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Archivi tag: Europa

Sovranità alimentare in Europa

05 lunedì Dic 2011

Posted by Redazione in Dan Iles, Economia, Europa

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Tag

agricoltura, Andrea Ferrante, Austria, Belgio, Blanca G. Ruibal, Bulgaria, cibo, etichette, Europa, Fiandre, filiera corta, GASAP, Giornata Internazionale della Lotta Contadina, grecia, Italia, Jenny Gkiougki, Krems, Mali, Nyeleni, sovranità alimentare, spagna, Valloni, Voedselteams

 

di Dan Iles  – 05 dicembre  2011

‘I sistemi alimentari sono stati ridotti a un modello di agricoltura industrializzata controllato da poche imprese alimentari transnazionali assieme a un piccolo gruppo di enormi catene di distribuzione al dettaglio. E’ un modello inteso a generare profitti e perciò manca del tutto di soddisfare i suoi obblighi.  Invece di essere dedicato alla produzione di cibo […] si concentra sempre più sulla produzione di materie prime, come biocombustibili, mangimi o piantagioni di derrate.  Da un lato ha causato l’enorme perdita di poderi agricoli e delle persone che ricavano da vivere da tali poderi, mentre dall’altro promuove una dieta che è dannosa per la salute e che contiene frutta, verdura e cereali in misura insufficiente.’

Questo afferma la dichiarazione finale del forum europeo Nyeleni per la sovranità alimentare, tenutosi ad agosto nella cittadina di Krems, in Austria, con la partecipazione di 400 delegati da 34 paesi.  Il forum è stato strutturato in modo da suddividere le delegazioni in gruppi con interessi specifici e poi agevolare il dibattito inclusivo e partecipativo in modo da creare la base per una dichiarazione che offrisse una direzione al movimento europeo per la sovranità alimentare.  Tuttavia, come nella maggior parte dei forum di questo tipo, l’elemento più importante è stato costituito dall’opportunità per i produttori, le organizzazioni dei consumatori, i lavoratori, gli attivisti e i promotori di incontrarsi, condividere le proprie storie e pianificare il futuro.

In una sfida diretta all’agenda della “sicurezza alimentare” imposta dall’alto, che accetta quel dominio del nostro sistema alimentare da parte delle grandi imprese che, tanto per cominciare, è parte del problema, la vera lotta contro la fame globale non ha luogo nei parlamenti, nelle istituzioni finanziarie o nei laboratori scientifici. Si tratta invece di agricoltori su piccola scala e di consumatori privati del loro potere che si riuniscono per costruire dal basso un sistema alimentare migliore.  In linea con questo approccio, il forum ha incluso una giornata di protesta presso i supermarket attorno a Krems e un mercato che ha combinato bancarelle dei contadini e informazioni politiche dirette agli abitanti della cittadina.  Questa combinazione si è dimostrato uno strumento potente di contatto.

Nyeleni Europe rappresenta i collettivi agricoli sostenuti dalle comunità, le unioni dei coltivatori organici, le cooperative alimentari locali, le organizzazioni di scambio delle semenze, gli attivisti alimentari, i mercati contadini e gli orti comunitari che formano la prima linea contro l’ondata della grande produzione.

Cosa significa il nome?

In Mali c’è un simbolo potente che potrebbe servire da simbolo della sovranità alimentare.  E’ una donna che ha lasciato il segno nella storia del Mali, come donna e come grande contadina. Quando citi il suo nome tutti sanno cosa quel nome rappresenta.  E’ la madre che porta il cibo, la madre che coltiva, che ha combattuto per essere riconosciuta, da donna, in un ambiente che non le era favorevole.  Questa donna è stata chiamata Nyeleni.  Se usiamo questo simbolo, tutti in Mali sapranno che si tratta di una lotta per il cibo, una lotta per la sovranità alimentare.

Ibrahim

Grecia

La situazione in Grecia è che nei pochi decenni più recenti gli agricoltori sono stati pagati per smettere di coltivare, per abbattere i vecchi alberi, sradicare le vecchie viti, ecc.  […] Così ora c’è una quantità di terra arabile non coltivata, lasciata inutilizzata e apparentemente abbandonata.  Con la crisi economica queste famiglie incassano di meno e ora tutti sono preoccupati perché abbiamo tutta questa terra ma non vi viene coltivano cibo.

Cercando un approccio proattivo alternativo, alcune famiglie stanno tornando a cercare di sostenere direttamente i propri contadini locali.  Si stanno riunendo per formare collettivi di consumo per acquistare i prodotti della terra e cercare di aggirare gli intermediari.  La gente sta anche cercando di creare monete alternative per mantenere locali le economie.

Jenny Gkiougki collabora con gli ‘indignados’ greci.

Belgio

In Belgio vi è una carenza di coesione tra i gruppi agricoli a motivo della barriera linguistica e di tutta la politica che vi si accompagna. In conseguenza vi è scarsissima collaborazione tra i movimenti di base tra le aree dei Valloni e delle Fiandre del Belgio.  Tuttavia alcuni recenti sviluppi nei movimenti alimentari nella parte settentrionale e in quella meridionale del paese sono simili.

Sta crescendo una forte rete alimentare locale nella parte Vallese, il GASAP (Groupe d’Achat Solidaire del l’Agriculture Paysanne) con sede a Bruxelles e il Voedselteams nelle Fiandre. Quest’ultimo ha un’organizzazione migliore con 5 dipendenti a tempo parziale, più di 120 gruppi locali e 80 agricoltori impegnati nel progetto.  Tutti i gruppi hanno un approccio simile in quanto si concentrano sulla prossimità dei produttori alimentari rispetto ai consumatori.  Hanno sviluppato il proprio sistema di selezione per gli agricoltori in quanto le principali etichette organiche non tengono conto della distanza e della dimensione delle coltivazioni come criterio di etichettatura.

Nelle Fiandre sta comparendo un fenomeno nuovissimo  di fattorie di ‘agricoltura sostenuta dalla comunità’  che ha un approccio all’auto-raccolto.  Ce ne sono circa sette al momento e operano in prossimità di città quali Leuven, Gent e Anversa.  I mercati contadini sono anch’essi aumentati in anni recenti e sono stati adottati dalle autorità locali.

L’anno scorso un gruppo di sei progetti di fornitura alimentare a filiera corta ha fatto appello al parlamento fiammingo per un piano di azione strategica sull’agricoltura a filiera corta.  Ciò implicherà il riconoscimento delle filiere corte come innovazione che aumenta il contatto tra produttori di cibo e consumatori, consente ai produttori di fissare i propri prezzi per i propri prodotti e produce cibo per i mercati e le comunità locali.

Wim Merckx, delegato belga dalle Fiandre

Spagna

Come in tutta Europa, i contadini e i piccoli agricoltori stanno scomparendo in Spagna. Le statistiche mostrano che negli ultimi 20 anni ogni ora hanno chiuso tre aziende agricole. C’è una quantità di problemi diversi causati dall’abbandono dell’attività agricola.  Tra essi, a causa del nostro clima arido, c’è l’erosione del suolo e la minaccia di desertificazione. I problemi sociali sono anche peggiori; lo spopolamento dell’ambiente agricolo causa uno squilibrio territoriale e una profonda sconnessione tra città e paesi.

C’è tuttavia un movimento in crescita che offre soluzioni e alternative pratiche al sistema dominante. Per più di dieci anni, ormai, gli agricoltori, i consumatori cittadini, gli attivisti ambientalisti e altri hanno collaborato per la sovranità alimentare, opponendosi alle regole attuali, avvicinando ancor più consumatori e agricoltori e sviluppando modi nuovi e innovativi di combattere la commercializzazione, i cibi OGM e via dicendo.  Vogliamo, e abbiamo necessità, che i contadini producano cibo locale e sano che sia rispetti l’ambiente sia mantenga i vivi i paesi.  E’ bello condividere problemi ed esperienze con gente di tutta Europa e vedere che c’è un forte movimento europeo che lotta per la sovranità alimentare.

Blanca G. Ruibal, Amica della Terra, Spagna

Bulgaria

In Bulgaria, come altrove, è che ci sono numerosi supermercati potenti che non sono obbligati a vendere prodotti locali.  La popolazione è, in generale, poverissima, quindi le persone sono costrette a cercare le merci a prezzo più basso, che normalmente sono importate. Questo uccide i produttori bulgari.

Gruppi locali hanno creato progetti internet per i consumatori che si organizzano insieme per creare una cooperativa alimentare virtuale.  Ciò viene fatto principalmente attraverso gruppi Google, con la gente che ordina in rete quello che le serve e poi invia un ordine collettivo agli agricoltori locali.  Ciò consente agli agricoltori di sapere quanto, di un particolare prodotto, è necessario e su cosa concentrarsi.  Dà loro anche una sicurezza finanziaria considerevolmente migliore.

Un organizzatore alimentare di comunità bulgaro.

Italia

In Italia il principale problema ora è che stiamo trattando il cibo come una qualsiasi merce, e la finanziarizzazione dell’agricoltura è uno dei maggiori esempi di ciò.  La terra è stata abbandonata in tutto il paese, non perché fosse impossibile coltivarla, ma perché il sistema di agricoltura industrializzata ha ritenuto che il mercato locale non fosse più importante.  Ciò ha portato a un’enorme perdita di biodiversità perché abbiamo pensato che le verdure dovessero essere prodotte soltanto in due o tre regioni del sud.

Tuttavia ci sono in Italia più esempi che mai di progetti di sovranità alimentare.  Essi includono mercati contadini che danno ai produttori accesso diretto ai consumatori, che non sono più semplicemente consumatori perché propongono richieste riguardo alla produzione e diventano parte del processo.  In Italia abbiamo ora un milione di pasti al giorno preparati con prodotti biologici, quasi tutti italiani. Questo flusso locale di  denaro sta generando un notevole sviluppo locale per gli agricoltori biologici.

Andrea Ferrante, presidente dell’associazione italiana per l’agricoltura biologica.

 

Il sito Nyeleni Europe viene sviluppato come risorsa del movimento per la sovranità alimentare. Il forum ha concordato azioni a livello europeo, comprese occupazioni di supermercati, marce e altre forme di azione diretta nella “Giornata Internazionale della Lotta Contadina”, il 17 aprile 2012.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/food-for-thought-food-sovereignty-in-europe-by-dan-iles

Fonte: Redpepper Magazine

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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La Cina non può salvare il mondo dalla crisi

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Economia, Jean Sanuk

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Asia, assemblaggio, Cambogia, Cina, consumi, Corea del Sud, crisi economica, crisi finanziaria, esportazioni, Europa, FIlippine, FMI, G20, G7, Giappone, India, Indonesia, Malesia, OCSE, piano di salvataggio, PIL, politica monetaria, prodotti finiti, recessione, redditi, sfruttamento, spesa pubblica, Tailandia, tasso di cambio, tasso di interesse, usa, Vietnam

 

di Jean Sanuk  – 26 novembre 2011

Mentre il Nord America e l’Europa sono stati colpiti duramente, la Cina ha resistito alla crisi internazionale del 2008 grazie a un piano di salvataggio che ha combinato enormi spese pubbliche, un basso tasso di interesse e sovvenzioni ai consumi. Il tasso di crescita della Cina ha raggiunto il 9% nel 2009 e il 10,40% nel 2010, trascinando fuori dalla crisi sulla sua scia l’Asia e l’America Latina.  E’ anche riuscito a mantenere la disoccupazione a un livello sostenibile.  La Cina ha persino superato il Giappone, nel 2010, come seconda economia maggiore del mondo in termini di PIL e sta colmando il divario che la separa dagli Stati Uniti. Nel complesso l’ascesa della Cina sembra non toccata dalla crisi dei subprime. Uno sguardo più attento dimostra che i problemi stanno per arrivare. Continua a leggere →

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Ispirazione dall’America Latina

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in America, Eva Golinger

≈ 1 Commento

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bolivia, Caracas, Caracazo, Carlos Andres Perez, cile, colpo di stato, diritti umani, Ecuadro, egitto, Europa, evo morales, FMI, Hugo Chavez, Medio Oriente, occupywallstreet, primavera araba, Rafael Correa, repressione, repressione poliziesca, rivoluzoine bolivariana, spagna, Tunisia, usa, venezuela

di Eva Golinger  – 25 novembre 2011

Le proteste di Occupy Wall Street che si allargano agli interi Stati Uniti si sono alla fine guadagnate l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. La prolungata crisi economica e la struttura politica escludente hanno spinto migliaia di persone negli Stati Uniti a uscire dai loro locali confortevoli e a scendere in strada a sollecitare il cambiamento.  La brutale repressione della polizia in reazione a dimostrazioni pacifiche in città di tutti gli Stati Uniti ha riempito i titoli dei giornali internazionali, evidenziando l’ipocrisia di un governo veloce nell’accusare e criticare gli altri per le violazioni dei diritti umani mentre perpetua lo stesso, se non peggiore, disgustoso comportamento in patria.

Molti analisti e commentatori hanno attribuito le proteste negli USA alla cosiddetta “Primavera Araba” che ha luogo in Tunisia, Egitto e altre nazioni del Medio Oriente e dell’Africa. I movimenti negli USA e nel mondo arabo hanno condiviso tattiche e caratteristiche simili, compreso l’uso di media sociali come Twitter, Youtube e Facebook, per mobilitare dimostrazioni e pubblicizzare attività di protesta e repressione statale. I protagonisti di queste rivolte sono stati principalmente i giovani e gli indignati e scontenti nei confronti di sistemi che li hanno abbandonati e hanno lasciato senza opportunità milioni di persone impoverite.

In Spagna e in Cile, dimostrazioni analoghe hanno luogo dall’inizio del 2011 e hanno portato migliaia di giovani e studenti a contestare sistemi politici ed economici iniqui e scorretti.  Le rivendicazioni di tutte queste proteste, dal mondo arabo all’Europa agli Stati Uniti, hanno incluso diritti basilari quali l’istruzione gratuita, lavori dignitosi, alloggi, assistenza sanitaria e una maggior inclusione e partecipazione alla politica e al governo.  “Minor rappresentanza, minor partecipazione” sono i gridi che salgono dagli “indignados” di tutto il mondo.

Quello che pochi hanno notato, o hanno intenzionalmente omesso, è come i popoli dell’America Latina siano insorti all’inizio di questo secolo con rivendicazioni e sogni identici a quelli di coloro che protestano oggi negli Stati Uniti, in Europa e nelle nazioni arabe, e come sono stati capaci di prendere democraticamente il potere e cominciare a ricostruire le proprie nazioni. L’influenza delle rivoluzioni del ventunesimo secolo in America Latina sul Movimento Occupiamo e sulla Primavera Araba non può essere sottovalutata.

ISPIRAZIONE A SUD DEL CONFINE

Slogan, cori e commenti dei dimostranti di Occupiamo Wall Street (OWS) che sollecitano la fine del dominio delle imprese e chiedono una spesa pubblica più equa e opportunità per la maggioranza (il 99%) sono analoghi a quelli che si sono sentiti in tutto il Venezuela negli anni ’90, quando la privatizzazione si è impossessata del paese ricco di petrolio, le multinazionali hanno governato e il popolo è stato relegato nelle baraccopoli.

Decenni di esclusione, repressione e cattiva amministrazione del governo e delle risorse in Venezuela hanno portato il popolo (il 99%) alla rivolta, nel 1989, contro un’amministrazione che stava vendendo rapidamente il paese al miglior offerente.  Il “Caracazo” del 27 febbraio 1989 è stato una rivolta popolare di massa nella capitale del Venezuela, Caracas, contro le privatizzazioni e la globalizzazione; contro il governo delle imprese [‘corporatocracy’ nell’originale – n.d.t.]. Il governo, guidato dal presidente Carlo Andres Perez, ha reagito con la repressione brutale.  Più di 3.000 persone sono state uccise dalla violenza delle autorità statali. I corpi sono stati gettati in fosse comuni e lasciati a marcire.

Ma la brutalità della violenza statale non ha fermato la maggioranza venezuelana. Lungo tutti gli anni ’90, il popolo ha cominciato a organizzare la propria frustrazione in una coalizione su scala nazionale nel tentativo di liberarsi del sistema “rappresentativo” bipartitico che aveva governato per decenni.  Al vacillare dell’economia e al crollare delle banche, e con  i politici si sono appropriavano , con il furto, di tutto quello che potevano e cercavano  di vendere il resto, il popolo si è mobilitato.  Nel 1998 è stato eletto da questo movimento di base  un nuovo presidente, ponendo fine al dominio dello governo delle imprese travestito da democrazia.

Il nuovo governo, guidato da Hugo Chavez, ha promesso una completa trasformazione del sistema. Sarà smontato e ricostruito dal popolo.  La democrazia non sarà più “rappresentativa” ma sarà partecipativa.  Ci sarà una redistribuzione delle risorse pubbliche per garantire che il 99% vi sia incluso.  L’assistenza sanitaria e l’istruzione saranno gratuite, universali e accessibili a tutti.  Sarà stilata una nuova costituzione, da ratificarsi dal popolo, per riflettere i bisogni, i sogni e le realtà della società odierna.  Il popolo governerà a livello di base mediante consigli e assemblee delle comunità che controlleranno le risorse locali e daranno ai membri delle comunità il potere decisionale su come le risorse debbano essere utilizzate.  Fioriranno media pubblici, alternativi e comunitari, e saranno incoraggiati dallo stato, al fine di ampliare l’accesso e garantire che tutte le voci siano udite.

Si porrà fine all’indebitamento con l’estero e ai rapporti con le istituzioni finanziarie internazionali.  Importanti risorse strategiche saranno nazionalizzate, recuperate  dalle imprese multinazionali e poste sotto il controllo dei lavoratori.  Le imprese pubbliche saranno gestite dai lavoratori e saranno di loro proprietà.  La politica estera sarà basata sulla sovranità e il rispetto delle altre nazioni, con un accento sull’integrazione, la cooperazione e la solidarietà, invece che sullo sfruttamento, la competizione e il dominio.

Questa non è un’utopia; questa è la Rivoluzione Bolivariana del Venezuela. Ci sono voluti anni per costruirla e ci sono ancora decenni da percorrere e molti problemi e difficoltà da superare, ma il popolo del Venezuela, il 99%, è stato capace di prendere il potere democraticamente e di trasformare la propria nazione.

Nel 2005 i popoli indigeni della Bolivia hanno conquistato il potere attraverso elezioni democratiche, dopo secoli di esclusione, colonialismo e dominazione da parte di una classe dominante di minoranza.  Si sono sollevati e mobilitati contro il governo razzista delle imprese che dominava la nazione e si sono reimpossessati del potere.  Sotto la presidenza di Evo Morales, il primo capo di stato indigeno della nazione, è stata stilata una nuova costituzione che è stata ratificata dal popolo in un referendum nazionale e hanno preso ad aver luogo trasformazioni sociali per realizzare un sistema di giustizia sociale.

In Ecuador, dopo anni di tumulti politici ed economici, colpi di stato e numerosi presidenti cacciati, il popolo ha eletto Rafael Correa e la Rivoluzione dei Cittadini è salita al potere nel 2007. Liberare la nazione dalle redini del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ravvivare l’economia e trasferire il potere al popolo, sono azioni che stanno trasformando l’Ecuador in una nazione sovrana e dignitosa.

 

NEUTRALIZZARE, DISTRUGGERE O COOPTARE LA RIVOLUZIONE

Anche se tutte queste rivoluzioni latinoamericane sono tuttora in corso, il loro accento sulla costruzione di una nazione dalla base, sul potere del popolo, sulla giustizia sociale e una sovranità vera hanno chiaramente ispirato altri nel mondo a combattere per il cambiamento nelle proprie nazioni.  Ma perché così tanti hanno mancato di vedere l’importanza dell’influenza di queste rivoluzioni in ciò che accade oggi negli Stati Uniti, in Europa e nel mondo arabo?

Principalmente perché si tratta di rivoluzioni riuscite, democratiche, pacifiche operate dal popolo, appartenenti al popolo e fatte per il popolo. Non vi sono state influenze “esterne” a dirigerle, manipolarle o tentare di “cooptarle”, come è accaduto nel caso della “Primavera Araba”. Non si sono realizzate in seguito a guerre o rivolte violente bensì piuttosto attraverso processi democratici.  Naturalmente ci sono stati molti tentativi di neutralizzare e distruggere queste rivoluzioni latinoamericane, compreso un colpo di stato in Venezuela nel 2002, un tentativo di colpo di stato in Bolivia nel 2008 e un altro tentato colpo di stato in Ecuador nel 2010. Sino ad oggi sono tutti falliti.

Agenzie USA come il National Endowment for Democracy [Fondo nazionale per la democrazia], l’International Republican Institute [Istituto internazionale Repubblicano], il National Democratic Institute [Istituto Nazionale Democratico], l’Open Society Institute [Istituto per la società aperta] e la US Agency for International Development (USAID) [Agenzia USA per lo sviluppo Internazionale] hanno finanziato e manipolato in continuazione molti di questi gruppi e organizzazioni coinvolte in nelle diverse rivolte nelle nazioni arabe.  L’amministrazione Obama è stata pesantemente coinvolta nei movimenti in Tunisia e in Egitto, circostanza provata dalle continue visite di rappresentanti del Dipartimento di Stato a queste nazioni per assicurarsi che il risultato politico fosse favorevole agli interessi statunitensi.  Washington ha anche tentato di promuovere rivolte analoghe in paesi con governi scomodi, come la Siria e l’Iran.  La guerra brutale contro la Libia e l’assassinio extragiudiziale di Muammar al-Gheddafi un tentativo obliquo degli USA di fronteggiare una “rivoluzione popolare” nella nazione nordafricana.

La manipolazione e l’infiltrazione di forze esterne nei movimenti del mondo arabo hanno contribuito al loro caos, disordine e fallimento nel concretarsi in rivoluzioni vere, vere trasformazioni delle loro strutture politiche, economiche e sociali. Sarebbe una sconfitta amara e tumultuosa per gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali se queste nazioni arabe dovessero costruire i movimenti rivoluzionari sovrani che milioni di persone di quei paesi domandano.

E, tornando agli Stati Uniti, la violenta repressione contro il movimento Occupiamo è un chiaro tentativo di neutralizzare e screditare la prima possibile coalizione che potrebbe crescere sino a diventare una forza politica potente che potrebbe liberare il paese dal regno Democratico-Repubblicano.  Mentre questo movimento lotta per consolidare e definire i suoi obiettivi, le rivoluzioni a sud del confine continuano ad estendersi.

I media delle imprese censurano, distorcono e tentano di imporre il silenzio sui progressi dei movimenti popolari in Bolivia, Ecuador, Venezuela e in altre nazioni latinoamericane. I capi di tali movimenti sono demonizzati dai mass media in un tentativo di sminuire l’importanza delle loro azioni e di farli passare per personaggi pericolosi considerati “matti”.

Nonostante questi tentativi di offuscarle, le rivoluzioni latinoamericane del ventunesimo secolo hanno preparato il terreno per altri nel Sud Globale, e nel Nord, affinché elevino le proprie voci e si uniscano per costruire un mondo migliore.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/inspiration-south-of-the-border-by-eva-golinger

Fonte: Postcards from the Revolutions [Cartoline dalle rivoluzioni]

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Lo sciopero generale

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in Boaventura de Sousa Santos, Economia, Europa

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corruzione, democrazia, diritti civili, distribuzione della ricchezza, Europa, grecia, Italia, Madison, Oakland, occupywallstreet, Portogallo, Rosa Luxembourg, socialismo, spagna, tradimenti parlamentari, usa


di Boaventura de Sousa Santos – 25 novembre 2011

Gli scioperi generali furono comuni in Europa e negli Stati Uniti verso la fine del diciannovesimo secolo e nei primi decenni del ventesimo.  Provocarono grandi dibattiti all’interno del movimento del lavoro e all’interno dei partiti e movimenti rivoluzionari (anarchici, comunisti, socialisti).

Molto discusse furono l’importanza dello sciopero generale nelle lotte politiche e sociali, le condizioni per il suo successo, il ruolo delle forze politiche nella sua organizzazione.  Rosa Luxembourg (1871-1919) fu una delle presenze più eminenti in questi dibattiti.  Lo sciopero generale – che non ha mai cessato di essere presente in America Latina e che è riemerso con forza in primavera nell’Africa del Nord – torna in Europa (Grecia, Italia, Spagna e Portogallo) e negli Stati Uniti.

La città di Oakland, in California, che era famosa per lo sciopero generale del 1946, ha fatto nuovamente ricordo a questa misura il 2 novembre e nella primavera di quest’anno i sindacati del Wisconsin hanno approvato uno sciopero generale quando la popolazione della città di Madison si stava preparando a occupare la sede del parlamento dello stato – occupazione portata a compimento con successo – nella lotta contro il governatore e la sua proposta di neutralizzare i sindacati, cancellando la contrattazione collettiva per i dipendenti del settore pubblico.

Qual è il significato di questa  ricomparsa dello sciopero generale? Anche se è vero che la storia non si ripete, quali paralleli si possono ricavare con le condizioni e le lotte sociali del passato?

In aree diverse (comunità, città, regioni, paesi) lo sciopero generale è sempre stato una manifestazione di resistenza contro una condizione onerosa e ingiusta di natura generale, cioè una condizione suscettibile di colpire lavoratori, classi lavoratrici o persino la società nel suo complesso, anche se i più direttamente colpiti erano alcuni settori sociali o professionali.

Limitazioni ai diritti civili e politici, repressione violenta di proteste sociali, sconfitte sindacali su problemi collegati alla protezione sociale, delocalizzazione di imprese con impatto diretto sulle vite delle comunità, decisioni politiche contrarie all’interesse nazionale o regionale (“tradimenti parlamentari” come la scelta della guerra o del militarismo): queste sono alcune delle condizioni che in passato hanno portato alla decisione di indire uno sciopero generale.

All’inizio del ventunesimo secolo, viviamo in un’epoca diversa e le condizioni onerose e ingiuste non sono le stesse del passato.  Tuttavia al livello della logica sociale che le governa ci sono paralleli allarmanti ricorrono in profondità nel movimento per uno sciopero generale il 24 novembre in Portogallo.

Ieri la lotta era per  diritti delle classi popolari che erano considerati ingiustamente negati; oggi la lotta è contro l’ingiusta perdita di diritti per i quali hanno lottato così tante generazioni di lavoratori e che sembravano conquiste irreversibili. Ieri la lotta era per una distribuzione più equa della ricchezza nazionale generata da capitale e lavoro; oggi la lotta è contro una distribuzione sempre più diseguale della ricchezza (paghe e pensioni confiscate, orari di lavoro più lunghi e intensi, tasse e salvataggi che favoriscono i ricchi – “l’1%”, secondo gli occupanti di Wall Street – e una vita quotidiana di ansietà e insicurezza, il crollo delle aspettative, la perdita di dignità e speranza per il “99%).

Ieri la lotta era per una democrazia che rappresentasse gli interessi della maggioranza priva di voce; oggi la lotta è per una democrazia che, dopo essere stata parzialmente conquistata, è stata svuotata dalla corruzione, dalla mediocrità e dalla viltà dei capi e dalla tecnocrazia per conto del capitale finanziario che hanno sempre servito.

Ieri la lotta era per alternative (il socialismo) che le classi dominanti riconoscevano come esistenti e perciò reprimevano brutalmente chi le difendeva;  oggi la lotta è contro il luogo comune neoliberale, insistentemente replicato dai media servili, che non c’è alternativa all’impoverimento della maggioranza e allo svuotamento delle scelte democratiche.

In generale possiamo dire che lo sciopero generale in Europa oggi è più difensivo che offensivo e guarda meno a promuovere l’avanzamento della civilità che a evitare il regresso di essa.

E’ per questo che non è più una questione di lavoratori nel loro complesso bensì piuttosto una questione di cittadini impoveriti nel loro complesso, sia quelli che lavorano sia quelli che non possono trovare lavoro, così come di quelli che hanno lavorato per tutta la vita e oggi si vedono minacciate le pensioni.

Nelle strade, l’unica sfera pubblica non ancora occupata dagli interessi della finanza, cittadini che non hanno mai partecipato ai sindacati o ai movimenti sociali, né immaginato di parlare a favore di cause altrui, stanno dimostrando.  Improvvisamente le cause degli altri sono le loro.

Boaventura de  Sousa Santos  laureato in sociologia legale, è professore all’università di Coimbra (Portogallo) e all’Università del Wisconsin, Madison (USA). Traduzione [in inglese] di Roberto D. Hernàndez. L’articolo originale “A Greve Geral”  è stato pubblicato da Carta Major il 16 novembre 2011. En espanol.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/the-general-strike-by-boaventura-de-sousa-santos

Fonte: Mr Zine

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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L’italia sull’orlo del baratro a causa dell’ortodossia fiscale della BCE

12 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Mark Weisbrot

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BCE, berlusconi, crisi finanziaria, deficit, Europa, Fed, grecia, Italia, Mario Draghi, titoli di stato

di Mark Weistbrot  – 11 novembre 2011

Alcuni di noi stanno ammonendo da mesi riguardo allo scenario di crisi che sta accelerando oggi in Europa.  Io ho fatto notare  che le autorità europee stavano spingendo l’Italia su un sentiero pericoloso, in modo simile a quanto avevano fatto con la Grecia.  La formula è mortale: costringere a stringere i cordoni del bilancio un’economia che sta già avvizzendo o è sull’orlo della recessione. Ciò blocca ulteriormente l’economia, facendo sì che le entrate del governo crollino e rendendo necessarie ulteriori restrizioni, necessarie per raggiungere il deficit di bilancio individuato come obiettivo.  I costi di indebitamento del governo salgono perché i mercati capiscono in che direzione vanno le cose.  Ciò rende ancor più difficile raggiungere gli obiettivi, e l’intero caos può finire fuori controllo.

Mercoledì i mercati finanziari hanno reagito violentemente a questo processo in Italia, con rendimenti dei titoli del governo italiano sia a dieci, sia a due anni, schizzati oltre il 7%.  Facciamo un po’ di conti. Un anno fa l’Italia poteva finanziarsi al 4% con i titoli a dieci anni. Oggi tali rendimenti sono arrivati al 7,7%.  Si moltiplichi questa differenza (3,7%) per il 365 miliardi di euro (491 miliardi di dollari) che l’Italia deve rifinanziare l’anno prossimo.  Si arriva a 13,2 miliardi di euro (18,2 miliardi di dollari) di costi addizionali del finanziamento, ovvero a circa l’1% del PIL italiano.

L’Italia ha concordato una riduzione del deficit del 3,9% del PIL per il 2013, con circa l’1,7% di essa in da effettuare l’anno prossimo.  Il primo ministro Silvio Berlusconi ha annunciato che si dimetterà, in parte per le difficoltà politiche di realizzare questi cambiamenti in un’economia debole.  Ora si aggiunga un 1% del PIL per conseguire lo stesso obiettivo – e tenendo presente che l’obiettivo cambierà perché l’economia si contrarrà ulteriormente – e si può immaginare che l’Italia non ce la farà a raggiungere tali obiettivi.  Il che è quel che proprio adesso immaginano i mercati.

Di fatto gli operatori in titoli possono essere ancor più immaginativi di così.  Hanno notato che quando i rendimenti dei titoli di Portogallo e Grecia hanno superato il 7%  sono rapidamente schizzati a cifre a due numeri.  Quei governi sono stati poi costretti a finanziarsi presso il FMI e le autorità europee  anziché affidarsi ai mercati finanziari.

Le autorità europee non sono preparate a gestire una situazione simile. L’Italia è l’ottava economia più grande del mondo, e il suo debito di 2,6 trilioni di dollari è molto maggiore di quello di Irlanda, Portogallo, Grecia e persino Spagna messi insieme.  Le stanze di compensazione europee hanno recentemente cominciato a richiedere maggiori garanzie collaterali per il debito italiano, il che ha anch’esso innervosito i mercati.  Molto del debito italiano è detenuto da banche europee e la caduta dei prezzi dei titoli italiani causa problemi anche ai loro bilanci, aumentando il rischio di peggiorare la crisi finanziaria che già sta rallentando l’economia mondiale.

Cosa si può fare in proposito? La Banca Centrale Europea (BCE) risulta essere intervenuta pesantemente sul mercato dei titoli italiani e i suoi acquisti sono probabilmente ciò che ha ridotto un po’ dai loro picchi i rendimenti dei titoli italiani.  Ma questo non è neppur lontanamente sufficiente a risolvere la crisi. La BCE è il problema principale. E’ amministrata da persone che difendono una visione estremista della responsabilità delle banche centrali e dei governi in situazioni di crisi e di recessione.  Anche quando i fatti le contraddicono quotidianamente, si attengono testardamente alla visione secondo cui ulteriori restrizioni di bilancio ripristineranno la fiducia dei mercati finanziari e risolveranno la crisi.

I governi devono adottare “misure radicali per consolidare la finanza pubblica” ha detto martedì  il membro del comitato esecutivo della BCE, Jurgen Stark.   Ma naturalmente queste misure non faranno che gettare altra benzina sul fuoco, spingendo ulteriormente l’Europa verso la recessione ed esacerbando i problemi del debito e del bilancio delle economie più deboli dell’eurozona. E il nuovo capo della BCE, Mario Draghi, solo una settimana fa ha scartato l’idea che la banca centrale svolga un ruolo di prestatore di ultima istanza, un ruolo tradizionale delle banche centrali.

Le autorità della BCE ritengono di aver già fatto troppo acquistando 252 miliardi di dollari di titoli dell’eurozona nell’ultimo anno e mezzo.  Ma si confronti questo con la Federal Reserve, che ha creato più di 2 trilioni di dollari in sforzi per impedire che  l’economia USA affondasse nella recessione.  La BCE potrebbe por fine alla crisi intervenendo  come ha fatto la Federal Reserve negli Stati Uniti.  Ma continua a insistere sul fatto che quello non è il suo ruolo. E’ questo il cuore del problema e fino a quando tale politica non sarà invertita è probabile che l’economia europea continuerà a peggiorare.

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/italy-pushed-to-the-brink-by-ecb-fiscal-orthodoxy-by-mark-weisbrot

Fonte: The Guardian

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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