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di Cindy Milstein – 18 giugno 2009
[Contributo al Progetto Reimmaginare la Società (RSOC) ospitato da ZCommunications]
Per molti, un “nuovo anarchismo” è sembrato nascere in mezzo alla pioggia fredda e alla nebbia tossica che ha salutato le proteste del novembre 1999 contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia, piuttosto che figlia bastarda di un movimento sociale emergente, questa radicale politica di resistenza e di ricostruzione era andata trasformandosi per decenni. L’azione diretta a Seattle è riuscita soltanto a renderla nuovamente visibile. L’anarchismo, per parte sua, ha offerto una prassi trainante a questo momento storico. E nel farlo, non solo ha contribuito a modellare l’attuale movimento anticapitalista; ha anche illuminato principi di libertà che potenzialmente potrebbero soppiantare l’egemonia della democrazia rappresentativa e del capitalismo.
Dai suoi inizi nel diciannovesimo secolo in poi, l’anarchismo ha sempre affermato un insieme di concetti etici che esso sostiene approssimino meglio una società libera. Nel linguaggio di quel periodo, l’anarchico italiano Errico Malatesta (1853-1932) descrisse tanto tempo fa l’anarchismo come “una forma di vita sociale in cui gli uomini vivono come fratelli, in cui nessuno è in una posizione tale da opprimere o sfruttare gli altri e in cui tutti i mezzi per conseguire il massimo sviluppo morale e materiale sono disponibili a tutti.” [1] Questa definizione succinta continua a cogliere gli obiettivi dominanti dell’anarchismo. Ciò nonostante, questa forma libertaria del socialismo può ben essere stata in anticipo sui suoi tempi nel sostenere un mondo di identità transnazionali e multidimensionali, nel lottare per un umanesimo qualitativo basato sulla collaborazione e la differenziazione. E’ solo nel contesto della globalizzazione che l’anarchismo può finalmente essere in grado di parlare ai tempi e, così, alle speranze dei popoli. Se possa realizzare le proprie aspirazioni, resta da vedere.
La visione resa invisibile
Anche se forme di organizzazione e valori promosse dagli anarchici si possono rinvenire, in embrione, in tutto il mondo in molte aree diverse, il debutto dell’anarchismo come filosofia distinta si è avuto in Europa a metà del diciannovesimo secolo. Il “filosofo della libertà”, l’inglese William Godwin (1756-1836), fu il primo pensatore dell’Illuminismo a redigere una teoria estesa di una società senza stati nel suo “An Inquiry concerning Political Justice” del 1793 [‘Un’indagine sulla giustizia politica], ma non è stato che quando Pierre-Joseph Proudhon (1809.65) scrisse “la società cerca ordine nell’anarchia” nel suo “Cos’è la proprietà?” del 1840, che il termine “anarchismo” cominciò a coagularsi, nel corso dei diversi decenni successivi, intorno a un nucleo riconoscibile di principi. La teoria politica di Goodwin non fu all’altezza del carattere liberatorio dei suoi sentimenti; e Proudhon andrebbe severamente condannato per non aver affrontato la logica inerente del capitalismo e per le sue convinzioni patriarcali e antisemite. In effetti ci sarebbero voluti altri, dall’aristocratico russo Peter Kropotkin (1842-1921) all’intellettuale ebreo tedesco Gustav Landauer (1870-1919) e a molti altri eminenti e meno noti radicali, per completare un ritratto più gradevole dell’anarchismo classico: una filosofia politica utopica che depreca ogni forma di autorità o coercizione imposte.
Da socialisti, gli anarchici erano particolarmente preoccupati per il capitalismo, che durante la Rivoluzione Industriale stava causando sofferenze su una scala sino ad allora inimmaginabile. Gli anarchici puntarono principalmente sugli operai le loro speranze di trasformare le relazioni sociali, utilizzando categorie economiche che spaziavano dalla lotta di classe all’abolizione della proprietà privata. Nella sinistra rivoluzionaria tutti concordavano sul fatto che il capitalismo non poteva essere riformato; doveva, invece, essere abolito. Ma, diversamente dagli altri socialisti, gli anarchici sentivano che lo stato era altrettanto complice nel rendere schiava l’umanità e così non si poteva impiegare il potere governativo – nemmeno in via transitoria – per passare dal capitalismo al socialismo. Una società senza classi e tuttavia ancora imperniata sullo stato, sostenevano gli anarchici, avrebbe continuato a costituire un mondo segnato principalmente dalla dominazione. Come proclamava nel 1938 l’anarco-sindacalista Rudolf Rocker (1873-1958) “il socialismo o sarà libero o non sarà”. [2] Per questo e per altri motivi, l’anarchismo si è evoluto al di fuori del socialismo a indicare un’opposizione non soltanto al capitalismo ma anche agli stati e alle altre istituzioni coercitive interconnesse, come la religione organizzata, la scuola obbligatoria, il militarismo e il matrimonio. Così si dice dell’anarchismo, nel senso più generale, che “tutti gli anarchici sono socialisti, ma non tutti i socialisti sono anarchici.”
Questa affermazione può anche essere considerata in rapporto a questioni di strategia. Molti socialisti, almeno quelli radicali, non erano contrari all’ “inaridimento dello stato”, era solo una questione di quando e come. Per gli anarchici, una “dittatura del proletariato” che pilotasse lo stato all’avvizzimento non poteva essere considerata affidabile per promuovere effettivamente quel processo. Invece di organizzazioni sociali con una gerarchia dall’alto, gli anarchici si facevano paladini di vari tipi di modelli orizzontali che potessero prefigurare una buona società nel presente. Gli anarchici sostenevano, cioè, che si poteva tentare di costruire il nuovo mondo sull’intelaiatura del vecchio mediante l’auto-organizzazione, piuttosto che attendendo passivamente un qualche periodo post-rivoluzionario. Di qui l’enfasi dell’anarchismo sulla prassi. Le alternative anarchiche erano fondate intorno a concetti chiave come l’associazione volontaria, la libertà personale e sociale, le comunità confederate e tuttavia decentrate, l’eguaglianza di condizioni, l’umana solidarietà e la spontaneità. Mentre l’invenzione europea nota come anarchismo, attraverso i circuiti intellettuali e degli agitatori, arrivava dovunque, dagli Stati Uniti alla Cina, all’America Latina e all’Africa, gli anarchici sperimentarono di tutto, dalla vita nelle comuni, alle federazioni, alle scuole libere, ai consigli dei lavoratori, alle monete locali e alle società di mutuo soccorso.
L’anarchismo fu parte di una sinistra internazionalista parecchio vasta dagli anni ’80 dell’Ottocento sino alla Paura Rossa degli anni ’20 e alla Rivoluzione Spagnola degli anni ’30 del Novecento. Poi, screditati, disincantati, o uccisi, gli anarchici sembrarono scomparire, e con loro la loro stessa filosofia. Dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta del nazismo, sembrò che le uniche due scelte politiche fossero la “democrazia” (capitalismo del libero mercato) e il “comunismo” (capitalismo di stato). Persa in questa equazione, tra altre cose, erano la contestazione dell’autorità e la concomitante affermazione dell’utopia proposte dall’anarchismo.
Riemersione come convergenza
Il lontano diciannovesimo secolo è, naturalmente, un periodo di formazione per la reinvenzione dell’anarchismo. Ma i dilemmi e le aperture dell’epoca – ad esempio l’ascesa del liberalismo, del colonialismo e della produzione industriale – sono molto lontani da quelli del ventunesimo secolo. Oltre a ciò, l’anarchismo classico lascia molto a desiderare: la sua ingenuità riguardo alla natura umana come fondamentalmente buona, per esempio, o la sua avversione a qualsiasi sostituzione politica dei governi statali. Quando l’anarchismo ha cominciato a essere riscoperto negli anni ’50 dalla sinistra in cerca di un’alternativa al marxismo ortodosso, ha cercato perciò con forza di ricostruirsi. Pensatori anarchici si sono confrontati con nuovi problemi, dall’evidente consumismo all’urbanizzazione; con nuove possibilità come il femminismo e la liberazione culturale; e con vecchi fantasmi propri, da un orientamento operaista a tattiche autoritarie, persino terroristiche. L’anarchismo rinnovato che ne è emerso è stato, di fatto, una convergenza di vari impulsi antiautoritari postbellici. Anche se la sensibilità libertaria degli anni ’60 e della Nuova Sinistra è fondativa, cinque fenomeni sono specialmente cruciali riguardo alla prassi resa famosa/malfamata a Seattle.
In primo luogo c’è l’Internazionale Situazionista (IS) del 1962-1972, un piccolo gruppo di intellettuali e artisti d’avanguardia che ha tentato di descrivere il cambiamento del capitalismo. Secondo i situazionisti l’alienazione, che Marx aveva osservato come fondamentale per la produzione capitalista, ora riempiva ogni spazio; le persone erano estraniate non soltanto dai beni che producevano ma anche dalla propria vita stessa, dai propri desideri. La forma merce aveva colonizzato le sfere, in precedenza separate, della vita quotidiana. Secondo la battuta del situazionista Gui Debord (1931-94), il capitalismo moderno aveva forgiato “una società dello spettacolo” o una società consumistica che prometteva una soddisfazione che non concedeva mai, con noi a fare da spettatori passivi. I situazionisti sostenevano uno sconvolgimento giocoso della quotidianità, dai media ai paesaggi urbani, al fine fare a pezzi lo spettacolo attraverso l’immaginazione e di sostituire il piacere al lavoro ingrato. Durante la quasi rivoluzione del 1968 a Parigi, gli slogan situazionisti, sotto forma di graffiti quali “Vivere senza tempi morti! Godere senza freni!” erano dovunque. Ironicamente, anche se i situazionisti erano critici nei confronti degli anarchici, gli anarchici si sono avvalsi della critica situazionista, in particolare riguardo alla preoccupazione per l’alterazione della cultura.
Dagli anni ’70 in poi, anche i lavori interdisciplinari del teorico Murray Bookchin (1921-2006) hanno contribuito a trasformare l’anarchismo in una filosofia politica moderna. Collegando la Vecchia Sinistra con la Nuova, Bookchin ha fatto più di chiunque altro per estendere l’anticapitalismo/antistatalismo anarchico alla critica della gerarchia in quanto tale. Ha anche introdotto l’ecologia come tema d’interesse dell’anarchismo, collegandola alla dominazione. In poche parole, parafrasandolo, la crisi ecologica è una crisi sociale. Bookchin ha enfatizzato la possibilità, nascente nel presente, di una società ecologica e della post-scarsità, in cui l’utilizzo razionale della tecnologia potrebbe rendere l’umanità libera di realizzare il proprio potenziale in armonia con il mondo naturale. Cosa molto significativa, egli ha identificato le sostituzioni istituzionali dello stato suggerite dall’anarchismo del diciannovesimo secolo: autogoverno democratico diretto o, nella sua terminologia, municipalismo libertario. Gli scritti di Bookchin hanno puntato alla città o al quartiere come terreno di lotta, radicalizzazione, potere duale e rivoluzione finale, con confederazione di libere assemblee di cittadini che sostituiscono lo stato e il capitale. Hanno anche ispirato un movimento ambientale radicale, esperimenti di federazioni anarchiche quali la Gioventù Verde, e una nuova generazione di intellettuali anarchici.
La scoperta di Bookchin del modello del gruppo di affinità nella sua ricerca sugli anarchici spagnoli, abbozzata nel suo Anarchismo della Post-Scarsità (1971), ha influenzato il movimento antinucleare statunitense degli anni ’70 e ’80. Emergendo dalla controcultura rurale del New England e poi della Costa Occidentale – una controcultura che comprendeva pacifisti radicali di convinzioni sia anarchiche sia religiose – il movimento antinucleare ha utilizzato la disobbedienza civile, ma infondendovi una sensibilità anarchica e femminista: rifiuto di ogni gerarchia, preferenza per il processo della democrazia diretta, accento sulla spontaneità e la creatività. Variando i livelli di confronto nonviolento presso gli impianti di energia nucleare, dai blocchi alle occupazioni, assieme all’utilizzo della spettacolarità, dei fantocci e della solidarietà carceraria le iniziative sono state decise sulla base di gruppi di affinità e di gruppi di delegati. Attivisti quaccheri, non anarchici, hanno aggiunto consenso alla miscela con conseguenze assortite (falsa unità, ad esempio). Nonostante le difficoltà di spingersi al di là di singoli temi e di quella che era diventata una comunità insulare, le tattiche e la forma organizzativa del movimento antinucleare USA e internazionale sono state presto accolte dai movimenti pacifisti, femministi, degli omosessuali e delle lesbiche, dell’ecologia radicale e anti-interventisti.
A iniziare dagli anni ’80, anche gli Autonomen della Germania Occidentale hanno lasciato un segno nell’anarchismo. Constatando il discredito della Nuova Sinistra europea, anche se colpiti dalla sua critica dell’autoritarismo della Sinistra (“comunismo” in stile sovietico) e della Destra (capitalismo “democratico”), gli Autonomen hanno rifiutato tutto, dal sistema esistente alle etichette ideologiche, compresa quella dell’anarchismo. Da rete spontanea e decentrata di rivoluzionari antiautoritari, erano autonomi dai partiti politici e dai sindacati; hanno anche tanto di essere autonomi dalle strutture e dagli atteggiamenti imposti dall’ “esterno”. Ciò ha implicato una strategia duplice. Da un lato creare spazi comunitari liberati, come le occupazioni, per fare la propria vita. E, secondariamente, utilizzare il confronto militante sia per difendere la propria controcultura sia per assumere l’offensiva contro quelli che consideravano elementi repressivi, persino fascisti. L’impiego dei black bloc mascherati – a cominciare dalla dimostrazione a Berlino del 1988 durante la riunione del Fondo Monetario Internazionale/Banca Mondiale – i quartieri autonomi e gli “info-stores”, e gli scontri nelle strade con la polizia e i neonazisti sono diventati emblematici degli Autonomen. Gli anarchici hanno avvertito un’affinità e hanno importato le vesti della politica autonoma nella propria, collegando e modificando così entrambe nel processo.
Ultima nella sequenza ma di pari importanza, la spettacolare comparsa, il 1 gennaio 1994, degli zapatisti sulla scena mondiale per contestare il Trattato Nordamericano di Libero Scambio (NAFTA) ha inserito gli anarchici nell’importanza della globalizzazione come problema contemporaneo, di proporzioni spesso di vita o di morte. In un decennio di costruzione attraverso sforzi di base di circa trenta comunità indigene nel Messico meridionale, e intenzionalmente collegata alle lotte altrove, la rivolta ha illustrato il potere della solidarietà. L’audace presa di villaggi nel Chiapas da parte degli zapatisti ha anche rilanciato l’idea che la resistenza era possibile, sia in regioni ricche sia in regioni povere. “Se ci chiedete cosa vogliamo, vi risponderemo spudoratamente: ‘Aprire un varco nella storia’” ha dichiarato il Subcomandante Insurgente Marcos. “Costruiremo un altro mondo … Democrazia! Libertà! Giustizia!” [3] Per gli anarchici l’inventiva miscela di alta tecnologia, come Internet, e di bassa tecnologia come gli encuentros nella giungla, di comunicati basati sui principi e di conquiste concrete, e il tentativo di rivendicare il potere popolare attraverso municipalità autonome è stato particolarmente elettrizzante; i concomitanti appelli allo stato messicano, meno. Tuttavia gli anarchici sono affluiti in Chiapas a sostenere questa ribellione, riportando a casa lezioni da applicare a un movimento anticapitalista globale che un anarchismo ricostruito avrebbe in breve contribuito ad avviare.
Più della somma delle parti
Questi filoni di resistenza, alimentati essi stessi da momenti precedenti, si sono intrecciati nel tessuto dell’anarchismo contemporaneo. Dai situazionisti l’anarchismo ha preso la critica della società dell’alienazione e dei consumi, e la fiducia nell’immaginazione; da Bookchin il collegamento tra anticapitalismo, democrazia diretta, ecologia e post-scarsità; dal movimento antinucleare l’accento sui gruppi d’affinità e i consigli dei delegati così come l’azione diretta nonviolenta; dagli Autonomen il confronto militante, la strategia dei black bloc e un’ampia enfasi sul fai da te; e dagli zapatisti la potenza di Internet, della solidarietà interculturale e della “globalizzazione” per la resistenza transnazionale. Ma l’anarchismo che ha ricevuto notorietà nel novembre 1999 è più della somma di queste parti. E’ oggi l’unica filosofia politica che aspiri a equilibrare una varietà di agenti e di strategie per il cambiamento – o, in definitiva, una “diversità di tattiche”, visioni e persone – con le idee universalistiche di una libertà partecipativa al di fuori di tutte le istituzioni e i comportamenti imposti.
Per mesi prima di Seattle gli anarchici hanno lavorato diligentemente dietro le quinte per stabilire il tenore dell’azione diretta che avrebbe sbalordito il mondo. In quanto promotori e organizzatori chiave, anche se non riconosciuti come tali, gli anarchici erano stati in grado di strutturare la dimostrazione secondo principi libertari. Come numerose altre azioni dirette organizzate principalmente dagli anarchici, come le proteste antinucleari degli anni ’70 e l’azione contro Wall Street del 1989, anche quella di Seattle sarebbe finita ignorata se non fosse stato per il suo successo nel bloccare l’Organizzazione Mondiale del Commercio e per la brutale reazione della polizia. Gli anarchici e l’anarchismo sono stati spinti alla celebrità. Quella che era sempre stata una voce minoritaria della coscienza all’interno della Sinistra, improvvisamente ottenne un uditorio pubblico di maggioranza. A sua volta la filosofia anarchica divenne sia l’avanguardia sia la norma di un potente nuovo movimento sociale globale.
Con questo non si vuol dire che soltanto gli anarchici e l’anarchismo siano responsabili del movimento/i che contesta il lato brutale della globalizzazione, che tale movimento/i sia iniziato a Seattle e nemmeno che il suo obiettivo sia di trasformare tutti in anarchici. Come gli zapatisti, gli anarchici riconoscono con umiltà (almeno in teoria) di agire di concerto con le numerose lotte per la libertà scatenate nel tempo da una molteplicità di antiautoritari. Ciò nonostante, forse perché lo hanno fatto sullo stesso terreno della superpotenza dominante, gli anarchici sono stati in grado di creare con fermezza una forma di resistenza che effettivamente prefigura una politica gioiosa del popolo di un’umanità in via di globalizzazione, da parte di esso e a favore di esso. E, in quanto tali, di elaborare i contorni flessibili di un movimento emancipante, elevando contemporaneamente, e inaspettatamente, l’anarchismo alla sua avanguardia.
Ciò significa che i principi dell’anarchismo, assieme alla sua cultura e alle forme di organizzazione, sono per la prima volta in prima linea anziché ai margini dei un movimento sociale transnazionale. Nel senso più vasto, l’anarchismo ha introdotto in questo movimento un insieme unico e inseparabile di qualità: una posizione apertamente rivoluzionaria, colorata da un orientamento eminentemente etico, resa fuori dall’ordinario da un utopismo giocoso anche se di democrazia diretta.
Il momento anarchico
Ma, ancora, perché l’anarchismo?
Perché l’anarchismo ha fissato i termini del dibattito. La sua enfasi sulla rivoluzione sociale in coppia con la sua trasparenza ha significato che gli anarchici non hanno avuto paura di chiamare per nome il problema concreto mascherato dal termine “globalizzazione”: cioè, la società capitalista. Una volta che il tipo di azione diretta di Seattle è diventato un riferimento, gli anarchici hanno ricevuto un tacito via libera dalla maggior parte degli altri attivisti per progettare proteste simili e così sono diventate comuni le “feste popolari contro il capitalismo”. Ad esempio, quando la gente “converge” insieme alle azioni di massa, ora lo fa sotto la bandiera dell’anticapitalismo, una bandiera tenuta alta dagli anarchici che l’hanno portata in modo avvincente al centro di ogni contestazione. Poiché ciò ha reso tangibile quello che era più inquietante per molti, riguardo alla globalizzazione, molti si sono radicalizzati o almeno sono diventati simpatizzanti di una concentrazione sull’economia di mercato. Anche se considerato tuttora sovversivo, è diventato così più accettabile parlare del capitalismo e addirittura identificarsi come anticapitalisti. L’”anticapitalismo” tuttavia ora implica frequentemente una prospettiva antiautoritaria. E, viceversa, una prospettiva anarchica permea ora il lavoro anticapitalistico.
Ma, ancora, perché adesso?
Perché la globalizzazione rende le aspirazioni anarchiche sempre più appropriate. Lungi dall’essere contrari alla globalizzazione in quanto tale, gli anarchici hanno a lungo sognato un mondo senza frontiere reso potenzialmente realizzabile dalla trasformazioni attualmente in corso. In effetti i mezzi utilizzati dalla globalizzazione sono particolarmente riconducibili a valori anarchici quali il decentramento e l’integrazione, le identità elastiche e la distruzione delle contrapposizioni, i finanziamenti e la collaborazione creativi, la mobilità, l’ibridismo e l’apertura. La cosa più sorprendente è che la globalizzazione sta strutturalmente minando la centralità degli stati.
Ai suoi tempi (1818-1883) Karl Marx previde la crescente egemonia del capitalismo e la sua cancerosa capacità di (ri)strutturare tutte le relazioni sociali secondo la sua contorta immagine. Tuttavia per Marx ciò salutava anche una certa promessa. La libertà e la dominazione erano entrambe legate alla logica dello sviluppo che era, e sfortunatamente è tuttora, il capitalismo. Dipendeva dai giusti attori sociali, date le condizioni giuste, “fare la storia”, cioè fare la rivoluzione e realizzare il comunismo nel suo senso migliore e più generale. Molto di ciò che Marx smascherò resta valido attualmente; molto di più è diventato evidente, tristemente, al punto che non c’è praticamente più quasi nessun “fuori” dal capitalismo che costruisce la società così come l’individualità. Il progetto eroici di Marx e i molteplici altri progetti socialisti di abolire il capitalismo restano più toccanti che mai, così come la necessità di un movimento rivoluzionario per realizzarli. Di qui la potenza dell’”anticapitalismo”.
L’anarchismo ha tradizionalmente previsto un altro sviluppo potenzialmente egemonico che Marx ha ignorato: il potere dello stato. Ma, diversamente dal capitalismo, allo stato ci sono voluti molti più decenni per guadagnarsi lo stesso status naturalistico dell’economia di mercato, e così la critica anarchica, anche se corretta, ha rappresentato meno un imperativo per la maggior parte dei radicali. In una svolta ironica sia per gli statalisti sia per gli anarchici, proprio quando la democrazia rappresentativa in stile statunitense ha alla fine ottenuto la sua egemonia come unica forma “legittima” di governo, la globalizzazione ha cominciato la sua opera di riduzione del potere degli stati. Pensare al di fuori dell’idea statalista ha oggi senso e sta diventando rapidamente una realtà, offrendo all’anarchismo la rilevanza che ha a lungo desiderato. L’accoglimento relativamente diffuso, all’interno e all’esterno dei circoli della Sinistra antiautoritaria, degli esperimenti anarchici di organizzazioni di democrazia diretta, di confederazioni, di mutuo soccorso evidenzia quanto quelle forme siano adatte al mondo odierno, sempre meno statalista e sempre più interdipendente. Tutto ciò prefigura sperimentalmente, in effetti, le istituzioni di autogoverno che l’anarchismo immagina all’interno di una versione umana delle attuali trasformazioni sociali.
In questo mondo che si sta globalizzando, “non statale” può significare qualsiasi cosa, dalle istituzioni sovranazionali dominate dalle élite imprenditoriali alle zone commerciali regionali, alle reti di individui fluttuanti desiderosi di impiegare tattiche terroristiche. Da un lato, quindi, mentre la geopolitica basata sugli stati perde terreno a favore una più diffusa e tuttavia crudele geopolitica non statalista, la critica anarchica potrebbe rapidamente diventare irrilevante. D’altro canto, proprio come il marxismo ha dovuto essere ripensato a metà del ventesimo secolo alla luce mancato conseguimento dell’emancipazione umana ad opera del socialismo – con la conseguente rivelazione, tanto per cominciare, da parte della scuola di Francoforte, di nuove forme di dominio – l’anarchismo deve esser ri-teorizzato in risposta alla svolta verso l’assenza di stati che presagisce sia spaventose riconfigurazioni dei monopoli politici sia possibili aperture a un’alternativa etica. La pratica dell’anarchismo attuale ha essenzialmente scavalcato la sua filosofia e la sua critica sociale. Entrambe necessitano di rimettersi al passo se una politica antiautoritaria deve diventare qualcosa di più di una nota storica a piè di pagina a proposito di un’occasione mancata.
E tuttavia, in quanto unica tradizione politica che si è costantemente confrontata con le tensioni tra l’individuo e la società, l’anarchismo contemporaneo ha valorosamente cercato di fondere gli obiettivi universalistici della Sinistra e la sua estesa visione della libertà con gli obiettivi particolaristici dei nuovi movimenti sociali in aree quali il genere, la sessualità, l’etnicità e le abilità diverse. La straordinaria miscela umana che è comparsa nelle strade di Seattle ha potuto trovare “unità nella diversità” precisamente perché gli anarchici hanno tentato di mettere in pratica questa fusione teorica. Il modello dei gruppi d’affinità/comitati dei delegati, ad esempio, ha consentito a centinaia di interessi disparati di trovare anche un intimo collegamento. La globalizzazione ha facilitato ciò rendendo il mondo ogni giorno più piccolo, mettendo a contatto sempre più stretto il macro e il micro. Nel capitalismo l’omogeneità e l’eterogeneità saranno sempre collegati a spese sia della comunità sia dell’individualità. La sostanziale inclusività in parte conseguita dall’organizzazione anarchica suggerisce un quadro strutturale di riferimento che potrebbe servire dapprima come potere rivoluzionario duale e in seguito come base per un “mondo adatto a molti mondi” che chiedono gli zapatisti. [4] Di qui la potenza dell’anarchismo per la resistenza anticapitalista.
Potremo non vincere questa volta; tutto, dall’ascesa del fondamentalismo politicizzato alla “guerra al terrore” post 11 settembre, a tragedie apparentemente insolubili come il Medio Oriente all’accresciuta sofferenza causata dalla “crisi” del capitalismo, indica la gravosità e la quasi impossibilità del nostro compito. Tutti, dagli organismi polizieschi globali alla Sinistra autoritaria, a quelli che affidano le loro speranze a un Barack Obama, cercheranno di contrastare i nostri sforzi. Ma il progetto dell’attuale movimento anticapitalista, e in generale il forte esempio dell’anarchismo, devono essere un sole anche se non saremo quelli che alla fine ci si crogioleranno.
Nel 1919 gli anarchici tennero il potere a Monaco per una settimana, nel corso della Rivoluzione Tedesca e si precipitarono ad avviare ogni sorta di progetto immaginativo per emancipare la società in generale. Tuttavia Landauer sapeva che il meglio che avrebbero potuto fare sarebbe stato di costruire un modello per le generazioni future: “Anche se è possibile che le nostre vite siano brevi, ho il desiderio, e voi lo condividete con me, che noi ci lasciamo dietro effetti duraturi … così che possiamo sperare, quando tornerà l’autoritarismo, che circoli evidenti diranno che non abbiamo fatto un cattivo inizio e che non sarebbe stata una cosa cattiva se ci fosse stato permesso di continuare il nostro lavoro.” Landauer fu calpestato a morte in un’ondata di reazione di destra poco dopo, e quattordici anni più tardi i nazisti salirono al potere. Tuttavia i grandiosi esperimenti del passato diretti a una società libera e autogovernantesi non si sono estinti, sono riemersi nelle tensioni anarchiche sintetizzate qui e, ciò che è più promettente, l’attuale contestazione del capitalismo combatte seguendo linee antiautoritarie.
Non un cattivo inizio per il ventunesimo secolo.
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[1] Errico Malatesta, ‘Errico Malatesta: His Life and Ideas’ [Errico Malatesta: la vita e le idee] a cura di Vernon Richards (Londra, Freedom Press, 1974)
[2] Rudolf Rocker, ‘Anarcho-Syndicalism: Theory and Practice’ [Anarco-sindacalismo: teoria e prassi] (1937; ristampato, Oakland, CA: AK Press, 2004)
[3] Subcomandante Insurgente Marcos, ‘World is Our Weapon: Selected Writings’ [Il mondo è la nostra arma: scritti scelti] a cura di Juana Ponce de Leon (New York, Seven Stories Press, 2002)
[4] Ibid.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: http://www.zcommunications.org/anarchisms-promise-for-anticapitalist-resistance-by-cindy-milstein
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0