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Le quattro occupazioni del pianeta terra

22 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in Mondo, Tom Engelhardt

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Le quattro occupazioni del pianeta terra

 

Di Tom Engelhardt

19 dicembre 2011

 

Nelle strade di Mosca le decine di migliaia di dimostranti scandivano lo slogan :”Noi esistiamo!” Se teniamo conto dei commenti di statisti, scienziati, politici, ufficiali dell’esercito, banchieri, artisti, tutti i personaggi importanti e che ricevono attenzione  su questo pianeta, nulla ha distinto questo anno in modo più sorprendente che quelle due parole urlate dalla massa dei dimostranti russi.

“Noi esistiamo!” pensate a questa espressione come a un semplice     constatazione, una richiesta implicita che deve essere presa sul serio (o altrimenti), e indubbiamente come a un’espressione di meraviglia, che è quasi una domanda: noi esistiamo?”

E chi potrebbe rimproverarli per urlare quelle parole? O per la meraviglia? E’ stato proprio miracoloso. Tuttavia un’altra nazione per molto tempo immersa in una specie di  silenzio popolare improvvisamente trova la voce e i dimostranti prontamente dichiarano che non lasceranno la scena quando la giornata e la dimostrazione finiranno. Chi ha  supposto in anticipo che forse 50.000 moscoviti  avrebbero finito per  protestare contro   un’elezione truccata  in un paese improvvisamente insofferente,  insieme alle folle di San Pietroburgo, Tomsk, e di altre città, dal sud del paese fino alla Siberia?

A Piazza Tahrir, al Cairo, hanno giurato: “Questa volta siamo qui e ci rimarremo!” Dovunque, questo anno, sembrava che loro, “noi” eravamo lì e ci saremmo rimasti. A New York, quando i dimostranti sono stati costretti dalla polizia a lasciare Zuccotti Park, sono ritornati portando i cartelli che dicevano: “Non si può sfrattare un’idea quando è arrivato il  momento di diffonderla.”

E sembra che sia così in tutto il mondo. Tunisi, Cairo, Madrid, Madison, New York,Santiago,Homs. Così tante città grandi, piccole, luoghi. Londra, Sana’a, Atene, Oakland, Berlino, Rabat, Boston, Vancouver…..c’è da restare senza fiato. E in quanto ai luoghi che non sono ancora in ebollizione – il Giappone, la Cina e altri posti  – attenzione al 2012 perché, guardiamo in faccia la realtà, “noi esistiamo”.

Dovunque il “noi” non poteva essere così mal caratterizzato in modo più ampio, spesso notevolmente, perfino strategicamente: il 99% dell’umanità che contiene tante tendenze potenzialmente contrastanti di pensiero e di essenza: liberali e fondamentalisti,  estremisti di sinistra e nazionalisti di destra, la classe media e i poveri più miseri,  i pensionati e gli studenti di scuole superiori. Il “noi”, però non poteva essere più concretamente vero.

Questo “noi” è un qualche cosa che da molto tempo non si vedeva su questo pianeta, e forse mai in modo così globale. Ed ecco che cosa dovrebbe levare il fiato  a voi e anche all’altro 1%: non si è mai ipotizzato che “noi” esistessimo. Tutti, perfino noi, ci dichiaravamo sconfitti.

Fino allo scorso dicembre, quando un giovane Tunisino venditore ambulante di verdure  si è dato fuoco per protesta contro la sua stessa umiliazione, quel “noi” sembrò essere formato dai non-attori del ventunesimo secolo e anche di gran parte di quello precedente. Parliamo di coloro che sono messi da parte e della  cui vita soltanto settimane, mesi, al massimo un anno fa, semplicemente non importava a nessuno; tutti coloro che i potenti sapevano di poter assolutamente calpestare,  mentre rendevano più solido il loro controllo sulle ricchezze, le risorse, la proprietà del pianeta,  che invece  trascinavano verso il basso.

Per loro “noi” eravamo soltanto una massa di umanità con i mutui subprime,  che quasi non esisteva. E quindi tra tutte le affermazioni del 2011, la più semplice – “Noi esistiamo!” è stata di gran lunga la più potente.

 

Nome dell’anno: Occupiamo Wall Street!

 

Ogni anno a partire dal  1927, quando fu scelto Charles Lindbergh per il suo famoso volo transoceanico sull’Atlantico, la rivista Time elegge un “uomo” (anche se in rare occasioni è stata una donna come la Regina Elisabetta II) o, dopo il 1999 una “persona” dell’anno (anche se delle volte è stata un oggetto inanimato come “il computer” o un gruppo o un’idea). Se volete conoscere la misura con cui “noi” abbiamo cambiato i discorsi globali in pochi mesi, quelli in gara questo anno comprendevano: “I giovani dimostranti arabi”, “Anonimo”, “il 99%” e “l’1%”. Si deve ammettere che c’erano anche Kim Kardashian, Casey Anthony, Michele Bachman, Kate Middleton, e Rupert Murdoch. Alla fine il vincitore del 2011 è stato “il dimostrante”.

Come avrebbe potuto essere altrimenti? Noi esistiamo e perfino il Times lo sa. Da Tunisi in gennaio a Mosca in dicembre questo è stato, giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese, l’anno di chi protesta.  Chi guarda indietro può scorgere indizi di quello che doveva accadere in “esplosioni” isolate come la soppressione del Movimento Verde in Iran o l’attivismo civico clandestino che sta nascendo in Russia.  Ciononostante, la protesta, quando è arrivata, sembrava venisse fuori di punto in bianco.

Senza che nessuno se lo aspettasse e fosse preparato, i giovani (seguiti dalle persone di mezza età e dagli anziani) sono scesi nelle strade delle città di tutto il mondo e si sono semplicemente rifiutati di andarsene, perfino quando è arrivata la polizia, perfino quando le bande di criminali sono arrivate, perfino quando l’esercito è arrivato, perfino quando hanno cominciato e non hanno finito, di spruzzare il pepe in faccia ai dimostranti, di arrestarli,  ferirli e ucciderli.

A proposito, se “noi esistiamo”, è la dichiarazione che firma il 2011, il nome dell’anno dovrebbe essere “Occupiamo Wall Street”, Dimenticate il fatto che il luogo occupato, Zuccotti Park, non si trova lungo Wall Street, ma due isolati più in là, e che, paragonato a Piazza Tahrir o alle strade di Mosca, è stato uno dei più piccoli appezzamenti di terreno adibiti a protesta che ci siano sul pianeta. Non è stato un fattore importante.

La frase è stata un risultato imprevisto di primo ordine. E’ stata anche un rimborso. Quelle tre parole hanno immediatamente ribaltato la storia dei due decenni passati e hanno aiutato a mettere i dimostranti del 2011 al terzo posto della lista delle quattro grandi occupazioni planetarie della nostra era.

 

In precedenza le “occupazioni” erano state delle faccende relativamente limitate a un luogo. Si occupava una nazione (“l’occupazione del Giappone”), che di solito era stata sconfitta o conquistata. Nel nostro tempo, però, se dovessi scegliere, racconterei la storia dell’umanità in stile americano, come la storia di quattro occupazioni, ognuna di natura globale:

La Prima occupazione: Negli anni ’90 i rappresentanti  della finanza del nostro mondo hanno stabilito di “occupare la ricchezza” in senso planetario. Questi erano, naturalmente i i globalisti, meglio noti ora come neo-liberali che erano determinati ad “aprire” mercati dovunque. Avevano intenzione di, come ha suggerito Thomas Friedman,  (anche se non lo intendeva del tutto in questo modo) appiattire la Terra, e questa si è rivelata un’asserzione violenta.

I neo-liberali sono stati lasciati liberi di fare l’impossibile ai bei tempi seguiti alla Guerra Fredda quando governava Clinton. Volevano applicare una specie di  potere  economico che pensavano non sarebbe mai finito,  all’organizzazione del pianeta. Credevano che gli Stati Uniti fossero la superpotenza economica perenne e avevano la loro versione trasognata di come sarebbe stata una Pax americana economica. Il nome del gioco era privatizzazione e la loro versione della tattica bellica “shock and awe” (dominio rapido) implicava la convocazione delle istituzioni come il Fondo Monetario per “addestrare” le nazioni in via di sviluppo a un tipo di povertà e miseria redditizio.

Alla fine, tagliando gioiosamente  a fette e a dadini  i mutui subprime, (ossia mutui che “vengono concessi ad un soggetto che non può accedere ai tassi di interesse di mercato, in quanto ha avuto problemi pregressi nella sua storia di debitore.” (wikipedia) Come tali questi mutui hanno tassi di interessi e vincoli particolari. Da: wordreference.com, n.d.T.) hanno finanzializzato il mondo attraverso il quale hanno scavato un buco. Sono stati i nostri jihadisti dell’economia, nel grande  tracollo  del 2008, hanno buttato via l’economia mondiale che avevano aiutato a “unificare”. Allo stesso tempo, aumentando la differenza tra i super-ricchi e tutti gli altri, hanno aiutato a creare l’1% e il 99%  negli Stati Uniti  e nel mondo, preparando il terreno perché nascessero le proteste.

La seconda Occupazione:  se la prima occupazione aveva prodotto un    economico nel cuore del pianeta, la seconda ha fatto una cosa analoga in campo militare. Subito dopo gli attacchi dell’11 settembre, gli “unilateralisti” dell’amministrazione Bush hanno rivendicato il loro diritto di realizzare  un’occupazione globale investendo in testate di missili. Sembrava tutto romantico quando  si è trattava delle forze armate degli Stati Uniti e  di che cosa potevano fare: hanno invaso l’Iraq, decisi a presidiare le zone centrali del petrolio del pianeta. Doveva diventare “shock and awe” (dominio rapido) e ”missione compiuta” per tutto il tempo. Quello che avevano in mente era una versione militarizzata dello schema “Occupare la ricchezza”. Il loro ardente desiderio di  privatizzare si è esteso allora alle stesse forze armate, e, quando hanno invaso, insieme alle  loro salmerie sono arrivate le grosse imprese commerciali  amiche pronte a banchettare insieme.

C’era una volta in cui gli Americani sapevano che soltanto il nemico mostruoso – detto più di recente “l’impero del male”, cioè l’Unione Sovietica poteva sognare di conquistare e occupare il mondo, cosa che fanno, per la loro natura, i mostri cattivi. Questo fino al 2001, quando è venuto fuori che andava bene ai bravi ragazzi del pianeta Terra avere esattamente la stessa linea di pensiero.

L’invasione dell’Iraq , quella “passeggiata”, voleva stabilire un punto di appoggio nel il Grande Medio Oriente* comprese le basi permanenti sorvegliate da 30.000-40.000soldati americani, e che quella era soltanto l’inizio di una reazione a catena. Abbastanza presto la Siria e l’Iran si sarebbero inchinate alla potenza degli Stati Uniti o, se avessero rifiutato, sarebbero comunque decadute grazie al potere tecnologico americano. Alla fine, le terre del Grande Medio Oriente si sarebbero messe in riga (con l’aiuto del   di Washington nella zona, Israele).

E dato che non c’era nessuna altra nazione o blocco di nazioni con una potenza militare di quel genere, né ad alcuna sarebbe stato permesso  di nascere, il risultato – e non erano riservati su questo – sarebbe stata una Pax Americana e una Pax Repubblicana in patria più o meno fino alla fine dei tempi. In quanto “unica superpotenza” o perfino “iperpotenza”, Washington, in altre parole avrebbe occupato il pianeta.

Naturalmente anche quelle dell’Iraq e dell’Afghanistan sono state occupazioni più tradizionali. A Baghdad, per esempio, il console americano L. Paul Bremer III ha promulgato l’ ”Ordine 17” che fondamentalmente garantiva a ogni straniero connesso all’impresa dell’occupazione la piena libertà della terra nella quale non potevano interferire in alcun modo gli Iracheni o alcuna istituzione irachena politica o legale. Questo comprendeva “libertà di movimento senza ritardi  in tutto l’Iraq” e né le loro imbarcazioni, né i veicoli  né gli aerei dovevano essere “soggetti a registrazione, autorizzazioni o a ispezioni del governo [iracheno].” Quando viaggiavano, nessun diplomatico straniero, soldato, consigliere, o guardia addetta alla sicurezza o nessuno dei loro veicoli,  imbarcazioni  o aeroplani dovevano  essere soggetti a “tasse doganali, diritti autostradali, o ad altre     tariffe, comprese quelle di atterraggio e di parcheggio.” E questo era solo l’inizio.

L’Ordine 17, che sembrava come un editto preso direttamente da un    scenario coloniale del diciannovesimo secolo, coglieva l’arroganza locale degli occupanti che voleva rendere tutto sua proprietà privata.

Tutto questo si è dimostrata una fantasia ai confini con la delusione, e non ci è voluto molto perché questo diventasse chiaro. Infatti, il fallimento assoluto  degli unilateralisti   gli si è ritorto contro sotto forma di un patto SOFA (Status of Forces Agreement- Accordo sullo status delle forze)

(http://www.atlasorbis.it/geopolitica/142-iraq-cala-il-sipario-su-operation-iraqui-freedom.html) mentre le autorità irachene  promettevano di porre fine al presidio della nazione non nel 2030 o nel 2050, ma nel 2011. E l’amministrazione Bush si è sentita costretta ad accettarlo nel 2008, lo stesso anno  che gli unilateralisti affrontavano  il gioco finale dei loro sogni di dominio globale.

 

In quell’anno, lo sforzo unilaterale dei neo- liberali di privatizzare il pianeta, è finito in fumo, insieme con la Lehman Brothers, con tutti quei mutui subprime (concesso a debitori ad alto rischio di insolvenza) e i derivati e un’intera orda di banche e di  imprese   finanziarie recuperati dalla pattumiera della storia dal Tesoro degli Stati Uniti. Parliamo di dare all’espressione “distruzione creativa” il significato più cupo possibile: le due ondate di unilateralisti americani hanno quasi distrutto il pianeta.

Hanno lasciato liberi demoni di ogni tipo, anche quando assicuravano che  la prima esperienza mondiale di “un’unica super potenza” si sarebbe dimostrata breve. Mettete sopra alle macerie che si sono lasciati dietro il disastro globale dell’aumento dei prezzi degli elementi fondamentali –        cibo e combustibile –  e avrete una situazione così “infiammabile” che nessuno si sarebbe dovuto meravigliare quando un solo fiammifero tunisino ha appiccato il fuoco.

Le prime due occupazioni fallite hanno gettato il pianeta nel caos e nella miseria, anche se hanno preparato la strada, in un modo completamente involontario, a una Primavera araba pronta a impegnarsi a combattere   l’1% del Medio Oriente.

Notate anche che, mentre le loro politiche peggioravano rapidamente, il primo e il secondo insieme di occupanti venivano via con il loro tesoro e la loro parte migliore intatti. Né i banchieri né i militaristi sono andati in prigione, neanche uno di loro. Se la erano cavata come banditi e continuano a farlo. Hanno portato a casa le loro indennità di molti  milioni di dollari. Si sono tenuti i loro yacht, le loro dimore signorili, i  loro jet privati (esenti da tasse). Hanno portato con sé la capacità di firmare contratti di milioni di dollari per scrivere memorie destinate a diventare dei libri di successo e di fare giri di conferenze a 100.000-150.000 dollari l’una. Nella seconda occupazione la hanno fatta franca, letteralmente dopo le uccisioni (e le torture e i sequestri di persona, ecc.). Allo stesso tempo, la miseria del 99% era cresciuta incommensurabilmente.

La terza occupazione: La cosa più importante e sorprendente che le prime due occupazioni globalizzanti hanno fatto, tuttavia, è stata di avere globalizzato la protesta. Insieme hanno creato la base, con pura iniquità e pura ingiustizia, di cadaveri e vite ferite, per Piazza Tahrir e Occupiamo Wall Street. Il loro fallimento ha preparato il terreno per qualche cosa di nuovo nel mondo.

Il risultato è stato un caso di contraccolpo in stile Chalmers Johnson, (http://it.wikipedia.org/wiki/Chalmers_Johnson) lo spirito del quale è stato colto nell’appropriazione che i dimostranti hanno fatto proprio della parola “Occupiamo”. C’era una sensazione là fuori che ci avessero occupato abbastanza a lungo e in modo disastroso. Era ora che noi occupassimo loro e anche i nostri parchi, le piazze, le strade, le città piccole e le città grandi, e le nazioni.

Il desiderio di raddrizzare le cose è potente. Gene Turitz, un mio amico che ha partecipato alle dimostrazioni che hanno deciso una  breve chiusura del porto di Oakland, in California, mi ha scritto di recente quello che segue riguardo alla sua esperienza. Coglie qualche cosa dello stato d’animo di questo momento.

“Il sindaco di Oakland, un ex progressista, ha imprecato contro la violenza economica che stava perpetrando il movimento “Occupiamo” con la chiusura del porto. Non una parola della violenza economica delle banche che rubano le case della gente per mezzo dei pignoramenti, o la violenza economica dei proprietari di squadre sportive che chiedono alla città di costruire nuovi stadi per le loro squadre minacciando di spostarsi in altre città se non si fa questo o quello per loro. Questo è proprio il modo in cui si agisce. Non si vuole la violenza di migliaia di persone che dimostrano pacificamente che le cose devono cambiare per migliorare la loro vita.”

 

O, in due parole: “Noi esistiamo” E probabilmente appena in tempo.

 

La Quarta Occupazione: questa è insieme la più nuova e la più vecchia delle occupazioni. Parlo dell’occupazione della terra da parte dell’umanità. Nei secoli recenti, c’è forse da chiedersi che siamo stati   duri con  questo pianeta, sfruttandolo di tutto ciò che ha un valore? La nostra scusa era che noi sinceramente non ne sapevamo molto,  almeno quando si trattava del cambiamento del clima, che noi non capivamo a che tipo di danno a lungo termine poteva produrre la combustione dei combustibili fossili. Adesso, naturalmente, lo sappiamo. Chi non lo sa,  o fa finta di non sapere  o semplicemente non gli interessa.

Ed ecco soltanto un assaggio di quello che sappiamo su come la quarta occupazione sta influenzando il pianeta: tredici degli anni più caldi da quando si è iniziato a registrarli si sono avuti negli ultimi 15 anni. Nel 2010, quantità straordinarie di anidride carbonica sono stati inviate  nell’atmosfera (“il salto più notevole mai visto nei gas del riscaldamento globale”); nel 2011 il tempo è stato  notevolmente estremo: siccità da caldo torrido,  incendi imponenti, inondazioni vaste;  nell’Artico, il ghiaccio si sta sciogliendo a velocità che non ha precedenti e questo vorrà dire innalzamento del livello del mare che minaccerà le zone basse del pianeta. E quanto a quella temperatura, continuerà ad aumentare spiacevolmente in questo modo. Potenzialmente, questo è la storia del  più gigantesco  contraccolpo di tutti i tempi.

Questo è soltanto un assaggio di quello che di solito  sappiamo sugli affari su questo pianeta: se ci fidiamo dei precedenti occupanti e della loro specie per  salvarci, allora sarà una lunga  lugubre  attesa. Non contate su nessuno dei giganti dell’energia come la Exxon o la BP o sui loro lobbisti e su i politici che loro influenzano per fermare il cambiamento  del clima. Dopo tutto, nessuno di loro sarà vivo per vedere un pianeta meno vivibile, quindi che cosa gli importa? Le zone torride sono così, le schede dei profitti e le indennità sono così ora, il che significa: non contate che all’1%  importi qualche cosa!

Se fosse spettato a loro – esclusi poche persone isolate – forse potremmo semplicemente cancellare la Terra  come un futuro luogo accogliente per noi. E al pianeta non importerebbe nulla. Dategli 100.000, anni o 10 milioni di anni o 100 milioni di anni e tornerà in forma con un sacco di specie  vita che lo circonderanno.

Siamo creature talmente effimere e con una durata di vita molto breve. E’ difficile per noi soltanto pensare nel modo di un modesto lungo termine     che il cambiamento climatico richiede. Ringraziate quindi la vostra buona stella che gli occupanti della prime e seconda ondata hanno creato una terza occupazione che non avevano mai immaginato possibile. E ringraziate la vostra buona stella che stanno anche nascendo lentamente  i movimenti che vogliono occupare il nostro pianeta in maniera nuova e ricacciare  indietro    coloro che provocano il riscaldamento globale.

Come i tentativi di occupazione dell’economia globale e del Grande Medio Oriente, ognuno stimolato da un senso di avidità che è andato al di là di ogni confine, l’occupazione del nostro pianeta sicuramente creerà le sue proprie forze di opposizione e non soltanto nel mondo naturale. Forse stanno già emergendo insieme alla primavera araba, all’estate europea, e all’autunno americano, per non parlare dell’inverno russo. E quando saranno qui – come quinta occupazione del pianeta Terra – quando terranno duro e scandiranno lo slogan “Noi esistiamo!” con rabbia, con forza e meraviglia, forse allora potremo realmente affrontare il cambiamento del clima e sperare che non sia troppo tardi.

Forse la quinta occupazione è quella che aspettiamo e non dubitate neanche per un secondo che arriverà. E’ già per strada.

 

*Il Grande Medio Oriente (in inglese Greater Middle East), è un termine politico coniato dall’amministrazione Bush per designare in un insieme di paesi che appartengono al mondo musulmano, e, precisamente: Iran, Turchia, Afghanistan, Pakistan.

(da: Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/GreaterMiddle_East)

 

Tom Engelhardt, co-fondatore dell’American Empire Project, e autore di  

The American way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s (Lo stile

bellico americano: Come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama), e  anche di: The End of Victory Culture (La fine della cultura della vittoria), dirige il sito del Nation Institute TomDispatch.com, dove questo articolo è stato pubblicato la prima volta. Il suo libro più recente, The United States of Fear (Haymarket Books) – Gli Stati Uniti della paura, è  stato appena pubblicato.

 

[Nota per i lettori di TomDispatch: per coloro che non hanno ancora letto il pezzo per TomDispatch di Barbara Ehrenreich e John Ehrenreich, “The Making of the American  99% – La  formazione del 99%, americano ” viesorto a farlo e non perdete neanche “Protest Planet” –“ Il pianeta della protesta” di Juan Cole che offre una straordinaria spiegazione di come si è creato globalmente l’1%. Questi due articoli mi hanno aiutato a capire meglio il nostro mondo che sta cambiando. Vorrei ringraziare mia moglie per l’espressione “occupare la ricchezza.”]

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.znetitaly.org

 

http://www.zcommunications.org/the-four-occupations-of-planet-earth-by-tom-engelhardt

Fonte: Tom Dispatch.com

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly– Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA-3.0

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“L’America è eccezionale.” Ripetetelo fino alla nausea

15 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Tom Engelhardt

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“L’America è eccezionale.” Ripeterlo fino alla nausea

 

di Tom Engelhardt

13 dicembre 2011

 

Se volete la misura di un’America che sta scivolando verso il basso, potreste dare un’occhiata al recente sondaggio commissionato dal quotidiano The Hill, nel quale la sorprendente percentuale del 69% delle persone interrogate ha detto che considerano il loro paese ormai in declino. Potreste anche considerare il linguaggio alato che usano i candidati alla presidenza in questo periodo. Mitt Romney,* in un recente dibattito dei Repubblicani sulla politica estera, ne ha dato un esempio tipico, insistendo a dire che “questo secolo deve essere un secolo americano” durante il quale “l’America guida il mondo libero e il mondo libero guida il mondo intero.”

Il presidente Barack Obama tende ad usare il linguaggio infuocato dell’eccezionalità americana, annunciando spesso la sua intenzione di fare in modo che il 21° secolo sia “un altro secolo americano.”

Dato che ho 67 anni, sono cresciuto nell’era successiva alla Seconda guerra mondiale che, sotto ogni aspetto, era il culmine del primo secolo americano. Dato che gran parte del resto del mondo avanzato lottava per ricostruire le città devastate, gli Stati Uniti non hanno potuto essere più eccezionali, una nazione unica nel suo genere nel fabbricare  articoli costosi utili in pace e in guerra, spesso prodotti dalle stesse grosse imprese industriali.

A quei tempi non c’era bisogno che i presidenti o i candidati alla presidenza si alzassero e ripetutamente rassicurassero il popolo americano del  fatto che eravamo così eccezionali. Era troppo ovvio per affermarlo. Dopo tutto, quando si ha una cosa, non c’è bisogno di sbandierarla.

La prossima volta, quindi, che sentite un qualsiasi politico insistere a dire che questa nazione è eccezionale nello stile del secolo, consideratela una specie di confessione segreta che invece non siamo così. In questi giorni si può sentire il ringhio (o il gemito) di difesa che si cela nell’insistenza che la nostra nazione non è soltanto una delle  nazioni potenti che  si trova  a un punto morto in politica e in una situazione economica difficile.

Pensate ora, se volete, ai muscoli di Rambo che a modo loro erano una confessione di insicurezza molto simile ai discorsi sull’ eccezionalità che fa Romney. Molto tempo fa, l’eroe dei film western o dei film di guerra, Gary Cooper or John Wayne, forse erano forti e silenziosi, ma il fisico “mostruoso”  non era certo la loro qualità principale. Quell’eroe non era  ultra-muscoloso  o enorme come si usa rappresentarlo nei cartoni animati. Essendo un uomo di quel momento del secolo realmente americano, non doveva  cambiare stile per mettere in risalto il fatto di essere un eroe e la sua potenza fisica.

Rambo è arrivato sugli schermi negli anni  dopo la guerra del Vietnam come una  creatura della sconfitta americana. Era un periodo in cui chi era forte e silenzioso non convinceva più abbastanza, quando una corsa alle armi vera sembrava necessaria, quando i pettorali del potere americano avevano bisogno di essere ultra gonfiati per essere ultra esibiti.

 

Romney e il suo equipaggio sono, letteralmente, i Rambo di questo  momento americano del 21° secolo e la loro versione dell’eccezionalità sempre presente si adatta bene a un’altra caratteristica che si ripete spesso   nel panorama attuale: l’esaltazione del soldato americano come eroe degli eroi, un modello  per la nazione.

Molte di queste cose avrebbero avuto un suono davvero strano per le orecchie degli Americani dell’epoca della mia infanzia. Avevano la loro serie di enormi paure, ma vivevano ancora in una nazione con un esercito di cittadini del quale la coscrizione assicurava che quasi tutti potessero far parte. Nella maggior parte delle famiglie, compresa la mia, c’era  allora almeno un reduce della Seconda Guerra mondiale.

Nessuno, tuttavia, parlava delle più grandi generazioni americane o dei loro eroi o, come Obama e George W. Bush prima di lui, della “più bel esercito del modo” (o “che il mondo abbia mai conosciuto”). Il soldato era semplicemente un Americano.

Adesso, nel mondo dell’esercito fatto tutto di volontari, mentre gli Stati Uniti sono continuamente in guerra in tutto il mondo, anche se con notevoli insuccessi, i militari esistono per lo più in una sfera separata, dato che  molti Americani non hanno nessun rapporto diretto con le guerre combattute nel loro nome e con i soldati che le combattono.

Oggi, tuttavia, sostenere le truppe (o “i guerrieri dell’America,” come ora vengono spesso chiamati), è diventato un dovere quasi religioso. Questa insistenza ricorrente del bisogno che hanno di appoggio, dovrebbe, come l’eccezionalità di Romney, essere considerato un altro tipo di ammissione segreta.

Dopo tutto, il più grande errore della nostra era è stato indubbiamente questo: quando l’Unione Sovietica è scomparsa improvvisamente nel 1991, i nostri capi hanno immaginato che di aver ottenuto una specie di vittoria americana che non si era mai vista prima. Dove, per secoli, c’erano state due o più grandi potenze rivali, adesso c’era soltanto l’unica superpotenza (o anche iperpotenza) del pianeta Terra, senza che ci fossero minacce  importanti in nessun posto.

A qualcuno è sembrato che questo fosse, per definizione, un secondo momento simile a quello del dopo II Guerra mondiale, pieno di eccezionalità americana. Mentre confondevano la potenza militare con la supremazia mondiale, non hanno notato che anche la più forte potenza della Guerra Fredda stava scivolando lentamente verso il basso in una nuvola di autocompiacimento. Al momento stiamo vivendo il resto di questa triste storia.

Quel momento americano e il  “secolo” che lo accompagnava, se ne sono  andati. Il declino incombe su di noi e qualsiasi rassicurazione che non è così serve soltanto, anche se in modo subliminale, a rinforzare quella realtà. A parte  il ritmo  che adotteranno,  i nostri “guerrieri” ed “eroi” tornano a casa in un paese infelice, dove non c ‘è eroismo né sicurezza, dove mancano i posti di lavoro. Nel frattempo, i nostri  capi protestano davvero troppo.

 

  • vedi: http://it.wikipedia.org/wiki/Mitt_Romney

 

Tom Engelhardt, co-fondatore dell’American Empire Project, dirige il sito del Nation Institute TomDispatch.com

 

Da Z Net –Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.znetitaly.org

http://wwws.zcommunications.org/america-is-exceptional-repeat-ad-nauseam-by-tom-engelhardt

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

CC)= 2011 ZNET Italy –Licenza Creative Commons  CC BY-NC-SA 3.0

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Lezioni dai morti in un mondo che non impara mai nulla

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Mondo, Tom Engelhardt

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Lezioni dai morti in un mondo in cui nessuno impara mai nulla 

 

Di Tom Engelhardt

2 dicembre 2011

 

Aveva 22 anni, caporale dei Marines, di Preston nello Iowa, una “città” incorporata nel 1890 con una popolazione attuale di 949 persone. E’ morto in un ospedale in Germania in seguito a ferite riportate nell’ esplosione di un ordigno mentre era di pattuglia nella provincia di Helmand (Afghanistan). Il preside della sua scuola superiore ha detto di lui:”Era un bravo ragazzo”. I suoi genitori gli sono sopravvissuti.

 

Aveva 20 anni, un nella decima Divisione di montagna, di Boyne City, di 3.735 persone, che si pubblicizza come “la città del Michigan settentrionale che cresce più in fretta.” E’morto in seguito alle “ferite riportate quando gli insorti hanno attaccato la sua unità sparando con armi leggere, e i suoi genitori gli sono sopravvissuti.

 

Questi sono gli ultimi due di 10 Americani la cui morte in Afghanistan e in Iraq è stata annunciata dal Pentagono nella settimana del Giorno del Ringraziamento. Gli altri otto venivano da Apache Junction, , Arizona; Fayetteville, Nord Carolina; Greensboro, Nord Carolina;  Navarre, Florida;

Witchita, Kansas; San Jose, California; Moline, Illinois e Danville, California. Sei di loro sono morti a causa di ordigni esplosivi improvvisati (bombe sul ciglio delle strada), si presume senza neanche aver visto i nemici afgani che li hanno uccisi. Uno è morto per “fuoco indiretto” e un altro mentre “conduceva operazioni di combattimento”.

Su questi eventi i comunicati stampa del Ministero della Difesa sono relativamente reticenti, come lo era anche l’esercito, per esempio, quando ha dato la notizia che la stessa settimana di 17 “potenziali suicidi” tra i soldati in servizio attivo in ottobre.

In questi giorni, i nomi e i morti  arrivano goccia a goccia sulle pagine interne dei giornali o semplicemente nell’etere, in una guerra alla quale ora sono contrari il 63% degli Americani, secondo i più recenti  sondaggi di opinione della CNN/ORC, ma in realtà raramente ricordati da chiunque in questa nazione. E’ una realtà resa più facile dal fatto che i morti dell’Esercito dei Volontari d’America in generale vengono da posti che si dimenticano: piccole città, sobborghi poco noti, città di terzo o quarto rango, e da un esercito con il quale  sempre meno Americani hanno un qualche legame.

A parte coloro che gli vogliono bene, chi presta più attenzione alla morte di soldati americani in terre remote? Queste morti, dopo tutto, sembrano poca cosa  rispetto ai numeri di  quelli muoiono in incidenti,  come i 16 Americani che sono morti sulle autostrade dell’Ohio nel lungo weekend del Giorno del ringraziamento o i 32.788 Americani che sono morti in incidenti stradali quello stesso anno.

E quindi quella stessa settimana chi avrebbe prestato la minima attenzione alla morte di Mohammad Rahim, un agricoltore della provincia di Kandahar, nell’Afghanistan meridionale? Quattro dei suoi figlie maschi e due femmine – tutti tra i 4 e i 12 anni – sono stati uccisi in un attacco aereo della NATO (indubbiamente americano), mentre stavano lavorando nei campi. Inoltre, una figlia di otto anni di Rahim è stata “ferita gravemente”. Se lo stesso Rahim sia stato ucciso non è chiaro dai modesti rapporti che abbiamo riguardo allo “incidente”.

In totale, sette civili e forse due insorti in fuga sono morti. Lo zio di Rahim Abdul Samad, tuttavia, pare abbia detto che “Non c’erano Talebani in zona; è una dichiarazione infondata che i Talebani stessero mettendo delle mine. Sono stato sul posto e non ho trovato il minimo segno di bombe o di altre armi. Gli Americani hanno compiuto un grave delitto contro bambini innocenti; non saranno mai perdonati.”

Come in tutti i casi di questo genere la NATO ha aperto “un’inchiesta” su quanto è accaduto. I risultati di queste indagini vengono raramente resi noti.

Analogamente, nel fine settimana del Giorno del Ringraziamento(26-27 novembre),  un numero compreso tra i 24 e i 28 soldati pachistani, tra cui due ufficiali, sono stati uccisi in una serie di attacchi con elicotteri e  caccia  a reazione in due avamposti in Pakistan al di là del confine con l’Afghanistan. Uno di questi, secondo fonti pachistane, è stato attaccato due volte e ci sono stati dei feriti. Ufficiali pachistani, indignati, hanno denunciato subito l’attacco, hanno chiuso i punti chiave di attraversamento ai veicoli statunitensi che portano forniture militari in Afghanistan e hanno chiesto che gli Stati Uniti lasciassero una base aerea di importanza fondamentale usata per la guerra della CIA con gli aerei senza pilota nelle zone tribali pachistane. Come risposta, i funzionari americani, sia militari civili, hanno porto le loro condoglianze e tuttavia hanno addotto la scusa della  “auto-difesa”  e hanno offerto promesse di una minuziosa  indagine sulle circostanze  relative allo “incidente di fuoco amico”.

Tra questi conteggi relativamente modesti di morti, non dimenticate una cifra  sconvolgente che è venuta fuori durante lo stesso fine settimana del Giorno del Ringraziamento: la stima che, in Iraq, 900.000 mogli hanno perduto i loro mariti dall’inizio dell’invasione degli Stati Uniti nel marzo 2003. Non c’è da sorprendersi che molte di queste vedove siano in uno stato di disperazione  e, a quanto si dice  non ottengono quasi nessun aiuto né dal governo iracheno né da quello americano. Sebbene i loro mariti sono indubbiamente morti in vari modi, in situazioni di guerra, di guerra civile, e di pace, la cifra offre davvero un’indicazione approssimativa dei livelli di  massacro che l’invasione statunitense  ha imposto a quel paese negli scorsi otto anni e mezzo.

 

Distruzione creativa nel Grande Medio Oriente *

 

Pensate a tutto questo come a una scheda segnapunti parziale di una sola settimana dello stile bellico americano.  Quando lo fate, ricordate le grandi speranze di Washington soltanto di un decennio fa riguardo a quello che l’esercito americano  “leggero” e col metodo  “colpisci e sgomenta” *  avrebbe fatto, riguardo al modo in cui avrebbe distrutto da solo,  i nemici,    riorganizzato il Medio Oriente, creato un nuovo ordine sulla Terra, fatto scorrere il petrolio, privatizzato e ricostruito  intere nazioni e fatto entrare  la pace in tutto il mondo, specialmente nel Grande Medio Oriente, in  termini graditi all’unica super potenza del pianeta.

Che queste “speranze” altissime fossero allora la moneta del regno di Washington, è la misura del modo in cui le opinioni deliranti        passavano per varietà strategica ed è un promemoria di come, per una volta, i sapientoni di ogni tipo trattavano quelle speranze come se rappresentassero proprio la realtà. E tuttavia, non dovrebbe essere stato uno shock accorgersi che una “politica estera” che metteva l’esercito al primo posto e una forza militare provvista di incredibile potenza tecnologica ai suoi ordini, si sarebbe dimostrata incapace di costruire qualsiasi cosa. Nessuno si sarebbe dovuto stupire che una forza tale andava bene soltanto per quello per cui era stata costruita: morte e distruzione.

Si potrebbe addurre l’argomento che la versione militare statunitense di “distruzione creativa”, portata direttamente nei paesi produttori di petrolio più importanti, ha davvero preparato la strada, anche se inavvertitamente, alla futura Primavera Araba, in parte unificando tutta quella zona nella miseria e  nell’avversione  viscerale. Nel frattempo gli  “errori,” gli “incidenti,”, i “danni collaterali,”, i pranzi di matrimonio con massacro, i funerali che sono stati bombardati,  i “contrattempi,” e le “comunicazioni male interpretate,” hanno continuato ad ammucchiarsi, come i cadaveri degli Afgani, degli Iracheni, dei Pachistani, degli Americani e di tanti altri che vivono in luoghi di cui non avete mai sentito parlare se non ci siete nati.

Nessuna di queste cose avrebbe dovuto meravigliare nessuno. Forse, almeno marginalmente, è stata più sorprendente l’incapacità dei militari americani di esercitare la loro potenza distruttiva per riportare una qualsiasi vittoria. Dall’invasione dell’Afghanistan nell’ottobre del  2001, ci sono state così tanti proclami di “successo,” di “missione compiuta,” di “svolte importanti,”  di “ punti di non ritorno raggiunti,”  di “progressi” fatti, e così poco da mostrare.

In mezzo alla devastazione, alla destabilizzazione, e al disastro, le grandi speranze sono evaporate tranquillamente. Ora naturalmente, lo slogan “colpisci e sgomenta” è scomparso da molto tempo. Quegli slanci   trionfanti sono orami storia. La contro insurrezione o COIN che per un po’ di tempo è stata la cosa più “forte” che c’era,  è stata spazzata via  ed è finita nel secchio della spazzatura della storia dal quale il Generale (ora direttore della CIA) David Petraeus la  ha  recuperata  non molti anni fa.

Dopo un decennio in Afghanistan dove l’esercito americano ha combattuto una minoranza di insorti, forse tanto impopolare quanto potrebbe essere qualsiasi altro movimento “popolare”, la guerra afgana è ora considerata quasi da tutti “impossibile da vincere” oppure a “un punto morto”. Naturalmente che cosa significhi punto morto quando l’esercito più potente del pianeta  combatte un mucchio di guerriglieri di una zona remota, alcuni dei quali forniti di armi che meritano di essere messe in un museo, nel migliore dei casi è una domanda senza risposta.

Nel frattempo, dopo quasi nove anni di guerra ed occupazione, in Iraq l’esercito statunitense sta chiudendo le sue mega-basi costate molti miliari di dollari e sta ritirando le truppe. Sebbene lasci sul posto una missione immensa del Dipartimento di Stato sorvegliata da un esercito di 5.000 mercenari, un bilancio destinato alle spese militari  di 6,5 miliardi di dollari per il 2012, e più di 700 addestratori per lo più di assassini pagati,  l’Iraq è chiaramente una perdita per Washington. In Pakistan la guerra americana  condotta con gli aerei senza pilota, unita al più recente “incidente” al confine pachistano che evidentemente coinvolge gli agenti segreti delle forze speciali statunitensi, ha ulteriormente destabilizzato quel paese e le sue alleanze con gli Stati Uniti. Un importante candidato pachistano alla presidenza sta già chiedendo di mettere fine a quella alleanza, mentre l’anti-americanismo aumenta molto rapidamente.

Nessuna di queste situazioni dovrebbe sorprenderci. Dopo tutto che cosa esattamente potrebbe portare con sé una  politica estera che caparbiamente          mette al primo posto l’esercito, tranne una forza distruttiva (e neanche soltanto per le terre straniere)? Come ci ricordano le proteste di OWS e il fatto che siano state represse, anche le forze di polizia americane sono state pesantemente militarizzate. Nel frattempo le nostre guerre e le spese per la  sicurezza nazionale, hanno prosciugato gli Stati Uniti di bilioni di dollari del tesoro nazionale lasciandosi dietro un paese a un punto morto in politica, con l’economia prossima a una situazione di “colpisci e sgomenta,” le infrastrutture vacillanti e vaste maggioranze di cittadini arrabbiati convinti che la loro terra non sia soltanto  “sulla strada sbagliata”, ma “in declino.”

 

Nel vortice

Un decennio dopo, forse l’unica cosa che veramente causa sorpresa è vedere quanto poco hanno imparato a Washington. La scelta del primato dell’esercito che è riecheggiata nel secolo – naturalmente c’erano disponibili altre opzioni – è diventata l’unica opzione che rimaneva nell’arsenale impoverito di Washington. Dopo tutto, il potere economico del paese è a brandelli (questo è il motivo per cui gli europei guardano alla Cina per chiedere aiuto nella crisi dell’euro), il suo “soft-power” *** è andato a rotoli e il suo corpo diplomatico o è stato militarizzato oppure è stato relegato molto tempo fa nelle posizioni meno importanti dello stato.

 

Quello che comunque non potrebbe essere più strano, è che dal vortice distruttivo del disastro politico l’amministrazione Obama ha tratto la conclusione meno plausibile: che la maggior parte di quello che ha causato la nostra disfatta è ora nei nostri programmi: dal Pakistan all’Uganda, all’Afghanistan alla Somalia, al Golfo Persico alla Cina.  Sì, la COIN  è uscita di scena e le forze destinate alle  operazioni speciali  (per esempio i SEAL che hanno ucciso Osama bin Laden, n.d.T.) sono in auge, ma la linea politica fondamentale rimane la stessa.

Le prove dell’ultimo decennio mostrano chiaramente che nulla di importante è probabile che venga costruito sulle macerie di una tale politica globale, soprattutto in rapporto alla Cina, il maggior creditore dell’America. Tuttavia, anche in  quel caso, come ha segnalato il presidente Obama (anche se debolmente) durante il suo recente annuncio di un simbolico stanziamento permanente dei Marines a  Darwin, in Australia, la strada militare rimane quella della minore resistenza. Come ha detto di recente Michael Klare, sulla rivista Nation, “E’ impossibile evitare la conclusione che la Casa Bianca ha deciso di controbattere alla spettacolare crescita economica della Cina con una replica di tipo militare.”

Come fa notare  Barry Lando, ex produttore di 60 Minutes (News magazine del canale televisivo americano CBS), la Cina, e non gli Stati Uniti, è “uno dei paesi che ha ottenuto i più grossi benefici dal petrolio della guerra irachena.” Infatti, le nostre installazioni   militari  in tutta la zona del  Golfo Persico, soprattutto  difendono  il commercio cinese. “Proprio come le truppe e le basi americane si sono sparse nei paesi del Golfo,” scrive Lando, “così hanno fatto anche  gli uomini di affari cinesi, ansiosi di sfruttare le risorse vitali che i militari statunitensi proteggono con così tanta premura…

In altre parole, l’unico più mostruoso errore degli anni di Bush – confondere il potere militare con quello economico – è stato scolpito nella pietra. Washington continua a governare con i suoi aerei senza pilota e a fare domande, a porgere condoglianze, o a intraprendere indagini in un secondo momento. Questa è, naturalmente, una strada destinata certamente   a portare con sé distruzione e ripercussioni. Nessuna di queste è verosimile che alla lunga ci porti benefici, meno che mai in rapporto alla Cina.

Quando la storia, che è  più imprevedibile degli argomenti,  diventa prevedibile, state in guardia!

In quello che dovrebbe essere un momento in cui si debba pensare in modo creativo, l’unica lezione che Washington sembra capace di assimilare è che la sua politica fallimentare è l’unica politica possibile.

Come è sempre avvenuto dal 12 settembre 2001, Washington rimane occupato in una furiosa e costosa battaglia contro i  fantasmi, destinata a essere persa  nella quale, sfortunatamente, gente assolutamente vera muore e donne assolutamente vere rimangono vedove.

 

Aveva 22 anni….

 

Aveva 12 anni….

 

Queste parole le leggerete ancora più volte nel nostro mondo dove non si impara mai nulla la curva e dove le condoglianze non saranno mai mai abbastanza.

 

*Greater Middle East: è un termine politico coniato dall’Amministrazione Bush che riunisce insieme vari paesi che appartengono al mondo musulmano e, specificamente: Iran, Turchia, Afghanistan e Pakistan. A volte vi si includono varie nazioni dell’Asia Centrale. (da: *      *http://en.wikipedia.org/wiki/Greater_Middle_East. )

** http://it.wikipedia.org/wikiShock_and_awe

*** http://it.wikipedia.org/wiki/Soft_power

 

Tom Engelhardt, cofondatore dell’American empire Project e autore di: The American way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s (Lo stile bellico americano: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama), e anche di: The End of Victory Culture (La fine della cultura della vittoria), dirige il sito TomDispatch.com del Nation Institute, dove questo articolo è stato pubblicato per la prima volta. Il suo libro più recente, The United States of Fear (Gli Stati Uniti della paura) (Haymarket Books) è stato appena pubblicato.

 

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/lessons-from-the-dead-in-a-no-learning-curve-world-by-tom-engelhardt

Fonte: TomDispatch.com

Tradizione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly– Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

 

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Ecco come è la sconfitta

11 venerdì Nov 2011

Posted by Redazione in America, Tom Engelhardt, Usa

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Ecco come è la sconfitta

 

Di Tom Engelhardt

 

9 novembre 2011

 

Che ne dite di un momento di silenzio per la morte del Sogno Americano? P.R.I.M. (Possa riposare nella strage).

No, non parlo del vecchio sogno delle occasioni che implicavano il possesso di una casa,  un posto di lavoro migliore di quello che avevano i vostri genitori, una pensione decente, e tutto il resto del ”pacchetto” che ieri era così, così sommerso, così tipo Occupiamo Wall Street. Parlo di un sogno di gran lunga più recente, un sogno  veramente audace che allo stesso modo se ne è andato via col vento.

Parlo del Sogno Americano di George W. Bush. Se la gente che è qui ricorda l’invasione dell’Iraq – la maggior parte degli Americani senza dubbio preferirebbero dimenticarla – ciò che viene in mente è l’intelligence  imbrogliata, l’arsenale nucleare inesistente di Saddam Hussein,  decisioni ottuse  e perfino decisioni ancora più ottuse, una guerra civile sanguinosa, Americani morti, le grosse imprese amiche, un bilione o più di dollari dei contribuenti buttati nel gabinetto…. Beh, conoscete la storia,  A quante poche persone interessa ricordare che quello era il sogno originario, chiamatelo Il Sogno – e, accidenti, se è stato meraviglioso!

 

Un sogno americano

 

E successo più o meno così: all’inizio del 2003, i funzionari più importanti dell’Amministrazione  Bush  non dubitavano affatto che l’Iraq di Saddam Hussein, prosciugato da anni di guerra, di zone interdette ai voli militari, e di sanzioni, sarebbe stato  un gioco da ragazzi; che i militari statunitensi che idolatravano e idealizzavano, sarebbero andati Baghdad a tempo di valzer.  (La parola che uno dei  loro sostenitori aveva usato sul Washington Post per definire  l’invasione era una “passeggiata”). Non hanno neanche dubitato che quelle truppe sarebbero state salutate come se fossero i loro liberatori, perfino i loro salvatori, da folle di Sciiti adoranti, che in precedenza erano stati repressi, che avrebbero sparso fiori sul loro cammino. (Sul serio, nessuna esagerazione.)

Come sarebbe stato facile quindi instaurare un governo “democratico” a Baghdad – questo significava il candidato Ahmad Chalabi – installare quattro o cinque enormi basi militari situate in modo strategico, cittadelle americane fin troppo bene armate e già programmate prima che iniziasse l’invasione per potere  così dominare il cuore della  produzione del petrolio del pianeta con dei modi che neanche i Britannici all’apice del loro impero, non avrebbero sognato si potessero avverare. (Sì, allora i neo conservatori  si vantavano all’epoca  che avremmo  superato l’impero romano e quello britannico messi insieme!).

Poiché non ci sarebbe stata una vera resistenza, la forza di invasione americana potrebbe iniziare a ritirarsi all’inizio dell’autunno 2003,  lasciando sul posto magari tra i 30.000 e i 40.000 soldati, l’aviazione statunitense, e svariati agenti segreti  e contractor  privati per presidiare una nazione per sempre grata (seguendo quello che venne chiamato “il modello sud-coreano”) L’economia irachena gestita dallo stato, sarebbe privatizzata e le sue risorse petrolifere spalancate alle gigantesche imprese dell’energia globale, specialmente quelle americane, che ricostruirebbero l’industria e comincerebbero a pompare milioni di barili delle vaste riserve di quel paese, indebolendo così il controllo del cartello dell’OPEC sul mercato del petrolio.

E, attenti, costerebbe a malapena un centesimo. Bene, nella  peggiore improbabilità,  forse tra i 100 e i 200 miliardi di dollari, ma poiché l’Iraq, secondo la frase dell’allora Vice segretario alla difesa  Paul Wolforowitz,  “galleggia su un mare di petrolio,” la maggior parte della somma potrebbe alla fine essere coperta alla fine dagli stessi Iracheni.

Allora, percorrendo in discesa il sentiero della memoria, non vi manca il fiato? E tuttavia, l’Iraq era solo l’inizio per i sognatori di Bush Che chiaramente si sentivano come i proverbiali bambini in un negozio di caramelle (anche se si comportavano come elefanti in un negozio di porcellane): La Siria, presa in una morsa strategica tra Israele l’Iraq americano, naturalmente si  sarebbe sottomessa;  anche gli Iraniani, presi tra anche loro tra l’Iraq americano e l’Afghanistan americano, si sarebbero  inchinati al massimo o sarebbero stati semplicemente umiliati come gli secondo lo stile adottato con gli Iracheni, e chi si lamenterebbe? (Come diceva la battuta neo conservatrice  del momento: “Tutti vogliono andare a Baghdad. I veri uomini vogliono andare a Teheran.”).

E non era tutto. I funzionari di alto livello  di Bush erano stati  ferventi combattenti nella guerra fredda nel periodo precedente quello in cui gli Stati Uniti divennero “l’unica super potenza” e hanno visto la nuova Russia infilare i vecchi stivali sovietici. Avendo umiliato i Talebani e al-Qaida in Afghanistan, stavano già costruendo una rete di basi anche là.  (Che fioriscano mille modelli coreani!) Il prossimo impegno sull’agenda sarebbe  far rotolare i Russi fuori  proprio dal loro “estero vicino,”  cioè le ex Repubbliche Socialiste Sovietiche dell’Asia centrale, che ora sono degli  stati indipendenti.

Che gloria! Grazie al potere ineguagliabile dei militari statunitensi, Washington controllerebbe il Greater Middle East *dal Mediterraneo al confine cinese e non dovrebbe essere grato a nessuno in caso di      vittoria. Grandi potenze, puah! Parlavano di Pax Americana sulla quale non potrebbe mai tramontare il sole. Nel frattempo c’erano tanti altri benefici   portata di mano: la Casa Bianca si sarebbe sciolta dai suoi legami costituzionali per mezzo di “un esecutivo unitario” e, successo dopo successo, si sarebbe instaurata una Pax Repubblicana  negli Stati Uniti per     eternità (con il partito  Democratico, o come dicevano in modo beffardo, il “Democratico” che aveva il ruolo dell’Iran e sarebbe diminuito in modo analogo).

 

Un incubo americano

 

Quando ci si sveglia con i sudori freddi, con il cuore che batte forte, dopo un sogno che vi ha davvero angosciato, vale la pena ricostruirlo prima che svanisca e vi  lasci soltanto un  senso di sconvolgimento.

Tenete quindi  in testa il sogno di Bush per qualche altro momento ancora e considerate la devastazione che ne è seguita. Che cosa rimane dell’Iraq, di quella guerra  che è costata tre bilioni  di dollari? Una forza di spedizione americana, ancora 30.000 soldati circa che si pensava sarebbero rimasti accovacciati  là per sempre, mentre stanno invece imballando la loro attrezzatura e si dirigono “verso l’orizzonte”. Quelle gigantesche cittadelle americane -con i loro enormi PX, cioè i  Post Exchange (sono i negozi nelle basi militari americane all’estero dove i soldati possono acquistare beni di prima necessità, n.d.T.)), i fast-food, i negozi di regali e souvenir, le caserme dei vigili del fuoco, e tutto il resto- sono destinate a diventare presto città fantasma, che probabilmente  verranno saccheggiate e svuotate dagli Iracheni.

Un sacco di miliardi dei contribuenti sono stati, naturalmente, immessi in quelle ziggurat americane. Ora, si presuppone che non ne sia rimasta traccia,  tranne che per quella gigantesca ambasciata-con-cittadella che l’Amministrazione Bush ha costruito a Baghdad spendendo trequarti di miliardo di dollari. Serve a ospitare parte di una “missione”in Iraq di 17.000 persone del Dipartimento di stato, che comprende 5.000 mercenari armati, che si presuppone  siano lì per assicurare che la follia americana non sia del tutto assente da quella nazione anche dopo il “ritiro”.

Interpretate quel ritiro in qualsiasi modo volete,  ma esso rapprenda ancora una sconfitta di primo ordine, di umiliazione di una  misura e in un arco di tempo tali  che sarebbe stato inimmaginabile nell’invasione del 2003. Dopo tutto, i militari statunitensi sono stati buttati fuori dall’Iraq da…beh,  da chi esattamente?

Poi, naturalmente, c’è l’Afghanistan, dove la partenza finale, inevitabile,  deve ancora avvenire, dove un’altra guerra da un  bilione di dollari sta ancora  andando forte come se non ci fossero buchi nelle tasche americane. Gli Stati Uniti stanno ancora avendo vittime,  stanno costruendo massicce strutture di base, stanno ancora addestrando le forze di sicurezza afgane di forse 400.000 uomini in un paese troppo povero per pagare un decimo di quella somma. (questo significa che toccherà a noi finanziarli  per un tempo infinito)

Washington ha ancora un  programma stimulus    a Kabul.  I diplomatici e i funzionari militari vanno e vengono dall’Afghanistan e dal Pakistan cercando una “riconciliazione” con i Talebani, anche se i droni della CIA  bombardano   il nemico al di là dei confini afgani e  chiunque altro sia nelle vicinanze. Come avveniva tanto tempo fa in Iraq, i militari e il Pentagono parlano ancora dei progressi che si stanno facendo, anche se  cresce il disagio di Washington per una guerra che tutti sono ora disposti ufficialmente a definire “impossibile da vincere”.

E’ davvero degno di nota come costantemente  le cose che ufficialmente vanno così bene,  di fatto invece vanno così male. Proprio l’altro giorno, il maggiore Peter Fuller, che gestisce il programma per le forze afgane, è stato licenziato dal comandante militare  Generale John Allen  per aver sparlato del presidente afgano Hamid Karzai e dei suoi generali. Li ha chiamati “isolati dalla realtà.”

Isolati dalla realtà? Ecco un rapporto degli Stati Uniti sull’argomento: costa a Washington ( e quindi al contribuente americano) 11,6 miliardi di dollari solo per questo anno addestrare quelle forze di sicurezza e tuttavia, dopo  anni di questo addestramento, “non un solo battaglione dell’esercito afgano può operare senza l’assistenza di unità statunitensi o alleate.”

Non è necessario essere veggenti per sapere che anche questo rappresenta una forma di sconfitta, anche se il nemico, come in Iraq, è una serie  di    sollevazioni di una minoranza stracciona. E’ più o meno un dato di fatto, tuttavia, che qualsiasi sogno americano per l’Afghanistan, come quelli della Gran Bretagna e della Russia prima di loro,  saranno seppelliti un giorno nelle macerie di una terra devastata ma che ha resistito, non importa quali risorse Washington sceglierà per continuare a sperperarle nell’impresa.

Questo, detto semplicemente, è parte di un panorama più vasto di sconfitta imperialista.

 

Sudori freddi all’alba

Sì, abbiamo perso in Iraq e stiamo perdendo in Afghanistan, ma se vogliamo un piccolo giro di vite geopolitico che  catturi lo spirito del tempo, verificate  una delle prime dichiarazioni di Almazbek Atambayev dopo la sua recente elezione a presidente del Kirgzisistan, un paese che al quale forse non avete mai pensato neanche per un secondo.

Tenete a mente il forte desiderio di Bush di  abbattere  i Russi alla periferia di Mosca. Il Kirghizistan è, naturalmente, una delle ex repubbliche socialiste sovietiche centro asiatiche dell’Unione sovietica, e, con  la copertura della guerra afgana, gli Stati Uniti hanno traslocato lì, hanno preso in affitto un’importante base militare all’aeroporto di Manas, vicino a Biškek, la capitale; essa è diventata un’importante postazione di rifornimento per la guerra, ma anche un punto di appoggio militare in quella area geografica.

Adesso Atambayev ha annunciato che gli Stati Uniti dovranno abbandonare Manas quando scadrà il contratto di affitto nel 2014. L’ultima volta che un presidente kirghizo ha fatto una minaccia simile, era per cercare di estorcere altri 40 milioni di dollari di affitto alla potenza più ricca del globo. Questa volta, tuttavia, Atambayev ha evidentemente    le realtà della zona, ha esaminato con attenzione il suo vicino rinascente   e l’influenza in declino di Washington e ha puntato sui Russi. Consideratela come un piccola indicatore della identità di quelli che vengono fatti rotolare fuori.

Isolati dalla realtà? Che ne dite dell’amministrazione Obama e dei suoi generali? Naturalmente i funzionari di Washington preferiscono non capire tutto ciò. Desiderano optare per l’isolamento dalla realtà. Preferiscono parlare del ritiro delle truppe dall’Iraq, ma soltanto per sostenere le già potenti guarnigioni  in tutto il Golfo Persico e così liberare la zona, come ha detto il nostro segretario di stato “dalle interferenze esterne” dell’Iran alieno. (Perché, ci si chiede, si chiama Golfo Persico, invece che Golfo Americano?)

 

Preferiscono parlare di rafforzare il potere degli Stati Uniti e sostenere le sue basi nel Pacifico in modo da salvare l’Asia dal…..maggior creditore dell’America, la Cina. Preferiscono far pensare che gli Stati Uniti saranno una potenza più grande, non minore, negli anni a venire. Preferiscono “rassicurare gli alleati”  e vantarsi tantissimo  o comunque abbastanza.

Non troppo, naturalmente, non ora che quei sognatori americani  — o visionari pazzi –se preferite – sono in giro a guadagnare 150.000 dollari alla volta facendo discorsi motivanti e raccogliendo milioni sfornando i loro memoriali. Invece l’amministrazione Obama è piena di dirigenti senza sogni che hanno ereditato ed esteso la presidenza imperialista, un mondo presidiato dagli Americani, e un tesoro che si sta svuotando. E poi hanno scelto, a ogni mano, di giocarsi una versione riconoscibile dello stesso gioco, anche senza la fiducia crescente, la fede profonda in una eccezionalità armata americana o nelle soluzioni militari che la hanno accompagnata (che malgrado tutto continuano a portare avanti  tenacemente), o perfino la visione dei flussi di energia globale che animava

i loro predecessori. In una situazione che cambia rapidamente, si sono dimostrati incapaci di farsi  delle domande che li avrebbero portati oltre quelle che possono chiamarsi le solite tattiche (cioè droni, cotroinsurrezione, ecc.).

In questo modo Washington,  sebbene sia visibilmente in calo, rimane un luogo senza aria  e stranamente familiare, dove nessuno se la sentirebbe di domandare, per esempio, come potrebbe apparire un Medio Oriente che si sta trasformando  davanti ai nostri occhi senza la sua ombra americana, senza le basi e le flotte e i droni e tutti gli agenti segreti che ne fanno parte.

Come risultato, persistono a continuare  specialmente con  la guerra globale al terrore ideata da Bush, e con la protezione durante i periodi finanziari  difficili del Pentagono (e quindi della militarizzazione di questo paese).

Se siete critici nei riguardi di Washington, “sconfitta” sta diventando una parola sempre più accettabile,  fino a quando è riferita  a una specifica guerra o evento.  Ma sconfitta totale? La faccenda su vasta  scala? Non ancora.

Si può, naturalmente  dire ripetutamente che gli Stati Uniti restano, ed è vero, un paese immensamente ricco e potente; che ha  i mezzi per raddrizzarsi e per occuparsi dei disastri di questi ultimi  anni, cosa  che indubbiamente  sta facendo. Date però un’occhiata a Washington, a Wall Street e alle elezioni del 2012, e ditemi con la faccia impassibile che questo accadrà. Non che  probabilmente accadrà.

Se marcerete con la gente che del movimento Occupiamo Wall Street, sentirete i giovani che scandiscono lo slogan:” Ecco che cos’è la democrazia!” E’ contagioso. Ma c’è un altro slogan, certamente meno appropriato, anche se decisamente più duro: “ecco com’e la sconfitta!” Bisogna ammettere che non ha il ritmo dell’altro ma è un qualche cosa che il movimento Occupiamo Wall Street che si va estendendo, i disoccupati, i sotto occupati, e quelli a cui è impedito riscattare l’ipoteca sulle  loro case o che le cui case valgono meno del valore di acquisto,  e i milioni di bambini che hanno un’istruzione e studi universitari grazie a un mutuo subprime dando in media, più di 25.000 dollari in pegno, e i poveri sempre più numerosi, sentiranno sulla loro pelle anche se non le hanno dato ancora  un nome.

Gli eventi nel Medio Oriente allargato hanno avuto un ruolo non secondario in questo. Pensatelo in questo modo: se la de-industrializzazione e la finanziarizzazione, hanno scavato gli Stati Uniti, anche lo stile bellico americano ha fatto la sua parte. E’ la terza componente della triade che di solito viene ignorata. Quando finalmente le nostre guerre saranno completamente  finite, nessuno potrà dire come sarà scopo che questa sconfitta imperialista vuole dimostrare.

Il sogno americano di Bush è stata una specie di apoteosi del potere globale di questa nazione come lo è anche la sua catastrofe definitiva  grazie a un gruppo di visionari pazzi che hanno  confuso  la potenza militare con la forza globale e si sono comportati di conseguenza. Quella che essi e i loro alleati neo conservatori avevano, era la formula magica per trasformare il lento atterraggio di uno stato imperialista in declino ma ancora immensamente potente, in  una disfatta auto inflitta, anche se non è per nulla chiaro  chi siano i vincitori.

Malgrado le nostre basi in tutto il mondo, malgrado un arsenale di armamenti superiore a qualsiasi altro visto prima ( e con altri in arrivo)       malgrado un bilancio per la sicurezza nazionale grande quanto il Ritz, non è troppo presto per cominciare a incidere qualche cosa di adeguatamente sepolcrale sulla lapide che un giorno sarà posta per le ambizioni  dei governanti di questo paese quando pensavano di poter veramente comandare il mondo.

Conosco il  mio candidato personale. Nel 2002, il giornalista Ron Ruskin si è incontrato con un consigliere anziano di George W. Bush, e quello che gli ha detto il consigliere sembra adatto per una qualsiasi di queste lapidi o per un futuro monumento alla sconfitta americana:

“Il consigliere ha detto che i tipi come me si trovano in quelle che chiamiamo comunità costruite nella realtà, che definiva come persone che ‘credono che le soluzioni emergano dal vostro ponderato studio di una  realtà che si può percepire…Quello non è più il modo in cui il mondo realmente funziona….Siamo un impero ora, e quando agiamo, siamo noi a creare la nostra realtà. E mentre studiate quella realtà – con ponderazione –noi agiremo di nuovo creando altre nuove realtà che potrete studiare  ed ecco  come  si sistemeranno le cose. Siamo gli attori della storia…e voi, tutti voi resterà soltanto  il compito di studiare cosa noi facciamo.”

Siamo adesso, pare, in una nuova era nella quale la realtà ci sta formando. Molti Americani – lo testimonia il movimento Occupiamo Wall Street – stanno cercando di adeguarsi, di immaginare altri modi di vivere nel mondo. La sconfitta ha  una brutta reputazione, ma talvolta è proprio quello che ordina il dottore.

La realtà, tuttavia, è difficile, quindi se vi siete svegliati con i sudori freddi, sentitevi liberi di chiamarlo incubo.

 

  • Greater Middle East : Il Medio Oriente più vasto è un termine politico coniato dall’Amministrazione Bush che ingloba insieme varie nazioni che fanno parte del mondo musulmano e cioè: Iran Turchia, Afghanistan e Pakistan. A volte vi sono comprese anche vari paesi dell’Asia Centrale. (http://en.wikipedia.org/wiki/Greater_Middle_East

 

 

Tom Engelhardt, cofondatore del Progetto dell’Impero Americano e autore di: The American Way of War: How Bush’s wars Became Obama’s ( LO stile bellico americano: come le guerre di Bush sono deiventate quelle di Obama) e anche di The End of the Victory Culture, ( La fine della cultura della vittoria)dirige il sito del Nation Institute TomDispatch.com, dove questo articolo è stato pubblicato la prima volta. Il suo libro più recente, The United States of Fear (Haymarket Books)[Gli Stati Uniti della paura]  sarà pubblicato questo mese.

 

Da Z Net- Lo spirito della resistenza è vivo

 

Fonte: TomDispatch.com

URL:

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

© 2011 ZNET Italy –Licenza Creative Commons  CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Discorso agli occupanti di Zuccotti Park per la laurea da autodidatti

07 lunedì Nov 2011

Posted by Redazione in America, Tom Engelhardt

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Di Tom Engelhardt

 

31 ottobre

 

 

 

Una volta scatenatasi la Primavera Araba, la gente ha cominciato a domandarmi perché questa nostra nazione era ancora così tranquilla. Facevo sempre notare che nessuno mai si aspetta o prevede questi eventi. Nulla del genere, dicevo, accade fino a quando non  accade e soltanto allora  si può tentare di spiegarselo in modo retrospettivo.

 

Sembra una cosa abbastanza intelligente, ma ecco la verità che contiene: qualsiasi cosa abbia detto, non vi aspettavo. Dopo questo infinito dieci anni di guerra e di sconfitta in America, non avevo idea che sareste arrivati, neppure dopo Madison.

 

Mi avete colto di sorpresa. Per quanto ne so, anche tu sei  stati colto di sorpresa, il primo di voi che è arrivato  allo Zuccotti Park e, motivato da un gruppo di studenti egiziani, non è tornato a casa. E quando le notizie che vi riguardano sono penetrate nel mio mondo, non vi ho prestato molta attenzione. Non sono quindi tra quelli migliori e più intelligenti quando si è trattato di pensare a  voi. Ma una cosa è certa: avete avuto la mia attenzione nelle settimane scorse. Mi sento già più giovane di molti anni grazie a voi (anche se le mie gambe non si sentono così).

 

Decenni fa, nell’età neolitica che ora chiamiamo gli “anni sessanta”, ero come voi: offeso. Andavo nelle strade (e in biblioteca). Facevo parte del movimento contro la guerra in Vietnam. Ho restituito  la cartolina precetto.    Mi sono unito a un gruppo chiamato la Resistenza, ho preso pare alla politica radicale  del momento, ho fatto ricerche sulla guerra, sono diventato consulente per chi non voleva arruolarsi, ho aiutato  a organizzare  un gruppo di studiosi asiatici contro la guerra – all’epoca mi stavo preparando a diventare uno studioso di Cina prima di essere travolto da altri eventi, ho iniziato  a scrivere sulla (e contro) la guerra, ho lavorato come   tipografo   clandestino (non c’era nulla di clandestino in quello che facevamo,  ma la parola suonava bene)  e infine sono diventato un redattore e giornalista  in un’agenzia pacifista di notizie di  guerra  a San Francisco.

 

In quell’epoca di agitazione dubito di aver passato un momento meditando  su questa ironia:  malgrado tutti quegli anni di studio all’università e per il dottorato, la parte fondamentale della mia educazione –apprendere la natura del potere americano e di come veniva esercitato, la imparavo sa solo nelle ore libere. E non ero solo. In questi giorni, la maggior parte di noi, è stata preso dalla frenesia di insegnare (l’uno all’altro) a leggere,a scrivere –e ad agire. Ecco come sono diventato curatore di libri (senza neanche sapere chi fosse un curatore): semplicemente avendo amici che  mi spingevano a leggere i loro saggi e che mi chiedevano aiuto.

 

Erano anni esaltanti, come è certamente esaltante, non ne dubito, questo momento per voi. Questo però non significa che i nostri momenti fossero gli stessi. Affatto. C’è una differenza importante: come molti giovani di quell’era lontana, cavalcavo l’onda della ricchezza e del benessere  americano. Non abbiamo mai pensato, ma non abbiamo neanche mai dubitato che se questo momento fosse finito, ci sarebbero stati impieghi perfettamente normali, che ci aspettavano- anche buoni – se li avessimo voluti. Non ci è mai passato per  la mente che non potessimo cadere in piedi in America, se volevamo farlo.

 

In quel senso, mentre  certamente parlavamo di rischiare tutto, non lo abbiamo fatto; in verità, parlando dal punto di vista economico, non potevamo farlo. Sebbene  voi, gli occupanti di Zuccotti Park, di altri raduni analoghi nel nostro paese, siate una  quadra eterogenea, molti di voi, so che  si sono laureati  in anni recenti.

 

Molti di voi sono stati accompagnati fuori da quei campus lussureggianti (o nei loro equivalenti in città) con la dovuta pompa e  cerimonia e molta di quella che passa come motivazione. Sono però pronto a scommettere che durante quelle cerimonie nessuno si è preoccupato di dire che voi (e i vostri genitori) eravate stati di fatto imbrogliati , privati  di decine di migliaia di dollari con la promessa implicita  che una “educazione” di questo tipo vi avrebbe avviato a una professione o almeno a  un mondo di lavori decenti.

 

Come sapete meglio di me, siete stati spennati dall’equivalente educativo di un mutuo subprime.  (http://it.wikipedia.org/wiki/Subprime). Il risultato è stato che molti di voi sono stati mandati fuori  da quei cancelli e direttamente – come dicono delle case che valgono meno di quanto è dovuto per i mutui,  sott’acqua.

 

Voi praticamente avete messo un mutuo sulle vostre vite per avere  l’istruzione e avete lasciato l’università gravati da così tanti debiti – un’autentica  bolla di  un bilione di dollari – che forse non potrete più raddrizzarvi, e non potrete se l’1% l’avrà vinta. Fatto ancora peggiore, siete stati mandati in un mondo che proprio in quel momento veniva spogliato del suo splendore, dove le possibilità di un lavoro decente stavano diventando rare  come le televisioni con le antenne  e i telefoni a disco.

 

 

 

 Mondi perduti e Utopia   

 

 

 

Una mia debolezza  sono i discorsi in occasione della laurea. Mi piace la loro forma, ma non la loro realtà quotidiana, e così ogni tanto ne faccio uno su TomDispatch.com anche se non me lo chiedono, discorsi per chi di noi è già andato in giro nel mondo e a cui  di rado viene riconosciuto il merito di non aver smesso mai di imparare.

 

In questo caso, però, non consideratemi come colui che fa  il discorso il giorno della laurea. Pensate che sia una laurea da autodidatta. E questa volta ci sono soltanto cose positive fino all’orizzonte. Dopo  tutto, non avete contratto un centesimo di debito perché voi e gli altri che sono a Zuccotti Park fanno le lezioni che avevate ricevuto. Prima avete cominciato a istruirvi nelle realtà dell’America del dopo tracollo e poi, abbastanza miracolosamente, siete andati a istruire anche molti degli altri.

 

Avete davvero cambiato   il tipo di discorsi in questo paese  in un attimo,  come scriveva Joshua Holland su Alternet.org, “da  conversazioni che si concentravano incessantemente sul deficit a una discussione dei veri problemi che ha di fronte Wall Street: la mancanza di impieghi,   la disuguaglianza che cresce  in modo vertiginoso e  i carichi di debiti delle  famiglie americane a corto di contanti, e la perniciosa influenza del denaro nella politica che ci ha portato a questo punto” – e, ancora più incredibilmente, senza nessun addebito.

 

In altre parole, non sono qui, come il tipico oratore che i fa i discorsi per la laurea, per motivarvi. Sono qui per dirvi che voi mi avete motivato.  Nei quattro decenni tra il momento in cui ho immaginato di aver rischiato tutto e quello in cui lo avete realmente fatto, la ricchezza e le disuguaglianze di reddito sono esplose in modi inimmaginabili  negli anni ’60. Per i normali Americani, i numeri che si traducevano in guai quotidiani hanno cominciato a precipitare negli anni ’90, gli anni di Clinton, e soltanto una bolla fraudolenta dei valori interni ha fatto sì che i tempi buoni durassero fino al 2008.

 

Poi, naturalmente  è esploso tutto al massimo. Voi, però, tutto questo lo sapete. Chi conosce meglio di voi la storia degli artisti della fandonia in campo economico e finanziario  che hanno messo in ginocchio questa nazione, hanno avuto un gran successo e hanno  lasciato il 99% nella polvere? Sono seguiti tre anni di silenzio stordito, come se gli Americani semplicemente non potessero crederci, non potessero comprenderlo,  a meno che non consideriate il movimento Tea Party.

 

Rendete  però merito  a quei bianchi  arrabbiati e avviati alla vecchiaia. Sono stati i primi a gridare per un mondo perduto (mentre denunciavano alcuni di quegli stessi salvataggi di banche  e le disoneste attività finanziarie che ci sono). Questo accadeva prima che, in un nano-secondo politico, l’espressione “Tea Party” è stata prevalentemente registrata, occupata ed è stata considerata proprietà dei funzionari repubblicani di vecchia data, degli amici delle grosse imprese, e di vari miliardari.

 

Questo non vi accadrà. Tra i vostri punti di forza, la mancanza di una lista di richieste della quale si sono lamentati così tanto i vostri  anziani, la vostra visione onnicomprensiva, e la vostra vena utopistica—il desiderio di creare una piccola società democratica nuova vicino al cuore finanziario pulsante di quella vecchia – vi renderà più resistenti alla cooptazione.  Aggiungete il fatto che, mentre qualsiasi movimento che si impegna per la   l’iniquità e l’ingiustizia è politico, voi siete, anche,  nel senso comune del termine, un movimento  incredibilmente apolitico.  Ripeto che questa, secondo me, è  parte della vostra forza. Assicura che né il Partito Democratico, né le sette della sinistra troveranno che sia facile trovare un piccolo punto di appoggio nei  vostri paraggi. Sì, a lungo andare, se durerete e crescerete, (come penso che accadrà), un tipo di politica più tradizionale si potrà formare attorno a voi, ma è improbabile che scomparirà insieme a voi come è scomparso il Tea Party  insieme ai funzionari repubblicani.

 

Il Tea Party è un movimento del passato in lutto per un mondo perduto e per la bella vita che se ne è andata insieme a esso. Tutto quello che dovere fare è guardare all’improvvisa esplosione di povertà nelle periferie  che si è verificata dopo il 2008, a  quel faro dorato del sogno americano  dopo la II Guerra mondiale, per sapere che è in corso qualche cosa senza precedenti.

 

Tanto tempo fa, nessuno immaginava che un mondo americano in cui si possedeva una casa e dei buoni impieghi, di benzina a poco prezzo e di bistecche ancora più economiche, sarebbe finito. Tuttavia, è stato gambizzato nei pochi decenni passati e non tornerà. Non per voi e per i vostri figli, indipendentemente da che cosa succede dal punto di vista economico.

 

Quindi non  fatevi delle illusioni: sia che lo sappiate o no, giovani come siete, anche voi siete in lutto, altrimenti Occupiamo Wall Street non esisterebbe. Al contrario del Tea Party, tuttavia, voi siete giovani, il che significa che siete anche un movimento del futuro sconosciuto, e questa è la vostra forza.

 

 

 

Educazione universitaria   da autodidatti

 

 

 

A questo punto fatemi confessare la mia passione per le biblioteche (anche se trovo che il silenzio che vi regna è snervante). Da bambino vivevo nell’epoca d’oro del vostro sogno perduto, ma in certo qual modo come un estraneo. Gli anni ’50 non erano un’età felice per la mia famiglia e non erano anni particolarmente felici neanche per me. Ero figlio unico, e mi rifugiavo nei libri. A meno di un isolato di distanza da dove abitavo c’era la succursale locale della biblioteca pubblica di New York City e in quei giorni, prima che i problemi degli adulti fossero diventati soltanto i materiali della TV,  mi rifugiavo lì, come Harriet the Spy (Harriet la spia)  per avere la mia esclusiva  nel mondo misterioso dei grandi. (L’unico problema allora era se il bibliotecario ti avrebbe fatto uscire dal settore riservato ai bambini; il mio me lo permetteva).

 

 

 

Ricordo che trascinavo a casa pile di libri : But not in the Shame di John Toland, ile opere Isaac Asimov sullo spazio, e Désirée , (un romanzo popolare su una donna che Napoleone aveva amato), spesso avendo scarse idee di che cosa fossero e senza nessuno che mi guidasse. Sugli scaffali della mia cameretta c’erano altri libri, compresi la maggior parte del Harvard Five Foot Shelf, (Lo scaffale di Harvard  alto 16 m) una collezione di classici in 51 volumi. Il mio mucchietto era stato recuperato dalla cantina allagata di qualcuno e avevano  il dorso leggermente  distorto e alcuni avevano macchie di muffa). Ricordo anche, però, che li prendevo dallo scaffale  con una certa meraviglia: Two Years Before the Mast (Due anni davanti all’albero della nave) di R. Dana (eccitante!), The Origins of the Species (L’origine  della specie)di Darwin  (impenetrabile!), The Odyssey (L’Odissea)  di Omero (i Ciclopi!”), ecc.

 

 

 

I libri – La “tecnologia” di Johannes Guttenberg  che ha più di 500 anni – erano i miei compagni, e anche  il gioco delle costruzioni di legno. Per fare passare il tempo, di solito li ammucchiavo  per creare il paesaggio – valli e montagne – all’interno del quale i miei soldatini combattevano le loro battaglie. Nella mia zona di benessere ci sono quindi biblioteche e autoeducazione.

 

Sebbene la mia strada sembrasse casuale a quel tempo, è probabile che non fosse per caso che 35 anni fa, sono diventato curatore editoriale ai margini dell’editoria tradizionali  e ci sono restato. Dopo tutto era la scusa pagata per ritirami nella mia stanza con i libri (futuri) e, non potendo farli diventare montagne valli, almeno trasformarli in una specie di eterno gioco e in  autoeducazione.

 

Tutto questo per dire perché, arrivando per la prima volta nell’accampamento di Zuccotti Park  e facendo quei pochi gradini in discesa da Broadway, oltre che per tutto il resto,mi sono commosso  anche per essermi trovato in una biblioteca informale all’aperto. La Biblioteca del Popolo, anche se mettere i libri divisi per categorie in bidoni di plastica su un tavolo non è esattamente il modo in cui una volta immaginavo La Biblioteca.

 

Comunque, essa non poteva essere più appropriata per Occupiamo Wall Street, con i suoi lunghi incontri all’aperto, i suoi oratori ed esperti che vengono invitati, gli autori che vengono in visita, i suoi continui dibattiti e discussioni, quella sensazione che quando si è lì si può parlare con tutti.

 

 

 

Come il miglior  sistema di biblioteche, è un’educazione universitaria da autodidatti  o forse una moderna versione del movimento Chautaugua per l’educazione degli adulti(http://it.wikipedia.org/wiki/North_Carolina_Central_University) Sembra che il vostro scopo sia educare voi stessi e poi tutti noi alle realtà e  alle ingiustizie della vita americana del ventunesimo secolo.

 

Tuttavia, per la guardia avanzata della vostra generazione elettronica affidarsi così pubblicamente a libri veri, libri che si possono prendere in mano, sfogliare consegnare ad altri – questo mi ha colto di sorpresa. Quei libri, che vi sono stati regalati, vi stanno arrivando dagli editori, da librerie private, dagli autori, e praticamente da quasi tutti. Mentre parlavo con qualcuno di voi, i bibliotecari di Zuccotti Park, ho visto arrivare la gente che apriva gli zaini  e distribuiva i libri.

 

Delle migliaia di volumi che ora avete, alcuni, come succede in tutte le biblioteche, sono presi e restituiti, ma alcuni no. Come mi ha detto Bill Scott, un bibliotecario seduto a un “tavolo di consultazione”  improvvisato, che aveva una grande sciarpa al collo indossava una giacca: “I libri ci vengono regalati e noi li regaliamo ad altri.”

 

 

 

Scott, un quarantaduenne di aspetto giovanile, professore associato di inglese all’Università di Pittsburgh,  trascorre il suo semestre sabbatico accampato nel parco.  Il suo libro, Troublemakers  (Provocatori ) sta per essere pubblicato ed è traboccante di entusiasmo. Ha ordinato un paio di copie che donerà ai ragazzi. “E’ il mio primo libro. Non l’ho ancora preso in mano. Metterlo nello scaffale della Libreria del Popolo, è come se tutti i  fili  della mia vita si riunissero insieme!”

 

Pensateci: sì i vostri coetanei nel parco stavano mandando messaggi sui cellulari, usavano tweet e caricavano  una tempesta di video on line.  Erano circoli di network sociali che trattavano dell’1%, del sindaco, della polizia e di chiunque altro si trovasse sulla loro strada.  Voi, tuttavia , stavate incoraggiando una tecnologia già relegata da molti nel bidone della spazzatura della storia della cultura.  Stavate scommettendo il vostro ultimo dollaro sul valore per il  vostro movimento di veri libri, proprio le cose che mi avevano tenuto vivo da bambino, che ho curato, pubblicato e perfino scritto da 30 anni.

 

 

 

“Volevo fare qualche cosa di produttivo”

 

Quella biblioteca – infatti, quelle biblioteche a Occupiamo Boston,, Occupiamo Washington, Occupiamo San Francisco  e altri accampamenti – forse sono la parte del vostro movimento della quale si nota meno.. E tuttavia, avete messo su la vostra biblioteca non come  un ripensamento,  ma non appena avete iniziato a immaginare una società dove vale la pena vivere, un piccolo mondo tutto vostro. Non avete dimenticato i libri, e questo vuol dire che non avete dimenticato la vostra istruzione. Intendo dire una vera istruzione.

 

E’ stato sia generoso da parte vostra, e, molto semplicemente, motivante. Chi avrebbe ipotizzato che i libri,antiquati e  rétro sarebbero  stato al centro del grande movimento di protesta di questo paese di un nuovo secolo che ha perso la sua brillantezza.

 

Quando gli è stato chiesto come è iniziata la biblioteca, il bibliotecario”Scales” (alias Sam Smith), un ballerino biondo di 2° anni, disoccupato e ancora in calzoncini corti in un freddo  giorno d’autunno, ha risposto:” Nessuno sa esattamente chi la ha iniziata. E’ stata come l’immacolata concezione. Era semplicemente già lì.” Se il movimento stesso fosse un libro, questa frase potrebbe essere usata come la sua epigrafe. Anche se Occupiamo Wall Street  è di fatto iniziata da qualche parte (come è successo con la biblioteca), il modo in cui è esplosa globalmente in un nanosecondo, dà esattamente la sensazione che Scales ha descritto.

 

Quando gli hanno chiesto perché lui stesso fosse lì, ha detto semplicemente: “volevo fare qualche cosa di produttivo.”

 

In un’economia dove la “produzione” è volta via col vento, questo mi sembra avere un senso profondo. Chi non vuole essere produttivo nella sua vita? Perché una generazione che Wall Street e Washington sembrano assolutamente contendi di  metterli ai margini,     non vuole produrre qualche cosa di suo, come quella che  hanno adesso?

 

Non sono stato meno commosso, mentre ascoltavo un lungo incontro del Gruppo di lavoro per la biblioteca un sabato pomeriggio nel caos di Zuccotti Park – il rumore della folla attorno a noi, un complesso musicale che suonava lì vicino – quando una donna in piedi vicino a me ha interrotto l’incontro. Si è presentata come parlamentare  eletta  in una contea nella parte settentrionale di New York che era venuta in macchina a vedere di persona Occupiamo Wall Street. Voleva semplicemente che voi, i bibliotecari, sapeste che sosteneva ciò che facevate e che, mentre la sua contea finanziava ancora le biblioteche, stava diventando sempre più difficile farlo, data  la mancanza di soldi  e i bilanci locali.

 

In altre parole, mentre l’educazione  costa troppo cara per essere alla portata di un così grande numero di Americani e in molte comunità le ore di apertura delle biblioteche sono state tagliate o le biblioteche locali sono state chiuse, voi le avete aperte per farle funzionare.

 

Ecco alcune delle cose che voi, bibliotecari di Zuccotti Park, mi avete detto:

 

 

 

Bill Scott: Uno dei motivi per cui siamo qui è che viviamo in una società che promuove l’idea che l’educazione si dovrebbe comprare e vendere in un mercato aperto. Vogliamo stabilire che fa parte dei diritti umani. Ciò che dimostra la Biblioteca del Popolo è che i libri appartengono alla gente, come l’istruzione. La gente che ha debiti per il prestito studentesco, scoprono che la loro libertà e le loro opzioni sono limitate. Ha limitato molto le mie opzioni, per esempio. Sto ancora venendo fuori a fatica da una tonnellata di debito.”

 

Zachary Loeb, in quella che passa per essere la vita reale è davvero un bibliotecario:” Lavoro  con un orario ridotto, quindi mi alzo ogni mattina e passo due ore a spedire il mio curriculum, ma il lavoro non c’è lì fuori. Mi sto specializzando come archivista, ma nessuno mi prende a lavorare. Ho una laurea in biblioteconomia, non in filosofia, studi che volevo fare, per essere inserito in una lista di impieghi.  Ovviamente non lo sono.  Tantissime persone sono qui perché la situazione lavorativa è gravissima.

 

Sono attivista da molto tempo. Ho letto la rivista Adbusters  e ho visto l’appello per occupare Wall Street. Ero qui il primo giorno. Penso che abbiamo cambiato il tipo di discorsi in questo paese. Abbiamo dato il permesso alla gente di  reagire,  di parlarsi, di verificare  le proprie  idee confrontandole con altre contrarie alle loro  e di riflettere su decisioni che non dovrebbero essere  semplicemente prese dai potenti di Washington.

 

Frances Mercatanti-Anthony, attrice disoccupata  (la mia ultimo spettacolo teatrale è finito in agosto)  e scrittrice: “La conoscenza è lo strumento più importante che abbiamo. Quello che facciamo ora è offrire conoscenza alla gente che è stata privata dei diritti civili. La nostra raccolta di dati dei libri che abbiamo messo on line  (nella nostra Biblioteca del Popolo) rappresenta un grande simbolo del movimento, di democrazia, di conoscenza, e di condivisione.”

 

 

 

Illuminare il paesaggio

 

 

 

Ecco che cosa avete fatto  – la vostra rabbia e la vostra premura  – ciò che non sapete e che non vi importa di non sapere, ma anche quello che sapete –  ha illuminato un paesaggio che prima era lugubre. E ogni mossa fatta da coloro che vogliono liberarsi di voi è servita soltanto a spronare la vostra crescita.

 

Sono un tipo con la testa abbastanza a posto, ma in questo momento se  mi chiamatemi sognatore  non me la prendo affatto.  E’ importante sentirsi così per la prima volta dopo non so quanto tempo, e qualsiasi cosa accada da ora in poi, posso ringraziarvi di questo e per l’improvviso senso  di possibilità che lo accompagna.

 

Soltanto sei settimane  nel vostro movimento, sapendo così poco su dove state andando o su che cosa accadrà; è indubbiamente presto per cerimonie di laurea. Comunque, parliamoci  chiaro, siete cresciuti rapidamente, e, per quanto ne sappiamo, queste potrebbero essere state le sei settimane che hanno cambiato il mondo. Non c’è un limite, comunque, qui fuori, a dove potete costruire le vostre tradizioni, alla frequenza con cui potete laurearvi.

 

Quindi vi dico,  andate,    registrate i progressi fatti finora. Laureatevi come autodidatti. Non avete bisogno di me. Starò qui e prenderò in prestito un libro dalla vostra biblioteca e poi, quando lo avrò finito di leggere, proprio come suggerite voi, lo regalerò a qualcun altro.

 

Portate  i vostri cartelli. Teneteli in alto. Scandite i vostri slogan.  Fate suonare i batteristi mentre marciate. Andate verso Wall Street, verso il futuro, guardandovi indietro, ricordando esattamente che cosa hanno  dilapidato  i vostri  anziani,  il mondo che vi hanno lasciato, i debiti che hanno accumulato su di voi.  E la prossima volta che cominceranno a dirvi che cosa dovreste fare con il vostro movimento, prendete i loro suggerimenti con discernimento. Il futuro, dopo tutto,è vostro, non loro. Può essere l’unica cosa  che avete, proprio perché è così meravigliosamente sconosciuto, così profondamente imprevedibile. E’ questo  il vantaggio che avete su di loro perché è un fatto che Washington e Wall Street non hanno più modo di controllare ciò che fate.

 

In un mondo di miseria crescente, vi caricate non soltanto i vostri debiti, ma anche i nostri. E’ un peso che nessuno dovrebbe addossarsi, specialmente con l’inverno che incalza e quell’1% di adulti che sperano che il freddo vi faccia arrabbiare, nella speranza che comincerete a rompere le righe, a scoraggiarvi e a trovare la vita troppo penosa da sopportare, e sperando che l’inverno di New York vi escluda dal vostro movimento.

 

Io sono fiducioso che il fine settimana passato, in una bella giornata di autunno, voi, i bibliotecari, stavate già discutendo della necessità di comprare sacchi a pelo “del tipo Alaska” e un generatore per riscaldarvi; che voi, come il sindaco, state guardando avanti e state facendo progetti per l’inverno. Questa, dopo tutto, potrebbe essere la vostra Valley  Forge (http://it.wikipedia.org/wiki/Velley_Forge). Come mi ha detto  una delle bibliotecarie, l’attrice Frances Mercanti-Anthony: “Abbiamo tutto il mondo dietro di noi a questo punto. Vogliamo  tenere duro per il lungo viaggio. Se riusciamo a superare l’inverno, l’occupazione è destinata a rimanere.”

 

E forse ha ragione. Adesso, quindi, andate e qualsiasi cosa facciate, non andate a casa. E’ comunque sommersa e abbiamo bisogno di voi. Davvero. Il mondo è in un casino infernale, ma pensate che occasione avete  di prenderlo nelle vostre mani  e di fare l’impossibile.

 

 

 

Tom Engelhardt, cofondatore dell’American Empire Project e autore di The American Way of War:How Bush’s Wars Became Obama’s (Lo stile bellico americano: come le guerre di Bush sono diventate le guerre di Obama) e anche di The End of Victory Culture (La fine della cultura della vittoria), dirige TomDispatch.com del Nation’s Insitute, dove questo articolo è apparso la prima  volta. Il suo libro più recente, The United States of Fear (Haymarket Books) (Gli Stai Uniti della paura),  sarà pubblicato in novembre.  Per ascoltare l’audio intervista di Timothy MacBain nella quale Engelhardt discute del movimento Occupiamo Wall Street e che speranza costituisce nella nostra epoca cliccate qui: http://tomdispatch.blogspot.com/2011/10/whats-your-occupation-html o scaricatela sul vostro ipod  qui: http://itunes.apple.com/us/podcast-from-tomdispatch-com/id 357090817

 

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

 

http://www.zcommunications.org/a-self-graduation-speech-for-the-occupiers-of-zuccotti-park-by-tom-engelhardt

 

Fonte: TomDispatch.com

 

 

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

© 2011 ZNETItaly– Licenza Creativa Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Gli ultimissimi che sorvegliano l’impero

30 venerdì Set 2011

Posted by Redazione in America, Mondo, Tom Engelhardt

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imperialismo

di:  Tom Engelhardt (30 settembre 2011), Fonte: TomDispatch.com

Nel mondo degli armamenti, sono la cosa più sexy in circolazione. Altre nazioni sono disposte a tutto pur di averli. Quasi tutti quelle che ne scrivono ne diventano  super fanatici.  Gli inviati che esplorano il loro futuro travolgente vanno in estasi davanti  ai loro talenti tecnologici potenzialmente mirabili.  Sono, naturalmente, i droni, gli aerei senza pilota, quelli che hanno il sinistro nome di Predatori e  Mietitori.

Il Direttore della CIA, Leon Panetta,  li ha chiamati  “l’unica tattica possibile.”   Quando era Segretario della difesa, Robert Gates ha fatto forti pressioni per aumentare il loro numero e incrementare drasticamente il loro finanziamento. L’aviazione statunitense sta già addestrando altro personale perché diventino “piloti” di droni invece che guidare aerei veri. Non c’è bisogno della pubblicità fatta con le scritte tracciate in cielo dal fumo di un aereo per sapere che,  in quanto icone dello stile bellico americano,  chiaramente fanno parte del nostro futuro e stanno perfino facendo rotta verso  la madre patria  perché i dipartimenti di polizia li  invocano a gran voce.

Sono relativamente economici. Quando vanno a “caccia” non muore nessuno (almeno dalla nostra parte). Sono in  grado di percorrere tutto il mondo. Un giorno o l’altro atterreranno sui ponti delle portaerei, piccoli come colibrì, cadranno su un davanzale, forse anche su uno di quelli di casa vostra, o, a centinaia, piccoli come api, sciameranno verso i loro obiettivi e, se tutto va bene, coordineranno  le loro azioni usando la versione dell’ intelligenza artificiale della consapevolezza collettiva.

“I droni,” scrive Jim Lobe dell’Inter Press Service, “sono diventati sempre di più la “arma preferita”dell’amministrazione [Obama] nello sforzo di sottomettere al-Qaeda e i suoi affiliati. Nel corso di centinaia di attacchi degli ultimi anni nelle terre tribali di confine pachistane, hanno ucciso migliaia di persone, compresi  personaggi di al-Qaeda, militanti talebani e civili. Hanno avuto un ruolo significativo e sempre crescente nei cieli dell’Afghanistan. Stanno ora sganciando i loro missili sempre  più spesso sullo Yemen, qualche volta sulla Libia, e meno spesso sulla Somalia. Il numero delle  loro basi  si sta allargando. Nessuno al Congresso sarà in grado di resistergli. Stanno definendo il nuovo mondo di fare guerra nel ventunesimo secolo e molti degli essere umani che in teoria li comandano e controllano non possono certo stare al passo.

 

Cercate di prendere i vostri dizionari

 

Il 15 settembre, il New York Times ha messo in prima pagina un pezzo dell’esimio Charlie Savage, basato su notizie trapelate dall’interno dell’amministrazione. Era intitolato: “Alla Casa Bianca, considerando i limiti della lotta al terrore,” e iniziava così: “Il gruppo di legali dell’amministrazione Obama è diviso su quanta libertà hanno gli Stati Uniti di uccidere i militanti islamici in Yemen e in Somalia, un problema che potrebbe definire i limiti della guerra contro Al-Qaeda e i suoi alleati, secondo i funzionari dell’amministrazione e del Congresso.”

Gli avvocati del Pentagono e del Dipartimento di Stato, ha riferito Savage, discutevano se, fuori dalle zone calde di guerra,l’amministrazione Obama poteva fare intervenire i droni  (e anche forze per le operazioni speciali), non solo per       inseguire figure di primo piano di al-Qaeda che progettavano attacchi contro gli Stati Uniti, ma soldati  di terra di al-Qaeda (e gruppi vagamente alleati con loro come i Talebani in Afghanistan e in Pakistan e i miliziani  di  al-Shabab in Somalia).

E’ certamente una curiosità che quegli avvocati stiano discutendo accanitamente  su un argomento del genere.  La discussione che causa il loro disaccordo è come conciliare le moderne realtà con regole belliche  fuori moda e scritte per un’altra epoca ( a proposito,  anche questa aveva i suoi terroristi). Tali dibattiti, tuttavia, che appaiano o meno in prima pagina, che siano accaniti  o no, un giorno saranno indubbiamente considerati analoghi ad antiche presunte dispute clericali in cui si parlava del numero di angeli che potevano danzare sulla capocchia di uno spillo. In effetti la loro importanza sta soprattutto nel modello affascinante che rivelano riguardo al modo in cui le forze alla quali importava pochissimo delle questioni di legalità, stanno dando impulso allo sviluppo dello stile bellico americano.

Dopo tutto questa “disputa” riguardo a quali limiti si potrebbero applicare alla moderna guerra robotizzata, è si sviluppata per la prima volta nei cieli del  Pakistan sopra le terre tribali di confine. Là è iniziata la campagna aerea della CIA per i droni con poche missioni che avevano come obiettivi pochi capi di al-Qaeda  (senza molto successo). Piuttosto che dichiarare che le loro meravigliose armi recenti  erano un fallimento, tuttavia, la CIA già impegnata seriamente nelle operazioni con i droni, si è data da fare  ancora di più per ampliare l’obiettivo  di sottolineare i punti tecnologici di forza degli aeroplani.

Nel 2007 il Direttore della CIA Michael Hayden ha iniziato a fare pressioni sulla  Casa Bianca per avere  “il permesso di portare attacchi contro case o automobili solamente in base al comportamento che  corrispondesse  a “un modello di vita”  associato con al-Qaeda o con altri gruppi.” E la cosa che si sapeva subito dopo    era che passavano dal tentativo di colpire  pochi obiettivi a una più vasta guerra di annientamento contro tipi e “comportamenti”.

 

 Ecco un’altra curiosità. Il giorno dopo che il pezzo di Charlie Savage era apparso sul Times, il consigliere capo  del presidente per le operazioni di antiterrorismo, John O. Brennan, ha fatto un discorso a una conferenza  alla Facoltà di Legge di Harvard su: “Rafforzare la sicurezza mediante l’adesione ai nostri valori e alle nostre leggi”, e sembrava  chiudere  il dibattito  parte del quale egli ha definito in questo modo:

“Altre persone della comunità internazionale –compresi alcuni dei nostri più stretti alleati e soci – hanno un’opinione diversa  dello scopo geografico del conflitto, limitandolo soltanto ai campi di battaglia  “che scottano”. In quanto tale, sostengono che, eccetto  questi due teatri attivi, gli Stati Uniti possono soltanto agire per autodifesa nei confronti al-Qaeda quando essi programmano, perseguono o minacciano un attacco armato contro gli  interessi degli Stati Uniti se equivale a una minaccia ‘imminente’.”

Ha poi aggiunto questa piccola nota: “Praticamente, allora, il problema riguarda principalmente il modo di definire “imminenza.”

Se c’è una cosa che avremmo dovuto imparare dalla presidenza di Bush, era questa: quando i funzionari governativi prendono in mano i dizionari, abbassate la testa per ripararvi!

Allora la parola cruciale in ballo era “tortura” e trovandosi di fronte a questa e a ciò che i più alti funzionari dell’amministrazione volevano che veramente si facesse nel mondo, gli avvocati del Dipartimento della Giustizia hanno preso i dizionari, in senso letterale.  Nei loro infami memorandum sulle torture, hanno così contorto, maltrattato e ridefinito la parola “tortura” che, ora della fine, se mai c’erano state azioni di tortura, erano lasciate alla libertà del torturatore, a quello che aveva in mente quando “interrogava” qualcuno. (“Se un difensore [interrogante] crede in buona fede che le sue azioni non provocheranno un danno mentale prolungato, gli manca lo stato mentale necessario perché le sue azioni costituiscano una tortura.”).

IL risultato è stato che la parola “tortura” è stata di fatto espulsa dal dizionario (tranne quando viene commessa da brutali malfattori in posti come l’Iran) e “tecniche intensificate” bene accolte nel nostro mondo. L’Amministrazione Bush e la CIA hanno allora proceduto a riempire i “siti neri”  (prigioni segrete, n.d.T.) che hanno installato dalla Polonia alla Tailandia e le camere di tortura dei regimi amici come l’Egitto di Mubarak e la Libia di Gheddafi con  “sospettati di terrorismo” e poi hanno continuato a torturare impunemente.

Sembra ora che i sostenitori di Obama stiano prendendo in mano i dizionari, il che vuol dire che è tempo di abbassare di nuovo la testa per ripararsi.. Come si addice a una folla più intellettuale, non stiamo più parlando di parole relativamente semplici come “tortura” il cui significato è noto a tutti (o, almeno, una volta lo era). Se “imminenza” è ora lo standard per quando la guerra robotizzata è realmente una guerra, non desiderate i giorni del bel tempo andato quando la Casa Bianca concentrava la sua attenzione  su “quale ‘è’ il significato della parola ‘è’ “ e l’argomento importante era la vita sessuale del presidente, non i massacri del presidente?

Quando il legalismo domina la scena in una situazione come questa, pensate ai maghi. La loro abilità è di puntare la loro attenzione su uno spazio dove non accade nulla di importante – la mano sbagliata, la faccia sbagliata, la parte sbagliata del palcoscenico – mentre essi eseguono le loro “magie” altrove.  E fate anche attenzione alla legge proprio adesso, ed è probabile che perderete  la trama di quanto accade del nostro mondo.

 

E’ vero che al momento si fanno uscire  una quantità di articoli che hanno come oggetto la definizione dei limiti della futura guerra con i droni. Il mio consiglio è: lasciate stare la legge, le definizioni  e le discussioni e concentrate invece  la vostra attenzione sui droni e sulle persone che ne stanno sviluppando l’impiego.

Per dirla in altro modo, nell’ultimo decennio, c’era una sola definizione che era veramente importante e dalla quale seguiva tutto il resto; l’insistenza quasi istantanea dopo l’11 settembre nel dire che eravamo “in guerra”, e neanche in una determinata guerra o in una serie di guerre, ma in una che le includeva tutte e che, dopo due settimane dal crollo delle Torri gemelle, il Presidente Bush chiamava già “La guerra al terrore”. Quella sola definizione demoniaca della nostra condizione esistenziale ci è entrata nella mente con tale rapidità che non ci è stato bisogno di avvocati e nessuno ha dovuto prendere un dizionario.

Rivolgendosi al Congresso in sessione  congiunta, il presidente ha detto, tipicamente: “La nostra guerra al terrore inizia con Al Qaeda ma non finisce con essa.”  Quella indeterminatezza è stata subito codificata in un nome che diceva tutto: “La guerra globale al terrore”, oppure  GWOT (Global War On Terror). (Per quello che sappiamo, l’espressione è stata inventata da un autore di discorsi che si faceva una pera di  zeitgeist  (spirito del tempo). Improvvisamente la “sovranità” non significava quasi più niente (se non si era una superpotenza); gli Stati Uniti erano già pronti a  inseguire  i terroristi  in 80 nazioni, e  il pianeta, per definizione era diventato una zona globale dove si sparava liberamente.

Alla fine del settembre 2001, mentre si stava preparando l’invasione dell’Afghanistan, si era già un mondo che aveva carta bianca, e, il caso ha voluto che  i droni senza pilota che con compiti di sorveglianza fossero là, appostati nell’ombra, attendendo un momento come questo, anelando (si potrebbe dire) a essere forniti di  armi.

Se il GWOT è precedente a molte considerazioni  sui droni, ha preparato la strada per rifornirli di armi improvviso,  al  loro miglioramento, e al loro dislocamento. Non è stato per errore che, soltanto due settimane dopo l’11 settembre, Noah Shachtman che prevede i futuro (ha in seguito  creato il sito web Ranger Room su Wired ), ha aperto un articolo per quella rivista in questo modo: “Aerei spia senza equipaggio, e quasi già disponibili, vengono preparati per avere un ruolo importante nel prossimo conflitto contro il terrorismo, dicono gli analisti della difesa.”

Dite tutto quello che volete su “imminenza” e “limiti”, ma fino a quando saremo “in guerra”, non soltanto in Afghanistan o in Iraq, ma su scala mondiale contro un qualche cosa noto come “terrore”, non ci sarà mai alcun limite, tranne che quelli che ci  si pongono da soli.

E la situazione è ancora la stessa oggi, anche se l’Amministrazione Obama ha evitato per lungo tempo di usare l’espressione “Guerra globale al terrore”. Come Brennan ha chiarito nel suo discorso, il presidente Obama considera che siamo “in guerra” in qualsiasi posto dove possano essere localizzati  al-Qaeda, i suoi  tirapiedi, imitatori, o, semplicemente gruppi di irregolari dei quali ci importa poco. Vista questa mentalità, c’è poco motivo di credere che, l’11 settembre 2021, non saremo ancora “in guerra”.

Oltre le parole

Pochi giorni dopo che le notizie sul “dibattito” riguardo ai limiti della guerra globale sono trapelate sul Times, funzionari governativi sconosciuti facevano trapelare al Washington Post e al  Wall Street Journal, notizie su un argomento interessante. Entrambi i quotidiani hanno comunicato la notizia che, come si sono espressi Craig Whitlock e Greg Miller del Post, i militari statunitensi e la CIA stavano creando “una costellazione di basi segrete per i droni in vista di operazioni antiterroristiche nel Corno d’Africa e nella Penisola Araba come parte di una campagna di aggressione per attaccare gli affiliati di  al-Qaeda in Somalia e in Yemen.”

Sembra che si stia costruendo una nuova base in Etiopia, un’altra da qualche parte nelle vicinanze dello  Yemen (forse in Arabia Saudita), e una terza è stata riaperta sulle Isole Seychelles nell’Oceano Indiano – tutte chiaramente volute per incrementare la guerra con i droni in Yemen e in Somalia   e forse perché le guerre con i droni arrivino in qualche altra zona dell’ Africa orientale o settentrionale.

Queste preparativi sono volti non solo ad affrontare le attuali preoccupazioni di Washington, ma anche le sue future paure e i suoi futuri fantasmi. In questo modo, corrispondono bene alla guerra di terrore di dieci anni fa contro i fuochi fatui. Julian Barnes, del Wall Street Journal, per esempio, cita uno sconosciuto “alto funzionario statunitense” che diceva: “Non ne sappiamo abbastanza dei capi degli affiliati di al-Qaeda in Africa. C’è qualcuno qui fuori che dica: ‘Io sono il futuro di al.Qaeda’? Chi è il prossimo Osama bin-Laden?” Non lo sappiamo ancora, ma chiunque sia, i nostri droni saranno pronti per lui.

Tutto questo, a sua volta, corrisponde alla posizione “legale” del Pentagono, citata da Savage del Times, di tentare di mantenere la massima flessibilità dal punto di vista teorico.” E’ quello che si dice nel film “The Field of Dreams “ ( “L’uomo dei sogni” nella versione italiana): se li costruite, si realizzeranno.

E’ abbastanza semplice. Le macchine (e chi le crea e le sostiene nel mondo militare e industriale) sono decenni avanti rispetto ai funzionari di governo che in teoria le dirigono e le supervisionano. “Un futuro per i droni: uccisioni  automatiche,” un articolo entusiasta che è apparso sul Post proprio la stessa settimana del pezzo pubblicato sullo stesso giornale sull’espansione delle basi, ha colto lo stato d’animo del momento. Nell’articolo Peter fin scrive del modo in cui tre droni senza pilota che volavano su Fort Benning, in Georgia, operavano insieme per identificare un obiettivo, senza assistenza di persone. Scriveva che forse questo “faceva presagire il futuro del modo americano di fare guerra: un giorno in cui i droni danno la caccia, identificano e uccidono il nemico basandosi sui calcoli fatti dal software, non sulle decisioni prese dagli uomini. Immaginate dei Terminator aerei, senza i muscoli e senza l’orario del volo.

In un pezzo apparso sulla New York Review of Books” che aveva un taglio ugualmente ammirativo (e chi non ammirerebbe questi progressi tecnologici così strabilianti), Chris Caryl scrive:

“I ricercatori stanno ora testando gli UAV (unmanned aerial vehicles – vettori aerei senza equipaggio) che imitano i colibrì o i gabbiani; un modello che si sta elaborando può stare su una gomma da cancellare.  Si fanno molte ipotesi sulla possibilità di collegare questi piccolo droni o robot per formare degli “sciami”  – nuvole o folle di macchine  che condividerebbero la loro intelligenza, come  una coscienza collettiva, e avrebbero la capacità di convergere istantaneamente su obiettivi identificati. Potrebbe sembrare fantascienza, ma probabilmente non siamo tanto lontani dal raggiungere questa fase.”

Bisogna ammettere che i droni non possono ancora  avere  un sesso. Non ancora, comunque. E non possono scegliere gli  esseri umani che sono mandati a uccidere. Non finora. Ma  a parte il sesso e il singolo drone, tutto questo e altro potrebbe, nei prossimi decenni, diventare – se non vi dispiace che usi questa parola – imminente.

Potrebbe essere la realtà nei cieli i sopra la nostra testa.

E’ vero che le macchine da guerra che l’amministrazione Obama  si sta ora  precipitando a capofitto a schierare  non possono funzionare  da sole, ma sono già – per usare le parole di Ralph Waldo Emerson, sono in sella e cavalcano l’umanità.”  Il loro “desiderio” di essere dispiegati e usati, sta guidando la politica a Washington e sempre di più  anche altrove. Pensate a questo come all’Imperativo del Drone.

Se volete litigare riguardo alle definizioni, ce ne è sola una per la quale vale la pena farlo: non l’espressione “la guerra globale al terrore”, che l’amministrazione Obama

ha messo da parte  senza nessun risultato, ma il concetto che c’è dietro. Una volta che si è diffusa l’idea che gli Stati Uniti erano, e non avevano altra scelta se non esserlo, in uno stato di guerra globale permanente, il gioco era fatto. Da allora in poi, il pianeta era  – parlando da un punto di vista concettuale – una zona dove si può sparare liberamente, anche prima che le armi automatizzate  si sviluppassero fino al livello attuale, all’orizzonte c’era già un mondo fatto di droni che divorano droni.

Fino a quando la guerra globale rimane l’essenza della “politica estera”, i droni  e le imprese militari-industriali e i gruppi lobbistici che hanno alle spalle, come anche le carriere militari  e nella CIA che vi si costruiscono sopra –si espanderanno. Andranno dove e così lontano  quanto la tecnologia li porterà.

In realtà, non sono i droni, ma i nostri dirigenti che sono notevolmente  vincolati.       Con la  guerra permanente e il terrorismo, essi hanno costruito una casa senza porte di entrata e di  uscita. E’ facile immaginarli come padroni assediati dell’universo in cima alla superpotenza militare del globo, ma se pensiamo a quello che davvero fanno, sarebbe più pratico pensarli come tanti droni pilotati da altri. In verità, i nostri attuali capi, o, piuttosto, dirigenti di azienda, sono piccole persone che manovrano  in automatico la grande macchina del mondo.

Dato che essi per definizione devono scattare e girare, noi possiamo soltanto iniziare a intravedere,   come in  una vecchia foto che si sviluppa in una bacinella di prodotti  chimici, i contorni di una nuova forma di guerra imperiale americana che sta emergendo davanti ai nostri occhi che implica sorvegliare l’impero spendendo poco e in segreto, tramite la CIA che, negli ultimi anni è diventata un’impresa  paramilitare su vasta scala, ricca di droni,  tramite un esercito segreto che sta crescendo composto di  forze per operazioni speciali che è stato in incubazione all’interno delle forze armate in questi ultimi anni e naturalmente tramite di quegli assassini robotici del cielo armati di missili e di bombe.

L’elemento che attrae è ovvio: il costo (di vite statunitensi) è basso; nel caso dei droni è inesistente. Non servono più di grandi armate anti insurrezione e di  occupazione come quelle che si sono impantanate sulla terra ferma nel Medio Oriente allargato in questi ultimi anni.

In una Washington sempre più a corto di liquidi ed ansiosa, deve sembrare un vero dono del cielo.  Come potrebbe andar male?

Naturalmente questa è un’idea alla quale ci si può attaccare finché si guarda giù su un pianeta pieno di potenziali obiettivi che scappano sotto di voi.  Nel momento in cui guardate in alto , il momento in cui lasciate stare  il vostro joystick e lo schermo e cominciate a immaginarvi sul terreno, è ovvio che le cose potrebbero andare veramente molto ma molto male;  in Pakistan, tanto per fare un esempio, le cose stanno andando molto ma molto male.

Pensate soltanto all’ultima volta in cui siete andati a vedere un film di Terminator; con chi vi siete identificati? Con John e Sarah Condor, gli implacabili Terminator che danno loro la caccia? Non avete certo bisogno dell’intelligenza artificiale per afferrare il perché in un nanosecondo.

In un paese che ora lotta soltanto per garantire aiuto ai suoi stessi cittadini colpiti dai disastri naturali, Washington sta preparando disastri decisamente innaturali nell’impero. In questo modo, sia in patria  che all’estero il sogno americano sta diventando l’urlo americano.

Quando, allora costruiamo quelle basi su quel campo globale di urli, quando inviamo le nostre armate di droni a uccidere, non meravigliatevi se il resto del mondo non ci vede come dei   bravi ragazzi o degli  eroi , ma  come dei Terminator. Non è il modo migliore per farsi degli amici e avere influenza sulla gente, ma una volta che il vostro atteggiamento mentale è la guerra permanente, questa non è più una priorità. E’ un urlo e non c’è niente di divertente.

 

Tom Engelhardt, cofondatore dell’ American Empire Project e autore di : The American way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s [Lo stile di guerra americano: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama] e anche di The End of Victory Culture, [La fine della cultura della vittoria],  gestisce il sito dell’Istituto della Nazione TomDispatch.com, dove questo articolo è apparso per la prima volta. Il suo ultimo libro  The United States of Fear (Haymarket Books),  [Gli Stati Uniti della paura] sarà pubblicato in novembre.

Consigli per ulteriori letture: un piccolo  a quattro siti web su cui faccio affidamento quando raccolgo informazioni per articoli di questo tipo: l’impagabile Antiwar.com, il sito War in Context  con il suo curatore , Paul Woodward che ha la vista acuta, il blog Informed Comment di Juan Cole (una lettura quotidiana obbligatoria) e il sito web Danger Room di Noah Shachtman che nessuna persona interessata a questioni militari dovrebbe tralasciare.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

ZSpace / Testo originale

Traduzione di Maria Chiara Starace

 

 

 

 

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