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La banca municipale di sviluppo: una necessità per la transizione

22 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Howie Hawkins, Mondo

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Tag

cooperative, crisi, Mondragon, potere popolare, riforme, socialismo

di Howie Hawkins  – 5 agosto   2009

[Contributo al Progetto  Reimmaginare la Società  (RSOC) ospitato da ZCommunications]

Visione e Transizione

Al livello generale della visione socialista, penso che esista un ampio accordo circa il fatto che vogliamo una democrazia partecipativa di istituzioni politiche ed economiche che rendano possibile ai cittadini soddisfare i propri bisogni senza sfruttamento od oppressione in un modo ecologicamente sostenibile.

Ma abbiamo differenze su molti particolari. Quali dovrebbero i ruoli rispettivi dei mercati e della pianificazione?  Quali beni e servizi dovrebbero essere distribuiti gratuitamente in base al bisogno e quali dovrebbero essere distribuiti in cambio di del valore del lavoro eseguito? Quali complessi di tecnologie produttive sono realmente riproducibili su base sostenibile con energie e risorse rinnovabili?  Quali scale di organizzazione delle unità economiche e politiche ottimizzano le richieste, a volte in concorrenza, di democrazia, efficienza e sostenibilità? Quanta partecipazione alla democrazia diretta dovrebbe esserci nelle nostre istituzioni politiche ed economiche rispetto alle deleghe a rappresentanti?  Quanto in là può progredire una città, una regione, una nazione o un blocco di nazioni in direzione del socialismo in un mondo ancora dominato dal capitalismo e cosa significa questo per noi l’avere potere a questi livelli?

A complicare le risposte a queste e ad altre domande vi è il fatto che probabilmente esse riceveranno risposte diverse  in fasi diverse della transizione alla nostra visione socialista. Per molti socialisti la pianificazione sostituirà progressivamente  i mercati e la sfera dei beni e servizi pubblici si amplierà mentre si ridurranno i beni e servizi acquistati, anche se fin dove questo processo possa o debba alla fine arrivare resta oggetto di un notevole dibattito.  Le tecnologie e le risorse da utilizzare nella transizione complicano la questione delle tecnologie riproducibili e sostenibili. Ad esempio il gas naturale per gli autoveicoli e l’elettricità dovrebbero sostituire gran parte del petrolio e del carbone come combustibili primari per operare una transizione a un sistema di energie interamente rinnovabili?  La rappresentanza proporzionale alle elezioni legislative non crea forme politiche partecipative e di democrazia diretta, ma negli Stati Uniti aprirebbe  uno spazio politico  per la sinistra indipendente che ora ha difficoltà a spezzare il sistema bipartitico di governo delle imprese, che il sistema di elezioni in cui chi vince si prende tutto tende a perpetuare.  Abbiamo oggi più di un secolo di esempi di amministrazioni dirette  da socialisti di vari tipi a livelli diversi –  comunale, regionale, nazionale – che cercano di costruire il socialismo in un mare di capitalismo, dandoci molto da studiare, dibattere e da cui imparare.

Non è necessario che i socialisti concordino con le risposte a questo tipo di domande al fine di collaborare ora. Se al centro dei valori socialisti c’è la democrazia, allora una società che si avvii al socialismo elaborerà le risposte nella pratica, in modo democratico, mediante prove ed errori, apprendendo dagli errori.

Ciò lascia aperta la difficile domanda: per cosa ci battiamo ora?  Pochi socialisti negherebbero che costruire movimenti che lottino per le riforme sia parte del processo rivoluzionario.  I movimenti per le riforme creano più socialisti e costruiscono il movimento socialista.  I nuovi attivisti scoprono che il sistema non acconsentirà mai a richieste che sono perfettamente ragionevoli e giuste.  Scoprono che le élite politiche non sono oneste e responsive, ma ipocrite e repressive.  Scoprono che i socialisti radicali hanno effettivamente spiegazioni buone sul perché le cose stanno così.

Ma devono esserci socialisti aperti presenti in questi movimenti finalizzati a singole riforme se essi devono svilupparsi in un movimento socialista per il cambiamento del sistema.  Negli Stati Uniti troppi socialisti hanno dimenticato il primo principio politico della tradizione socialista sin dalle rivoluzioni del 1848 e precisamente l’indipendenza politica del movimento dei lavoratori per una democrazia piena.

Negli Stati Uniti la subordinazione politica del movimento sindacale e di altri movimenti per le riforme al Partito Democratico, un partito filocapitalista finanziato in larga misura da capitalisti, ha portato a una serie di movimenti per singole riforme, non a un movimento socialista.  E i movimenti per le riforme su temi singoli hanno poco da mostrare in contropartita ai loro sforzi perché, in assenza di vitale partito indipendente della Sinistra, i Democratici sono stati in grado di dare per scontati  i voti dei movimenti progressisti popolari:  per il  lavoro, i  diritti civili, la comunità, i consumi, la pace e l’ambiente. I Democratici hanno utilizzato una combinazione di repressione, cooptazione dei capi e pacificazione con riforme-simbolo per neutralizzare questi movimenti, trattarli come un altro interesse particolaristico nella nostra “democrazia pluralista” che di fatto è subordinata alla classe dominante, al suo stato delle imprese, al suo sistema di governo a due partiti capitalisti che dà l’illusione della scelta, o la paura della reazione Repubblicana per costringere gli elettori, con lo spavento, a votare per il male minore rappresentato dai Democratici.

I socialisti devono anche, all’interno dei movimenti, portare avanti la causa di riforme più radicali, quelle che Trotzky chiamava rivendicazioni transitorie e Gorz ‘riforme non riformiste’, cioè riforme strutturali che hanno senso per la gente nei loro propri termini ma che le strutture dell’economia capitalista e della politica autoritaria non possono accogliere. Tali riforme radicali democratizzano il potere e possono provocare una crisi politica in cui il movimento popolare deve avanzare verso un’ulteriore democratizzazione se non vuole essere sconfitto dalla riaffermazione del dominio delle élite.

Nell’attuale crisi economica, ad esempio, i socialisti fanno bene a unirsi ad altri nel pretendere l’ampliamento dei sussidi di disoccupazione.  Ma un movimento socialista avrebbe potuto chiedere che i lavoratori del settore automobilistico restassero occupati e che la base manifatturiera statunitense fosse ravvivata convertendo gran parte dell’industria automobilistica alla produzione dei molto necessari treni e autobus per il trasporto pubblico e dei prodotti relativi all’energia solare per avere un’energia rinnovabile.  Avremmo potuto mobilitare il sostegno popolare con richieste di posti di lavoro e di produzione verde socialmente utile e avremmo potuto spiegare che  gli unici mezzi concreti per fare ciò sarebbero consistiti nella nazionalizzazione delle fabbriche  di automobili in bancarotta (a prezzi vantaggiosi quando le loro azioni avevano toccato il fondo) e nella ristrutturazione di  esse sotto il controllo dei lavoratori e della comunità.  Ma a parte una carovana a Washington di una minoranza di militanti del settore automobilistico e qualche editoriale di apertura su internet ad opera di alcuni radicali,  nessun movimento forte ha avanzato quelle richieste.

Socialismo municipale

Data la debolezza organizzativa e la frammentazione della Sinistra statunitense, penso che dobbiamo concentrare gran parte dei nostri sforzi sulla politica municipale, l’unico livello al quale la Sinistra oggi negli Stati Uniti possa realisticamente costruire la fiducia e la massa critica necessarie per costruire un potere sufficiente per operare cambiamenti strutturali.

Voglio suggerire una richiesta che tali movimenti municipali dovrebbero avanzare.  Dovremmo fare una campagna nelle nostre città per banche municipali di sviluppo, versioni pubbliche della banca cooperativa di Mondragon, la Caja Laboral Popular Sociedad Cooperativa de Credito, che fornirebbe assistenza tecnica e finanziamenti per lo sviluppo di cooperative e di altre imprese di proprietà comunitaria nelle nostre città.

Penso a questa richiesta come rilevante prima di tutto negli USA. La politica municipale non è soltanto l’arena in cui una Sinistra può avere un impatto significativo nel futuro immediato. Si tratta anche del fatto che le municipalità negli Stati Uniti hanno poteri più autonomi che nella maggior parte degli altri paesi.  Anche se il grado di amministrazione locale varia un po’ a seconda degli stati, le municipalità in generale hanno il potere di legiferare, di imporre vincoli urbanistici, investire, acquistare, tassare, avere una polizia, indebitarsi, emettere titoli, emettere monete locali, gestire imprese, impiegare residenti per predisporre e gestire lavori pubblici, spendere fondi pubblici praticamente in qualsiasi cosa e persino espropriare la proprietà privata a fini pubblici per motivi di pubblica utilità.

Credo anche che le banche municipali di sviluppo dovrebbero essere rilevanti per altri paesi come modo per costruire il socialismo dal basso con una reale partecipazione a istituzioni di base di democrazia politica ed economica.  Anche se un modello è costituito dalla banca cooperativa di Mondragon, le banche comunali del Venezuela, anche se di dimensioni di quartieri piuttosto che di municipalità, offrono un altro modello, particolarmente quanto alle loro strutture amministrazione democratica di base.

A Syracuse, New York, il Partito Verde è stato in grado di inserire nel programma politico della città richieste di imprese pubbliche.  Abbiamo convinto la città a spendere 150.000 dollari per uno studio di fattibilità della sostituzione con energia pubblica della Rete Nazionale, l’ex società statale inglese, ora privatizzata, di fornitura di energia elettrica  che ora è anche proprietaria di gran parte della rete di trasmissione e distribuzione del Nord-est degli Stati Uniti (vedere www.cnypublicpower.net).  Stiamo costruendo sostegno a una campagna per un sistema municipale a banda larga che riteniamo possa fornire servizi telefonici, internet e di televisione via cavo, sotto il controllo della comunità, a costi inferiori e con una tecnologia migliore di quella dei concorrenti: l’attuale esclusivista, Time Warner, il nuovo arrivo, Verizon e i concorrenti via satellite (vedere http://syracusebroadband.org).

Speriamo ora di ampliare tali iniziative con la richiesta che la città crei una Banca Municipale di Sviluppo con un ufficio di pianificazione industriale che aiuti a pianificare, finanziare, sviluppare e consigliare imprese a base comunitaria.

La banca avrebbe una sezione di credito al consumo.  Accoglierebbe depositi da residenti e imprese locali e offrirebbe prestiti al consumo e mutui.  Anche se la città è servita nel settore del credito al consumo dalla cooperativa di credito allo sviluppo della comunità, in costante crescita, la Syracuse Cooperative Federal Credit Union, da altre cooperative di credito basate sulle imprese e da una residua banca commerciale di proprietà locale, tutte le altre banche sono filiali di grandi banche regionali, nazionali e multinazionali.  I quartieri della classe lavoratrice e della gente di colore della città soffrono da decenni di mancati investimenti a causa della normativa urbanistica  risalente alla Società per il Finanziamento dell’Acquisto di Abitazioni del New Deal (vedere le effettive mappe dell’urbanizzazione  a http://syracusethenandnow.org/Redlining/Redlining.htm ).

Anche se c’è una chiara necessità di migliorare il credito al consumo, c’è una necessità anche maggiore di investimenti e pianificazione industriale. Le cooperative comunitarie  di credito allo sviluppo non possono soddisfare tale necessità nello stato di New York, quanto meno perché le grandi banche, attraverso le loro lobby, sono riuscite a far approvare una legge che limita i prestiti alle imprese delle cooperative di credito a una piccola percentuale del loro portafoglio.  Questo è uno dei motivi per cui abbiamo necessità di municipalizzare il processo di investimento industriale.  L’altro è la necessità di socializzare la funzione imprenditoriale per una più aggressiva promozione dell’occupazione e dello sviluppo industriale a Syracuse, che è una città che soffre non solo di un’urbanizzazione contraria alla classe lavoratrice, ma anche dell’abbandono da parte del capitale di proprietà di assenti, specialmente di capitale industriale.

Il contesto di Syracuse

Syracuse è come molte altre città della cintura industriale in decadenza del Midwest settentrionale e del Nord-est degli Stati Uniti.  E’ cresciuta attorno alla sua base manifatturiera e nel 1900 era tra le 30 città più popolose degli Stati Uniti.  Era famosa a livello nazionale per le sue automobili, candele, macchine da scrivere, orologi marcatempo, ingranaggi, carbonato di sodio, acciaio, fucili, motori a vapore, scarpe da uomo, stiratrici, carne tritata, barattoli, bollitori, radiatori e lanterne.  Fabbricava più articoli diversi della stessa New York City. A motivo della diversità delle sue industrie durante la recessione ha sofferto molto meno della maggior parte della altre città.

Ma con ogni recessione, a partire da quella del 1973-74, le imprese di proprietà assente hanno trasferito la produzione a regioni con manodopera a minor costo, tasse inferiori e regolamenti più permissivi. L’occupazione nell’industria ha raggiunto il suo picco agli inizi degli anni ’70 con 53.000 occupati nell’area metropolitana di Syracuse. Era ancora a 47.600 unità nel 1990 e a 45.100 nel 2000, riflettendo la stagnazione industriale, ma non una catastrofe.  La catastrofe sono stati gli anni 2000, con l’occupazione nell’industria scesa sotto le 30.000 unità per la prima volta nel 2009.  La regione metropolitana ha perso 17.900 posti nell’industria, ovvero il 38% di essi, nell’ultimo decennio, dal giugno 1999 al giugno 2009.

Il risultato è una classe operaia senza lavoro e le conseguenze connesse:

– Syracuse ha il terzo livello più alto di povertà – e il più alto livello di povertà della cittadinanza nera – tra le città centrali delle 100 aree metropolitane più vaste degli Stati Uniti, secondo un’indagine del censimento USA 2005.

– La popolazione della città è scesa del 40%, da un picco di 220.000 abitanti nel 1950 agli attuali 137.000.

– Una casa su cinque è abbandonata nei quartieri prevalentemente di minoranza della città, dove la gente di colore rappresenta il 45% della popolazione cittadina.

– Dei 2.169 finanziamenti della Federal Housing Administration [l’Amministrazione Federale per gli Alloggi che agevola l’acquisto di abitazioni da parte dei cittadini – n.d.t.] concessi a Syracuse tra il 1996 e il 2000, 29, ovvero l’1,3%, sono andati a quartieri prevalentemente delle minoranze, rispetto ai 1.694, ovvero il 78,1%, andati a quartieri bianchi.

– L’unico edificio ‘abitativo’ pubblico costruito di recente in città è la prigione della contea, “Justice Center”, che è piena fino a straripare di centinaia di giovani a basso reddito.

– Le percentuali di diplomati delle quattro scuole superiori della città variavano dal 38 al 52% nel 2009.

– Il 25% dei residenti nella città è analfabeta e il 25% dispone di un’istruzione minima.

– La città si confronta con un deficit strutturale di bilancio che si avvicina al 10% del bilancio operativo cittadino.  

Tutto ciò avviene mentre Syracuse cerca di rivitalizzare l’economia cittadina nel contesto di un’economia nazionale gravata da un debito enorme, con il debito delle famiglie e delle imprese che supera di gran lunga il tanto pubblicizzato debito governativo.  Masse di debitori rimborseranno una piccola élite di creditori in interessi, capitale e tasse per molti anni a venire, riducendo la domanda di consumi, gli investimenti industriali e la ripresa economica per altrettanti anni.

Il Grande Capo non torna. La General Electric, la General Motors e la Allied Chemical sono da tempo fantasmi scomparsi. La Smith Corona si è trasferita in Messico il giorno stesso in cui è stato approvato il NAFTA.  Carrier si è trasferita in Cina.  La Syracuse China è fallita. La New Process Gear ha chiuso nel luglio 2009, con il suo proprietario, la Magna International, che ha trasferito il lavoro di 3.500 dipendenti del settore automobilistico nella Corea del Sud e i soldi in Germania, per acquistare un’impresa produttrice di automobili, la Opel.  Decenni di una politica bipartitica in passiva attesa che le imprese si insediassero nelle zone a fiscalità agevolata Enterprise e Empire o che reagissero a molte altre agevolazioni fiscali e sovvenzioni non hanno ravvivato le attività e l’economia della città.

Né sarà Zio Sam a salvare Syracuse.  I 787 miliardi di dollari di stimolo economico, che sono stati soltanto un terzo della perdita di domanda aggregata, impallidiscono in confronto ai 12,8 trilioni di dollari prestati, spesi o impegnati in garanzie per l’industria finanziaria e agli oltre 5 trilioni di dollari impegnati per  guerre all’estero e in spesa militare nei prossimi otto anni da parte della nuova amministrazione, un livello di spesa militare più alto di qualsiasi altro periodo a partire della seconda guerra mondiale, più alto di qualsiasi anno della guerra in Vietnam, della Guerra Fredda o delle guerre in Afghanistan  e in Iraq sino ad ora.

La combinazione di tasse e di probabile inflazione per finanziare le guerre e i salvataggi preclude per molti anni  qualsiasi forte ripresa economica a livello nazionale, per non parlare di sostanziali risorse federali per una politica urbana di ricostruzione di città in declino come Syracuse.

Imprenditorialità pubblica creativa

Ciò che tutto questo significa per città come Syracuse è che i cittadini dovranno fare da soli.  L’amministrazione cittadina deve essere alla guida dello sviluppo.  Deve assumere un ruolo molto più diretto nello sviluppare attività locali. Sarà necessaria un’imprenditorialità pubblica creativa – banca municipale di sviluppo, energia pubblica, banda larga municipale – per provvedere all’infrastruttura e ai servizi economici per lo sviluppo di nuove imprese di proprietà della comunità la cui struttura proprietaria ancori esse,  e la ricchezza da esse creata, alla nostra comunità, diversamente dalle imprese di proprietà assente che abbandonano Syracuse.

Per imprese di proprietà comunitaria intendiamo diverse forme di proprietà tra cui:

 

– Piccole attività gestite dai proprietari.

– Società della Comunità in cui le azioni con diritto di voto sono limitate ai residenti (come la Green Bay Packers, una grande squadra di football a livello nazionale ancorata a una piccola città attraverso la sua struttura proprietaria).

– Un Fondo Fiduciario d’Investimento di proprietà della città in cui l’assistenza economica, sotto forma di esenzioni fiscali, è convertita in azioni con diritto di voto in un’impresa tradizionale.

– Imprese pubbliche quali energia, banda larga e le operazioni di raccolta di rifiuti del Dipartimento dei Lavori Pubblici da passare alla proprietà cittadina.

– Cooperative di Lavoro e Consumo, comprese le cooperative di credito.

L’Ufficio Sviluppo della Banca Municipale di Sviluppo dovrebbe impiegare pianificatori industriali e ingegneri che identifichino le opportunità di mercato, elaborino studi di fattibilità, sviluppino prototipi e accompagnino la nascita di nuove attività. Pianificherebbe attività che soddisfino le necessità identificate della comunità, organizzerebbe i finanziamenti, assumerebbe e addestrerebbe i  lavoratori e l’amministrazione iniziali, e li consiglierebbe mentre diventano operativi.  Una volta che le entrate generate e le capacità dei lavoratori consentano l’autogestione, l’attività rimborserebbe il finanziamento alla banca e quel denaro ritornerebbe alla banca per finanziare altre attività.  Anche se particolarmente adatto alle cooperative di lavoro, questo stesso processo potrebbe essere utilizzato per creare piccole attività gestite dai proprietari, imprese pubbliche e società della comunità.

La banca potrebbe iniziare immediatamente sviluppando la rete di dettaglianti di cui Syracuse ha bisogno nei quartieri dei suoi distretti industriali, forse partendo dalle drogherie da molto assenti, avendo abbandonato la città in tutti i suoi più di 30 quartieri, salvo tre.  L’ufficio sviluppo della Banca Municipale di Sviluppo potrebbe pianificare tali attività, organizzarne il finanziamento, assumere i lavoratori e gli amministratori iniziali, e consigliarli mentre avviano l’operatività.  Quando l’attività fosse operativa, potrebbe essere venduta alla cooperativa dei dipendenti, o forse a una cooperativa ibrida di lavoratori e consumatori poiché i consumatori potrebbero voler aver voce in capitolo riguardo ai prodotti.  I pianificatori industriali potrebbero  rilevare che avrebbe senso economico sviluppare una rete a livello cittadino di negozi di quartiere con acquisti e magazzini condivisi, piuttosto che drogherie indipendenti quartiere per quartiere.

La banca svolgerebbe anche un ruolo chiave nello sviluppare imprese manifatturiere e agricole verdi sofisticate, uno dei due settore manifatturieri (oltre alle società legate alla difesa) in cui insieme di società e di istituti universitari di ricerca esiste già nell’area, concentrate sull’energia rinnovabile, i servizi ambientali, la qualità dell’area all’interno degli edifici e altra ingegneria ambientale.

Imparare dal modello Mondragon

Il modello principale, qui, è la Mondragon Cooperative Corporation nella regione basca della Spagna e il suo ruolo centrale svolto nel suo sviluppo dalla sua banca cooperativa.  Le cooperative sono iniziate nel 1956 a Mondragon, una piccola città di 23.000 abitanti, con cinque cooperativa che fabbricavano elettrodomestici da cucina.  Nel 2007 erano cresciute in una rete di 150 cooperative di lavoro, l’80% delle quali industriali o ingegneristiche, con oltre 104.000 dipendenti.  Le cooperative costituiscono la più vasta base manifatturiera in Spagna. La rete ha anche sviluppato la più grande catena di drogherie e negozi al dettaglio di proprietà spagnola, che è una cooperativa ibrida di lavoratori e consumatori che conta 500.000 membri.  La banca cooperativa di Mondragon ha avuto anch’essa 500.000 membri con quasi 400 filiali in tutta la Spagna.  La Mondragon Cooperative Corporation, nel 2007, ha avuto 23,6 miliardi di dollari di vendite e attivi per 46,3 miliardi di dollari.

Al centro di questo rapido sviluppo nel corso degli ultimi 50 anni c’è stata la banca cooperativa. Fino al 1991 la banca aveva un ufficio prestiti al consumo e un ufficio imprenditoriale per lo sviluppo di nuove cooperative. Quando le cooperative di Mondragon hanno cominciato a confrontarsi con una maggiore concorrenza delle grandi multinazionali con l’ingresso della Spagna nell’Unione Europea, hanno deciso nel 1991 di riorganizzare le funzioni della banca. La banca cooperativa avrebbe continuato a concentrarsi sui prestiti al consumo e alle imprese. Ma il finanziamento di nuove cooperative è stato trasferito a una nuova istituzione, il Fondo Centrale Intercooperativo, che è stato finanziato con il 10% del reddito netto annuale delle cooperative che in precedenza andava alla banca cooperativa. Compito del Fondo Centrale Intercooperativo è offrire alle nuove cooperative capitale di rischio a lungo termine. Le funzioni di assistenza tecnica in precedenza assicurate dalla banca cooperativa sono state trasferite a cooperative di consulenza e progettazione.

Quella che più impressione è la percentuale di successo delle nuove cooperative. Solo poche delle quasi 150 cooperative avviate dal sistema Mondragon sono fallite, in confronto a un tasso di fallimento superiore al 90% per le nuove aziende negli Stati Uniti.  La loro pianificazione industriale ha una completezza leggendaria,  producendo piani delle dimensioni di volumi pieni di dettagliati analisti qualitative e quantitative. Questa solida pianificazione ha consentito alle cooperative di adattarsi rapidamente alle tecnologie in rapido cambiamento e di essere all’avanguardia nel  cogliere nuove opportunità. Attualmente si stanno espandendo nel settore dell’energia solare, eolica e dell’idrogeno e si attendono  che un quarto dei prodotti che le cooperative realizzeranno nel 2012 non siano ancora in produzione.

Un’altra caratteristica che impressiona è il modo in cui le cooperative mantengono i propri membri al lavoro o in addestramento negli alti e bassi dei cicli economici.  Quando gli affari declinano in una cooperativa, i lavoratori membri sono trasferiti, e riaddestrati se necessario, a lavorare in altre cooperative. Quando una cooperativa incontrasse difficoltà gravi, il 20% della forza lavoro sarebbe scelto a sorte per rimanere a casa un anno con l’80% della paga e addestramento gratuito per altri lavori.  Se la cooperativa restasse in difficoltà anche l’anno successivo, un altro 20% sarebbe scelto a sorte per restare a casa un anno e il 20% iniziale tornerebbe al lavoro. Queste misure hanno funzionato e le cooperativa oggi fioriscono (http://www.yesmagazine.org/issues/the-new-economy/mondragon-worker-cooperatives-decide-how-to-ride-out-a-downturn).

Il sistema Mondragon non è perfetto. L’alienazione è un problema, specialmente nelle cooperative più grandi, anche se minore che in imprese capitaliste comparabili.  Anche se i membri sono lavoratori e proprietari, le distinzioni di classe basate sulle gerarchie occupazionali e sulle disparità di reddito tra amministrazione e operativi restando un problema.  Ma, di nuovo, in confronto con le imprese capitaliste, le distinzioni sono molto ridotte.  Il rapporto di reddito tra gli operativi meno pagati  e gli amministratori più pagati è di 1 a 8 nel complesso Mondragon, in confronto all’1 a 300-500 dell’ultimo decennio nelle imprese capitaliste USA.

Lo sviluppo più sconcertante della Mondragon Cooperative Corporation è stato la sua acquisizione di imprese capitaliste e partecipazioni in imprese capitaliste in Spagna e all’estero in 16 paesi, compresi  il Marocco, il Brasile e la Cina.  Quasi metà delle 256 società che compongono la Mondragon Cooperative Corporation  (MCC) non è costituita da cooperative e un terzo dei lavoratori non è socio di cooperative.  La concorrenza globale, considerazioni relative alle valute, ai dazi e ai fornitori sono state un fattore comune nel decidere di acquisire sussidiarie capitaliste.  Questi sviluppi hanno creato un dilemma morale per i cooperatori della Mondragon, dilemma che devono ancora risolvere.  A gennaio 2009, il Congresso Cooperativo annuale della MCC ha votato per aprire l’azionariato a non baschi in altre regioni della Spagna.  Come offrire l’ammissione a soci a lavoratori di sussidiarie straniere è tema in corso di approfondimento dal Congresso del maggio 2003 dove è stato deciso, come primo passo,  di trovare modi per far partecipare i dipendenti alla proprietà e all’amministrazione delle loro società non cooperative. Ma convertire tali società in cooperative sarà un problema dato che la maggior parte dei paesi non ha leggi che riconoscono le cooperative di lavoro o un movimento e una cultura cooperativa su cui basare le cooperative.

Considero questi limiti del modello Mondragon come problemi da evitare o risolvere, non come motivi per rifiutare il modello in toto.  Quel che risulta più avvincente nel modello per una città depressa come Syracuse è la sua poderosa capacità di sviluppo, centrata su una divisione imprenditoriale della banca cooperativa.

Penso che sia sensato per una Banca Municipale di Sviluppo iniziare con il modello originale a due divisioni della banca cooperativa Mondragon, con la sezione dedicata ai consumatori che accoglie depositi e concede prestiti al consumo e alle piccole imprese costruendo così il sostegno alla banca nel suo complesso, compresa la sezione dedicata all’assunzione di maggiori rischi delle imprese, comprese le partecipazioni al capitale finalizzate a specifici progetti [venture capital].

Una Banca Municipale di Sviluppo non cambierà l’economia di una città dall’oggi al domani.  Ma è un modo per cominciare.  Dovremmo riflettere su questo nello spirito di un notevole parere di Andre Duany, il pianificatore cittadino del New Urbanist, che ha affermato: “Ciò di cui la città ha bisogno è il lavoro lento e paziente di un’amministrazione eccellente e di molti piccoli investitori.”  Una Banca Municipale di Sviluppo finalizzata a promuovere le cooperative potrebbe essere parte significativa dell’ “amministrazione eccellente”  che è mancata.  I cittadini  di città come Syracuse possono  investire il proprio lavoro nella propria comunità anche senza avere soldi da investire. Lavorando nelle cooperative possono trasformare il proprio sudore in azioni, ricchezza per le proprie famiglie e per la comunità, invece di vederla risucchiata da proprietari assenti di società capitaliste.

Altri modelli

Per quanto sono stato capace di scoprire, nessuna municipalità ha avviato una banca di sviluppo con la missione di sviluppo imprenditoriale che sto proponendo qui.  Nel 2001 Matt Gonzalez, all’epoca membro per il Partito Verde del Consiglio dei Supervisori di San Francisco, ha ottenuto l’approvazione di una mozione che chiedeva che l’Ufficio degli Analisti Legislativi del consiglio effettuasse una ricerca sulle banche municipali esistenti.  Il documento risultante (  http://www.sfgov.org/site/bdsupvrs_page.asp?id=5022 ) ha rilevato alcuni esempi di banche municipali nel mondo.  La maggior parte aveva la funzione di intermediario finanziario per la collocazione dei titoli municipali, comprese molte banche dell’Europa occidentale, del Maine, del Vermont e di Giacarta, Indonesia, anche se quest’ultima all’epoca era stata privatizzata.  Un governo democristiano aveva creato la Bankgesellschaft di Berlino, in Germania, subito dopo la riunificazione.  Era una banca di sviluppo della comunità, di proprietà della città per il 56%, con una concentrazione sul finanziamento di imprese culturali e sociali, non sullo sviluppo economico, e nel 2001 stava sperimentando difficoltà finanziarie.  In Cina c’era la Banca Commerciale Municipale di Beijing, concentrata sui depositi e i crediti al consumo.  . In Russia c’erano la Banca di Mosca per la Ricostruzione e lo Sviluppo che era proprietaria, in tutto in parte, di 200 aziende e la Banca di Mosca. Ma è chiaro, da altre fonti, che tale banca è un pilastro degli oligarchi finanziari capitalisti statali della nuova Russia, non un modello di socialismo (vedere, ad esempio, http://www.washingtonpost.com/wp-srv/inatl/longterm/russiagov/stories/moscow121997.htm ).

Ci sono alcune banche municipali anche in Scozia che operano rigorosamente come istituti di deposito, non come istituti di credito, in modo molto analogo al vecchio sistema statunitense del Risparmio Postale dal 1911 al 1966 che offriva depositi sicuri a interessi per i risparmi di chi non era servito da altre istituzioni bancarie.

La Community Bank of the Bay è una banca comunale di sviluppo che è per il 10% di proprietà della citta di Oakland. Offre finanziamenti per lo sviluppo economico locale ma non il tipo di assistenza tecnica e imprenditoriale che offre il sistema cooperativo di Mondragon (vedere http://www.communitybaybank.com/).

In realtà abbiamo un esempio di speciale successo nel settore delle banche pubbliche negli USA: la Bank of North Nakota, di proprietà dello stato. Fondata nel 1919, dopo che i socialisti e i populisti della Nonpartisan League [Lega Apartitica] erano saliti al potere, ha il compito di “incoraggiare e promuovere l’agricoltura, il commercio e l’industria” nel North Dakota. In base alla legge dello stato, si tratta dello Stato del North Dakota che opera economicamente sotto l’insegna della Bank of North Dakota.  Tutti i fondi statali e i fondi delle istituzioni statali devono, per legge, essere depositati presso la Bank of North Dakota, anche se vengono accettati depositi di qualsiasi fonte.  Da quando è stata fondata, la banca ha girato ogni anno utili allo stato e né i Democratici né i Repubblicani hanno mai proposto di privatizzare questa banca gestita con successo dal governo.  La Bank of North Dakota non offre assistenza tecnica e imprenditoriali in proprio come nel modello Mondragon, ma è realmente un esempio positivo di impresa pubblica che contraddice la panzana che circola negli USA circa il fatto che il governo non è in grado di gestire bene nulla.

Un altro modello cui attingere è la rete di cooperative sviluppata con il sostegno municipale delle amministrazioni locali di sinistra nella regione Emilia Romagna, circostante la città di Bologna, che ha trasformato quella regione da una delle più povere d’Europa a una delle più ricche successivamente alla seconda guerra mondiale. Per legge il 3% dell’utile netto va a un fondo per finanziare nuove cooperative. Le cooperative italiane impiegano più di 250.000 dipendenti, principalmente nell’industria manifatturiera e nell’edilizia. Una delle caratteristiche notevoli delle cooperative di produzione in Italia è la loro rete flessibile di produzione che consente a cooperative, di dimensioni da piccole a medie, di lavoratori altamente specializzati di combinarsi e ricombinarsi per evadere piccoli ordini da tutto il mondo di parti industriali  su misura. Questo tipo di flessibilità del lavoro da maggiore sicurezza del posto ai lavoratori.  Queste reti flessibili di produzione possono essere trasferite a servizi ambientali, di progettazione e a distretti di produzione in sviluppo nella regione di Syracuse.

Le banche comunali del Venezuela

Queste nuove istituzioni sono banche di quartiere di proprietà sociale.  Il loro capitale proviene dal bilancio nazionale e il governo nazionale incoraggia altri apporti dai bilanci statali e municipali.  Sono descritte dal governo venezuelano come “il braccio finanziario del potere popolare”, istituzionalizzate nelle assemblee e consigli comunali. Le banche comunali sono fondate dal Fondo nazionale per lo Sviluppo Microfinanziato (FONDEMI) che offre assistenza tecnica per la loro creazione.  La loro missione consiste nel finanziare piccole aziende e cooperative, infrastrutture e progetti di servizi comunitari e nel concedere crediti al consumo per miglioramenti delle abitazioni e per emergenze personali, così come nell’offrire assistenza tecnica e addestramento per la predisposizione dei bilanci comunali e per lo sviluppo delle imprese.  I loro funzionari sono membri dei consigli comunali, che sono eletti dalle assemblee comunali di 200-400 famiglie nelle aree urbane e di 10-40 famiglie nelle aree rurali e nelle comunità indigene.

Quando il settore è stato avviato, tre anni fa, sono state fondate 250 banche comunali.  Oggi ci sono circa 3.400 banche comunali con un bilancio complessivo di 1,6 miliardi di dollari. Le banche comunali danno assistenza allo sviluppo di cooperative, il cui sviluppo è sostenuto dalla Sovrintendenza Nazionale delle Cooperative  (SUNACOOP). A tutta la metà del 2006 sono state registrate presso il SUNACOOP più di 100.000 cooperative con un 1,5 milioni di soci.

Il presidente Hugo Chavez ha descritto la finalità delle banche comunali l’11 giugno 2009: “Fin dall’inizio, le banche comunali sono state una parte essenziale del progetto il cui scopo consiste nel trasferire il potere al popolo e alle comunità, quale espressione di come il socialismo possa essere costruito partendo da piccole cose, dalle fondamenta, per consentire l’accesso degli esclusi alla democrazia” (Agenzia di Stampa Bolivarista, “Banche Comunali: tre anni di trasferimento del potere al popolo.”, 22 giugno 2009).

Ciò che sembra più rilevante, nel modello venezuelano,  per una banca municipale di sviluppo in una città come Syracuse è la sua struttura democratica incentrata sulla base.  Una struttura federata fondata su assemblee di quartiere sembra l’ideale per amministrare una banca municipale.  Al posto di un consiglio nominato dal sindaco e dal consiglio comunale, o eletto in generale dagli elettori della città, un consiglio di amministrazione composto da rappresentanti eletti da assemblee di quartiere, in ciascuno dei circa 30 quartieri, amministrerebbe in modo più democratico la banca municipale di sviluppo.  A sua volta la banca potrebbe trasferire una parte del suo capitale di finanziamenti alle assemblee di quartiere su base pro capite per finanziare miglioramenti dei quartieri.  Il consiglio di amministrazione dovrebbe anche, sul modello della banca cooperativa di Mondragon, includere membri eletti dalle cooperative affiliate che contribuiscono con il 10% del loro utile netto alla banca cooperativa.

Sviluppare assemblee di quartiere e intergrarle nella struttura dello statuto e del governo della città è un’altra richiesta del Partito Verde di Syracuse, che tuttavia può non precedere la creazione di una banca municipale di sviluppo.  Dovremo occuparci di tale complicazione quando ci arriveremo.

Cooperative di lavoro

Le cooperative di lavoro sono particolarmente adatte allo sviluppo di cui abbiamo necessità in un città economicamente depressa come Syracuse. In una cooperativa di lavoro ogni lavoratore è un proprietario con diritti all’amministrazione e al reddito.  I diritti di amministrazione sono esercitati mediante il voto capitario nel decidere le politiche fondamentali e, nella cooperative più grandi, eleggendo il consiglio di amministrazione che a sua volta assume e controlla la direzione.  Il diritto al reddito significa che i lavoratori ricevono quote del reddito netto dell’impresa in proporzione al lavoro che ciascuno apporta.  Questa forma di organizzazione economica ha molti vantaggi per lo sviluppo economico.

Distribuisce reddito, ricchezza e proprietà in modo più vasto di altre forme d’impresa.  Fa crescere le persone così come fa crescere l’economia.  Quando ci si aspetta che le persone agiscano da proprietari è molto più probabile che esse lo facciano.  Il loro reddito dipende dall’essere sia amministratori responsabili  sia lavoratori efficienti.  Le cooperative crescono soltanto a una dimensione in cui le economie di scala massimizzano il reddito netto di ciascun lavoratore. Nelle imprese capitaliste l’obiettivo sociale è massimizzare la massa totale dei profitti, il che può avere come conseguenza una crescita oltre il livello ottimale di reddito netto per ciascun lavoratore.

Queste caratteristiche delle cooperative di lavoro fanno sì che esse tendano ad avere una produttività maggiore.  Un’analisi ha rilevato che le cooperative Mondragon avevano una produttività del 75% maggiore rispetto a quella di  grandi imprese capitaliste comparabili e del 40% superiore a quella di imprese capitaliste piccole e medie.  (Henk Thomas e Chris Logan, ‘Mondragon: An Economic Analysis’ [Mondragon: un’analisi economica] Boston, 1982).  La struttura incentivante delle cooperative di lavoro incoraggia una produttività maggiore.  In primo luogo le cooperative non crescono oltre l’economia di scala ottimale a motivo del loro obiettivo di massimizzare i profitti totali per lavoratore, mentre le imprese tradizionali continuano a crescere nella loro ricerca dei profitti totali massimi anche se ciò comporta diseconomie di scala che danneggiano la produttività. In secondo luogo, un lavoro più efficiente significa un reddito maggiore per i lavoratori delle cooperative, mentre un lavoro più efficiente non migliore il reddito del lavoro orario in una impresa capitalista.  In terzo luogo, le dimensioni più contenute e umane e l’amministrazione democratica delle cooperative significa un ambiente di lavoro migliore, minor alienazione e minor gestione del personale.

La dimensione minore delle cooperative tende a rendere più agevole l’ingresso sul mercato di nuove cooperative quando è necessaria nuova occupazione.  Per tutti questi motivi, la banca municipale di sviluppo dovrebbe dare priorità allo sviluppo di cooperative di lavoro.

Cercasi: un movimento socialista indipendente

Il maggior ostacolo alle banche municipali di sviluppo nelle città statunitensi può non essere la lotta politica per ottenerne l’avvio, bensì il reclutamento di personale qualificato per gestirne il braccio imprenditoriale.  La cultura e l’”etica” del capitalismo pervadono non solo coloro che dispongono di competenze direzionali , ma anche la classe lavoratrice.

Numerose ondate di movimenti per lo sviluppo economico comunitario, la proprietà ai dipendenti e le cooperative sono sorte sono scomparse negli USA dagli anni ’60.  In ciascuna ondata uno dei problemi ricorrenti è stata la carenza di quelli che sono finiti per essere definiti “imprenditori sociali”: persone con un addestramento negli affari, in economia o nella progettazione che scelgano di lavorare, di solito per una paga inferiore, per imprese economiche alternative anziché per imprese capitaliste.  L’ “etica” capitalista che elogia la massimizzazione del progresso del singolo  rispetto al progresso della comunità ha anche influito sull’impegno a lungo termine dei partecipanti della base negli obiettivi dei progetti di sviluppo della comunità, di varie forme di proprietà dei dipendenti e delle cooperative.  Lo spirito della comunità e della cooperazione si è innalzato in ogni onda di movimento solo per ricadere altrettanto rapidamente col rifluire  dell’onda.

Da 22 anni di esperienza personale nel settore delle costruzioni so che lavorare in una cooperativa è meglio che essere dipendente di un appaltatore, nel qual caso la paga è troppo bassa, oppure essere l’appaltatore, nel qual caso il reddito può essere più elevato, ma il carico di lavoro è divorante. Nella cooperativa di lavoro che contribuii a costituire con un gruppo di giovani attivisti antinucleari che erano dedicati sia all’energia rinnovabile sia alle cooperative, ricevetti il esattamente il reddito che sentivo di essermi guadagnato senza sopportare l’intero onere direzionale di tenermi aggiornato sulle tecnologie e tecniche di lavoro più recenti, di preparare le offerte, di controllare il lavoro, la contabilità e di preparare le carte relative alle paghe e al fisco.

La nostra cooperativa di lavoro era incentrata su verifiche e aggiustamenti  a fini di efficienza di applicazioni solari ed eoliche.  Quando l’amministrazione Reagan revocò le sovvenzioni per le applicazioni a buon mercato e i crediti d’imposta per quelle più costose, per quanto modeste fossero le agevolazioni, il nostro mercato si contrassi tremendamente.  La cooperativa si sciolse con alcuni dei membri che tornarono agli studi e altri, come me, che restarono nel settore come dipendenti e/o appaltatori.  Ho cercato ripetutamente, ora occupandomi prevalentemente di costruzioni e ristrutturazioni abitative, di interessare i lavoratori che avevo assunto a formare una cooperativa di lavoro.  Ma non ho trovato adesioni.  L’intera esperienza di questi lavoratori era da dipendenti di appaltatori o da appaltatori essi stessi. L’idea della cooperativa era per loro una pia illusione.

Negli anni ’90 ho lavorato per una federazione di cooperative e per organizzazioni comunitarie che cercavano di sviluppare cooperative nei quartieri a basso reddito di Syracuse. Era difficile conservare i finanziamenti delle organizzazioni socie o quelli delle fondazioni.  Avevano poca fiducia che le cooperative potessero contribuire in misura significativa allo sviluppo economico.  Era anche difficile cambiare le aspettative delle persone che cercavo di organizzare in cooperative, persone le cui esperienze erano in società capitaliste o in organizzazioni non a scopo di lucro finanziate dal governo a da contributi di fondazioni. Spesso coloro che cercavo di organizzare sceglievano di creare un’organizzazione non a fini di lucro per ricercare sovvenzioni e fornire servizi anziché creare una cooperativa che generasse le sue proprie entrate fornendo beni e servizi.

Quello che ricavo da questi esperienze negli ultimi quarant’anni è che ciò che ci manca negli Stati Uniti è un movimento socialista organizzato che sia indipendente dal Partito Democratico e dalla sua miriade di satelliti non a scopo di lucro, gruppi di sostegno che nonostante il loro status apartitico di fatto contano sull’elezione e sulle pressioni dei Democratici per ottenere riforme.  In pratica questa strategia si traduce, anche per attivisti che in privato sono socialisti, nell’abbandonare tutte le critiche sistemiche del capitalismo e gli argomenti a favore del socialismo nell’attività pubblica nell’interesse dell’essere attori politici “realisti” che saranno “presi sul serio” dai politici Democratici. Ma poiché non pongono alcuna minaccia di portare i loro voti altrove, hanno poca influenza sulle politiche che i Democratici perseguono.  Così questi attivisti non sono realisti per niente.  Nel frattempo la causa contro il capitalismo e a favore del socialismo non ha uditorio nelle vaste arene pubbliche, ma solo ai margini delle accademie, in un piccolo universo di media di Sinistra e in un piccolissimo gruppo di organizzazioni socialiste piccolissime.

Quello in cui i movimenti decollano è un momento piuttosto misterioso. Il materiale infiammabile può essere dovunque e possono volare le scintille, ma è impossibile predire quando una scintilla alla fine accenderà un fuoco.  Ma ciò che è necessario per avviare un movimento non è così misterioso. La prima cosa è che le sue idee devono essere diffuse, non tenute di riserva per quando “miglioreranno le condizioni oggettive”.  La seconda cosa è che coloro che diffondono le idee devono organizzarsi. Gli Stati Uniti sono pieni di “socialisti” privati disorganizzati.  Ma che tipo di socialista è uno che non è attivo in un’organizzazione socialista?

La richiesta di una banca municipale di sviluppo è il tipo di richiesta che i socialisti possono avanzare nelle città statunitensi depresse per promuovere l’idea socialista e organizzare i socialisti attorno ad essa.  Non è necessario che l’etichetta “socialista” compaia dovunque al riguardo.  A Syracuse la promuoviamo come Verdi per una Banca Municipale di Sviluppo, non come Socialisti per una Banca Cittadina Socialista.  Gli elementi importanti sono la sostanza della richiesta e l’indipendenza politica dell’organizzazione che la avanza.  E’ una richiesta di transizione: non una richiesta di un “socialismo” astratto, bensì di un modo concreto per creare occupazione e sviluppo economico in una città che ha disperato bisogno di più lavoro e più attività.

Se l’idea comincerà a far presa, come la nostra campagna per servizi energetici municipali, i nostri oppositori cercheranno di scartarla in quanto “socialista”.  Possiamo contare sulla Destra (che comprende i politici Democratici filocapitalisti) per questo.  Potremo essere orgogliosi, a quel punto, che ci prendano abbastanza sul serio da attaccarci e da darci l’occasione per sostenere che se questo programma “socialista” funziona meglio, tanto meglio per il socialismo.  Secondo l’espressione famosa attribuita a Gandhi: “Prima ti ignorano. Poi ti ridicolizzano. Poi ti combattono. E alla fine tu vinci.”

Avanzerò questa richiesta di una Banca Municipale di Sviluppo come candidato Verde alle elezioni generali di novembre del Consiglio Comunale di Syracuse. Potrete vedere come presenteremo questa richiesta e seguire la campagna su www.howiehawkings.org

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/municipal-development-bank-by-howie-hawkins

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Il saccheggio dell’Europa ad opera della Goldman Sachs

19 lunedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, mike carey

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BCE, crisi europea, Goldman Sachs, grecia, Italia

di Mike Carey– 18 dicembre 2011

Non voglio suonare allarmistico ma sembra quasi che la Goldman Sachs si sia impadronita dell’Europa. Il continente ha finito per soccombere ai dettati della finanza globale, non c’era altra scelta. I banchieri ci ricattano tutti e lo stanno facendo sin dall’inizio della grande crisi finanziaria del 2008.

La reazione del governo tedesco al proprio disastroso collocamento di buoni di una settimana fa offre un grosso indizio riguardo ai giochi multimiliardari giocati nelle sale dei consigli d’amministrazione da New York a Francoforte.  L’economia più potente e resistente d’Europa non è stata in grado di ricevere un’offerta per il 35% dei suoi buoni decennali in asta. Gli osservatori affermano che si è trattato di un avvertimento dei banchieri, da entrambe le sponde dell’Atlantico: “Fa’ quel che diciamo noi, sennò …”

La Germania, attraverso il suo ministro delle finanze Wolfgang Schaeuble, era stata in prima linea nell’esigere che le banche condividessero le perdite derivanti dai salvataggi sovrani che derivassero dal Meccanismo Europeo di Stabilità, previsto in vigore dall’anno prossimo.  L’asta dei titoli di stato tedeschi fallita è stata la secca risposta delle banche e Schaeuble ha dovuto fare marcia indietro.

Sin dall’inizio della crisi europea le banche hanno brigato. Si ricordi quando l’ex primo ministro greco, George Papandreou, annunciò un plebiscito per ottenere l’assenso popolare al suo piano d’austerità e i mercati sono impazziti e lui è stato scorticato. Sono stati i mercati e le banche, non il popolo greco, ad approvare la sentenza e lui se n’è dovuto andare.

Al di là del Mar Ionio l’ex primo ministro Silvio Berlusconi non aveva fatto abbastanza per soddisfare gli egoisti fantini degli schermi e loro hanno rivolto le loro armi, gli operatori in titoli, le agenzie di rating lecchine e gli speculatori azionari contro l’Italia. Correva voce che Berlusconi si stava dimettendo e la borsa saliva. No, non se ne stava andando, e la borsa scendeva di nuovo con la promessa che sarebbe salita alle stelle quando alla fine, e inevitabilmente, si è piegato alla massiccia pressione finanziaria per le sue dimissioni.  Come la notte segue il giorno, è stato sostituito da un eufemismo, un tecnocrate.  Non ci sono stati da nessuna parte discorsi riguardo ai desideri o diritti degli elettori.

Tutto ciò avrebbe potuto essere mitigato, se non addirittura evitato, se l’amministrazione Obama avesse messo in riga i banchieri tre anni fa incarcerando una dozzina, o giù di lì; ora è troppo tardi! Ma naturalmente ciò non sarebbe mai accaduto visto che la nuova squadra economica del presidente è stata ricavata dalla Goldman Sachs, o aveva forti legami con la banca. Con Summers, Rubin, Geithner e Emanuel a Washington comandava Wall Street.

E’ stato probabilmente per questo che nel 2008 la Goldman Sachs era troppo grande per essere incriminata.  Ha ricevuto più sovvenzioni e fondi di salvataggio di ogni altra banca d’investimento. E come ha ringraziato la Goldman Sachs il popolo statunitense per la sua generosità? Utilizzando miliardi di dollari dei contribuenti per arricchirsi e ricompensare i suoi dirigenti di vertice che, secondo quanto riferito, hanno ricevuto aumenti di paga e bonus incredibili pari a 18 miliardi di dollari nel 2009, 16 miliardi di dollari nel 2010 e 10 miliardi di dollari nel 2011.

Nel frattempo la Goldman Sachs si è sbarazzata di miliardi in titoli spazzatura contribuendo a distruggere l’economia globale. La società ha fuorviato gli investitori riguardo alla vera natura di questa spazzatura e ha celato il fatto che stava scommettendo contro questi stessi titoli. Viene riferito che soltanto in uno di questi contratti la Goldman Sachs ha rastrellato 2 miliardi di dollari.

Torniamo al 2002. La Goldman Sachs acquistò di nascosto 2,3 miliardi di Euro del debito greco, lo convertì in yen e dollari e poi lo rivendette immediatamente alla Grecia, apparentemente in perdita.  La Goldman Sachs aveva concluso un accordo segreto con l’allora governo del libero mercato per celare l’enorme deficit di bilancio.  La perdita confezionata della Goldman era l’immaginario utile della Grecia, semplicemente per soddisfare le richieste dell’Europa che il suo debito non superasse mai il 3% del PIL.  Ora viene riferito che la Goldman realizzò 250 milioni di dollari di commissioni sul contratto e un colpo grosso sull’assicurazione contro il rischio d’insolvenza venduta ai detentori di titoli di stato greci a copertura dell’eventualità che il paese finisse in rovina.

Apparentemente ciò divenne noto al primo ministro George Papandreou e al suo governo socialista quando salirono al potere e gli investitori richiesero tassi d’interesse mostruosi per prestare ulteriore denaro o rinnovare tale debito.

E, dunque, chi è che salverà l’Europa e, per estensione, anche noi?

Il nuovo presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Mario Draghi, conosce bene il campo di gioco.  Dopo tutto è stato vicepresidente e direttore operativo della Goldman Sachs International  a Londra e membro del Comitato di Gestione della Goldman Sachs. Presentandosi al comitato finanziario del Parlamento Europeo è stato rapido nel puntualizzare che tra il 2002 e il 2005 il suo ruolo non aveva implicato la vendita di strumenti finanziari ma era stato soprattutto consultivo.

Mario Draghi è stato anche titolare di posizioni a livello di consiglio di amministrazione o più elevate presso la Banca Mondiale, la Banca d’Italia, la Banca per i Regolamenti Internazionali, la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo e la Banca Asiatica per lo Sviluppo (Asian Development Bank).

Ha sottolineato molte volte che non è compito della BCE agire da prestatore di ultima istanza degli stati, ma Draghi è assolutamente lieto di promettere illimitata liquidità alle banche.  Mentre tutti lo sollecitavano ad acquistare titoli governativi riequilibrare la barca lui sottolineava che gli acquisti di titoli da parte della BCE sarebbero stati limitati e temporanei.  In effetti qualsiasi altra operatività sarebbe stata illecita secondo la legge europea.  Secondo il Wall Street Journal del 28 novembre “la BCE ha a lungo temuto che acquistare titoli governativi per importi sufficientemente elevati per abbassare i costi di finanziamento dei paesi avrebbe potuto rendere più facile ai politici nazionali ritardare i bilanci d’austerità e le correzioni economiche che sono necessarie.”

E allora pigliatevi la medicina, scemi!

Mario Monti, il nuovo primo ministro italiano è stato nominato dai mercati, non eletto dal popolo. E, indovinate, prima di ciò è stato membro del Consiglio dei Consulenti Internazionali della Goldman Sachs e membro della Commissione Europea, uno degli organismi di governo dell’Unione Europea.  Monti è presidente europeo della Commissioni Trilaterale, un’organizzazione statunitense che promuove gli interessi USA e membro fondatore del gruppo Spinelli, creato per promuovere l’integrazione europea.

Anche in Grecia un banchiere non eletto è stato incoronato primo ministro nuovo di zecca.

Dal 1994 al 2002 Lucas Papademos è stato governatore della Banca di Grecia al tempo in cui la Goldman Sachs stata contribuendo a mascherare il deficit del paese.  Se non sapeva cosa stava succedendo, avrebbe dovuto saperlo.  Nel periodo 2002-2010 è stato vicepresidente della Banca Centrale Europea ed è anche membro della Commissione Trilaterale statunitense.

E anche se il primo ministro non è stato dipendente della Goldman Sachs, il presidente dell’Agenzia per l’Amministrazione del Debito Pubblico greco, Petros Christodoulos, è stato intermediario nelle operazioni della banca a  Londra.

Tutti concordano sul fatto che il rimedio migliore per le disgrazie dell’Europa consisterebbe nel fatto che la BCE acquistasse titoli del debito italiano e greco in misura sufficiente a mantenere i tassi d’interesse a un livello ragionevole.  Il presidente della BCE Draghi si rifiuta di muoversi sino a quando, dicono gli osservatori, la crisi non sarà tanto brutta da consentirgli di imporre il tipo di pacchetto che allargherebbe il cuore a ogni vero neoliberale: privatizzazione del patrimonio pubblico, sottomissione dei sindacati, reti di assistenza sociale e sovranità consegnate a tecnocrati non eletti. Giovedì Mario Draghi ha presagito questo attacco alla socialdemocrazia europea sollecitando un “nuovo accordo fiscale” e ora il presidente francese Sarkozy e il cancelliere tedesco Angela Merkel passano doverosamente a rimodellare il trattato che regola il governo economico del continente.

Ho visto questa austerità da stretta della cinghia negli anni ottanta quando il FMI detto al Brasile ciò che doveva tagliare per rimborsare il suo debito nei confronti di un  consorzio di banche statunitensi ed europee e della Banca Mondiale.  Ci vollero anni di sofferenza perché il vulcano dell’America Latina si riprendesse dalla sua castrazione economica.  La settimana scorsa ho sentito un commentatore finanziario descrivere la situazione attuale come il mercato che si sceglie la preda più debole mentre ciascuno dei paesi PIIGS è sotto attacco sostenuto.  La natura predatrice della bestia può considerare introdotti i piani d’austerità e le banche europee salvate, ma noi continuiamo a finire nella Seconda Grande Depressione che dovevamo avere. Dovevamo avere? Non c’è altro modo ora per ripulire il sistema, per gettare gli strozzini fuori dal tempio.

—-

Mike Carey è un giornalista vincitore del premio Walkley e produttore che è stato produttore esecutivo per otto anni della SBS Dateline.  Ha lavorato per ABC, SBS, e Al Jazeera vivendo nell’Asia Sud-orientale e in Brasile.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/the-goldman-saching-of-europe-by-mike-carey

Originale: Australian Broadcasting Corporation

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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La crisi dell’Europa e il “successo” della Latvia

18 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Mark Weisbrot

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austerità, BCE, crisi economica, Eurozona, FMI, Latvia, ripresa, svalutazione interna, UE

di Mark Weisbrot  – 18 dicembre 2011

Nei mesi recenti alcuni sostenitori delle politiche d’austerità europee hanno reclamizzato la Latvia come una “storia di successo” che dimostra come “la svalutazione interna” può funzionare.  Questo era stato il tema di un libro pubblicato in precedenza quest’anno dall’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale, uno dei gruppi di esperti più influenti di Washington.  Il libro aveva come coautori Anders Aslund, dell’Istituto, e il primo ministro della Latvia, Valdis Dombrovkis.

Questo caso di studio è molto rilevante per l’Europa perché ci sono importanti somiglianze tra la strategia economica della Latvia a partire dal 2008 e quella promossa dalle autorità europee, la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), altrimenti note come “la Troika”.

A prima vista può sembrare ridicolo definire un “successo” una strategia economica se un paese perde il 24% della sua produttività – il dato mondiale peggiore relativamente al crollo del 2008-2009 – e la disoccupazione ufficiale balza dal 5,3% (2007) a più del 20% (inizio 2010).  Anche se la disoccupazione è ora tornata al 14,4% e l’economia sta crescendo (una stima del 4% per il 2011), si tratta di un prezzo esorbitante da pagare per una ripresa finale non molto rapida.  E’ un po’ come vantarsi del successo della flessione della Grande Depressione del 1929-1933 negli Stati Uniti.

Ma i sostenitori asseriscono che quello della Latvia è stato un successo perché ha mantenuto fisso il rapporto di cambio, legato all’euro. La tesi è che se il paese avesse cercato di perseguire politiche macroeconomiche espansionistiche – ad esempio spesa governativa anticiclica, tassi di interesse più bassi, e, quindi, anche una svalutazione – le conseguenze sarebbero state molto peggiori del peggior declino al mondo.  L’idea fondamentale è che la svalutazione avrebbe avuto effetti devastanti sul “bilancio”: molte famiglie e aziende che si erano indebitate in euro ma il cui reddito era in valuta locale  sarebbero finite in bancarotta, con effetti catastrofici sul sistema bancario, ecc.

Naturalmente è vero che ci sarebbero state gravi conseguenze negative dalla svalutazione nella situazione della Latvia, e perciò questo argomento non può essere “dimostrato” falso.  Tuttavia possiamo considerare l’esperienza di altri paesi che hanno avuto svalutazioni determinate da crisi e hanno sofferto tali perdite.  Per 13 paesi nel corso degli ultimi 20 anni, la perdita media di PIL successiva a una svalutazione è stata del 4,5% del PIL. Tre anni dopo, il paese medio era del 6,5% al di sopra del suo picco ante-svalutazione.

La Latvia, in confronto, non ha svalutato e – tre anni dopo – è tuttora del 21% sotto il proprio livello del PIL ante-crisi.

Dunque la tesi che “le cose sarebbero potute andare molto peggio” non sembra plausibile. Alcuni degli altri paesi hanno sofferto gravi crolli finanziari dopo la svalutazione, come l’Argentina che è stata quasi praticamente esclusa dal credito internazionale dopo la sua svalutazione e l’insolvenza del dicembre 2001-gennaio 2002.  Tuttavia l’Argentina è andata  molto bene dopo la sua svalutazione e insolvenza, con una contrazione iniziale dell’economia del 4,9% e una  crescita  superiore al 90% nei successivi nove anni. Ma tutti questi 13 paesi con svalutazioni determinate da crisi hanno fatto ampiamente meglio della Latvia.

I costi sociali in Latvia sono stati molto più elevati di quanto indichino le cifre ufficiali della disoccupazione. La disoccupazione/sotto-occupazione (comprendenti coloro che sono costretti a lavorare a tempo parziale o che sono stati espulsi dalla forza lavoro) ha toccato l’anno scorso un picco di oltre il 30%. E una percentuale della forza lavoro  stimata nel 10% ha lasciato il paese, un’emigrazione enorme sotto ogni raffronto e una perdita significativa per la Latvia.

Tutta questa disoccupazione e miseria non è un effetto collaterale della strategia della “svalutazione interna”, ma una parte fondamentale di essa.  L’idea di una “svalutazione interna” è che, con il cambio fisso, si devono spingere al ribasso i prezzi e specialmente i salari al fine di rendere il paese più competitivo internazionalmente.  Ciò viene fatto mediante una grave recessione e un’altissima disoccupazione. Il che fa parte dell’attuale strategia della Troika per rendere più competitive la Grecia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda.

Ironicamente, la “svalutazione interna” in Latvia non ha funzionato neppure secondo i propri termini. La debole ripresa dello scorso anno e mezzo deve poco o nulla alle esportazioni nette, che sarebbero state il motore della ripresa se la svalutazione interna avesse funzionato davvero e avesse reso più competitive le imprese del paese in concorrenza nelle esportazioni e importazioni. Sembra piuttosto che l’economia si sia ripresa perché il governo ha interrotto la sua stretta sul bilancio  dopo una contrazione economica enorme e perché c’è stata una vampata di inflazione che ha aiutato il paese a uscire dal suo caos deflazionistico.

Neppure nell’Eurozona funziona la “svalutazione interna”, in quanto l’area della moneta comune appare oggi in recessione, secondo le più recenti stime dell’OCSE.  L’altra parte della strategia della Troika, un soccorso da parte delle “fate della fiducia” nei mercati obbligazionari, sta facendo ancor peggio.  I mercati obbligazionari sembrano rendersi conto che l’austerità attuale e persino gli accordi per un’austerità fiscale meglio coordinata in futuro – cosa che le autorità europee hanno annunciato con gran fanfara la settimana scorsa – non faranno che aumentare il carico del debito dell’Eurozona.

Presto o tardi le autorità europee dovranno smettere di costruire quel ponte verso il diciannovesimo secolo e utilizzare la politica economica moderna per spingere fuori dalla recessione l’economia europea.  L’Europa non può permettersi di passare quel che ha passato la Latvia, né può permetterselo il mondo: una recessione più grave in Europa potrebbe creare una crisi finanziaria del tipo di quella che cui abbiamo assistito nel 2008.  Questo è il fuoco il quale stanno giocando oggi le autorità europee.

Mark Weisbrot è codirettore del Centro per la Ricerca Economica e Politica a Washington, D.C.  E’ anche presidente di Just Foreign Policy [Politica Estera Giusta].

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/europe-s-crisis-and-latvia-s-success-by-mark-weisbrot

Originale: The Guardian

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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OccupyWallStreet: un’introduzione al processo del consenso ed all’Assemblea Generale

18 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in America, Amy Goodman, Economia, Una Spenser

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assemblea generale, consenso, occupywallstreet, organizzazione

di Una Spenser –  8 ottobre 2011

Ho tenuto un diario delle mie esperienze presso #OccupyBoston qui e qui. Ciò che queste esperienze hanno messo in luce è che, mentre il movimento #Occupiamo si diffonde in centinaia di città degli Stati Uniti, sentiamo parlare di questi raduni chiamati “Assemblee Generali” e di “consenso”.  Ma cosa sappiamo davvero di queste cose?

Questo movimento è ispirato direttamente dalla Primavera Araba e dalle Campanadas in Spagna. Abbiamo visto il popolo egiziano riunirsi lentamente al Cairo come folla disorganizzata, assolutamente criticato dalle voci internazionali per essere soltanto una élite di giovani istruiti e per essere privo di capi e non avere obiettivi chiari.  Suona familiare?

Un punto di svolta è stato il giorno in cui hanno dispiegato, sul lato di un edificio, una lista di rivendicazioni che formulavano chiaramente i passi per passare dalla tirannia della brutale cleptocrazia di Mubarak a una società democratica più giusta. Poi i lavoratori hanno aderito alla loro causa e hanno cominciato a scioperare. Improvvisamente il mondo ha saputo che si trattava di una cosa seria.

Come sono passati dall’essere una “folla” disorganizzata priva di capi a essere un movimento galvanizzato con un piano grandioso? Hanno abbracciato un sistema di democrazia orizzontale noto come democrazia diretta e hanno utilizzato il Pensiero Collettivo.

Dal primo giorno, Piazza Tahrir è stata davvero un mini-esempio di quello che è la democrazia diretta.  La gente si è fatta carico di tutto; spazzatura, cibo, sicurezza. E’ stata un’entità autosufficiente. E in mezzo a ciò, sotto ogni tenda, a ogni angolo, la gente dibatteva le proprie rivendicazioni, il futuro, come le cose dovevano andare economicamente e politicamente. E’ stato affascinante. E’ stato uno specchio di ciò che l’Egitto avrebbe amato essere se fosse stato democratico. E si è sottratto allo stereotipo perpetuato dal regime e dai media occidentali circa il fatto che gli arabi sono supposti essere politicamente apatici.

In tale sistema non c’è gerarchia. Chiunque può formare un Gruppo di Lavoro per valutare le necessità e costruire possibili soluzioni. I Gruppi di Lavoro trasferiscono tali soluzioni possibili, come proposte, a un’Assemblea Generale perché l’intera comunità le prenda in considerazione. Il processo utilizzato per valutare una proposta è chiamato consenso.

Le cleptocrazie possono emergere da molte forme di governo. L’Egitto era un governo autocratico. Qui abbiamo una democrazia che si suppone rappresentativa, tuttavia quella che è in vigore è in realtà una cleptocrazia.  Ogni volta che si assiste a disparità di reddito come quelle che abbiamo qui, è in vigore una cleptocrazia. Se il sistema del Pensiero Collettivo ha potuto rovesciare Mubarak, si può capire come sia imperativo sperimentarlo qui. Soltanto, è necessario che apprendiamo ciò che stiamo per tentare.

Seguitemi oltre e vi offrirò un’introduzione al pensiero collettivo, alle assemblee generale e al processo decisionale del consenso.

La Commissione sulle Dinamiche di Gruppo nelle Assemblee del Campo di Protesta di Puerta del Sol (Madrid) ha definito il pensiero collettivo come segue:

Per quanto a nostra conoscenza il Pensiero Collettivo è diametricalmente opposto al tipo di pensiero proposto dal sistema attuale. Ciò rende difficile assimilarlo e applicarlo. E’ necessario tempo e comporta un processo lungo. Di fronte a una decisione la reazione normale di due persone con opinioni diverse tende a essere aggressiva. Ciascuno difende la propria opinione allo scopo di convincere l’avversario, fino a quando tale opinione risulta vincente oppure, al massimo, viene raggiunto un compromesso.

Lo scopo del Pensiero Collettivo, d’altro canto, è di costruire. Cioè due persone con idee diverse collaborano per costruire qualcosa di nuovo. Non viene dato perciò peso alla mia idea o alla tua; piuttosto il concetto è che due idee insieme produrranno qualcosa di nuovo, qualcosa che né tu né io avevamo immaginato all’inizio. Quest’ottica esige  da noi un ascolto attivo, piuttosto che la mera preoccupazione di preparare la nostra reazione.

Il Pensiero Collettivo nasce quando comprendiamo che, nel generare il consenso, devono essere valutate tutte le opinioni, le nostre e le altrui, e che una volta che il consenso è indirettamente costruito, esso può trasformarci.

Un modo per immaginare la cosa potrebbe consistere nel valutare i sondaggi che utilizziamo qui a Daily Kos.  Qualcuno propone delle scelte e noi dobbiamo deciderne una. Quella con il maggior numero di voti vince. Io spesso litigo con i sondaggi e i test a risposta multipla perché la risposta che sceglierei non c’è quasi mai. In un modello di pensiero collettivo, non verrebbe mai proposto un sondaggio simile. Si potrebbe presentare una lista di opzioni ma invece di sceglierne una si lavorerebbe insieme per modificare la lista trasformandola in un’unica risposta che rifletta le preoccupazioni e le idee di tutti. Si arriverebbe a una risposta che tutti potrebbero accettare e cui tutti potrebbero consentire. E’ molto probabile che la risposta risultante non sarebbe simile a nulla di ciò che era contenuto nella lista di scelte originale.

Nel pensiero competitivo, ci affidiamo a singoli o a piccole organizzazioni per formulare soluzioni e o vi acconsentiamo o le rifiutiamo e scegliamo le soluzioni di un’altra persona. E’ altamente probabile che nessuna opzione sia ottima, ma siamo costretti a scegliere. Poi consideriamo quelli che hanno avanzato la proposta vincente come leader e tendiamo a delegare a loro le nostre decisioni future.

Nel pensiero collettivo, ciò non accadrebbe mai. Se qualcuno propone una soluzione, essa viene portata alla valutazione del collettivo per idee su come potrebbe essere resa ancora migliore e la garanzia che tutte le preoccupazioni riguardanti la proposta siano affrontate. La soluzione risultante appartiene a tutti e nessuno è considerato un leader e a nessuno sono delegate le decisioni future. Il potere di attuare proposte e di ricoprire posizioni di tipo dirigenziale è temporaneo e al servizio della comunità.

Ora cominciamo a comprendere il concetto di Pensiero Collettivo. Diamo un’occhiata alla sede in cui si svolge il Pensiero Collettivo: l’Assemblea. L’Assemblea è un modello di riunione. I gruppi di lavoro possono operare come un’assemblea. Quando in una comunità si riuniscono tutti si parla di Assemblea Generale o di Assemblea Cittadina o di Assemblea Popolare.

La Campagna per la Democrazia Reale definisce l’Assemblea Popolare così:

(1) Le Assemblee Popolari  assumono le decisioni orizzontalmente

(2) Le Assemblee Popolari sono interessate ad apprendere, sperimentare e incorporare nuove pratiche democratiche

E’ davvero così semplice. Un’assemblea è un organismo decisionale. L’organizzazione Giornata USA della Rabbia  descrive ulteriormente ciò che un’assemblea è, e ciò che non è:

Cos’è un’Assemblea Popolare?

E’ un organismo decisionale partecipativo che lavora per raggiungere il consenso.

L’Assemblea ricerca gli argomenti migliori per assumere decisioni che riflettano ogni opinione, non posizioni in contrasto le une con le altre come accade quando si vota.

Un’Assemblea non dovrebbe essere incentrata su un dibattito ideologico; dovrebbe invece occuparsi di questioni pratiche:

  • Di cosa abbiamo bisogno?
  • Come possiamo ottenerlo?

L’Assemblea è basata sull’associazione libera; se non si è d’accordo con ciò che viene deciso non si è tenuti ad attuarlo. Tutti sono liberi di fare quello che desiderano; l’Assemblea cerca di produrre un’informazione collettiva e linee condivise di pensiero e azione. Incoraggia il dialogo e la conoscenza reciproca.

Un’Assemblea è un luogo di riunione in cui persone che hanno obiettivi comuni possono incontrarsi su un piano di parità. Può occuparsi di:

  • Informazioni: i partecipanti condividono informazioni di mutuo interesse. Non discutono il contenuto di tali informazioni.
  • Riflessioni: esaminare  a fondo insieme una questione, una situazione o un problema. Devono essere fornite le informazioni ma non occorre arrivare a una decisione immediata.
  • Decisioni: quando il gruppo deve arrivare a una conclusione o a una decisione unitaria riguardo a un argomento in cui è stato coinvolto. Per arrivare a questo e al fine di costruire il consenso devono essere stati attuati i due passi precedenti (disporre delle informazioni e riflettere su di esse).

Nella mia esperienza delle occupazioni, sin qui, non comprendere ciò che un’Assemblea Generale è, e ciò che non è, è fonte di un mucchio di confusione e, quindi, di frustrazione. Le persone sono costrette ad aderire a questo movimento a motivo del fatto che, essendo state  private dei loro diritti, si sono ritrovate a sentirsi arrabbiate e disperate.  Temono per il proprio futuro. Vogliono unirsi ad altri nella stessa barca. La sola cosa che sappiamo fare riguardo all’assunzione di questa posizione politica è manifestare insieme.  Siamo abituati a riunirci e ad ascoltare persone che ci parlano e ci infervorano e ci ispirano con le loro idee. Ci aspettiamo che siano loro a guidarci e a farsi carico dei problemi al posto nostro. Deleghiamo loro la nostra responsabilità sociale collettiva.

Il problema è che questo è ciò che siamo andati facendo per più di 200 anni e siamo in una condizione di fallimento. Dobbiamo fare qualcosa in modo diverso. Questo movimento è una protesta, certo, ma è anche un’offerta.  Offre un modo alternativo di affrontare i nostri bisogni sociali. Tale modo è una democrazia partecipativa diretta in cui ogni persona è equanime, responsabile e deve rendere conto appieno delle decisioni che assumiamo su come governarci. Ciò significa mettersi  al lavoro sul serio.

Quel che è brillante in questo sistema è che si tratta di arrivare a soluzioni. Non si tratta di lamentarsi. Se si ha un problema, va sviluppata una proposta. Non si è in grado di elaborarla da soli? Si crei un gruppo di lavoro.

Non si tratta di pontificare. Se si hanno informazioni da condividere – informazioni reali, concrete, non opinioni – vanno assolutamente fornite per contribuire ad assumere decisioni. Si deve restare attaccati ai fatti. Non importa quale sia l’opinione personale. Abbiamo un problema da affrontare e dobbiamo costruire una soluzione. Vanno offerte proposte o correzioni, non opinioni intangibili.

Non c’è spazio per i partiti politici in questo sistema. Se hai un’idea costruttiva da aggiungere alla costruzione di una soluzione, esprimila qui. Non importa se proviene da qualche sfondo ideologico. Marxisti, Comunisti, Democratici, Socialisti … queste etichette non significheranno nulla. O l’idea affronta la necessità di cui ci si occupa oppure no. Sarà presa in considerazione e adottata o rifiutata in base al fatto che si tratti di qualcosa che tutti possono riconoscere come soluzione per una necessità.

Molti si perdono quando partecipano a un’Assemblea Generale. Ho visto gente in continuazione lamentarsi che “stiamo parlando di cose reali!” Ho assistito alla formazione di un gruppo dirigenziale anarchico qui a Boston. Hanno espresso frustrazione per il fatto che non c’è dibattito all’Assemblea Generale. Ma l’Assemblea Generale non è una sede di dibattito. E’ una sede di costruzione di soluzioni pratiche. Dunque, se hai una proposta, avanzala. Se hai informazioni da condividere, mettiti in coda (stack) e, assolutamente, condividile.

Che cos’è una coda (stack)? Le code sono liste di chi ha chiesto di parlare. Chi gestisce le code chiamerà le persone per ordine al momento opportuno. All’Assemblea Generale di Boston, ad esempio, ora utilizziamo una coda per gli Annunci dei Gruppi, una coda per le Proposte dei Gruppi e una coda Individuale.  Quando qualcuno parla si utilizzano mini-code. Tutti hanno diritto di parlare senza essere interrotti. Se qualcuno ha una richiesta di chiarimento (requisito molto importante) o una richiesta di informazioni direttamente rilevante, fa un gesto. Un Gestore del Tempo del Pubblico metterà queste persone in coda per parlare quando l’oratore ha finito. Se il Gestore del Tempo del Pubblico decide che la domanda è a fini di chiarimento o che l’informazione richiesta non è direttamente rilevante, la persona può scegliere di essere posta sulla coda Individuale. A nessuno è negata la possibilità di parlare.

Va notato che a New York e a Boston utilizziamo uno strumento chiamato ‘coda progressiva’. Il gestore della coda verifica che si ascolti una pluralità di voci. Se un gruppo demografico è ascoltato troppo spesso, il gestore della coda ha la facoltà di dare precedenza nella coda a qualcuno che rappresenti un gruppo demografico diverso.  La cosa più tipicamente si verifica riguardo al genere. Si prenotano nella coda per parlare più uomini che donne. Può capitare di sentir parlare cinque uomini di seguito e il gestore della coda sposterà allora in cima alla coda una donna. Con il conoscerci meglio a vicenda la gestione della coda progressiva probabilmente si affinerà in modo che possano essere messe più spesso in posizioni di priorità nella coda più voci emarginate.

Ciò che un’Assemblea Generale non è, è stato un concetto impegnativo da affrontare. Così quello che abbiamo visto emergere è una versione modificata dell’Assemblea in cui la “coda Individuale” è più che altro un microfono aperto alla fine dell’Assemblea.  Colpisce costatare come le persone si impegnino durante il processo di valutazione di una proposta e quanti abbandonino l’Assemblea una volta che inizia il microfono aperto.  Immagino che dovremo dividere la coda Individuale in una coda propositiva e in una coda di condivisione in modo da non perdere la considerazione, da parte del collettivo, di proposte valide solo perché la gente se n’è andata.

A Boston c’è voluto un po’ per consolidare una struttura di Assemblea Generale propria dell’accampamento e cui l’accampamento aderisce.  Essere passati attraverso la struttura gerarchica calata dall’alto del “governo della maggioranza” della nostra società e attraverso tutti i sentimenti di oppressione che ne sono derivati, ci ha lasciati impauriti e privi di fiducia. C’è stata una reazione da riflesso condizionato all’avere persone che “impongano” regole e strutture. E’ stato prevalente un pregiudizio sottostante nei confronti dell’oppressione autoritaria di una classe dominante autoeletta. Dopo diverse assemblee fallite, tuttavia, un quasi ammutinamento del Gruppo di Lavoro Agevolativo ha portato a un appello sentito del tipo “proviamoci, per favore, e facciamoci partecipi del miglioramento delle cose che non funzionano bene”. E’ stato un momento di tensione, con gli agevolatori che volevano andarsene se i partecipanti non avessero consentito a sperimentare la struttura. Lo hanno fatto, comunque, e abbiamo avuto la nostra prima esperienza di un vero lavoro attraverso il consenso. I partecipanti sono arrivati a comprendere davvero che non si trattava di un’imposizione autoritaria, bensì di una garanzia di sicurezza per chiunque volesse parlare. Stiamo ancora mettendo a punto dei dettagli, ma ora stiamo progredendo con un senso di fiducia.

OK, cos’è dunque, esattamente, la procedura del consenso? Non c’è un insieme di regole per raggiungere il consenso. Il sito ConsensusDecisionMaking.org  ha questo da dire:

Che cos’è il processo decisionale incentrato sul consenso?

Ci sono molti significati del termine “consenso”. E ci sono molte variazioni riguardo al modo in cui i gruppi usano il “processo decisionale incentrato sul consenso”.  Queste differenze sono espresse in articoli e altre risorse di questo sito web.  I seguenti principi unificatori, tuttavia, formano un tronco comune da cui si dipartono rami diversi.

Il sito elenca ed elabora i seguenti principi:

  • Inclusività
  • Ricerca di accordo
  • Collaborazione
  • Costruzione di rapporti
  • Pensiero dell’intero gruppo

Sul sito si possono trovare molte discussioni sulle variazioni che possono essere impiegate per raggiungere il consenso. I passi fondamentali implicati sono:

  1. Discussione
  2. Identificazione di una proposta
  3. Identificazione di problemi non risolti
  4. Modifica collaborativa della proposta
  5. Valutazione del sostegno
  6. Completamento della decisione o ritorno ai passi 1 o 3

La chiave per fare ciò consiste nel dar tempo a tutte le voci per esprimere i propri dubbi e per costruire la proposta in modo tale che tutti i membri si dicano d’accordo di poterla accettare. Non si lasciano problemi in sospeso procedendo oltre. E’ in questo modo che sono protetti i gruppi di minoranza.

Per #OccupyBoston abbiamo lavorato alla nostra procedura di consenso. Un paio di noi ha avviato la stesura di  un documento di lavoro ed è in corso una discussione riguardo ai dettagli. Poiché i 5 passi fondamentali elencati più sopra non vi danno un’idea esatta di come potrebbe effettivamente essere il processo, incollo la versione in corso  della procedura di consenso con le nostre note attuali:

Questa è una guida per i Facilitatori riguardo a come OccupyBoston sta attualmente attuando il processo del consenso. Il Gruppo di Lavoro per la Facilitazione sta preparando una proposta da presentare all’Assemblea Generale con tutti i dettagli per la gestione di un’Assemblea Generale.

Cos’è il consenso

Il consenso è una procedura di risoluzione nonviolenta dei conflitti. L’espressione di preoccupazioni e di idee contrastanti è considerata desiderabile e importante. Quando un gruppo crea un’atmosfera che alimenta e sostiene il dissenso senza ostilità o paura, costruisce le fondamenta per decisioni più forti e più creative.

Consenso diretto

1. Chiedere al gruppo o alla persona di manifestare le proprie proposte

2. Chiedere di attendere mentre voi:

a. chiedete se ci sono richieste di chiarimenti

b. chiedete se ci sono informazioni necessarie/da condividere

c. chiedete se ci sono preoccupazioni od obiezioni forti fornendo le seguenti spiegazioni:

– “Prima di condividere le preoccupazioni, ricordiamo che in un processo di consenso, quando si condivide una preoccupazione  esso diventa una preoccupazione  del gruppo. Saremo tutti responsabili di assicurarci che sia affrontata, prima di votare.”

– faremo delle pause di silenzio; più impegnativo il tema, più lunghe le pause, per consentire a ciascuno di pensare ed esprimersi,

– in questo momento stiamo soltanto elencando, non affrontando o risolvendo dubbi od obiezioni; tale processo avrà luogo dopo (è a questo fine che sono previste le modifiche e le valutazioni dei cambiamenti da parte del proponente),

– chiediamo che i dubbi e le obiezioni siano formulati partendo dal presupposto che il gruppo cercherà di trovarvi soluzione,

d. chiedere se ci sono modifiche costruttive per affrontare i dubbi e le obiezioni espressi.

NOTA: nel corso di questa sezione (ad eccezione della parte a) non dovrebbero esserci reazioni dirette.  Le persone si sentiranno più sicure nell’esprimere dubbi e obiezioni se sapranno di non dover affrontare immediatamente idee o contestazioni.  Le modifiche proposte sono la reazione a contestazioni e obiezioni. Il tempo lasciato ai proponenti per valutare la modifica delle proprie proposte è un modo per affrontare o risolvere dubbi e obiezioni. L’obiettivo consiste nel restare non aggressivi e nel concentrarsi sul costruire soluzioni insieme presupponendo che ogni input è un mattone della costruzione delle soluzioni e che ogni nuovo input è un mattone posto sulle fondamenta che tutti gli altri mattoni hanno già creato.
3. Dare ai proponenti un momento per valutare se affronteranno i dubbi e le obiezioni facendo una delle cose seguenti:

a. spiegando quanti dubbi e obiezioni sono già trattati

b. ritirando la proposta

c. modificando la proposta in base a dubbi e obiezioni

d. adottando alcune delle modifiche proposte, o

e. mantenendo la proposta nei suoi termini originali

4. Chiedere  ai proponenti di ripetere la proposta (modificata o meno).

NOTA: ciò viene fatto, anche se non ci sono cambiamenti, per consentire un rinnovato ascolto e per lasciare spazio affinché le persone valutino nuovamente se hanno preoccupazioni, obiezioni o modifiche da sottoporre. Non passare a richiedere il consenso fino a quando non si avverta che tutto ciò è stato espresso.

4. [sic, probabilmente da cancellare, vedi oltre il punto 5 – n.d.t.] Ripercorrere i passi 2 e 3.

5. Ripetere i passaggi da 2 a 4 fino a quando non ci siano più obiezioni o modifiche.

NOTA: dobbiamo decidere quante di queste ripetizione effettuare prima di passare al Consenso Indiretto.

6. Chiedere se esistono richieste di bloccare le proposte e definire cos’è un blocco.

NOTA: In tutti i modelli che Allison ha osservato, un blocco può effettivamente opporsi al consenso. (E’ fondamentale definire come ciò si verifica). Ciò è diverso da una “preoccupazione grave” che potrebbe essere  fatta rilevare ma che non blocca il consenso.  Dobbiamo decidere  se vogliamo consentire i blocchi (possono esserci gravi svantaggi nel consentire i blocchi ma possono essere suscitati timori che voci emarginate possano essere oppresse se non vi è un chiaro accordo sui limiti del potere individuale sui gruppi) e, in caso affermativo, come ciò possa verificarsi. (Può un singolo, se il gruppo considera il blocco essere una questione di principio, far valere un blocco? O qualcuno deve esprimere i propri motivi per un blocco e poi deve ottenere una certa percentuale di sostegno al blocco?)

(da Wikipedia: i blocchi sono in generale considerati una misura estrema, utilizzati soltanto quando un membro sente che una proposta “mette in pericolo l’organizzazione o i suoi partecipanti o viola la missione dell’organizzazione (ovvero un’obiezione di principio). Il gruppo decide se consentire o meno il blocco.)

7. Se la proposta non è bloccata chiedere “Potete accettare questa proposta?” e misurare la reazione.

NOTA: Allison chiarisce, con “Potete accettare questa proposta?”, come si formula la richiesta del consenso in quanto, prima di questo, non abbiamo avuto una formulazione esplicita. Si suppone che il consenso riguardi una decisione che tutti possano accettare.  Non significa che tutti siano d’accordo. Significa che tutti acconsentono. E’ importante operare la distinzione tra l’acconsentire (da cui il consenso) e il condividere.

8. Se c’è un consenso del 75%, farsi confermare dai partecipanti che tutti rilevano un consenso del 75% e poi annunciare che è stato raggiunto il consenso e che la proposta è adottata.

9. (Se necessario). Se non c’è il consenso ma la proposta non è bloccata si può passare al consenso indiretto.

Consenso indiretto

Implica mini-presentazioni e possibile creazione di sottogruppi_

1. Chiedere a tre persone che appoggiano la proposta e a tre persone che vi si oppongono di parlare ciascuno da 30 secondi a due minuti, alternando sostenitori e oppositori.

2. Riformulare la proposta e chiedere “potete accettare questa proposta?” prima di misurare la reazione.

3. Se non viene raggiunto il consenso chiedere all’assemblea di suddividersi in piccoli gruppi di discussione per 3 – 5 minuti.

(NOTA: ci sono diversi tipi di gruppi di discussione. Possiamo scegliere di utilizzarne uno o avere un menu da cui l’agevolatore possa scegliere il tipo più adatto.

4. Richiamare i partecipanti all’assemblea e

a. chiedere se ci sono richieste di chiarimento

b. chiedere se si sono necessità di informazione

c. chiedere se vi sono preoccupazioni gravi o obiezioni fornendo le seguenti spiegazioni:

– faremo delle pause di silenzio; più impegnativo il tema, più lunghe le pause, per consentire a ciascuno di pensare ed esprimersi,

– in questo momento stiamo soltanto elencando, non affrontando o risolvendo dubbi od obiezioni;

– chiediamo che i dubbi e le obiezioni siano formulati partendo dal presupposto che il gruppo cercherà di trovarvi soluzione,

d. chiedere se ci sono modifiche costruttive

5.  Dare ai proponenti un momento per valutare se vogliono:

a. spiegare quanti dubbi e obiezioni sono già trattati

b. ritirare la proposta

c. modificare  la proposta in base a dubbi e obiezioni

d. adottare alcune delle modifiche proposte, o

e. mantenere la proposta nei suoi termini originali

6. Chiedere ai proponenti di ripetere la proposta (modificata o meno)

7. Spiegare cos’è un blocco e chiedere se ce ne sono.

8. Se la proposta non è bloccata chiedere “Potete accettare questa proposta?” e misurare le reazioni.

9. Se non viene raggiunto il consenso si possono ripetere i passaggi da 1 a 8 o rimandare la proposta a un gruppo di lavoro (se la proposta era di un singolo, questi dovrebbe essere indirizzato a collaborare con un gruppo di lavoro per rivedere la proposta.)

COMUNICAZIONI A GESTI

1. Sono d’accordo, mi piace, questa cosa mi fa sentire bene:  mani in alto, dita che si muovono verso l’alto.

2. Sono neutrale, mi sento così-così: mani piatti, dita che si muovono in avanti.

3. Non sono d’accordo, non mi piace, la cosa non mi fa sentire bene: mani in basso, dita che si muovono verso il basso.

4. Necessità d’informazioni: dito indice puntato verso l’alto.

5. Questione di procedura: unire le punte degli indici in una linea orizzontale.

6. Domanda di chiarimento: dito indice e medio a formare una “C”

7. Modifica costruttiva: segno di “pace”

8. Prosegui, sentiamo cos’hai da dire: ruotare i pugni uno attorno all’altro

10. Preoccupazioni/Obiezioni: ????

Come potete vedere leggendo questo, il consenso richiede tempo. In una società in cui ci viene l’infarto se dobbiamo attendere su un’auto davanti al semaforo rosso o se una pagina web ci mette più di due secondi a caricarsi, dobbiamo essere consapevoli che non siamo addestrati ad avere la pazienza necessaria per questa procedura.  Siamo una banda di “più grossi, migliori, più veloci”.  Soltanto che la nostra definizione di “migliore” può essere rimandata.  Dobbiamo dunque concederci spazio per errori e fallimenti.  Diciamoci “Sì, mi prenderò tempo per ascoltare”.  Facciamo così perché è solo ascoltando tutti che si possono costruire soluzioni che servono tutti.  Quando tutti sono serviti bene, il sistema è sostenibile.  Le persone si sentono collegate alle soluzioni e l’una all’altra e c’è molta più soddisfazione  che in un sistema in cui il 51% delle persone vota per una soluzione con la quale il 49% è in disaccordo.

Come ho detto in precedenza, abbiamo avuto fallimenti spettacolari con l’Assemblea Generale a #OccupyBoston. Abbiamo imparato da quei fallimenti. Ci siamo fermati, abbiamo fatto un passo indietro e ci siamo chiesti: “Vogliamo fallire? Se non lo vogliamo, continuiamo a provare e continuiamo a imparare.”  C’è stata dedizione sufficiente per perseverare cosicché siamo passati in modo altrettanto spettacolare dalla quasi rinuncia a esperienze davvero ispiratrici di Assemblea Generale. Si tratta di un lavoro in corso. Un lavoro collettivo in corso. Un lavoro in cui le decisioni per rivolvere i problemi e i dubbi che incontriamo lungo il cammino sono affrontate collaborativamente e le soluzioni sono decise attraverso il consenso. E’ una bella atmosfera in cui lavorare. E’ lenta. Può essere confusionaria. Può annoiare. Può far sentire che non si arriverà da nessuna parte. Poi è sorprendente come qualcosa emerge e l’energia è piena di creatività e di speranza e la comunità prende forma. Quando ciò accade ci si sente come se si avesse il potere di fare qualsiasi cosa. Forse persino il potere di rovesciare una cleptocrazia plutocratica e di costruire un sistema di governo equo e giusto.

POSTATO IN ORIGINE SU  UnaSpenser SABATO 8 OTTOBRE 2011 ALLE 10:14 PDT.

RIPUBBLICATO ANCHE DA   Occupy Wall Street, Occupy Virtual America: OCCUPY BEYOND WALLSTREET, Occupy our homes!, DKOMA, E ClassWarfare Newsletter: WallStreet VS Working Class Global Occupy movement.

NOTA DEL TRADUTTORE: Per materiali in italiano sul processo del consenso vedere Wikipedia.

DA Z NET ITALY – Lo spirito della resistenza è vivo!

http://www.znetitaly.org

Fonte:  http://www.dailykos.com/story/2011/10/08/1022710/–occupywallstreet:-a-primer-on-consensus-and-the-General-Assembly

Originale: dailykos.com

Traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Duri con l’euro, deboli con i nazisti

17 sabato Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Victor Grossman

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austerità, crisi europea, Germania, neonazisti

di Victor Grossman – 16 dicembre 2011

Evviva! La Merkel ha avuto la sua giornata! C’è voluta una lunga notte di trattative dietro le quinte, ma, se si esclude quel Tory, David Cameron, tutti i membri dell’Unione Europea si sono accordati per salvare l’euro, salvare l’economia, salvare il mondo!  Era sull’orlo del disastro, aveva avvertito Sarkozy alla vigilia della riunione: se non  raggiungeremo un accordo “non avremo una seconda opportunità”!

I giornali tedeschi, pieni per giorni e settimane di questa storia arcana, hanno passato al microscopio ogni corrugamento delle sopracciglia di Angela, analizzato ogni bacio sulla guancia tra lei e Nicholas Sarkozy a Berlino, Parigi, Marsiglia o Bruxelles, e atteso in gelide ore mattutine. Ma ne è valsa la pena. O no?

Facendosi strada attraverso il gergo finanziario a proposito di tassi di interesse sulle obbligazioni, i fondi speciali, le valutazioni del merito di credito et similia, due parole sono emerse dalle profonde riunioni e dalle notti intere di  dibattiti. “Austerità” è  una di esse, “disciplina” l’altra.

Quelle “sorelle deboli” alle estremità dell’Europa, l’Irlanda e il Portogallo sulle tempestose coste atlantiche, la Grecia sulle ancor più tempestose scogliere dell’Egeo, e forse anche stati cruciali del Mediterraneo come la Spagna e l’Italia, hanno semplicemente mancato di disciplina.  I mass media tedeschi hanno offerto questa analisi ai propri lettori: vita al di sopra dei propri mezzi, nessuna corretta esazione delle imposte, corruzione e, in Grecia, pura pigrizia. “E noi dovremmo rischiare la nostra buona moneta per quei buoni a nulla?”

Vero, questi paesi hanno mancato di rispettare rigorosi parametri prussiani, che possono non essere più puliti ma almeno si sforzano di apparirlo.  E anche se le tattiche avide dei finanzieri di Wall Street o di Francoforte erano sostanzialmente le stesse dei loro colleghi greci, portoghesi o irlandesi, essi e i loro governi erano di gran lunga più ricchi e meno minacciati dalla bancarotta.

Ma il biasimo dovrebbe almeno essere condiviso. In Grecia la Goldman Sachs ha guidato il branco di lupi con somme enormi di assistenza normalmente in derivati finanziari; è sembrata così generosa allora e si è dimostrata così costosa dopo.  Poi somme enormi sono anche andate ad acquisti di armi tedesche, come sottomarini.  Certo, chi può predire le future relazioni tra Grecia e Turchia? Meglio andare sul sicuro, ammoniscono i commercianti tedeschi di armamenti, sorridendo quando ribollono dissidi riguardo a Cipro o a qualche isola dell’Egeo, lamentandosi a ogni passo verso la pace; dopotutto piazzano i sottomarini anche in Turchia.  Persino il povero Portogallo, alla peggio minacciato dall’alto mare è stato spinto a grossi acquisti di armamenti tedeschi.

No, la Germania non esporta soltanto Mercedes, Porsche o vini del Reno. Le sue vendite di armi, dai carri armati Leopard all’Arabia Saudita, ai sottomarini a Israele o alle automatiche Heckler & Koch a chiunque sia ansioso di acquistarle, hanno superato l’anno scorso il trilione di euro, conquistando la medaglia di bronzo dietro soltanto gli USA e la Russia.

Le sue grandi esportazioni, di articoli militari o di altri, meno mortali, dalla Daimler, Bayer o Siemens, hanno contribuito a farle mantenere la testa fuor d’acqua mentre gli altri annaspavano in cerca d’aria, o di euro. La sua crescente potenza economica è sembrata in qualche modo visibile nella posizione assunta dalla Merkel, meno bonaria e amichevole, più tenace e di muso duro. Ora la Germania può far valere in giro il proprio peso, in Europa e oltre, indispettendo anche i suoi vecchi mentori e compari di Washington, che ora stanno diventando rivali.

Le limitazioni iniziali sono scomparse quando è stata inghiottita la Germania dell’Est nel 1990.  L’allora Cancelliere Helmut Kohl stabilì la linea: “La Germania ha chiuso con il passato; in futuro potrà apertamente dichiarare il suo ruolo di potenza mondiale, un ruolo che ora è necessario ampliare.”  Il ministro degli esteri Kinkel fu ancora più chiaro: “Occorre padroneggiare due  compiti paralleli: all’interno del paese dobbiamo tornare a essere un unico popolo, all’esterno è ora di arrivare a ottenere qualcosa che abbiamo mancato due volte di realizzare. In accordo con i nostri vicini dobbiamo trovare la nostra strada verso un ruolo che corrisponda ai nostri desideri e al nostro potenziale.”  Il suo riferimento al doppio fallimento della Germania, che ora deve trovare coronamento, fu davvero allarmante.  Un deputato del partito della Merkel lo ha recentemente aggiornato: “E’ ora che in Europa si parli tedesco!”

Il trattato più o meno concordato a Bruxelles limiterebbe fortemente i deficit, prescriverebbe ai membri di sottoporre i propri bilanci al controllo della Commissione Europea e così renderebbe l’economia di ogni paese dell’Unione Europea, dall’Estonia a Malta, soggetta a decisioni dall’alto, con dure sanzioni per chi non segua la linea.  Questo è parte di ciò che si intende per “disciplina”.

Ciò che la disciplina farà valere sarà la “austerità”.  Molti esempi sono già disponibili; il Portogallo, la Grecia e ora l’Italia devono tagliare radicalmente i propri bilanci per salvare l’euro.  E, come negli USA, il bordello può essere stato causato dall’1% ma è il 99% che deve pagare per ripulirlo.  Imposte più alte sulle vendite di beni di consumo, calci nel sedere a migliaia di dipendenti dell’amministrazione pubblica, tasse più salate a carico dei piccoli proprietari di case, dilazione dell’età pensionabile, tagli ai sussidi; tutto ciò fa parte dell’austerità prescritta.  E quando i greci hanno obiettato hanno ricevuto una dose maggiore di disciplina, dura abbastanza con le dimissioni di un primo ministro per aver proposto un referendum democratico ma ancor più dolorosa con i manganelli sulla testa, i lacrimogeni negli occhi e le manette ai polsi. Atene e Oakland hanno molto in comune! La formula è semplice come l’abicì, come Angela-Boehner-Cantor.

Ogni economista corretto concorda sul fatto che tagliare stipendi e salari e attaccare le pensioni in tempi duri è puro veleno.  Come ha affermato il New York Times in un editoriale (10.12.2011): “Un patto che leghi tutti i membri a una maggiore austerità in un periodo di recessione è esattamente ciò di cui l’Europa oggi non ha bisogno.”   Ciò nonostante consente ancora grandi profitti ai ragazzi di successo, con l’aiuto del governo, anche nei paesi colpiti più duramente, ma soprattutto in Germania, dove, anche se non troppo proclamata o visibile, maggiore austerità è in programma dopo le elezioni del 2013.

Ciò rivela un’altra faccia di questa gemma dalle molte sfaccettature.  Ogni volta che l’economia di un paese si indebolisce, a soffrirne di più sono i sottopagati, i sovraccarichi e i senza lavoro.  Se c’è una Sinistra bene organizzata o un forte movimento sindacale è possibile contrattaccare, anche contro le previsioni, simbolizzate dagli spray al peperoncino e dalle manette di plastica.  I sindacati greci, portoghesi e italiani hanno dimostrato un vero spirito combattivo.  Dove mancano questi elementi, o hanno troppo spesso capitolato, lo scontento crescente si rivolge alla destra, con marce in scarponi militari e dando la colpa della mancanza di lavoro o di case accessibili agli immigranti in frenetica ricerca di asilo dalla miseria più nera nelle loro patrie più calde ma di gran lunga più povere.

Ottant’anni fa la colpa veniva data agli ebrei. Oggi è degli algerini, turchi, arabi o di tutti i mussulmani, con i loro minareti, turbanti o nomi “diversi”. O degli “zingari”, per secoli buoni per un pogrom di tanto in tanto. In un paese europeo dopo l’altro, l’estrema destra ha guadagnato forza, o in giacca e cravatta facendo della retorica sulle richieste sociali, oppure sbandierando apertamente slogan e gesti terrificanti del passato.  E sempre attaccando gli “stranieri” e quelli di sinistra a parole e a volte con atti sanguinosi.  I loro progressi minacciano l’Olanda, la Svizzera, l’Austria, l’Italia, la Svezia, la Norvegia, forse peggio di tutti gli altri paesi l’Ungheria, già rimbombante di echi fascisti del passato.  Quanto saranno rappresentati gli entusiasti di Franco nel nuovo governo spagnolo? Può Marine Le Pen, più moderna ma non più moderata del suo padre fascista, conquistare un secondo o anche primo posto nelle imminenti elezioni francesi? C’è parecchio di cui rabbrividire!

In Germania il fascista Partito Nazional-Democratico della Germania (NPD) ha conquistato seggi alle elezioni statali nella Germania Orientale e in alcuni quartieri.  Tuttavia, solitamente sotto il quattro per cento, non ha uguagliato le grandi conquiste di altri paesi.  E’ presente lo stesso, comunque, e costruendo basi elettorali locali e attendendo una maggiore austerità tedesca, il cui arrivo è più smorzato qui rispetto ad altrove, ma minacciosamente percepibile lo stesso.

La gente di sinistra, fuori e dentro il partito della sinistra, non hanno mai cessato di ammonire contro questo pericolo e di agire contro di esso. Ogni volta e dovunque i nazisti hanno marciato – in media marciano in due, tre e addirittura cinque località diverse ogni fine settimana – sono stati accolti da controdimostrazioni, in modo più deciso lo scorso febbraio a Dresda, dove 18.000 antifascisti hanno fatto fallire i piani nazisti di una manifestazione e una marcia.  Per anni la sinistra ha sollecitato una messa fuori legge del NPD, in modo da tagliare le centinaia di migliaia, persino milioni di sovvenzioni governative ricevute in base ai loro risultati elettorali, la loro principale risorsa finanziaria. Una messa al bando cancellerebbe anche la fervente protezione che ottengono quando marciano e diffondono la loro propaganda di odio contro gli stranieri.  Un tentativo di metterli fuori legge è fallito nel 2003; c’erano così tanti agenti della Verfassungsschutz (l’organismo per la Protezione della Costituzione, simile allo FBI) in posizioni di dirigenza nello NPD che è stato impossibile un processo senza denunciare quei gentiluomini; e i loro ruoli attivi.  Il governo ha fatto marcia indietro.  Ha continuato a trattare da cittadini onesti gli uomini dello NPD e i teppisti loro alleati.  Oppure i “pericolosi estremisti di destra” sono stati fatti equivalere ai “pericolosi estremisti di sinistra”. L’attenzione più ostile è stata sempre riservata alla sinistra.

Improvvisamente tutto ciò si è sgretolato. In un’esplosione sono morti due terroristi nazisti e un terzo, una donna, si è arresa alla polizia.  Loro e i loro complici avevano ucciso negli anni precedenti dieci commercianti al dettaglio turchi e greci, anche una poliziotta, avevano ferito ventidue persone facendo scoppiare una bomba, avevano condotto rapine in banca e cercato di distruggere una sinagoga.  Non erano mai stati presi.  Poi altri complici sono stati arrestati e sono stati divulgati nuovi fatti.  I politici sino ad allora ignari hanno improvvisamente scoperto, dichiarandolo ad alta voce, quanto si erano opposti all’estremismo di destra e avevano pianto le vittime dell’odio nazista, di cui sino a quel momento non si erano curati affatto.  Tirate le somme, più di 180 persone erano state uccise in vent’anni da gente di destra, mentre le autorità preferivano attaccare la sinistra, alcuni dei cui sostenitori più indisciplinati (o erano provocatori della polizia?) occasionalmente tiravano bottiglie e sassi contro i nazisti, o forse contro i poliziotti che li proteggevano.

E’ stato presto evidente che la Verfassungsschutz, incaricata di controllare il terrorismo, con almeno 130 agenti in posizioni dirigenziali nello NPD che aveva chiari collegamenti con la scena teppistica nazista, in qualche modo non aveva prevenuto, riferito o addirittura notato gli omicidi, che erano andati tutti impuniti.  Né aveva identificato i responsabili che difficilmente erano sconosciuti nelle loro zone di residenza.

Nonostante la sconvolta sorpresa dei media e della maggior parte dei partiti, non si trattava certo di una novità. Come i Servizi di Intelligence (per lo spionaggio all’estero) la Verfassungsschutz era stata gestita per anni in larga misura da nazisti. Il suo presidente dal 1955 al 1972 era stato Hubert Schruebbers, un membro del partito nazista e malvagio pubblico ministero che aveva inviato ebrei e antinazisti in prigione, in campi di concentramento e alla morte.  Il suo odio per i comunisti gli aveva naturalmente garantito il posto dopo la guerra, indipendentemente dal suo passato.  Il suo vicepresidente dal 1951 al 1964, ex colonnello nazista, aveva preso parte a deportazioni di ebrei; altri alti dirigenti erano stati membri  delle SS o della Gestapo  attivi in Olanda, Polonia, Unione Sovietica, Francia e Norvegia, spesso con grande esperienza: in torture e omicidi.  Questi uomini sono morti, ma i loro successori hanno spesso mantenuto tradizioni e collegamenti, anche quando, dopo la riunificazione, la Germania Occidentale si è dedicata a insegnare la democrazia ai tedeschi dell’est.

Nei primi giorni dopo che gli omicidi (e le probabili coperture) sono venuti alla luce, tutti i partiti di sono dichiarati d’accordo sul fatto che lo NPD doveva essere messo fuori legge. Ma gradualmente sono sorti i dubbi:  gli stati amministrati dai democristiani non sono ansiosi di ritirare i loro agenti segreti nello NPD.  Stanno procrastinando. Ma se un secondo tentativo di mettere al bando il partito dovesse essere sconfitto in tribunale sarebbe una grossa spinta per i pargoli di Hitler.

Generalizzazioni eccessive circa i partiti tedeschi di governo sono rischiose. Ma c’è una lunga tradizione storica, non solo in Germania: in tempi di grande tensione i poteri in essere preferiscono sempre l’estrema destra che minaccia le loro proprietà, i loro portafogli azionari e i loro bonus piuttosto che la sinistra che realmente li minaccia.  Questo nuovo accordo sull’euro difficilmente eviterà tale tensione o proteggerà il 99% della popolazione che sta in basso.  Sta già facendo l’opposto, con ciascun paese che cita i tagli fatti passare nei paesi vicini più deboli per giustificare nuovi tagli nel proprio, spingendo così in basso il livello dell’intera Europa.  E l’austerità richiede disciplina, anche quella di tipo violento citata più sopra.

Chi sono i poteri in essere? Uno dei maggiori contendenti al titolo sarebbe Josef Ackermann, amministratore delegato della Deutsche Bank, con il suoi 9,6 milioni di euro di reddito (2009). E’ appena finito sui titoli di prima pagina per una lettera bomba che gli è stata indirizzata, presumibilmente da un oscuro gruppo anarchico italiano.  Ciò ha temporaneamente fatto passare in secondo piano la storia degli assassini nazisti; sì, siamo tornati all’estremismo di sinistra.  La bomba, scoperta prima che potesse ferire qualcuno, è arrivata in un momento così appropriato che ha anche provocato un cauto scetticismo tra alcuni cinici.

Ma la Deutsche Bank di Ackermann merita in effetti attenzione. E’ stata uno dei principali finanziatori della Grecia, non molto dietro la Goldman Sachs. E’ stata anche una protagonista principale del racket dei pignoramenti delle ipoteche sui mutui negli Stati Uniti, una causa e una vincitrice dell’intera miseria della recessione.  Pochi nei media hanno gradito ricordare che la Deutsche Bank fu una protagonista principale delle finanze della prima guerra mondiale, poi una sostenitrice chiave dell’ascesa al potere di Hitler, una profittatrice dell’occupazione di gran parte dell’Europa e un’investitrice diretta nel campo della morte di Auschwitz.  Ora impiega 100.000 persone in tutto il mondo e non è potente solo in Germania. I suoi stretti collegamenti con Angela Merkel sono divenuti visibili in modo imbarazzante tre anni fa, quando si è appreso che lei aveva riservato a Ackermann una lussuosa festa privata di compleanno nel suo quartier generale di Berlino, paragonabile alla Casa Bianca, con la presenza di circa venticinque amici selezionati da lui.

Anche se svizzero, è sicuramente l’uomo più potente in Germania e oltre; lei è tuttora la donna più potente, ora, nella maggior parte dell’Europa. La stretta collaborazione e collusione tra questi due, con una crisi europea tuttora minacciosa e una riserva in destra sullo sfondo, fanno sì che uno si auguri ardentemente che tutti a sinistra, ora con i nuovi modelli del movimento Occupiamo, possano farsi avanti. Sono urgentemente necessari ora e potrebbero esserlo ancor di più negli anni a venire.  

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/tough-on-euros-weak-on-nazis-by-victor-grossman

Originale: Berlin Bulletin No. 35

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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UE: la transizione mortale dalla socialdemocrazia all’oligarchia

15 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, MIchael Hudson

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banchieri, BCE, crisi, Economia, finanza, FMI, insolvenza

di Michael Hudson   -14 dicembre 2011

Il modo più semplice per comprendere la crisi finanziaria dell’Europa consiste nel guardare alle soluzioni che vengono proposte per risolverla.  Sono il sogno dei banchieri, un palo della cuccagna di regali che pochi elettori probabilmente approverebbero in un referendum democratico. Gli strateghi delle banche hanno imparato a non sottoporre i loro piani al voto democratico, dopo che gli islandesi si sono rifiutati per due volte, nel 2010 e 2011, di approvare la capitolazione del loro governo al rimborso all’Inghilterra e all’Olanda delle perdite incorse dalle mal regolamentate banche islandesi che avevano operato all’estero.  In assenza di un tale referendum le dimostrazioni di massa sono state il solo modo in cui gli elettori greci hanno potuto manifestare la propria opposizione ai 50 miliardi di euro di privatizzazioni svendute pretese dalla Banca Centrale Europea (BCE) nell’autunno 2011.

Il problema è che alla Grecia manca il contante per ripagare i propri debiti e gli interessi.  La BCE sta pretendendo che il paese svenda il proprio patrimonio pubblico – terreni, acqua, sistemi fognari, porti e altri beni del demanio pubblico – e anche tagli le pensioni e altri pagamenti alla popolazione.  Il 99% che sta in basso è comprensibilmente arrabbiato nell’apprendere che lo strato più ricco della popolazione è largamente responsabile del deficit di bilancio avendo messo al sicuro all’estero, a quanto risulta, 45 miliardi di euro nelle sole banche svizzere.  L’idea che i normali salariati siano obbligati a rinunciare alle pensioni per pagare per gli evasori fiscali – e per la generale mancata tassazione della ricchezza a partire dal regime dei colonnelli – rende la maggior parte delle persone comprensibilmente rabbiosa.  Per la “troika” BCE, UE e FMI affermare che, indipendentemente da quanto i ricchi incassino, rubino o evadano, il pagamento deve essere fatto dalla popolazione in generale non è una posizione politicamente neutrale. Discende fortemente dalla posizione dalla parte dei ricchi che ha scorrettamente assunto.

Una politica fiscale democratica ripristinerebbe la tassazione progressiva sul reddito e la proprietà, e ne imporrebbe l’incasso con sanzioni per l’evasione.  Sin dal diciannovesimo secolo i riformatori democratici hanno cercato di liberare le economie dagli sprechi, dalla corruzione e dal “reddito con guadagnato”.  Ma la troika BCE sta imponendo una tassazione regressiva, che può essere imposta soltanto affidando la politica governativa a un gruppo di tecnocrati non eletti.

Chiamare ‘tecnocrati’ gli amministratori di una politica così antidemocratica sembra un cinico eufemismo dal suono scientifico per riferirsi ai lobbisti e burocrati della finanza ritenuti utilmente di mente tanto ristretta da agire da utili idioti nell’interesse dei propri patroni. La loro ideologia è la stessa filosofia dell’austerità che il FMI impose ai debitori del Terzo Mondo dagli anni ’60 agli anni ’80.  Pretendendo di stabilizzare la bilancia dei pagamenti introducendo i liberi mercati, questi dirigenti svendettero i settori esportatori e le infrastrutture fondamentali ad acquirenti delle nazioni creditrici.  L’effetto fu una spinta delle economie tormentate dall’austerità a indebitarsi ancora di più nei confronti delle banche straniere e delle oligarchie nazionali degli stessi paesi.

Questo è il binario sul quale sono state avviate le socialdemocrazie dell’eurozona. Sotto la copertura politica dell’emergenza finanziaria, le paghe e i livelli di vita devono essere ridimensionate e il potere politico deve essere trasferito dal governo eletto a tecnocrati che governino per conto delle grandi banche e istituzioni finanziarie. La manodopera del settore pubblico deve essere privatizzata – e desindacalizzata – mentre l’assistenza sociale, i piani pensionistici e l’assistenza sanitaria devono essere ridimensionati anch’essi.

Questo è il programma politica di base seguito dagli scalatori delle imprese quando svuotano i piani pensionistici delle aziende per rimborsare i propri sostenitori finanziari nelle operazioni di acquisizione a debito [leveraged buy out]. E’ anche così che è stata privatizzata l’economia dell’ex Unione Sovietica dopo il 1991, trasferendo il patrimonio pubblico nelle mani di cleptocrati che hanno collaborato con i banchieri occidentali per fare della borsa russa e di altre le beniamine dei mercati finanziari globali.  Le imposte sul patrimonio furono ridotte mentre vennero imposte tasse fisse sui salari (per un totale del 59% in Latvia).  L’industria fu smantellata mentre i diritti fondiari e minerari venivano trasferiti a stranieri, le economie venivano spinte all’indebitamento e i lavoratori, specializzati e non specializzati, venivano costretti a emigrare per trovare lavoro.

Fingendo di esseri dediti alla stabilizzazione dei prezzi e al libero mercato, i banchieri gonfiarono una bolla creditizia immobiliare.  Il reddito degli affitti fu capitalizzato in finanziamenti bancari e speso per pagare gli interessi. Tutto ciò fu enormemente redditizio per i banchieri ma lasciò i paesi baltici e gran parte dell’Europa Centrale in una situazione debitoria tesa e con un capitale in negativo entro il 2008.  I neoliberali plaudono ai livelli salariali che hanno fatto precipitare e al PIL in calo, come a una storia di successo, perché quei paesi hanno trasferito l’onere fiscale sul lavoro, piuttosto che sulla proprietà o sulla finanza. I governi hanno salvato le banche a spese dei contribuenti.

E’ assiomatico che la soluzione a ogni grande problema sociale tenda a crearne di maggiori, non sempre intenzionalmente! Dal punto di vista del settore finanziario la “soluzione alla crisi dell’Eurozona consiste nell’invertire gli obiettivi dell’Era Progressista di un secolo fa, quella che speranzosamente John Maynard Keynes definì nel 1936 “l’eutanasia di chi vive di rendita (rentier).”  L’idea era di subordinare il sistema bancario a servire l’economia invece del contrario.  Invece la finanza è diventata il nuovo modo di fare la guerra, meno evidentemente sanguinoso ma con gli stessi obiettivi delle invasioni vichinghe di mille anni fa e con la conseguente conquista coloniale dell’Europa: appropriazione di terre e di risorse naturali, di infrastrutture e di qualsiasi altra attività che possa generare un flusso di entrate.  Fu per capitalizzare e stimare tali valori, ad esempio, che Guglielmo il Conquistatore compilò dopo il  1066 il Domesday Book [il ‘libro del giorno del giudizio’, un censimento delle proprietà inglesi – n.d.t.], un modello per  calcoli in stile BCE e FMI di oggi.

L’appropriazione del surplus economico per rimborsare i banchieri sta capovolgendo i valori tradizionali della maggior parte degli europei.  L’imposizione dell’austerità economica, lo smantellamento della spesa sociale, le svendite del patrimonio pubblico, la de-sindacalizzazione del lavoro, i livelli salariali in caduta, il ridimensionamento dei piani pensionistici e dell’assistenza sanitaria in paesi soggetti a regole democratiche richiede di convincere gli elettori che non ci sono alternative. Si afferma che senza un sistema bancario redditizio (non importa quanto predace) l’economia andrà a pezzi con le perdite bancarie sui prestiti cattivi e sui giochi d’azzardo che abbatteranno il sistema dei pagamenti. Nessun organismo regolamentare potrà essere d’aiuto, nessuna miglior politica fiscale, niente se non la consegna del controllo ai lobbisti per salvare le banche dal perdere le pretese finanziarie che hanno costruito.

Quello che vogliono le banche è che il surplus economico sia utilizzato per pagare gli interessi e non sia utilizzato per migliorare il livello di vita, la spesa pubblica o addirittura per nuovi investimenti di capitale. Le attività di ricerca e sviluppo richiedono troppo tempo. La finanza vive nel breve termine. Questa prospettiva di breve termine è autodistruttiva e tuttavia viene presentata come scienza.  L’alternativa, viene detto agli elettori, è la schiavitù: interferire con il “libero mercato” attraverso regolamentazioni della finanza e persino con una fiscalità progressiva.

Naturalmente c’è un’alternativa. E’ quella che la civiltà europea dagli Scolastici del tredicesimo secolo all’Illuminismo e alla fioritura dell’economia politica classica ha cercato di creare: un’economia libera da redditi non guadagnati, libera da poteri forti che utilizzino privilegi speciali per “ricavare una rendita”.  Per mano dei neoliberali, invece, il libero mercato è un mercato libero a favore della classe dei redditieri perché essi ottengano interessi, rendite e monopolio sui prezzi.

Gli interessi dei redditieri [rentier] presentano il proprio comportamento come un’efficiente “creazione di ricchezza”.  Le scuole di economia aziendale insegnano ai privatizzatori come organizzare prestiti finanziari e collocamento di obbligazioni impegnando tutto quello che possono affinché i servizi pubblici infrastrutturali siano ceduti dai governi.  L’idea è di utilizzare le entrate per pagare gli interessi alle banche e agli obbligazionisti e poi conseguire un utile di capitale aumentando i pedaggi per l’accesso alle strade e ai porti, all’acqua e all’utilizzo delle fognature e ad altri servizi fondamentali.  Ai governi viene detto che le economie possono essere gestite in modo più efficiente smantellando i programmi pubblici e svendendone il patrimonio.

Il divario tra lo scopo ostentato e l’effetto reale non è mai stato più ipocrita.  Rendere i pagamenti di interessi (e anche gli utili di capitale) esenti da imposte priva i governi delle entrate dalle tariffe degli utenti cui rinunciano, aumentando così i loro deficit di bilancio.  E invece di promuovere la stabilità dei prezzi (l’apparente priorità della BCE) la privatizzazione aumenta i prezzi delle infrastrutture, degli alloggi e di altri costi del vivere e fa affari con l’addebito di interessi e di altre spese finanziarie generali, e assicura remunerazioni molto più elevate alla dirigenza.  E’ dunque soltanto un’affermazione ideologica automatica che questa politica sia più efficiente semplicemente perché a indebitarsi sono i privatizzatori e non il governo.

Non c’è alcuna necessità tecnica o economica che la dirigenza finanziaria europea imponga la depressione a gran parte della popolazione.  Ma c’è una grande occasione di profitto per le banche che hanno ottenuto il controllo della politica economica della BCE.  A partire dagli anni ’60, la crisi della bilancia dei pagamenti ha offerto ai banchieri e agli investitori liquidi di prendere il controllo della politica fiscale, di trasferire l’onere fiscale sul lavoro e di smantellare la spesa sociale a favore delle sovvenzioni a investitori stranieri e al settore finanziario.  Essi guadagnano dalle politiche d’austerità che riducono la qualità della vita e la spesa sociale.  Una crisi del debito consente all’élite finanziaria nazionale e ai banchieri stranieri di indebitare il resto della società, utilizzando i propri privilegi creditizi (o i risparmi derivanti da politiche fiscali meno progressive) come leva per impossessarsi di beni e per ridurre le popolazioni in uno stato di dipendenza dal debito.

Il tipo di guerra che oggi divora l’Europa è dunque più che economica nella sua portata.  Minaccia di diventare una linea di divisione storica  tra l’epoca dello scorso mezzo secolo di speranza e di potenziale tecnologico e una nuova era di polarizzazione con l’oligarchia finanziaria che prende il posto dei governi democratici e riduce le popolazioni in uno stato di schiavitù del debito.

Perché un’appropriazione del patrimonio e del potere così sfacciata possa riuscire, è necessario che una crisi sospenda i normali processi legislativi politici e democratici che vi si opporrebbero. Il panico e l’anarchia politici creano un vuoto in cui gli arraffoni possono muoversi velocemente, usando la retorica dell’inganno finanziario e di un’economia d’accatto per razionalizzare soluzioni egoistiche attraverso una visione falsa della storia economica e, nel caso dell’odierna BCE, della storia tedesca in particolare.

* * *

I governi non hanno bisogno di indebitarsi presso banchieri commerciali o altri finanziatori. Sin da quando è stata fondata la Banca d’Inghilterra, nel 1694, le banche centrali hanno stampato denaro per finanziare la spesa pubblica. Anche i banchieri creano liberamente denaro quando fanno un prestito e accreditano il conto del cliente in cambio di un pagherò gravato da interessi. Oggi queste banche possono prendere a prestito riserve dalle banche centrali governative a un basso tasso d’interesse (0,25% negli Stati Uniti) e prestare quel denaro a tassi più elevati.  Cosicché le banche sono ben liete di vedere le banche centrali governative creare credito da prestar loro.  Ma quando si tratta di governi che creino  moneta per finanziare i propri deficit di bilancio da spendere nel resto dell’economia, le banche preferirebbero avere questo mercato e i relativi interessi solo per sé.

Le banche commerciali europee sono particolarmente categoriche riguardo al fatto che la Banca Centrale Europea non dovrebbe finanziare i deficit governativi.  Ma la creazione privata di credito non è necessariamente meno inflattiva della monetizzazione governativa dei propri deficit (semplicemente stampando il denaro necessario). La maggior parte dei prestiti delle banche commerciali sono concessi con garanzie su immobili, azioni e obbligazioni, fornendo credito che viene utilizzato per rilanciare i prezzi degli alloggi e dei titoli finanziari (come nel caso delle acquisizioni a debito).

E’ principalmente il governo che spende il credito nell’economia “reale”, nella misura in cui i deficit del bilancio pubblico impiegano lavoro o sono spesi in beni e servizi.  I governi evitano di pagare interessi facendo stampare denaro alle proprie banche centrali sulle proprie tastiere dei computer anziché prendere a prestito da banche che fanno la stessa cosa sulle loro tastiere.  (Abraham Lincoln non fece altro che stampare moneta quando finanziò la Guerra Civile statunitense con il “biglietti verdi”).

Alle banche piacerebbe utilizzare il proprio privilegio di creare credito per ricavare interessi da prestiti ai governi per finanziare i deficit dei bilanci pubblici.  Esse hanno dunque un interesse egoistico a limitare l’ “opzione pubblica” di monetizzare i propri deficit di bilancio.  Per garantirsi il monopolio del proprio privilegio di creare credito, le banche hanno montato una vasta campagna di denigrazione dell’avversario riguardo alla spesa governativa e, in realtà, contro l’autorità governativa in generale, che risulta essere l’unica autorità con un potere sufficiente a controllare il loro potere o a offrire opzioni finanziarie alternative, come fanno le banche del risparmio postale in Giappone, in Russia e in altri paesi.  Questa concorrenza tra banche e governo spiega le false accuse mosse alla creazione di credito da parte del governo in quanto dichiarata più inflazionistica di quella della banche commerciali.

La realtà è chiarita dal confronto tra il modo in cui gli Stati Uniti, l’Inghilterra e l’Europa gestiscono le proprie finanze pubbliche.  Il Tesoro statunitense è di gran lunga il maggior debitore e le sue banche maggiori sembrano avere un capitale negativo, essendo debitrici nei confronti dei propri depositanti e di altre istituzioni finanziarie di somme molto superiori a quelle che possono essere pagate con il loro portafoglio di prestiti, investimenti e giochi finanziari assortiti.  Tuttavia, mentre i disordini finanziari globali si intensificano, gli investitori istituzionali investono il loro denaro in buoni del tesoro USA, in misura così vasta che questi titolo non rendono più dell’1%.  Per contro, un quarto del settore immobiliare USA ha un capitale negativo, gli stati e le amministrazioni cittadine statunitensi si trovano a confrontarsi con l’insolvenza e devono ridimensionare le spese.  Grandi imprese finiscono in bancarotta, i piani pensione sono in arretrati sempre maggiori, e tuttavia l’economia USA resta una calamita per i risparmi globali.

Anche l’economia inglese sta vacillando, e tuttavia il governo paga solo il 2% di interessi. Ma i governi europei pagano più del 7%. Il motivo di tale disparità è che questi ultimi sono privi dell’ “opzione pubblica” di creare moneta. L’avere una Federal Reserve Bank o la Banca d’Inghilterra che possono stampare denaro per pagare interessi o rinnovare i debiti esistenti è ciò che rende gli Stati Uniti e l’Inghilterra diversi dall’Europa. Nessuno si aspetta che queste due nazioni siano costrette a svendere i terreni pubblici e altri beni per raccogliere i fondi per pagare (anche se possono farlo come scelta politica).  Dato che il Tesoro USA e la Federal Reserve possono creare nuova moneta, ne consegue che, fintanto che i debiti del governo sono denominati in dollari, possono firmare abbastanza cambiali sulle tastiere dei propri computer da far sì che l’unico rischio corso dai detentori di buoni del tesoro USA è quello del tasso di cambio del dollaro rispetto alle altre valute.

Per contro, l’Eurozona ha una banca centrale ma l’articolo 123 del Trattato di Lisbona vieta alla BCE di fare quello che le altre banche centrale sono state fondate per fare: creare il denaro per finanziare i deficit di bilancio governativi o per rinnovare prestiti in scadenza.  Gli storici del futuro senza dubbio troveranno notevole che ci sia realmente della razionalità a sostegno di tale politica, o almeno la pretesa di una storia di copertura.  E’ una cosa così inconsistente che qualsiasi studente di storia può capire quanto sia distorta. L’affermazione è che se una banca centrale crea credito, ciò minaccia la stabilità dei prezzi.  A essere considerata inflazionistica è solo la spesa governativa, non il credito privato!

L’amministrazione Clinton ha equilibrato il bilancio del governo USA alla fine degli anni ’90, e tuttavia stava esplodendo l’Economia delle Bolle.  D’altro canto il Tesoro e la Federal Reserve hanno inondato l’economia con 13 trilioni di dollari di crediti al sistema del credito bancario dopo il settembre 2008 e con ulteriori 800 miliardi di dollari l’estate scorsa attraverso il programma di Agevolazione Quantitativa della Federal Reserve (QE2).  E tuttavia i prezzi al consumo e delle materie prime non stanno salendo.  Nemmeno i prezzi degli immobili e del mercato azionario sono rilanciati.  Dunque l’idea che più denaro significhi prezzi più alti (MV=PT *) oggi non funziona.    [* Equazione degli Scambi (ES)di Fisher:MV = PT,  dove M = quantità  di moneta, V = velocità di circolazione della moneta, T = numero di transazioni, P = livello generale dei prezzi – n.d.t.].

Le banche commerciali creano debito. E’ il loro prodotto. La leva su debito è stata utilizzata per più di un decennio per rilanciare i prezzi – rendendo più costoso per i cittadini statunitensi avere una casa o acquistare una polizza che garantisca un reddito pensionistico – ma l’economia odierna sta soffrendo di una deflazione da debito con i redditi personali, quelli da attività e le entrate fiscali che sono dirottati a rimborsare i debiti anziché a spendere in beni o a investire o ad assumere.

Molto più impressionante è la parodia della storia tedesca che viene ripetuta in continuazione, come se la ripetizione in qualche modo possa far smettere alla gente di ricordare quello che in realtà è accaduto nel ventesimo secolo.  A sentir raccontare la storia dai dirigenti della BCE, sembrerebbe avventato da parte di una banca centrale finanziare il governo, a motivo del rischio di super-inflazione. Vengono esibiti ricordi dell’inflazione di Weimar in Germania negli anni ’20.   Ma, esaminato, ciò risulta essere quello che gli psichiatri chiamano un ricordo artificiale: una condizione in cui un paziente è convinto di aver sofferto un trauma che sembra reale, ma che in realtà  non esiste.

Quel che è accaduto nel 1921 non è stato un caso di governi indebitatisi presso banche centrali per finanziare spese interne come programmi sociali, pensioni o assistenza sanitaria come oggi.  Piuttosto l’obbligo della Germania di pagare le riparazioni ha portato la Reichsbank a inondare i mercati delle valute estere di marchi tedeschi per ottenere la valuta necessaria per comprare sterline inglesi, franchi francesi e altre valute per pagare gli Alleati, che usavano quel denaro per rimborsare i debiti degli eserciti Inter-Alleati verso gli Stati Uniti.  L’iperinflazione della nazione ha avuto origine dal suo obbligo di pagare le sue obbligazioni in valuta estera.  Nessun importo di tassazione interna avrebbe raccolto la valuta straniera di cui era programmato il pagamento.

Arrivati agli anni ’30 questo fenomeno era ben noto, spiegato da Keynes e da altri che avevano analizzato i limiti strutturali della capacità di pagare il debito estero imposto indipendentemente dalla capacità di attingere ai bilanci valutari nazionali in essere.  Dal testo del 1931 di Salomon Flink ‘The Reichsbank and Economic Germany’ agli studi sulle iper-inflazioni cilena e di altri paesi del Terzo Mondo, gli economisti hanno scoperto all’opera una causa comune, basata sulla bilancia dei pagamenti. Per primo arriva un crollo dei rapporti di cambio. Ciò aumenta il prezzo delle importazioni e, in conseguenza, il livello nazionale dei prezzi.  Servono più soldi per effettuare acquisti a prezzi più alti.  La sequenza statistica e la catena causale portano dal deficit della bilancia dei pagamenti al deprezzamento della moneta aumentando i costi delle importazioni e da questo aumento dei prezzi alla immissioni di liquidità, non il contrario.

Gli odierni sostenitori del “libero mercato” che scrivono nella tradizione monetarista di Chicago (fondamentalmente quella di David Ricardo) escludono dai loro calcoli le dimensioni del debito estero e di quello nazionale.  E’ come se il “denaro” e il “credito” fossero beni da barattare contro merci.  Ma un conto bancario o altre forme di credito si traduce in debito sull’altra colonna del bilancio. Il debito di una parte è il risparmio di un’altra parte e la maggior parte dei risparmi oggi viene prestata a interesse, assorbendo denaro dai settori non finanziari dell’economia.  Il dibattito è ridotto a un rapporto semplicistico tra la fornitura di denaro e il livello dei prezzi e, in realtà, solo il livello dei prezzi al consumo,  non dei prezzi del patrimonio. Nella loro ansia di opporsi alla spesa governativa – e in realtà di smantellare il governo e sostituirlo con pianificatori finanziari – i monetaristi neoliberali trascurano il carico del debito imposto oggi dalla Latvia all’Islanda all’Irlanda alla Grecia, Italia, Spagna e Portogallo.

Se l’euro andrà a pezzi sarà a motivo dell’obbligo dei governi di rimborsare i banchieri con soldi che devono essere presi a prestito invece che creati dalle banche centrali.  Diversamente dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra che possono creare credito da parte delle banche centrali sulle tastiere dei loro computer per evitare che l’economia avvizzisca o diventi insolvente, la costituzione tedesca e il Trattato di Lisbona impediscono alla banca centrale di fare altrettanto.

L’effetto è l’obbligo per i governi di indebitarsi a interesse presso le banche centrali.  Ciò dà ai banchieri la capacità di creare una crisi, minacciando di portare le economie fuori dall’Eurozona se non si sottomettono alle “condizioni” loro imposte in quella che sta rapidamente diventando una guerra di classe della finanza contro il mondo del lavoro.

Togliere alla banca centrale dell’Europa il diritto di privare i governi del potere di creare moneta

Una delle tre caratteristiche che definiscono uno stato-nazione è il potere di creare moneta. Una seconda caratteristica è il potere di riscuotere imposte. Entrambi questi poteri sono in corso di trasferimento dalle mani di rappresentanti democraticamente eletti a quelle del settore finanziario, come effetto dell’aver legato le mani al governo.

La terza caratteristica di uno stato-nazione è il potere di dichiarare guerra.  Quello che accade oggi è l’equivalente di una guerra, ma contro il potere del governo! E’, soprattutto, una modalità finanziaria di condurre la guerra e gli scopi di questa appropriazione finanziaria sono gli stessi di quelli di una conquista militare: primo, la terra e le ricchezze del sottosuolo su cui imporre rendite come tributo; poi le infrastrutture pubbliche per ricavare rendite dalle tariffe di accesso; e, terzo, ogni altra impresa o bene di demanio pubblico.

In questa nuova guerra finanziarizzata, i governi sono spinti ad agire da forze dell’ordine per conto dei conquistatori finanziari contro le loro stesse popolazioni nazionali.  Di certo questa non è una cosa nuova.  Abbiamo visto la Banca Mondiale e il FMI imporre l’austerità a dittature latinoamericane, a capitribù militari africani e ad altre oligarchie vassalle dagli anni ’60 fino agli anni ’80. L’Irlanda e la Grecia, la Spagna e il Portogallo devono ora essere assoggettate a un simile spogliamento mentre le decisioni politiche pubbliche sono trasferite a organismi finanziari sovra-governativi che agiscono per conto dei banchieri e, attraverso essi, per conto dell’1% della popolazione.

Quando i debiti non possono essere rimborsati o rinnovati arriva il tempo dei pignoramenti.  Per i governi ciò significa svendita di privatizzazioni per rimborsare i creditori. In aggiunta al fatto di essere un arraffamento della proprietà, la privatizzazione mira a sostituire la manodopera del settore pubblico con una forza lavoro non sindacalizzata che abbia minori diritti alla pensione, all’assistenza sanitaria o voce in capitolo sulle condizioni di lavoro.  La vecchia guerra di classe è così di nuovo all’opera, con una svolta finanziaria.  Facendo rattrappire l’economia, la deflazione da debito contribuisce a spezzare la capacità di resistenza del mondo del lavoro.

Inoltre dà ai creditori il controllo sulla politica fiscale.  In assenza di un parlamento pan-europeo con il potere di fissare le regole fiscali, la politica fiscale passa alla BCE.  Agendo per conto delle banche la BCE sembra favorire un’inversione della spinta del ventesimo secolo a una tassazione progressiva.  E, come ha chiarito un lobbista finanziario statunitense, la pretesa dei creditori è che i governi ridefiniscano gli obblighi sociali pubblici come “costi d’utenza”, da finanziare mediante trattenute sulle remunerazioni da passare alle banche perché le amministrino (o ne facciano cattiva amministrazione, a seconda dei casi).  Trasferire l’onere fiscale dalla proprietà immobiliare e dalla finanza al lavoro e all’economia “reale” minaccia così di diventare un arraffamento fiscale che va a sommarsi all’arraffamento delle privatizzazioni.

Questa è un’ottica di breve termine autodistruttiva.  L’ironia è che i deficit di bilancio dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna) si sono originati in larga misura dal non aver tassato la proprietà e un’ulteriore svolta fiscale peggiorerà, anziché stabilizzarli, i bilanci governativi.  Ma i banchieri guardano solo a ciò che possono prendere nel breve periodo.  Sanno che qualsiasi imposta a carico dei patrimoni e delle imprese cui l’esattore rinunci è “disponibile” per gli acquirenti da impegnare presso le banche come interesse.  Così alla Grecia e ad  altre economie oligarchiche  viene detto di “pagarsi il biglietto” tagliando la spesa sociale governativa (ma non la spesa militare per l’acquisto di armi tedesche e francesi) e spostando le tasse sul lavoro e l’industria, e sui consumatori sotto forma di tariffe d’utenza più elevate per i servizi pubblici non ancora privatizzati.

In Inghilterra il primo ministro Cameron afferma che ridimensionare ulteriormente il governo sulla scia della Thatcher e di Blair renderà disponibili ancor più risorse e manodopera da assumere da parte del settore privato.  I tagli fiscali metteranno effettivamente sulla strada molti lavoratori, o almeno li costringeranno a trovare lavori pagati di meno e con meno diritti.  Ma tagliare la spesa pubblica farà avvizzire anche il settore imprenditoriale, peggiorando i problemi fiscali e debitori spingendo le economie ancor più profondamente nella recessione.

Se i governi tagliano la spesa per ridurre la dimensione dei loro deficit di bilancio – o se raccolgono imposte dall’economia in generale per generare un surplus – allora quei surplus risucchieranno denaro dall’economia, lasciando meno da spendere in beni e servizi.  La conseguenza può essere soltanto la disoccupazione, ulteriori insolvenze e fallimenti.  Possiamo considerare l’Islanda e la Latvia come i canarini nelle miniere di carbone finanziarie.  La loro esperienza recente dimostra che la deflazione debitoria porta all’emigrazione, a aspettative di vita minori, a tassi di nascite, di matrimoni e di formazione di famiglie inferiori, ma offre grandi occasioni ai fondi predatori per risucchiare ricchezza verso il vertice della piramide finanziaria.

La crisi economica attuale è una questione di scelta politica, non di necessità.  Secondo la battuta del segretario generale del presidente Obama, Rahm Emanuel: “Una crisi è un’occasione troppo buona per sprecarla.”  In tali casi la spiegazione più logica che debba beneficiarne qualche potere forte.  Le depressioni aumentano la disoccupazione, contribuendo a schiacciare il potere dei lavoratori sindacalizzati e non sindacalizzati. Gli Stati Uniti stanno assistendo a una stretta di bilancio a livello statale e locale (mentre cominciano a essere annunciate bancarotte) con i primi tagli che si verificano nella sfera delle insolvenze pensionistiche.  L’alta finanza viene rimborsata non rimborsando la popolazione che lavora dei risparmi e delle promesse fatte come parte di contratti di lavoro e dei piani privati di previdenza. I pesci grossi stanno mangiando i pesci piccoli.

Questa sembra essere l’idea che il settore finanziario ha di una buona pianificazione economica.  Ma è peggio di un piano a somma zero, in cui l’utile di una parte è la perdita dell’altra.  Si rattrappiranno le economie nel loro complesso e cambieranno forma polarizzandosi tra debitori e creditori.  La democrazia economica cederà il passo all’oligarchia finanziaria, invertendo la tendenza degli ultimi secoli.

L’Europa è pronta a compiere questo passo? Gli elettori riconoscono che spogliare il governo dell’opzione pubblica di creare denaro trasferirà tale privilegio alle banche sotto forma di monopolio? Quanti osservatori hanno identificato la quasi inevitabile conseguenza: il trasferimento della pianificazione economica all’allocazione creditizia bancaria?

Anche se i governi ricorressero all’ “opzione pubblica” creando il proprio denaro per finanziare i loro deficit di bilancio e fornendo all’economia credito produttivo per ricostruire le infrastrutture, rimane un grave problema: che fare del complesso del debito esistente che ora costituisce un peso morto per l’economia? I banchieri e i politici che essi sostengono si rifiutano di svalutare i debiti per riflettere la capacità di rimborso. I legislatori non hanno fornito alla società una procedura legale per le svalutazioni dei debiti, salvo la legge sulla cessione fraudolenta [Fraudulent Conveyance Law] dello Stato di New York che prescrive che i debiti siano annullati se i finanziatori hanno fatto credito senza assicurarsi della capacità di rimborso del debitore.

I banchieri non vogliono assumere la responsabilità dei cattivi prestiti.  Ciò pone il problema finanziario di ciò che i legislatori dovrebbero fare quando le banche sono state così irresponsabili nell’allocare il credito. Ma qualcuno deve subire la perdita.  Dovrebbe essere la società in generale o dovrebbero essere i banchieri?

Non è un problema che i banchieri sono preparati a risolvere. Loro vogliono trasferire il problema ai governi e definire il problema in termini di come i governi possono “rimetterli in sesto”.  Quella che definiscono una “soluzione” al problema dei cattivi debiti consiste nel fatto che governo dia loro titoli buoni in cambio di prestiti cattivi (“contanti in cambio di spazzatura”), da pagare in pieno da parte dei contribuenti.  Avendo organizzato un enorme aumento di ricchezza per sé stessi, i banchieri ora vogliono prendere i soldi e scappare, lasciando le economie tormentate dai debiti. Le entrate che non possono essere pagate dai debitori saranno ora distribuite, per il pagamento, all’intera economia, aumentando enormemente il costo della vista e del fare impresa per tutti.

Perché dovrebbero essere “rimessi in sesto” a spese del rattrappimento del resto dell’economia?  La risposta dei banchieri è che  i debiti vanno corrisposti ai piani pensionistici dei lavoratori, ai consumatori con depositi bancari e che l’intero sistema crollerà se i governi mancheranno di rimborsare un titolo.   Se messi sotto pressione, i banchieri ammettono di aver acceso assicurazioni sui rischi, di detenere obbligazioni con collaterale debitorio e altre coperture dei rischi.  Ma gli assicuratori sono in gran parte banche USA e il governo USA sta premendo sull’Europa affinché non diventi insolvente danneggiando così il sistema bancario statunitense.  Così il garbuglio del debito è diventato politicizzato a livello internazionale.

Dunque per i banchieri la linea di resistenza consiste nell’incoraggiare l’illusione che non ci sia necessità che essi accettino l’insolvenza degli alti debiti non rimborsabili che hanno incoraggiato.  I creditori insistono sempre sul fatto che il debito generale può essere mantenuto se soltanto i governi ridurranno altre spese, aumentando contemporaneamente le imposte a carico dei singole e delle imprese non finanziarie.

Il motivo per cui ciò non funzionerà è che cercare di incassare l’odierna dimensione del debito colpirà la sottostante economia “reale”, rendendola ancor meno in grado di pagare i propri debiti.  Quello che è iniziato come un problema finanziario (“cattivi debiti”) si trasformerà ora in un problema fiscale (“cattive imposte”). Le tasse sono un costo per le imprese allo stesso modo in cui è un costo rimborsare un debito. Entrambi i costi devono riflettersi sui prezzi dei prodotti.  Quando in contribuenti sono gravati di tasse e di debiti dispongono di meno entrate disponibili per i consumi.  Così i mercati avvizziscono, ponendo sotto ulteriore pressione la redditività delle imprese nazionali.  Tale combinazione rende qualsiasi paese che segua un politica simile un produttore ad alto costo e, in conseguenza, un paese meno competitivo sui mercati globali.

Questo tipo di pianificazione finanziaria – e la sua parallela svolta fiscale – porta alla deindustrializzazione.  Creando denaro a corso forzoso da parte della BCE o del FMI si lascia il debito al suo posto, mantenendo la ricchezza e il controllo dell’economia nelle mani del settore finanziario.  Le banche possono ricevere il pagamento dei debiti incorsi per proprietà eccessivamente gravate da mutui ipotecari solo se i debitori sono sollevati da qualche tassa sul patrimonio immobiliare.  Imprese industriali a corto di disponibilità a causa dei debiti possono rimborsarli solo ridimensionando gli impegni pensionistici, l’assistenza sanitaria e gli stipendi dei propri dipendenti, o riducendo i pagamenti di imposte e tasse al governo. In pratica “onorare i debiti” finisce per tradursi in una deflazione da  debito e in una stretta economica generale.

Questo è il piano economico dei finanzieri.  Ma lasciare la politica fiscale e la pianificazione centralizzata nelle mani dei banchieri finisce per essere l’opposto di ciò su cui verteva l’economia del libero mercato degli ultimi secoli.  L’obiettivo classico consisteva nel minimizzare il debito generale, nel tassare le rendite fondiarie e da risorse naturali e nel mantenere i prezzi monopolistici in linea con gli effettivi costi di produzione (“valori”).  I banchieri hanno prestato sempre più a valere sulle stesse entrate che gli economisti del libero mercato consideravano la base fiscale naturale.

Dunque qualcosa deve cedere.  Si tratterà degli ultimi secoli di filosofia economica liberale del libero mercato, con la cessione ai banchieri della pianificazione del surplus economico? O la società riaffermerà la filosofia economica classica e i principi dell’Era Progressista, e riaffermerà il modello sociale dei mercati finanziati intesi a promuovere la crescita a lungo termine con minimi costi per la vita e l’imprenditoria?

Almeno nei paesi più pesantemente indebitati, gli elettori europei si stanno risvegliando davanti a un colpo di stato oligarchico in cui la tassazione e la pianificazione e il controllo dei bilanci stanno passando nelle mani di dirigenti nominati dal cartello internazionale dei banchieri.  Questo risultato è l’opposto di tutto ciò su cui si è incentrata l’economia del libero mercato degli ultimi secoli.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta sul Frankfurter Allgemeine Zeitung del 3 dicembre 2011 sotto il titolo “Der Krieg der Banken gegen das Volk” [La guerra delle banche contro il popolo].

 

MICHAEL HUDSON è un ex economista di Wall Street. Professore insigne di ricerca all’Università del Missouri a Kansas City (UMKC) è autore di numerosi libri tra cui  ‘Superimperialism: The Economic Strategy of American Empire’ [Il super-imperialismo: strategia economica dell’impero statunitense] (nuova edizione, Pluto Press, 2002). Ha contribuito a ‘Hopeless: Barack Obama and the Politics of Illusion’ [Senza speranza: Barack Obama e la politica dell’illusione] in uscita presso AK Press.  Può essere raggiunto sul suo sito web a mh@michael-hudson.com

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/europe-s-deadly-transition-from-social-democracy-to-oligarchy-by-michael-hudson

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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I banchieri sono i dittatori dell’Occidente

15 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Robert Fisk

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Economia

I banchieri sono i dittatori dell’Occidente

 

Di Robert Fisk

11 dicembre 2011

Siccome scrivo da una zona del mondo che produce più luoghi comuni      per piede quadrato (30 cm circa)  di qualsiasi altra “storia –cioè il Medio Oriente – dovrei forse fermarmi un attimo prima di dire che non ho mai  letto tanta immondizia, tante assolute  stupidaggini  sulla crisi finanziaria mondiale.

Non tratterrò il mio impeto. Mi sembra che l’informazione sul crollo del capitalismo abbia  raggiunto un nuovo minimo che neanche il Medio Oriente può superare per pura e totale ubbidienza proprio nei riguardi delle istituzioni e degli “esperti” di Harvard che hanno aiutato a causare l’intero disastro criminale.

Diamo un calcio alla “Primavera Araba” – espressione che è  di per sé una grottesca  deformazione verbale del grande risveglio arabo/musulmano che sta scuotendo il Medio Oriente – e i paragoni scadenti con le proteste di tipo sociale avvenute nelle capitali occidentali. Siamo stati inondati di servizi giornalistici su come  i poveri o gli svantaggiati  in Occidente hanno “tolto una pagina” dal libro della “Primavera Araba”,  come i dimostranti in America, Canada, Gran Bretagna, Spagna e Grecia sono stati “ispirati” dalle enormi dimostrazioni che hanno fatto cadere in regimi in Egitto, Tunisia  e – fino a un certo punto – la Libia. Queste però sono sciocchezze.

Il vero paragone, è inutile dirlo, è stato evitato dai giornalisti occidentali, così  entusiasti  di esaltare le ribellioni degli Arabi contro la dittatura, così ansiosi di ignorare le proteste contro i governi occidentali “democratici”, così disperati da denigrare queste dimostrazioni, da far credere che sono soltanto un modo di  seguire l’ultima moda  nel mondo arabo. La verità è piuttosto diversa.

Quello che ha spinto gli Arabi a decine di migliaia e poi a milioni nelle strade delle capitali del Medio Oriente, è stata la richiesta di dignità e il rifiuto di accettare che i dittatori locali fossero i veri proprietari dei loro paesi. I Mubarak, i Ben Ali e i Gheddafi e i re e gli emiri del Golfo (e della Giordania) e gli Assad tutti credevano di avere diritto di proprietà su tutte quante le loro nazioni. L’Egitto apparteneva alla S.p.A. Mubarak, la Tunisia alla S.p.A.  Ben Ali (e alla famiglia Traboulsi), la Libia alla S.p.A. Gheddafi . E così via. I martiri arabi della lotta contro la dittatura sono morti per dimostrare che i loro paesi appartenevano alla loro gente.

Questo è il vero parallelo che si può tracciare in Occidente. Le proteste sono in effetti contro l’alta finanza – una causa che ha una perfetta giustificazione. Ciò che hanno veramente predetto, tuttavia, sebbene un po’ in ritardo, è che da decenni acquisiscono una partecipazione in una democrazia fraudolenta: votano doverosamente per i partiti politici che poi consegnano il loro mandato democratico e il potere del popolo alle banche e agli operatori di derivati e alle  agenzie di valutazione (del livello di affidabilità), tutti e tre appoggiati dalla sciatta e disonesta cricca di “esperti” delle migliori università americane e da gruppi di esperti che mantengono la finzione che questa è una crisi della globalizzazione piuttosto che un massiccio raggiro finanziario imposto agli elettori.

Le banche e le agenzie di  valutazione sono diventati i dittatori dell’Occidente. Come i Mubarak e i Ben Ali, le banche credevano – e ancora credono – di essere i proprietari delle loro nazioni. Le elezioni che danno loro il potere sono diventate, grazie alla mollezza e alla collusione dei governi, tanto false come le votazioni alle quali gli Arabi sono stati costretti, decennio dopo decennio, per ungere i proprietari della loro proprietà nazionale. La Goldman Sachs e la Banca Reale di Scozia sono diventate i Mubarak e i Ben Ali degli Stati Uniti e del Regno Unito e ognuno di loro ha inghiottito  la ricchezza della gente sotto forma di   indennità e premi di produzione fasulli per i loro capi  malvagi in una misura infinitamente più rapace di quella che i loro avidi  fratelli di dittatura Arabi potessero immaginare.

Non avevo bisogno che il film di Chrales Ferguson, Inside Job, sulla BBC2 questa settimana – anche se mi è servito –mi insegnasse che le agenzie di valutazione e le banche statunitensi sono intercambiabili, che il loro personale si sposta continuamente  tra l’agenzia, la banca e il governo degli Stati Uniti. I giovanotti  del rating (quasi sempre giovanotti, naturalmente), che in America hanno valutato i  mutui  e i derivativi con l’indice di affidabilità AAA adesso stanno dilaniando con la loro velenosa influenza sui mercati – i cittadini europei,minacciando di abbassare o ritirare proprio le stesse valutazioni di affidabilità dalle nazioni europee che avevano profuso sui criminali  prima del crollo finanziario degli Stati Uniti. Credo che gli eufemismi tendano ad avere la meglio nelle discussioni. Perdonatemi, però: chi sono queste creature le cui agenzie di valutazione ora fanno più paura ai Francesi di quanta ne facesse  Rommel nel 1940?

Perché i miei colleghi giornalisti di Wall Street non me lo dicono? Come mai la BBC e la CCN e  – oh, mio Dio, perfino al-Jazeera – trattano queste comunità criminali come inconfutabili  istituzioni del potere? Perché non si indaga –il film Inside Job si è messo su  quella strada – riguardo a questi scandalosi doppiogiochisti? Mi ricorda molto il modo parimenti codardo con cui molti inviati trattano gli avvenimenti del Medio Oriente, stranamente  evitando qualsiasi critica nei riguardi Israele,  accusati di correità da un esercito di lobbisti pro-Likud (Partito nazionalista liberale di Israele) di spiegare ai telespettatori  perché ci si può fidare del processo di pace americano per il conflitto israelo-palestinese, perché le brave persone sono “moderati” e quelle cattive “terroristi”.

Gli Arabi per lo meno hanno cominciato a non dare peso a queste stupidaggini. Quando però i dimostranti di Wall Street fanno la stessa cosa, diventano “anarchici”, i “terroristi” sociali delle strade americane che osano chiedere che i Bernanke e i Geithner dovrebbero subire lo stesso processo di Hosni Mubarak. Noi in Occidente – i nostri governi – hanno creato i nostri dittatori. Al contrario degli Arabi, però, non possiamo toccarli.

Il Taoiseach (capo del governo) irlandese, Enda Kenny, questa settimana  ha solennemente informato la sua gente che non sono responsabili della crisi in cui si trovano. Lo sapevano già, naturalmente. Non ha detto loro, però, chi sono i colpevoli. Non è ora che Kenny e i suoi amici primi ministri dell’Unione Europea ce lo dicano? E anche i nostri inviati?

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http.//www.znetitaly.org

http://www.zcommunications.org/bankers-are-the-dictators-of-the-west-by-robert-fisk

Fonte: The Indipendent

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly–Licenza Creative Commons   CC BY-NC-SA 3.0

 

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Vertice europeo: storie di unioni fiscali e di adulteri finanziari

14 mercoledì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Jerome E. Roos

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banche, crisi fianziaria, Inghilterra, UE

 

(Non) Salvate l'Euro!

 

di Jéròme E. Roos  -10 dicembre 2011

E’ da sempre un matrimonio difficile, nato da interessi economici e da pressioni familiari più che da amore reciproco.  Per 38 anni i coniugi hanno bisticciato per questioni di soldi – politica agricola comunitaria (CAP) di qua, sconto sui contributi di là – con il continente che di tanto in tanto accusava l’isola di tresche con lo Zio Sam e l’isola che rinfacciava al continente di intromettersi troppo nei suoi affari privati. Ma per molti anni i due sono rimasti insieme per via dei figli e per gli affari di famiglia. La cosa ora può cambiare.

Venerdì mattina un vertice cruciale della UE – pubblicizzato come l’ultima occasione per salvare l’euro dal collasso – è terminato con una drammatica divisione tra il Regno Unito e il resto dell’Europa.  Come ha scritto Michael White per il Guardian “sembra che sia arrivato il Botto Grosso, il momento in cui un governo londinese ha esercitato il famoso diritto britannico di veto su una questione importante della UE e si ritira ai margine dell’Unione Europea, ponendo fine a 50 anni di una politica più o meno coerente.”

La rottura segna  un ulteriore terremoto nella storia europea. Ma rivela anche la misura in cui interessi finanziari  hanno corrotto le menti dei nostri leader e avvelenato i reciproci rapporti.  Gli affari extraconiugali delle nostre élite politiche con le banche ora minacciano la stessa sopravvivenza della famiglia europea.  Sembra che tutti siano disponibili a sacrificare non solo gli affari di famiglia, ma anche gli stessi figli. Nessun prezzo è troppo alto per l’amore dell’oro.

Come sempre, il dolore più grande è sopportato in silenzio dai figli: i cittadini che non sono stati consultati dai propri leader. Le illusioni dell’infanzia riguardo alla solidarietà europea sono state brutalmente sradicate.  Ma, quasi per reprimere la parte del dramma più dura, nessuno sembra parlare dei disgraziati rapporti extraconiugali che sono alla base di tutto quel che accade.  La verità è che sia l’Inghilterra sia l’Europa si sono dedicati ad adulteri finanziari per decenni.

Presentazione degli amanti: Francoforte e La Défense contro la City

Non è mai stato uno scontro tra interessi europei e interessi britannici, come amano descriverlo sia i cosmopoliti continentali sia gli euroscettici inglesi. Dietro il velo dell’ideologia si aggirano potenti interessi finanziari che dettano le scelte delle nostre élite doppiogiochiste.  Come ha riferito il Guardian “Cameron ha esercitato il diritto di veto inglese nelle prime ore della mattina in cui la Francia era riuscita a bloccare una serie di richieste di salvaguardia avanzate dall’Inghilterra per proteggere la City di Londra.”

Più specificamente Cameron aveva richiesto che: (1) “qualsiasi trasferimento di poteri da un’autorità nazione a un’autorità europea sia assoggettabile a veto”; (2) “l’Autorità Bancaria Europea rimanga a Londra”; (3) “alle banche siano richiesti maggiori livelli di capitale” e (4) “alla Banca Centrale Europea siano impediti di tentativi di stabilire che le transazioni denominate in euro abbiano luogo nell’eurozona”.  Sarkozy ha respinto categoricamente le richieste di Cameron.

I motivi di ciò sono davvero molto semplici: (1) Sarkozy non vuole che le banche con sede in Inghilterra ricavino un vantaggio competitivo schivando la tassa sulle transazioni finanziarie da applicare a livello europeo; (2) vuole che l’Autorità Bancaria Europea si trasferisca a Parigi; (3) sa che le banche francesi sono in una posizione molto più debole rispetto a quelle inglesi; e (4) vuole che le transazioni denominate in euro abbiano luogo all’interno dell’eurozona in modo che possano essere canalizzate attraverso  La Défense anziché attraverso la City.

Tirando le somme si ottiene che questa è una battaglia tra banche; uno scontro di capitali. Non ha nulla a che vedere con gli interessi generali europei o inglesi. Se l’eurozona dovesse infrangersi, molte banche tedesche e francesi collasserebbero, di qui la pressione franco-tedesca per l’unione fiscale.  Tuttavia tale unione fiscale imporrebbe regole di stile continentale alla City di Londra, aperta a tutti.  Temendo di perdere la sua posizione competitiva nei confronti di New York, l’Inghilterra si è perciò opposta con forza alla partecipazione.

In vendita: unione d’austerità con paradiso fiscale estero

E’ del tutto chiaro che nel dividersi, Cameron e Merkozy stanno semplicemente schierandosi dalla parte dei loro amanti nell’industria finanziaria.  Il risultato, anziché salvare l’euro e riportare una di quella stabilità di cui c’è tanto bisogno, in realtà rappresenta il peggiore dei mondi possibili.  La Germania, ora l’indiscutibile egemone dell’Europa, userà l’unione fiscale per ottenere i massimi rimborsi per le proprie banche, mentre Londra potrà liberamente assumere il ruolo di paradiso bancario estero.

Wolfgang Munchau ha giustamente evidenziato che “contrariamente a quello che viene riferito, la signora Merkel non sta proponendo una unione fiscale.  Sta proponendo un club dell’austerità, un patto di stabilità sotto steroidi.  L’obiettivo consiste nell’imporre un’austerità a vita, con norme di equilibrio di bilancio incorporate in ogni costituzione nazionale.”  Marti Wolf è analogamente critico e dimostra perché  la Merkel percepisce scorrettamente la crisi come un problema di bilancio, anziché un problema strutturale.”

Come ha appena scritto l’economista premio Nobel, Joseph Stiglitz, molti paesi periferici sono stati in realtà fiscalmente molto più responsabili della stessa Germania: “In Spagna, ad esempio, il denaro è affluito nel settore privato provenendo da banche private.  Dovrebbe tale esuberanza innaturale costringere il governo, volente o nolente, a tagliare gli investimenti pubblici?” Istituzionalizzando la ‘disciplina di bilancio’, l’unione dell’austerità della Merkel rischia rinchiudere la periferia in una depressione permanente.

Questo approccio si dimostrerà doppiamente disastroso.  A parte il fatto che condannerà milioni di europei a decenni di povertà, minerà anche il tentativo di salvare l’euro.  Non è stata la sregolatezza fiscale a causare questa crisi.  Essa è il risultato di squilibri strutturali tra un centro altamente produttivo, che ha beneficiato di un tasso di cambio permanente sottovalutato, e una periferia stagnante che soffre esattamente per il motivo opposto.  I piani della Merkel non fanno nulla per risolvere ciò.

Come le banche, di nuovo, la fanno franca dopo l’omicidio

Quello che è ancora peggio è che il suo piano ignora completamente la situazione spaventosa delle banche europee.  La vera sregolatezza non mai stata nella spesa pubblica dei paesi della periferia, bensì nei finanziamenti privati delle banche principali. Con centinaia di miliardi di euro di liquidità in eccesso che si riversavano nel sistema, le banche francesi e tedesche hanno avidamente acquistato titoli greci, portoghesi e spagnoli e hanno pompato vagoni di capitale straniero nei mercati immobiliari irlandese e spagnolo.

Nel 2009, con gli intermediari che ritiravano i loro soldi dalle azioni e dal settore immobiliare nel corso della crisi creditizia, il settore dei debiti sovrani era diventato “uno dei principali motori del profitto per le grandi banche europee.”  Mentre milioni di persone perdevano il lavoro e la casa, i maggiori operatori in titoli potevano agevolmente portare a casa tra i 7,5 e i 15 milioni di dollari all’anno di soli premi [bonus].  La natura perversa di questo sistema incentivava i banchieri a ignorare i rischi e a spingere ancor più nel debito la periferia.

La conseguenza è stata non soltanto una periferia iper-indebitata ma anche un settore bancario con una leva eccessiva.  Ne è seguito che i prestiti interbancari non hanno fatto che congelarsi, mentre una corsa istituzionale alle banche mette le loro azioni sotto estrema pressione.  Il giorno del vertice, una verifica di resistenza [stress test] ha rivelato che le banche europee stanno soffrendo di un deficit di 115 miliardi di euro.  Moody’s ha appena declassato tre banche francesi e dilagano voci che la Germania potrà dover nazionalizzare la gigantesca Commerzbank.

Le banche reagiscono utilizzando strumenti complessi per sostenere il capitale, ma – proprio come la mal concepita unione d’austerità della Merkel – questi trucchi contabili si limiteranno a ritardare il giorno inevitabile della resa dei conti.  Tuttavia i nostri leader continuano a intestardirsi considerevolmente nei giochi pericolosi che stanno giocando. “Ho sempre detto che i 17 stati dell’eurozona devono riconquistare la credibilità,” ha detto la Merkel. “ E penso che ciò possa avvenire e che avverrà con le decisioni di oggi.”

I bambini non stanno bene, signora Merkel!

Ma i bambini non stanno bene e l’impresa di famiglia si sta sgretolando.  Se questo doloroso divorzio UE-Inghilterra ci dice qualcosa,  è che i nostri leader vanno a letto con potenti interessi finanziari e non può più essere affidato loro il destino del continente.  Prostituire i popoli d’Europa al settore bancario non è una soluzione sostenibile, né è una cosa molto umana da fare da un punto di vista etico.  I buoni europei dovrebbero opporsi con fermezza a questa disastrosa unione fiscale.

Così, ogni volta che vi viene detto “non c’è alternativa”, non credeteci, è una bugia.  Come un funzionario della Banca Centrale Europea ha detto recentemente alla Reuters, “quello che penso sia importante al momento  è non mostrare ai politici che potrebbe esserci un’alternativa, perché nella loro testa ciò potrebbe essere meno costoso delle opzioni di cui dispongono.”  Il tentativo di rendere naturale, e depoliticizzare, questa crisi è una cortina fumogena ideologica intesa a mantenerci strettamente in uno stato di prostituzione finanziaria.

Noi sappiamo che esistono alternative, perché le abbiamo viste funzionare in pratica.  Come ha appena  evidenziato il TIME Magazine, “dall’inizio del movimento la struttura priva di leader sembra funzionare.” Nella misura in cui non funzioni per le grandi istituzioni gerarchiche – come le potenti banche d’investimento e gli irresponsabili governi nazionali – quelle gerarchie devono essere demolite, smontate e ristrutturate dalle fondamenta.

Tornando nel mondo reale, l’Argentina ha già dimostrato che i paesi debitori possono sfidare i creditori stranieri e prosperare, mentre le piccole cooperative di credito hanno resistito alla tempesta finanziaria globale molto meglio delle grandi banche di proprietà privata. In un rapporto del 2009, l’ONU ha osservato che “nemmeno una cooperativa di credito in tutto il mondo ha ricevuto una ricapitalizzazione governativa come conseguenza della crisi finanziaria; esse rimangono ben capitalizzate.”

E dunque i ragazzi non stanno bene, ma c’è un’alternativa. Il nostro compito consiste nel diffondere la verità e organizzarci. Un’altra Europa è possibile!  

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/eu-summit-tales-of-fiscal-union-and-financial-adultery-by-j-r-me-e-roos

Originale: Roarmag.org

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Depressione economica e democrazia

13 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Paul Krugman

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crisi economica, democrazia, ungheria, Unione Europea

di Paul Krugman -11 dicembre 2011

E’ ora di cominciare a chiamare la situazione attuale con il suo nome: depressione.  E’ vero: non è una replica esatta della Grande Depressione, ma questa è una magra consolazione.  La disoccupazione, sia negli Stati Uniti sia in Europa, resta disastrosamente elevata.  I leader e le istituzioni sono sempre più screditati. E i valori democratici sono sotto assedio.

Su quest’ultimo punto non sto abbandonandomi all’allarmismo. Sia sul fronte politico sia su quello economico è importante non cadere nella trappola del “si è visto di peggio”. L’elevata disoccupazione non diventa accettabile solo perché non ha toccato i livelli del 1933; tendenze politiche inquietanti non dovrebbero essere minimizzate solo perché non c’è un Hitler in vista.

Parliamo un po’, in particolare, di quel che succede in Europa; non perché negli Stati Uniti tutto vada bene, bensì perché la gravità degli sviluppi politici in Europa è diffusamente poco compresa.

Innanzitutto la crisi dell’euro sta uccidendo il sogno europeo. La moneta condivisa, che era stata sostenuta per unire le nazioni, ha invece creato un’atmosfera di pesante acrimonia.

Specificamente, le richieste di un’austerità sempre più severa, senza sforzi compensativi di promozione della crescita, hanno causato un doppio danno.  Sono state un fallimento come politica economica, peggiorando la disoccupazione senza ripristinare la fiducia; una recessione estesa a livello europeo sembra ora probabile anche se venisse contenuta la minaccia immediata costituita dalla crisi finanziaria. E le richieste di austerità hanno creato una rabbia immensa, con molti europei furiosi per quello che hanno percepito, correttamente o non correttamente (o in realtà, un po’ in un modo e un po’ nell’altro), come un esercizio di potere con la mano pesante da parte della Germania.

Nessuno che abbia familiarità con la storia europea può guardare a questo risorgere di ostilità senza provare un brivido.  E tuttavia può esserci ancor di peggio in arrivo.

I populisti di destra sono in ascesa dall’Austria, dove il Partito della Libertà (il cui leader era solito coltivare rapporti con i neonazisti) corre, nei  sondaggi, alla pari con i partiti consolidati, alla Finlandia, dove il Partito dei Veri Finlandesi ha avuto risultati elettorali considerevoli lo scorso aprile.  E questi sono paesi ricchi, le cui economie hanno tenuto piuttosto bene. La questione si fa ancor più inquietante nei paesi poveri dell’Europa centrale e orientale.

Il mese scorso la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo ha documentato una forte caduta del sostegno pubblico alla democrazia nei “nuovi paesi europei”, le nazioni che hanno aderito all’Unione Europea dopo la caduta del Muro di Berlino. Non sorprendentemente la perdita di fiducia nella democrazia è stata maggiore nei paesi che hanno sofferto i maggiori crolli economici.

E, mentre parliamo, in almeno una nazione, l’Ungheria, le istituzioni democratiche sono sotto attacco.

Uno dei maggiori partiti ungheresi, il Jobbik, è un incubo proveniente dagli anni ’30: e contro i rom (gli zingari), è antisemita ed ha avuto persino un braccio paramilitare.  Ma la minaccia immediata proviene dal Fidesz, il partito di governo di centrodestra.

Il Fidesz ha conquistato una maggioranza parlamentare schiacciante l’anno scorso, almeno in parte per motivi economici.  L’Ungheria non fa parte dell’eurozona, ma ha sofferto pesantemente a motivo del suo vasto indebitamento in valute straniere e anche, per essere franchi, per la cattiva amministrazione e la corruzione dei partiti liberali di sinistra allora al governo.  Ora il Fidesz, che è riuscito a imporre una nuova costituzione grazie a un voto ossequioso nei confronti della linea del partito, sembra deciso a consolidare una presa permanente sul potere.

I dettagli sono complessi. Kim Lane Scheppele, direttrice del programma per gli Affari Legali e Pubblici alla Princeton – e che ha seguito la situazione ungherese da vicino – mi dice che il Fidesz si sta affidando a una serie di misure sovrapposte per sopprimere l’opposizione.  Una proposta di legge elettorale crea distretti manipolati progettati per rendere quasi impossibile agli altri partiti la formazione di un governo; l’indipendenza della magistratura è stata compromessa e i tribunali sono stati riempiti di personaggi leali al partito; i media statali sono stati convertiti in organi di partito e c’è un giro di vite sui media indipendenti; infine, una proposta di integrazione alla costituzione criminalizzerebbe efficacemente il principale partito di sinistra.

Nel suo complesso, tutto ciò corrisponde a un ripristino di un governo autoritario, sotto una patina sottilissima di democrazia, nel cuore dell’Europa.  Ed è un esempio di quel che può accadere più diffusamente se questa depressione continua.

Non è chiaro cosa possa essere fatto per lo scivolamento dell’Ungheria verso l’autoritarismo.  Il Dipartimento di Stato USA, sia detto a suo merito, è stato particolarmente attento al caso, ma si tratta essenzialmente di una faccenda europea.  L’Unione Europea ha perso l’occasione di bloccare la presa del potere fin dall’inizio, in parte perché la nuova costituzione è stata imposta durante il turno ungherese di presidenza dell’Unione. Sarà molto difficile, ora, invertire quella direzione. E tuttavia i leader europei farebbero meglio a provarci; diversamente rischierebbero di perdere tutto ciò per cui sono schierati.

E dovrebbero anche ripensare le proprie politiche economiche fallimentari; se non lo faranno, ci sarà un ulteriore retrocessione della democrazia, e il crollo dell’euro potrebbe essere la minore delle loro preoccupazioni.

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/depression-and-democracy-by-paul-krugman

Originale: The New York Times

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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La crisi come opportunità per il capitalismo

12 lunedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Mondo, Ursula Huws

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esternalizzazione, globalizzazione, Inghilterra, settore pubblico, sibnistra, sindacato

di Ursula Huws e Ed Lewis   -11 dicembre 2011

Ursula Huws è, tra le altre cose, direttore della società di consulenza in ricerche sociali ed economiche Analytica.  Come parte della serie di articoli del New Left Project [NLP – Progetto per una Nuova Sinistra] dell’annuario del  Socialist Register di quest’anno – La Crisi e la Sinistra –  la Huws ha parlato a Ed Lewis, del NLP, del suo contributo al volume “Crisi come opportunità per il capitalismo: nuova accumulazione attraverso la mercificazione dei servizi pubblici.”

Puoi offrirci una panoramica della tesi che sostieni nel tuo saggio?

Penso che la sinistra, certamente la sinistra inglese, si sia concentrata molto sul vedere la crisi finanziaria come qualcosa che ha a che vedere con le banche e qualcosa a che vedere con la finanziariarizzazione e con l’economia finanziaria.  Tutte le iniziative politiche cui abbiamo assistito di recente – compreso il movimento Occupiamo, che io appoggio assolutamente – si sono concentrate su quanto le banche sono i cattivi, su come cambiare il sistema bancario, su come renderlo responsabile, ecc.  C’è stata pochissima attenzione a quello che sta accadendo in quella che potremmo chiamare ‘economia reale’. E’ un’espressione complicata da usarsi: si è soliti parlare di capitale finanziario e di capitale industriale, come se fossero due cose distinte, cosa che probabilmente era cento anni fa, ma la realtà è che il capitale industriale si comporta sempre più come capitale finanziario.  Abbiamo queste imprese transnazionali che hanno la casa madre in paradisi fiscali, che creano un loro spazio interno globale in cui muovono i loro profitti senza pagare tasse di alcun genere e comportandosi sempre più come banche.

Ma nonostante ciò esiste quella che chiamiamo ‘economia reale’, nel senso che il capitalismo in realtà si affida alla produzione di beni reali che sono consumati da persone del mondo reale e prodotti da persone del mondo reale, per utilizzare un’espressione un po’ datata.  Il capitalismo, indipendentemente da ciò cui si dedicano le banche, entra periodicamente in crisi a motivo del tasso di profitto decrescente e dell’eccessiva accumulazione.  Non è un’idea nuova: Rosa Luxembourg ha scritto in modo molto eloquente del fatto che il capitalismo ha sempre necessità di espandersi all’esterno di sé stesso.  La sua grande intuizione è che c’è bisogno di nuovi mercati esterni al capitalismo perché il plusvalore deve essere ricavato dalla forza lavoro e non accadrà mai che i lavoratori possano acquistare tutti i beni che vengono prodotti, perché l’importo totale dei loro salari sarà sempre inferiore al valore di tali beni.  E allora il capitale deve trovare nuovi mercati al proprio esterno, espandendosi, ad esempio, in parti del mondo che sono pre-capitaliste, di cui ne sono rimaste pochissime.  Deve anche ampliarsi al proprio esterno per altre ragioni.  Deve trovare nuove fonti di lavoro servile, che chieda di meno; deve trovare costantemente nuove fonti di materie prime. Ha sempre più bisogno, in questi giorni e in quest’epoca, di trovare nuovi luoghi in cui scaricare i detriti che derivano da tutta questa produzione di cose fisiche (problema che si aggrava esponenzialmente a dispetto di tutta la retorica sull’ “economia incorporea”). Di fatto nel mondo vengono prodotte cose concrete in misura sempre maggiore rispetto a quanto sia accaduto storicamente in precedenza.  Ma il capitale ha anche costantemente bisogno di nuove cose da trasformare in merci. Questa è quella che i marxisti chiamano l’accumulazione primitiva. In passato le nuove merci sono derivati da aspetti della natura, dal corpo umano, con il generare nuove merci mediante, ad esempio, sostante  o chirurgie cosmetiche. Il capitale è enormemente inventivo nella sua capacità di generare nuove merci più o meno dal nulla.  Ma vorrei sostenere che c’è un altro tipo di mercificazione che sta avendo luogo proprio al giorno d’oggi.

Ora, è chiarissimo che circa all’epoca della crisi finanziario, e legata ad essa in modi complessi,  c’è stata un’altra crisi in corso nell’economia reale.  Se si guarda alle statistiche dell’anno 2006-2007, ad esempio, si vede che c’è stata una  concentrazione del capitale più rapida che mai prima in passato.  In quell’anno la quota di mercato delle società multinazionali è cresciuta tremendamente.  Tali società hanno anche accresciuto la loro quota dell’occupazione globale.  E le fusioni e incorporazioni hanno raggiunto livelli record.  Ma mentre era in corso questa enorme concentrazione di potere da parte delle imprese transnazionali nell’economia globale , c’è stata anche, in realtà, una caduta degli investimenti reali in nuove produzioni, quelli che sono noti come gli investimenti nei ‘campi vergini’.  C’è stato tutto questo denaro che si è riversato in giro, ci sono state tutte queste società che hanno comprato altre società, e c’è stata un’enorme crescita in termini di quota della produzione globale detenuta dalle imprese transnazionali, la quota dell’occupazione mondiale è stata dominata da esse, ma esse non hanno fatto altro che ingozzarsi del potenziale esistente. Hanno cannibalizzato altre imprese, non c’è stata sufficiente produzione nuova.  E dunque c’è stata una crisi di accumulo. Da dove potevano venir fuori le nuove merci?

Ora, una delle tendenze che in effetti si è sviluppata, quasi ignorata almeno negli ultimi quindici anni, è stata che uno dei maggiori campi di espansione delle imprese multinazionali è stata in effetti il settore pubblico.  La mercificazione dei servizi pubblici non è un’accumulazione primitiva nel senso in cui la conosciamo, ovvero di generare nuove merci da aree della vita precedentemente esterne all’economia monetaria, come il lavoro domestico o il corpo; è in realtà la mercificazione del patrimonio collettivo della classe lavoratrice. Perché, se vogliamo, lo stato sociale è quel che i lavoratori sono riusciti a riprendersi dal capitale.  E la loro quota del plusvalore  che è stata ri-appropriata dai nostri genitori e dai nostri nonni, in modo molto eroico, in realtà, non avanzando rivendicazioni economicistiche a breve termine, ma rivendicando cose per l’intera classe lavoratrice.  E questo è ciò che ora viene espropriato.  E dunque per queste imprese transnazionali la crisi finanziaria è stata come una specie di Babbo Natale: questa splendida occasione di costringere i governi a mercificare enormi spazi del settore pubblico, a creare un nuovo campo di accumulazione del capitale nel nome del taglio ai bilanci pubblici per far quadrare i conti.

 Parliamo del processo di mercificazione dei servizi pubblici. Come si verifica?

Il processo di mercificazione lo si può vedere da un punto di vista storico.  E’ un processo che si svolge in diverse fasi.  Prima di tutto dobbiamo riconoscere che l’intera attività economica si basa sull’ingegno, le abilità, il sapere e la creatività umani.  Sono necessari a qualsiasi processo economico. Nella prima fase della mercificazione i processi devono essere standardizzati. Se non sono standardizzati si ha quella che in effetti è una specie di produzione artigiana: la persona competente che costruisce, ad esempio, un canestro, e poi fa un altro canestro e poi un altro ancora; ma i costi di produzione di ciascun canestro sono gli stessi.  Una volta che si sia ottenuta la standardizzazione del processo lavorativo e la possibilità di introdurre una divisione del lavoro, il capitalista può investire soldi nel macchinario che produce in serie i canestri e i lavoratori sono ridotti a unità della linea di produzione, producendo grandi quantità di canestri individuali.  Il profitto su ogni singolo canestro si moltiplica in base al numero di canestri che si vendono, il che è fondamentalmente diverso dalla produzione artigiana, pre-capitalista e pre-mercificazione, nella quale, indipendentemente dal numero di canestri prodotti, il profitto per canestro resta lo stesso.  E’ quella logica della produzione in serie che, per me, è l’essenza della mercificazione. E non si applica semplicemente alle merci fisiche; si può applicare a qualcosa come una polizza d’assicurazione, che può anch’essa essere una merce in modo analogo.

La maggior parte dei servizi pubblici implica in realtà una quantità di lavoro non manifesto che non è facile standardizzare e così risulta molto lunga e difficile la procedura di standardizzazione dei processi in modo che possano essere prodotti efficacemente in serie, utilizzando sempre meno lavoro specializzato.  Così la prima fase consiste nel codificare il sapere non manifesto del lavoratore e nello standardizzare quel sapere in modo tale che, anziché basarsi sull’utilizzo, da parte del lavoratore, della propria iniziativa, creatività e specializzazione, sia completamente standardizzato e replicabile, in modo da poter essere affidato a lavoratori sempre meno specializzati.

Una volta realizzata la standardizzazione il processo può essere gestito in base ai risultati.  Così si ha l’introduzione di indicatori di prestazione o roba del genere, cosicché i lavoratori, invece di ricevere un salario ed essere ritenuti affidabili nel fare quello che fanno in modo dedicato e professionale (i lavoratori del settore pubblico tendono ad essere estremamente dediti, se consideriamo i servizi pubblici non mercificati che sono stati prestati per il loro valore d’uso) vengono sempre più valutati in base a cosa producono, misurato da questi indicatori di prestazione o obiettivi o quant’altro.  E una volta che il lavoro può essere amministrato in base ai risultati, esso può essere esternalizzato.  Può essere eseguito da chiunque.  Tutto quel che si deve fare è contare i risultati  e fissare obiettivi per “un numero X di operazioni all’anca” o “un numero X di visite di assistenza sociale a domicilio”, o di qualsiasi altra cosa. Così il tipo di standardizzazione che funziona in fabbrica, diciamo, può essere applicato ai servizi pubblici e dunque il primo stadio della mercificazione dei servizi pubblici consiste nella standardizzazione e tale standardizzazione ha luogo sempre meno in contesti nazionali.  Stiamo parlando di imprese che hanno una divisione del lavoro a livello globale.  C’è dunque questa standardizzazione che sostiene il tutto, compresa la standardizzazione internazionale (le norme ISO) che fissa parametri qualitativi minimi o specifica particolari procedure e c’è bisogno che di assicurarsi che le qualifiche siano riconosciute globalmente in modo che il lavoro possa essere eseguito dovunque nel mondo da persone con le competenze giuste.  O si manda il lavoro all’estero, il che viene definito ‘delocalizzazione’, o si possono mettere al lavoro lavoratori immigrati.

Dunque la fase una del processo di mercificazione consiste nella standardizzazione; la fase due nella gestione per risultato.  La fase tre si realizza quando si possono disaggregare i processi e le organizzazioni.  Un compito può essere eseguito dovunque nel mondo, dove ci sono persone con le competenze giuste e dove si dispone di un’infrastrutture per il trasferimento, perché tutto può essere fatto a distanza.  Così quel che si fa in effetti è introdurre una catena globale di valore in parti dell’economia dove storicamente non esisteva. Quel che abbiamo visto negli ultimi quindici anni, o circa – in parte a motivo della fine della Guerra Fredda, in parte per l’introduzione del trasferimento globale di informazioni e di tecnologia, in parte per la sconfitta della classe lavoratrice nella maggior parte di paesi sviluppati (almeno nel settore privato) – è stata in effetti la creazione di un esercito globale di lavoratori di riserva.

A motivo della standardizzazione, molte delle cose che sono fornite al settore pubblico, come il supporto della tecnologia informatica e l’elaborazione degli stipendi, sono sempre più praticamente le stesse dei servizi forniti al settore privato.  E abbiamo questa nuova razza di imprese multinazionali che è cresciuta per fornire questi servizi esternalizzati, che hanno una divisione globale interna del lavoro loro propria, dove parte del lavoro viene svolto in paesi in via di sviluppo e parte in prossimità della sede del cliente. Hanno un’enorme flessibilità riguardo al poter introdurre lavoratori immigrati, portare i lavoratori dov’è il lavoro, o all’inviare il lavoro ai lavoratori. Sempre più queste imprese dispongono anche di uno spazio globale in cui operare che consente loro di evitare il pagamento delle tasse.

Queste imprese, almeno negli ultimi dieci anni, hanno esplicitamente preso di mira il settore pubblico, ma in un modo quasi invisibile. Poiché i servizi tendono ad essere considerati funzioni marginali, quel che accade è questo: diciamo che un ufficio governativo decida di affidare le pulizie all’esterno; il sindacato dei dipendenti pubblici pensa “beh, gli addetti alle pulizie non sono i nostri lavoratori chiave, pensiamo che sia un peccato, faremo quel che possiamo, ma fondamentalmente quelli di cui ci preoccupiamo sono gli ispettori delle tasse” ecc.  Così sempre più, un numero sempre maggiore di lavoratori è stato staccato dai libri paga pubblici e esternalizzato cosicché i lavoratori sono diventati dipendenti delle imprese globali e in molti casi, quando ciò è accaduto, è accaduto in modo quasi invisibile, perché è stato fatto mediante un trasferimento di personale.  In realtà le persone non vengono licenziate; si dice semplicemente  “oh beh, diamo questo contratto alla Accenture o alla Serco o alla Siemens Business Services o alla Cap Gemini” o a una di quelle imprese.  Ma continua a esserci bisogno delle competenze di quei lavoratori, almeno nella prima fase.  Così, per esempio, supponiamo che un’impresa ottenga un contratto per la tecnologia informatica esternalizzata; in quella società ritroveremo i lavoratori che sono stati trasferiti dall’amministrazione pubblica, dalle amministrazioni locali, dalla BBC o dalla Barclays Bank o da un’impresa industriale come la Fuijitsu, tutti che lavorano fianco a fianco ciascuno con le diverse condizioni di lavoro ereditate [dal precedente datore].

Ora, il sindacato ritiene di aver fatto il suo dovere nel proteggerli considerate le norme TUPE [Transfer of Undertaking Protection of Employment – Protezione dei Lavoratori nei Trasferimenti d’Azienda] che proteggono il loro trattamento economico e lavorativo quando vengono trasferiti.  E così il problema dei sindacati spesso non è “combattiamo l’esternalizzazione”; è “assicuriamoci che conservino la pensione” o cose del genere “quando vengono trasferiti a questa azienda.” Ma il fatto è che le norme TUPE sono state create per situazioni in cui c’è una specie di cambiamento di datore di lavoro ‘una-tantum’; sono state inizialmente progettate per situazioni di fusione o di acquisizione.  E quel che succede con questi contratti è che essi sono in realtà rinnovati ogni cinque anni, o circa, e ogni volta che sono rinnovati c’è la potenzialità di ulteriori deterioramenti.

Questo processo sembra centrale per la creazione di una forza lavoro precaria nel settore pubblico.

Sta trasformando i lavoratori del settore pubblico in dipendenti del settore privato.  Ma non si tratta soltanto di cambiare il loro status; si tratta anche di trasformarli in dipendenti di imprese globali che hanno una divisione globale del lavoro, mettendoli in concorrenza diretta con lavoratori di parti del mondo a bassa paga con procedure lavorative sempre più standardizzate e quindi proletarizzandoli.

Hai detto in precedenza che la crisi finanziaria ha dato al capitale un’opportunità di ampliarsi ulteriormente nel settore pubblico. Come?

Poiché i governi nazionali sono stati costretti a salvare le banche, ciò ha creato un enorme imperativo di taglio dei bilanci del settore pubblico.  Questo è stato visto dalla nuova razza di multinazionali, che considerano il proprio futuro dipendente in particolare dalla crescita del proprio mercato nel settore pubblico,  come un’enorme opportunità, perché hanno compreso che la pressione sui bilanci pubblici si sarebbe trasferita, in termini politici, in una pressione a esternalizzare, come modo per risparmiare denaro.  Esternalizzare è visto come un modo per risparmiare soldi, anche se c’è una quantità di aspetti per cui l’esternalizzazione non fa risparmiare denaro.  C’è stata una retorica che presuppone che il settore privato sia più efficiente; l’idea è così radicata nella mente della gente da essere una specie di nuovo  comune buon senso che afferma che ‘sarà sempre più economico esternalizzare’. Così le imprese hanno visto questo come un’occasione d’oro per concludere una quantità di nuovi contratti.

Va ricordato che, arrivati al 2007, l’esternalizzazione nel settore pubblico in Inghilterra era già un’industria enorme; era un’industria che contava per il 6% del PIL, più vasta di industrie come quelle del cibo e delle bevande (i numeri sono riportati nel mio saggio). Era già un settore enorme, con un valore aggiunto molto alto, che cercava di espandersi.  Se si riesaminano i documenti che sono stati prodotti prima della crisi, vi è già un  consenso molto chiaro su fatto che entrare nel mercato del settore pubblico era il modo di espandersi, in particolare per queste società che fornivano servizi esternalizzati e anche per le imprese che si occupavano soltanto di subappalto della manodopera, come la Manpower e la Addeco.

Non solo questo è stato il principale spazio di espansione, ma le imprese hanno preso particolarmente di mira la salute e l’istruzione come due aree con le massime potenzialità di espansione e non penso che sia un caso che stiamo assistendo, indipendentemente dai tagli, alle attuali iniziative che intendono spalancare la porta, ad esempio, alle università private statunitensi perché facciano il loro ingresso nel mercato inglese, e a varie altre forme di fornitura nel campo, in particolare, dell’assistenza sanitaria e dell’istruzione private, ma anche in altri settori.  C’è uno spazio enorme per una continua espansione: il 6% del PIL può sembrare molto, ma la spesa pubblica complessiva si aggira sul 47% del PIL e dunque le opportunità sono enormi.

Qual è stato l’impatto sui lavoratori di questa mercificazione?

I lavoratori del settore pubblico sono rimasti gli unici a mantenere standard di opportunità di lavoro ‘decenti’. Questa è, naturalmente, un’ipersemplificazione.  Ma fondamentalmente i lavoratori che sono stati schiacciati sotto la Thatcher sono stati i lavoratori del settore privato; si potrebbe sostenere che i minatori erano lavoratori del settore pubblico, ma erano addetti alla produzione.  I lavoratori del settore pubblico sono rimasti fortemente sindacalizzati nella maggior parte dei paesi sviluppati; in tutti i paesi della UE, escluso il Belgio, ad esempio, c’è una presenza sindacale più alta nel settore pubblico che in quello privato.  I dipendenti del settore pubblico hanno ferie migliori, non necessariamente una paga migliore ma accordi per un rapporto vita privata-lavoro più equilibrato, accordi per pari opportunità.  Hanno una buona sicurezza del posto, hanno buoni accordi procedurali.

Hanno anche ottenuto maggiore autonomia, spesso … le priorità della standardizzazione sembrano rivolte alla limitazione dell’autonomia, giusto?

Oh, assolutamente.

E tutti questi vantaggi sono stati costantemente erosi.  Devono  lavorare secondo indicatori di prestazione, la procedure sono state molto standardizzate, sempre più amministrate e disciplinate da classifiche e da altri strumenti numerici.

Dunque in un certo senso questi sviluppi colpiscono molto direttamente i dipendenti del settore pubblico, ma colpiscono anche tutti gli altri lavoratori perché tutti i lavoratori hanno beneficiato dei parametri di riferimento fissati dai lavoratori del settore pubblico.  Inoltre gli attuali sviluppi non colpiscono i lavoratori soltanto in quanto lavoratori.  Colpiscono l’intera classe lavoratrice in quanto classe lavoratrice.  Perché ciò che è mercificato è il patrimonio collettivo della classe lavoratrice, sotto forma di questi servizi di assistenza sociale per i quali i lavoratori hanno lottato. Così, se si vuole, è una forma di tripla iella.

Che rapporto ha la tua analisi con la politica contemporanea della sinistra?

Beh, oggi c’è una finestra di opportunità che non resterà aperta a lungo. Nelle prime fasi, in cui i lavoratori sono trasferiti a imprese di esternalizzazione, c’è ancora bisogno di loro; le loro competenze non sono state ancora completamente standardizzate.  Non sono state ancora inserite in un database le dieci domande più frequenti, in modo che qualsiasi lavoratore precario che li sostituisce sia in grado di rispondere.  C’è un processo, anche dopo che la privatizzazione ha avuto luogo, in cui i lavoratori hanno ancora un po’ di forza industriale perché le loro conoscenze non sono state completamente acquisite e codificate.  In questa fase molti sono ancora iscritti al sindacato e sono piuttosto incazzati perché in realtà loro volevano restare dipendenti del settore pubblico.  Volevano svolgere un lavoro che sembrava utile alla società e che non consisteva soltanto nell’arricchire gli amministratori delle imprese.  E a me sembra che quel che i sindacati dovrebbero fare ora  sia organizzare una campagna monumentale per organizzare questi lavoratori, dovremmo attaccare queste imprese.

C’è una straordinaria ironia qui. La vecchia generazione della sinistra in Inghilterra è prevalentemente costituita da lavoratori del settore pubblico; se guardiamo alla base di classe della sinistra, si tratta di insegnanti, di lavoratori sociali.  Negli anni ’70 hanno cercato disperatamente di collegarsi in piccoli gruppi cercando di autoconvincersi di essere membri del proletariato globale.  La tesi allora era “attacchiamo i padroni nel luogo di lavoro, attacchiamo il capitale al suo cuore, è lì che abbiamo conseguito la nostra forza industriale, dove possiamo negare il lavoro e fare la differenza.” Ora, improvvisamente, alla fine … beh, stanno davvero diventando tutti parte del proletariato globale. Ma sembrano aver dimenticato la tesi sindacale.  Questa è una breve finestra di opportunità storicamente senza precedenti perché i lavoratori davvero realizzino il “lavoratori di tutto il mondo unitevi” in modo piuttosto concreto, e attacchino queste imprese.

Naturalmente la sinistra è stata attiva in una molteplicità di modi. Compreso il dire “no ai tagli”.  Ma, secondo me, “niente tagli” è uno slogan sbagliato. Sostenere che il problema sono i tagli significa non cogliere il punto. Perché non si tratta della dimensione del bilancio – intendo dire, naturalmente, che il bilancio è un problema, non sto dicendo di non combattere i tagli – ma limitarsi a dire “andrà tutto bene se ci sarà un bilancio maggiore” significa mancare totalmente il bersaglio riguardo a quello che sta accadendo.  Secondo me lo slogan, al minimo, dovrebbe essere:” Niente esternalizzazioni, niente tagli.”

Vi sono, in realtà, segmenti parecchio importanti del capitale i cui interessi sono di avere un settore pubblico ampio.  Se si guarda alle pubblicazioni delle organizzazioni industriali è assolutamente chiaro che si preoccupano dei tagli nella misura in cui essi si traducono in contratti minori, ma esse apprezzano assolutamente i tagli nel senso che essi costringono gli uffici governativi a considerare con occhio critico i propri bilanci  e a cercare modi per risparmiare denaro e per esternalizzare.  Amano qualsiasi argomento a sostegno dell’idea che l’esternalizzazione sia la principale possibilità di risparmiare soldi.  E la sinistra non ha ancora capito che i servizi pubblici sono ora parte del nuovo, enorme campo dell’accumulazione del capitale globale.

Quindi tu non sei d’accordo con la versione standard della sinistra secondo la quale i tagli sono un progetto di classe nell’interesse del capitale? La classe imprenditoriale ha effettivamente interesse a un settore pubblico ampliato, ma mercificato?

Hanno interesse a un settore pubblico ampliato, ma solo se tale settore pubblico ampliato dispone di una forza lavoro ossequiente  che effettivamente fa parte di una nuovo proletariato globale disaffrancato.  I lavoratori del settore pubblico stanno diventando parte di questo nuovo proletariato globale disaffrancato e dovrebbero risvegliarsi dannatamente bene a tale fatto e cominciare a organizzarsi come tali  e  smettere di cercare di aggiustare le cose trovando nuovi modi per organizzare l’economia per conto del capitale.  Forse sono solo una sindacalista vecchio stile, ma è come se le persone avessero rinunciato a fare una cosa così ovvia e diretta come attaccare il capitale nel luogo di produzione.

Ed Lewis insegna alla facoltà di discipline umanistiche in un istituto secondario del Nord di Londra dove è rappresentate del NUT [Sindacato Nazionale degli Insegnanti].  E’ consigliere politico per l’istruzione dell’organizzazione di beneficenza per le arti e la giustizia sociale Platform. E’ co-redattore del New Left Project.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/crisis-as-capitalist-opportunity-by-ursula-huws

Fonte: New Left Project  

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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