming, NIxon, PIPA, protocollo di Kyoto

di Noam Chomsky -8 dicembre 2011

Uno dei  compiti della Convenzione Quadro dell’ONU sul cambiamento climatico, attualmente in corso a Durban, Sud Africa, consiste nell’ampliare le precedenti decisioni politiche che erano limitate nella portate e che sono state attuate solo in parte.

Tali decisioni risalgono alla Convenzione dell’ONU del 1992 e al Protocollo di Kyoto del 1997, cui gli Stati Uniti si sono rifiutati di aderire.  Il primo periodo impegnativo del Protocollo di Kyoto scade nel 2012.  Un sentimento piuttosto generale ante conferenza è stato colto dal titolo del New York Times: “Problemi urgenti, aspettative scarse.”

Mentre i delegati si riuniscono a Durban, una selezione recentemente aggiornata dei sondaggi, a cura del Consiglio per i Rapporti con l’Estero e del Programma sugli Orientamenti in Politica Internazionale (PIPA), rivela che “le opinioni pubbliche nel mondo e negli Stati Uniti affermano che i propri governi dovrebbero dare maggiore priorità al riscaldamento globale e sostenere con forza iniziative multilaterali per affrontare il problema”.

La maggior parte dei cittadini statunitensi è d’accordo, anche se il PIPA chiarisce che la percentuale “è andata scemando negli ultimi anni, cosicché l’interesse statunitense è significativamente inferiore alla media globale: 70% contro 84%.”

“I cittadini statunitensi non percepiscono che ci sia un’unanimità scientifica sulla necessità di azioni urgenti riguardo al cambiamento climatico; una larga maggioranza ritiene che alla fine  sarà toccata personalmente dal cambiamento climatico, ma solo una piccola minoranza ritiene di esserne colpita già ora, diversamente alla percezione della maggior parte degli altri paesi. Gli statunitensi tendono a sottostimare il livello di interesse tra gli altri concittadini.”

Questi atteggiamenti non sono causali. Nel 2009 le industrie energetiche, sostenute dalle lobby affaristiche, hanno lanciato grandi campagne che hanno gettato dubbi sul quasi unanime consenso degli scienziati sulla gravità della minaccia del riscaldamento globale causato dall’uomo.

Il consenso è solo “quasi unanime” perché non include i molti esperti che sentono che gli ammonimenti sul cambiamento climatico non si spingono abbastanza in là, e perché un gruppo marginale nega totalmente la validità della minaccia.

La copertura mediatica standard del tema (“Rossi dice che … Bianchi dice che …) si attiene a quello che viene chiamato “equilibrio”: la schiacciante maggioranza degli scienziati da una parte, i negazionisti dall’altra. Gli scienziati che lanciano gli ammonimenti più drammatici sono in larga parte ignorati.

Un effetto è che a malapena un terzo della popolazione statunitense ritiene che ci sia un consenso scientifico riguardo alla minaccia del riscaldamento globale; molto meno della media globale e una percentualmente radicalmente incoerente con i fatti.

Non è un segreto che il governo USA si sta isolando sui temi climatici. “Le opinioni pubbliche mondiali negli anni recenti hanno largamente disapprovato il modo in cui gli Stati Uniti stanno gestendo il problema del cambiamento climatico” secondo il PIPA.  “In generale, gli Stati Uniti sono stati per lo più visti come un paese il paese che ha l’effetto più negativo sull’ambiente globale, seguiti dalla Cina. La Germania è quella che si è classificata meglio.”

Per guadagnare un punto di vista prospettico su quel che accade nel mondo, a volte è utile adottare la posizione di un osservatore extraterrestre intelligente degli strani avvenimenti sulla Terra. Gli extraterrestri osserverebbero con stupore come il paese più ricco e potente della storia mondiale stia ora conducendo i lemming a gettarsi allegramente dalla scogliera.

Il mese scorso, l’Agenzia Internazionale per l’Energia, che fu creata su iniziativa del Segretario di Stato USA Henry Kissinger nel 1974, ha pubblicato il suo più recente rapporto sul rapido aumento delle emissioni di carbonio derivanti dall’utilizzo di combustibili fossili.

La IEA ha stimato che se il mondo continua su questa strada il “budget del carbonio” sarà esaurito entro il 2017.  Il ‘budget’ è la quantità di emissioni che possono mantenere il riscaldamento globale entro il livello di 2 gradi Celsius considerato il limite della sicurezza.

Il capo economista della IEA, Fatih Birol, ha affermato: “La porta si sta chiudendo; se non cambiamo direzione ora riguardo al nostro modo di utilizzare l’energia, finiremo oltre quello che gli scienziati ci dicono essere il minimo (per la sicurezza). La porta si chiuderà per sempre.”

Sempre il mese scorso il Dipartimento USA per l’Energia ha pubblicato i dati delle emissioni del 2010.  Le emissioni “hanno fatto un balzo ai livelli più alti mai registrati”, ha riferito la Associated Press (AP), intendendo con ciò che “i livelli di gas serra sono più alti di quelli previsti dello scenario peggiore” previsto nel 2007 dalla Commissione Internazionale sul Cambiamento Climatico (IPCC).

John Reilly, codirettore del programma del Massachusetts Institute of Technology (MIT) sul cambiamento climatico ha dichiarato all’AP che gli scienziati hanno in generale riscontrato che le previsioni dell’IPCC erano troppo caute, diversamente dalla frangia dei negazionisti che attira l’attenzione del pubblico.  Reilly ha riferito che lo scenario peggiore dell’IPCC era circa a metà strada tra le valutazioni degli scienziati del MIT circa i probabili esiti.

Mentre venivano diffusi questi rapporti inquietanti, il  Financial Times dedicava un’intera pagina alle aspettative ottimistiche che gli Stati Uniti possano diventare indipendenti per un secolo, sotto il profilo energetico, grazie a nuove tecnologie di estrazione dei combustibili fossili del Nord America.

Anche se le proiezioni sono incerte, riferisce il Financial Times, gli USA potrebbero “superare d’un balzo l’Arabia Saudita e la Russia e diventare i maggiori produttori mondiali di idrocarburi liquidi, contando sia il petrolio greggio sia i gas liquidi naturali più leggeri.”

In questa felice eventualità gli Stati Uniti potrebbero aspettarsi di conservare la propria egemonia globale. Al di là di alcune osservazioni sull’impatto ecologico locale, il Financial Times non ha detto nulla di quale tipo di mondo emergerebbe da queste eccitanti prospettive.  L’energia è fatta per essere consumata; al diavolo l’ambiente!

Quasi ogni governo sta adottando misure almeno per fermarsi e fare qualcosa per la probabile catastrofe imminente.   Gli Stati Uniti guidano la marcia indietro. La Camera dei Deputati USA, dominata dai Repubblicani, sta ora smantellando le misure ambientali introdotte da Richard Nixon, per molti aspetti l’ultimo presidente liberale.

Questo comportamento reazionario è uno dei molti indicatori della crisi della democrazia USA nel corso dell’ultima generazione.  Il divario tra l’opinione pubblica e la politica pubblica è cresciuto fino a diventare un abisso per quanto riguardo i temi centrali dell’attuale dibattito politico, quali il deficit e l’occupazione. Tuttavia, grazie all’offensiva propagandistica, tale divario è minore di quanto dovrebbe esserlo quanto al problema più grave oggi nell’agenda politica internazionale, e probabilmente il più grave nella storia.

Gli ipotetici osservatori extraterrestri dovrebbero essere scusati se concludessero che sembriamo essere affetti da qualche forma di pazzia letale.

© The New York Times Syndicate

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/marching-off-the-cliff-by-noam-chomsky

Fonte: New York Times Syndicate

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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I lavoratori sfidano la grande industria alimentare

09 venerdì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Economia, Jenny Brown

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agricoltori, Aramark, CATA, catena alimentare, cibo, cibo preconfezionato, concentrazione industriale, consumatori, Deathrice Jimerson, Diana Robinson, filiera alimentare, Food Chain Workers Alliance, Giornata Alimentare, industria alimentare, Jessica Choy, Joann Lo, LaShanda Bell, Legge USA sui rapporti di lavoro, Michelle Obama, Pomona COllege, precotto, sindacati, Sodexo, Stu Comen, supermercati, UFCW, UNITE HERE, Walmart

di Jenny Brown – 6 dicembre 2011

“Dai campi alla tavola” può suonare come una dottrina di buongustai, ma per i lavoratori della produzione alimentare in lotta per posti di lavoro decenti è un obiettivo organizzativo.

I lavoratori della filiera alimentare – nelle fattorie e nei supermercati, nei ristoranti e nelle caffetterie – cercano di far causa comune gli uni con gli altri e contro le imprese che gestiscono l’industria alimentare.

Gli approvvigionatori della grande industria come Walmart e Sodexo fissano indirettamente le paghe dei lavoratori dei campi che raccolgono la verdura fresca sotto il sole e dei magazzini che spostano le varietà surgelate fuori e dentro edifici privi di finestre.

Lo fanno fissando prezzi bassi e spremendo i fornitori, spingendo gli appaltatori a sottopagare i dipendenti dell’intera filiera.  Pungolano gli agricoltori e chi lavora il cibo a trovare scorciatoie in un sistema di produzione che premia la quantità rispetto alla qualità e l’aspetto rispetto al contenuto nutritivo.

La fusione delle imprese nel settore alimentare è diventata così estrema che il Dipartimento della Giustizia ha condotto l’anno scorso udienze d’indagine.  Le società cercano di controllare il cibo “dal gene allo scaffale del supermercato,” ha affermato un rapporto dell’Unione Nazionale degli Agricoltori, con cinque società che oggi controllano il 50% del mercato alimentare al dettaglio e quattro società che controllano l’85% della produzione della carne.

Joann Lo della Food Chain Workers Alliance [Alleanza dei lavoratori della filiera alimentare] dice che ciò significa che “i lavoratori devono essere uniti lungo l’intera catena alimentare”. La sua organizzazione riunisce gruppi di lavoratori agricoli, centri operai e sindacati.

I lavoratori dei supermercati delle sezioni del sindacato Food and Commercial Worker [Lavoratori del settore alimentare e commerciale] delle aree di New York e di Los Angeles partecipano all’Alleanza, così come il sindacato degli hotel e culinari UNITE HERE, Restaurant Opportunities Center, Warehouse Workers for Justice, la Coalition of Immokalee Workers in Florida e il Farmworker Support Committee (CAT) in New Jersey e Pennsylvania.

CIBO EQUO

L’Alleanza collega i lavoratori ai consumatori, promuovendo un nuovo interesse a cibi sani, coltivati localmente e sostenibili per sostenere occupazione sostenibile.

“Ti interessa il cibo che mangi?” chiede Diana Robinson della sezione 1500 dell’UFCW di New York. “Beh, permettimi di parlarti della persona che sta dietro al tuo cibo.”

Il lavoratori del settore alimentare dei campus hanno percepito  una paga media di 17.176 dollari nel 2010, secondo UNITE HERE, e il 28% dei cuochi vive in famiglie “alimentarmente insicure”, in cui il cibo nutrizionalmente adeguato e limitato o incerto.  Molti raccoglitori della Florida percepiscono tutto 45 centesimi per un secchio di circa 15 chili di pomodori, la stessa paga di decenni fa.

I collegamenti tra lavoratori del cibo e consumatori possono rendere nervosi gli amministratori. Al Pomona College a Claremont, California, l’amministrazione ha vietato agli studenti di parlare ai lavoratori della mensa, persino durante le loro pause.  Il divieto di parlare è arrivato una settimana dopo che i lavoratori avevano cucinato e consumato un pasto insieme con gli studenti come parte di una “Giornata alimentare” appoggiata dal sindacato a ottobre.

Ma quelli che si preoccupano di far arrivare cibo sano locale a comunità a basso reddito spesso non operano il collegamento con i lavoratori coinvolti nella produzione del cibo, ha dichiarato la Lo.

Quel collegamento è venuto in forte evidenza in gennaio, quando Michelle Obama, il cui tema chiave è il cibo sano, ha elogiato Walmart per la sua promessa di ridurre il sale e i grassi idrogenati nei suoi prodotti e di aprire negozi locali in quartieri sottoserviti.

I sindacati hanno controbattuto che Walmart è una delle cause principali della povertà, in quanto emargina i magazzini sindacalizzati che pagano meglio, spreme i suoi fornitori di cibo e paga i propri dipendenti così poco che per sopravvivere devono ricorrere a buoni alimentari.

I lavoratori del settore alimentare all’ultimo posto

Paghe basse e condizioni di lavoro dure sono ciò che si trova di fronte ogni lavoratore della lunga catena della produzione alimentare, dai lavoratori dei campi, ai confezionatori della carne, ai lavoratori dei magazzini agli addetti alle drogherie, ai cuochi e ai camerieri.

“Ci derubano delle paghe, ci trattano miserabilmente e ci derubano della dignità come niente fosse,” ha affermato Deathrice Jimerson, un ex dipendente di magazzino che ora è volontaria dell’organizzazione Warehouse Workers for Justice [Lavoratori dei magazzini per la giustizia] a sud di Chicago.

Gli agricoltori si stanno tuttora organizzando per tutele elementari del lavoro, mentre all’altro capo della catena, i lavoratori delle cucine alle dipendenze di società di servizi alimentari come la Sodexo e Aramark hanno lottato per più di un decennio per ottenere il riconoscimento del sindacato.

A motivo delle basse paghe i lavoratori del settore alimentare sono colpiti in misura sproporzionata da malattie legate alla nutrizione  (diabete, pressione e patologie cardiache) ha affermato Jessica Choy, una sindacalista di UNITE HERE in California. “I lavoratori sono colpiti non solo dove lavorano, da questo marcio sistema alimentare” ha detto.

A ottobre il sindacato ha organizzato “Giornate Alimentari” in dozzine di campus, dove studenti e addetti alle cucine hanno preparato e consumato insieme i pasti e hanno discusso.  UNITE HERE collega le sue spinte sindacali al crescente desiderio degli studenti di cibo da tavola calda che non sia sbobba industriale, preferita dalle istituzioni per tagliare i costi.

“Portare cibo confezionato a tanta gente che ha la passione di servire cibo alla gente è una specie di insulto” ha detto LaShanda Bell, una cuoca della Northwestern University. “Vogliano preparare le salse e i nostri piatti e produrre davvero il cibo con le nostre mani anziché sgelare, scaldare e servire.”

RISPECIALIZZARE LA CUCINA

I lavoratori del settore alimentare sindacalizzato a Yale sono riusciti ad opporsi con successo allo svilimento delle cucine e alla chiusura del loro forno.

Dopo che la Yale aveva firmato un contratto con la Sysco, una società di distribuzione alimentare, “siamo passati direttamente alle salse in scatola, al formaggio industriale, agli impasti in scatola per pizza” ha detto al giornale studentesco il cuoco Stu Comen.  “Eccoci qua, con il nostro camice da cuochi con su il nostro nome, ad aprire scatolette di salsa.”

I lavoratori, membri della sezione 35 di UNITE HERE, hanno fatto causa comune con gli studenti, organizzando assaggi ed esponendo liste degli ingredienti in modo che gli studenti potessero confrontare il cibo industriale precotto fornito dalla Sysco con quello prodotto dal forno della Yale.

Ora il college punta a ottenere il 40% del proprio cibo da fonti sostenibili nel giro dei prossimi due anni.

I lavoratori della mensa di Harvard, membri della sezione 26 di UNITE HERE, hanno ratificato a settembre un contratto che crea un comitato sindacale di gestione per attuare pratiche alimentari “ambientalmente responsabili”.

I lavoratori delle mense affermano che queste iniziative portano a maggior lavoro e anche a cibo migliore e più sano.  Ad Harvard ai lavoratori sono stati tagliati gli orari. Sperano di recuperare quelle ore con l’aumento del vero lavoro di cucina.

Trabocchetti al Pomona

Al Pomona College è stato più facile ottenere che la scuola passasse al cibo non preconfezionato di quanto lo sia stato ottenere il riconoscimento del sindacato.

Nella “Giornata Alimentare” il personale di cucina ha riferito che l’iniziativa del cibo sostenibile conquistata dagli studenti ha portato a un’accelerazione del lavoro in cucina anziché a maggiori ore o a maggiori posti di lavoro.

“Stanno riportando le competenze nel lavoro, aumentando il carico di lavoro e non tenendo conto che ciò può colpire i lavoratori” ha detto la Choy.

Più del 90% del personale di cucina ha firmato, a marzo 2010,  una petizione per un sindacato, ma il college non ha riconosciuto l’organizzazione, nonostante molte riunioni in cui l’amministrazione aveva promesso neutralità, promessa che, secondo i lavoratori, è stata infranta.

In efficaci video messi in rete dal gruppo, i lavoratori hanno dichiarato di essere stati licenziati per essersi ammalati, di essersi visti posporre cure mediche vitali a causa di scorrettezze dell’amministrazione e di non essere in grado di permettersi copertura sanitaria, che costa sino a 600 dollari al mese.  Alcuni lavoratori continuano a percepire meno di 12 dollari l’ora dopo vent’anni di servizio.

Nell’intera catena alimentare

L’Alleanza dei Lavoratori della Catena Alimentare sta utilizzando contatti tra lavoratori, tra lavoratori e agricoltori e tra lavoratori e consumatori per programmare una campagna più vasta, che ci si aspetta sarà lanciata l’anno prossimo, concentrare su un bersaglio imprenditoriale che può avere impatto sul lavoro dai campi alle tavole, ha dichiarato la Lo.

Ciascun gruppo di lavoratori predisporrà specifiche richieste, ha detto.  I gruppi stanno  compilando la loro  base di conoscenza dell’industria e i membri della coalizione stanno studiando modelli vincenti:

– I Warehouse Workers for Justice hanno utilizzato con successo l’indignazione della comunità per riottenere il lavoro a dieci dipendenti licenziati dai magazzini a sudovest di Chicago. Un distributore di cibi etnici accusa di discriminare i lavoratori latini ha ricevuto una lavata di capo dai leader della comunità che hanno minacciato il boicottaggio.

– In una campagna decennale, gli agricoltori e gli studenti della Florida hanno unito le forze per esercitare pressioni su marchi molto pubblicizzati come Taco Bell perché consentano a paghe eque per i raccoglitori di pomodori.  Hanno messo nel mirino altri marchi con marce, azioni nei campus e boicottaggi e sono ora concentrati sul distributore di specialità Trader Joe’s e sulla catena di supermercati della Florida, Publix.

Ma gli agricoltori possono ricorrere ai boicottaggi perché sono esclusi dalla legge USA sul lavoro.  I lavoratori che ricadono nell’ambito della Legge Nazionale sui Rapporti di Lavoro sono ostacolati dalle restrizioni legali sui “boicottaggi secondari” che prendono di mira un’azienda che non è il loro datore di lavoro diretto.

Nei campus gli addetti alle cucine normalmente lavorano per appaltatori come la Aramark, piuttosto che per la stessa università. Nei magazzini i lavoratori sono spesso a scadenza, molto giù lungo la catena della società con un marchio riconoscibile. Quando affrontati, i giganti industriali scaricano le responsabilità sui propri appaltatori.

Si sono conseguiti successi passando attraverso i vari livelli di subappalto per identificare dove sta il potere reale e poi trovando leve per attaccare direttamente quel bersaglio.  Creando collegamenti e una conoscenza più profonda di quello che è in gioco, i lavoratori della filiera alimentare sperano di attaccare la dimensione industriale e “costruire una campagna che combatterà per tutti noi nella filiera di fornitura che arriva sino alle tavole dei cittadini USA”, ha detto Jimerson.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/workers-challenge-big-food-by-jenny-brown

Fonte: Labor Notes

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Questa terra è nostra

08 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Autori, Frauke Decoodt

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Questa terra è nostra

 

Di Frauke Decoodt

6 dicembre 2011

 

“Questa terra è nostra” Non appartiene allo stato. E’ nostra perché siamo il popolo indigeno!”, dice una ragazza guatemalteca di 20 anni, Lorena Sanchez, quando il 3 maggio 2011 un rappresentante del governo del Fondo  de Tierras, un ente governativo che regola l’accesso alla terra, è arrivato a Tzalbal per dire agli abitanti che vivono in una proprietà statale.

Tzalbal, un villaggio formato di quattro insediamenti, è situato in Guatemala, nell’interno della zona dei monti Cuchumatanes. Tzalbal è la patria del popolo Ixil, una popolazione indigena Maya. Gli Ixil vivono nei municipi di Nebaj, Chajul e Cotzal,, nel dipartimento nord-occidentale di Quiché. Tzalbal si trova nella municipalità di Nebaj.

Gli abitanti del villaggio non avevano alcuna idea che la loro terra fosse stata nazionalizzata nel 1984, perché questo evento è stato tenuto loro nascosto per 28 anni. Sono perplessi,  sconvolti e arrabbiati. Negli anni ’80 l’area è stata devastata dal genocidio e dalla repressione condotta dallo stato e la maggioranza degli Ixil è stata costretta a fuggire dalle propria terra.

 

Il genocidio del popolo Ixil-Maya

 

Durante il conflitto in Guatemala che è durato 36 anni, il 98% delle 7.000 vittime nella regione di Ixil, erano Ixil. La sesta parte della popolazione Ixil è stata assassinata dall’esercito, e il 70% dei loro villaggi sono stati cancellati. La maggior parte degli Ixil sono scappati sulle montagne; molti sono morti di freddo, fame e malattie.

Sebbene la zona Ixil  sia stata una di quelle più colpite,  tutto il Guatemala ha sofferto  durante il conflitto che è  infuriato  fino al 1996 e che ha visto il 12% della popolazione sfollata e più di 200.000 persone uccise o sparite.

L’esercito statale è stato responsabile del 93%  delle atrocità e di 626 massacri.  Circa l’83% delle vittime erano nativi.

Le indagini fatte dopo il conflitto dalla Chiesa Cattolica del Guatemala e dalle Nazioni Unite, hanno stabilito che durante gli anni ’80 lo stato ha commesso azioni di genocidio in Guatemala.

 

Un popolo allontanato dalle sue terre

 

Sebbene il genocidio si possa spiegare con il razzismo nei riguardi dei nativi e con la  disumanizzazione del popolo nativo che comprende più del 60% della popolazione guatemalteca, non si può comprendere del tutto il modello del genocidio e il modo in cui ci si è arrivati, senza tener conto dell’importanza della terra.

La gente che risiede a Tzalbal comprende fin troppo bene lo stretto rapporto che c’è tra la terra e il conflitto. Patricio Rodriguez ha soltanto  66 anni, ma la saggezza dell’età  e la dura esperienza  della povertà e del conflitto sono scritte sulla sua faccia. Patricio fa notare che la loro condizione attuale “è stata causata dalla guerra, dalla repressione, dai massacri fatti dal governo negli anni ’80. Per tanti anni hanno incendiato le nostre case, hanno ucciso i nostri animali,  e distrutto i nostri milpas (piccoli appezzamenti di granoturco, l’alimento base dei popoli Maya). Dato che erano state uccise così tante persone, siamo scappati in montagna per salvarci. L’esercito ha quindi pensato che questa terra fosse abbandonata, vuota. Invece avevamo abbandonato la nostra terra a causa della repressione.”

Un ometto cordiale, responsabile dell’acqua potabile di Tzalbal, si viene a sedere vicino a me –“adesso cominciamo a capire che durante il conflitto armato ci hanno derubato, e per legalizzare il loro furto hanno fatto una legge.”

 

Il conflitto per la terra e la terra per il conflitto

 

La distribuzione non equa della terra in una società soprattutto agricola, come quella del  Guatemala, che è stata la causa principale della povertà e del conflitto. Nel 1964, il 62% della terra era nelle mani soltanto del 2% della popolazione nazionale, mentre l’87% dei cittadini aveva a mala pena la terra sufficiente per l’agricoltura di sussistenza.

Fino dall’indipendenza, l’apparato statale del Guatemala ha servito largamente gli interessi dell’oligarchia del Guatemala, diventando di fatto un garante della terra e del lavoro (dei nativi). Queste garanzie sono state sempre fornite con l’uso della violenza e per mezzo del sistema legale.

Durante la “primavera Guatemalteca” che è iniziata nel 1944, lo stato ha cominciato a servire gli interessi della maggioranza della sua popolazione rurale, e ha infine introdotto un programma di riforma agraria. Nel 1954, però, queste riforme  sono state annullate  durante un colpo di stato, realizzato con l’appoggio degli Stati Uniti d’America.

La ridistribuzione equa della terra è stata una delle principali richieste di numerosi movimenti indigeni, contadini, e di guerriglia, che sono sorti dagli anni ‘60 agli anni ‘80. La repressione violenta di questi movimenti ha permesso che una distribuzione diseguale della terra fosse mantenuta ed estesa. Come hanno stabilito le inchieste condotte dopo il conflitto dalla Chiesa Cattolica del Guatemala e dalle Nazioni Unite, la terra è diventata il guadagno del conflitto.

Dopo essere andati al potere nel 1954, i generali dell’esercito hanno deciso che l’apparato statale non doveva servire solo l’oligarchia ma anche i loro interessi; uno degli interessi primari era la terra; il modo di acquisirla era con la violenza e le leggi, o quelle eufemisticamente note come “progetti di sviluppo”.

 

Un’assemblea per informare la comunità

 

Se si esplorano la cronologia  della stesura delle leggi e gli eventi violenti che hanno avvolto la regione, diventa chiaro come  lo stato ha usurpato le terre indigene. I locali lo hanno capito quando hanno fatto ricerche sui casi che li riguardavano.

Ronaldo Gutierrez è il giovane “sindaco indigeno” , cioè l’autorità indigena della comunità, di Tzalbal.  Indossa la tipica giacca rossa ornata di  ricami neri degli Ixil e mi spiega con una voce tranquilla e in uno spagnolo incerto  che dopo che il rappresentante governativo se ne era andato, ha convocato un incontro dei rappresentanti degli altri tredici  insediamenti. Con l’aiuto degli altri hanno indagato sul caso e hanno deciso che avrebbero organizzato un’assemblea popolare per informare tutta la comunità.

Il 6 ottobre la sala della comunità era piena di gente e della musica guatemalteca suonata sulla marimba. Un dipinto che rappresenta  le atrocità del conflitto orna il muro esterno della sala. Sono presenti circa 700 Ixil, la maggioranza degli uomini ha i tipici cappelli di paglia, alcuni indossano le loro giacche rosse. Sono presenti anche un buon numero di donne, tutte con le camice ricamate, le “huipil” e la gonna. Alcune, specialmente le donne più anziane, hanno dei nastri colorati legati nei capelli.

 

Le leggi di guerra

 

Ramon Cadena, un avvocato della Commissione internazionale dei Giuristi, è una delle persone che si sono offerte di aiutare nell’inchiesta sul caso di Tzalabal. Spiega all’assemblea che la radice del problema è la legge che si chiama “Decreto N. 60-70”; è una legge che era stata fatta approvare  dal generale Osorio che ha dichiarato “la costituzione delle Zone di Sviluppo Agricolo di interesse pubblico e di urgenza nazionale”. Quiche era uno dei dipartimenti settentrionali dichiarati “Zona di sviluppo”.

Il “pubblico interesse” era il colossale progetto chiamato “Franja Transversal  del Norte” (Striscia trasversale del nord) che ha trasformato un gruppo di generali e i loro alleati in enormi proprietari terrieri.  Insieme con i successivi “Piani di sviluppo nazionale” del periodo 1971-1982, questi progetti miravano a promuovere la produzione e lo sfruttamento del petrolio, di minerali, dell’energia elettrica, delle monoculture e di legname prezioso nel nord  del paese.

Si dovrebbe notare che i dipartimenti citati in queste leggi sono stati  anche quelli che hanno patito i maggiori massacri. Sono stata informata dall’avvocato Ramón Cadena che queste leggi sono la base per il furto della terra e delle risorse naturali del popolo indigeno. Sono anche alla radice della guerra che è stata scatenata dal governo del Guatemala contro i popoli del Guatemala. Le leggi mettono in evidenza che c’era un precedente interesse economico in certi territori che sono risultati in seguito essere quelli più colpiti da azioni violente. La violenza e la repressione a opera dello stato sono state intraprese in parallelo con i “Piani di sviluppo”.

Un’altra legge che ha suggellato il destino di Tzalbal è il “Decreto Legge n. 134-83”, ordinato nel 1983 dal generale Mejía Victores. Con questa legge l’esercito ha misurato e riorganizzato in base al territorio la regione Ixil per instaurare i “villaggi modello” e per legalizzare la nazionalizzazione.

Come molti altri villaggi, anche Tzalbal è stato trasformato in un “villaggio modello” o “centro di sviluppo”. Invece delle case sparse nel  modo casuale tipico di  un villaggio indigeno, le case sono state ricostruite in base a uno schema che permetteva di controllare facilmente i suoi abitanti. La gente che non è stata massacrata e che non è fuggita in montagna, o che è ritornata perché non riusciva a sopportare le dure condizioni delle zone montuose, sono state reinserite in questi villaggi. Molti abitanti li definiscono “campi di concentramento”.

“Le  pattuglie civili di  auto-difesa”  o PAC sono state destinate ai villaggi modello. Erano vigilantes civili  militarizzati introdotti dall’esercito. Nel 1985 più di un milione di uomini  collaboravano con l’esercito.  Chi non partecipava  veniva segnalato come sovversivo sospetto e la cosa spesso aveva conseguenze letali.

Nel 1983, come ordinato nel “Decreto Legge n. 134-83”, i PAC di Tzalbal sono stati costretti a misurare la loro terra. Davanti a tutta l’assemblea, un uomo coraggioso si alza e spiega, in lingua Ixil, come l’esercito avesse promesso loro la terra se avessero misurato i confini. Invece sono stati imbrogliati perché la terra è stata  misurata per nazionalizzarla.

Ramon Cadena conclude che l’11 maggio 1984 lo stato ha ufficialmente     smembrato la proprietà del 1903 e ha trasferito la  circa 1495 ettari di terra di Tzalbal allo stato.

Le leggi che hanno legalizzato l’usurpazione della terra indigena, il “Decreto n. 60-70” e il “Decreto n. 134-83”, sono leggi promulgate in tempo di guerra e i locali le definiscono “leggi di guerra”. Gli Accordi di Pace sono stati firmati nel 1996. In un comunicato emesso dopo la loro assemblea, le comunità hanno richiesto che sia  ripristinato  il loro diritto al possesso della terra.

 

La storia si ripete, la storia continua

 

Dopo così tanti progetti di sviluppo,leggi per lo sviluppo e “centri di sviluppo”, la popolazione indigena del Guatemala è piuttosto sospettosa riguardo a qualsiasi iniziativa che porti il nome di “sviluppo”. Si dice che la miniera d’oro del dipartimento di San Marcos porti sviluppo, come la fabbrica di cemento di San Juan Sacatepéquez. Entrambe sembra che portino più sviluppo ai loro proprietari che alla popolazione locale.

Le leggi promulgate durante la guerra restano valide, da allora sono state aggiunte altre leggi che aprono opportunità in nuovi territori o rafforzano il controllo sulle terre già confiscate. Questo è il caso della Legge per le Alleanze Pubbliche-Private che permette allo stato di legalizzare le confische di terre per il bene “pubblico interesse”. Con il  Piano di sviluppo dell’attuale governo di  Colom (il presidente del Guatemala, n.d.T.),  lo sviluppo della “Striscia trasversale del Nord” continua e aggiunge, tra l’altre, le zone del Peten e la Costa del Pacifico. Continuano gli sfratti dei contadini e delle comunità indigene dalle loro terre.

Continuano i mega-progetti per allagare il Guatemala come le dighe idroelettriche che contano di inondare le terre indigene. E’ il caso del progetto “Oregano” che è stato approvato di recente, una diga idroelettrica che inonderà la terra dei Chortis che vivono nella municipalità di Jocotán, vicino al confine con l’Honduras. L’energia elettrica è indispensabile per le grosse industrie come quelle minerarie, le raffinerie di petrolio e le enormi piantagioni con monoculture di zucchero, palme da olio, banane o caffè. E naturalmente servono strade enormi e grandi infrastrutture per trasportare tutti questi prodotti.

Continua la solita distribuzione disuguale della terra. Secondo l’ultimo censimento del 2003, quasi l’80% della terra produttiva rimane nelle mani di meno dell’8% della popolazione guatemalteca che è di 14 milioni. più del 45% non hanno abbastanza terra per un’agricolture di sopravvivenza. Non sorprende quindi che metà della popolazione viva in povertà e che il 17% in estrema povertà.

Rimangono al potere le stesse persone: “Tito era il comandante dell’esercito, era il capo”, spiega Lorena, la ragazza di venti anni, parlando a voce bassa e preoccupata. Nella memoria collettiva non era uno qualsiasi    la persona al comando della base militare di Nebaj, nel Quiché, nel 1982 e nel 1983. Nella zona, l’appellativo “Generale Tito” indica Otto Pérez Molina, il candidato alla presidenza e proprio il probabile vincitore delle elezioni che devono svolgersi il 6 settembre 2011. Un abitante del villaggio ricorda:” è stato  lui che ci ha obbligato a misurare la terra, era il comandante quando ci è stata rubata la terra”.

Rimane anche la paura: Quando di parla di Otto Molina, non si dice mai il nome vero.

Rimangono anche gli stessi popoli indigeni a lottare per la loro terra. Come insiste a dire Lorena, “abbiamo risorse naturali da difendere, in quanto popolo indigeno abbiamo il diritto di difendere la nostra acqua, le nostre foreste, i nostri fiumi”. Il vecchio Patricio Rodriguez asserisce che le multinazionali “dovrebbero tornarsene nei loro paesi con i progetti che hanno fatto o che pensano di fare.”

 

Uniti continuiamo a lottare!

 

Mi dicono che Tzalbal è il primo villaggio che ha scoperto che la propria terra era stata nazionalizzata e il primo a denunciare pubblicamente questo fatto e a e chiedere che la terra venisse loro restituita senza condizioni.

Tuttavia il caso di Tzalbal serve per spiegare che conflitto in Guatemala riguardava la terra.

Anche i metodi usati per acquisire la terra a Tzalbal sono noti. I nativi di Tzalbal sembra siano gli attori indesiderati di un dramma che sembra sempre ripetersi in Guatemala.  Un dramma che è andato avanti per più di 500 anni in cui gli invasori, sia che fossero gli Spagnoli o i militari, o i governo democratici “rappresentativi”, rubano la terra del ppopolo indigeno per mezzo delle leggi e della violenza.

Tuttavia la lotta delle comunità continua. Nell’assemblea le parole “preoccupati” e “capitalismo” si sono sentite nelle discussioni fatte in lingua Ixil. Ma è più significativo il fatto che la comunità sia ricca di convinzioni militanti. Gli Ixil presenti, gridano tutti insieme: “Non vogliamo un altro padrone!”, Basta con le leggi!” Restituiteci la nostra terra!”

Quando chiedo a Patricio Rodriguez come pensa che recupereranno la loro terra, risponde: “Restando uniti, facendo delle manifestazioni, con l’aiuto delle organizzazioni nazionali e internazionali che si interessano dei  nostri diritti. Riavremo indietro la nostra terra, pezzo per pezzo, passo dopo passo”.

Gregorio, l’uomo responsabile dell’acqua potabile, continua: “andremo al congresso tutti insieme, andremo dai  ministri fin quando si interesseranno a noi. Siccome hanno rubato alla comunità, devono ridarci la terra, senza porre alcuna condizione, in nome della comunità. Infatti è indiscutibile che la terra ci è arrivata dai  nostri avi e dai nostri noni dei nonni che sono morti e che ci hanno lasciato la terra perché siamo i loro discendenti”.

 

Per ragioni di sicurezza i nomi delle persone intervistate a Tzalbal sono stati cambiati.

 

P.S. Otto Molina è diventato il  presidente della Repubblica del Guatemala con il 54,4% dei voti al ballottaggio (n.d.T.)

 

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/this-land-is-ours-byfrauke-decooodt

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly– Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

 

 

 

 

 

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