• Amici
  • Archivio 2000 – 2010
  • Archivio 2011
  • Archivio Wikileaks
  • Autenticazione
  • Bacheca
  • Contatto
  • Elenco iscritti
  • Files
  • Forum
  • Home
  • Libri
  • Modifica profilo
  • Newsletter
  • Parecon
  • Posta interna
  • Profilo
  • Registrazione
  • Z Magazine
  • Z men!

Z NET Italy

~ Lo spirito della resistenza è vivo!

Z NET Italy

Archivi tag: primavera araba

Guerra in Libia: la domanda chiave

10 sabato Dic 2011

Posted by Redazione in Africa, Diana Johnstone

≈ Lascia un commento

Tag

Ahmadinejad, al-Jazeera, Arabia Saudita, Assad, Auschwitz, Bahrain, Bengasi, Bernard Kouchner, Bernard-Henry Lévy, Dresda, Francia, genocidio, Gheddafi, Hiroshima, Human Rights Watch, Ian Williams, Inghilterra, intervento umanitario, Julien Teil, Kosovo, Le Monde, libia, massacro di civili, mediazione, MIchael Bérubé, MSF, Nagasaki, NATO, NIcolas Sarkozy, primavera araba, Qatar, R2P, rivolta, Rony Brauman, seconda guerra mondilale, Slimane Bouchuiguir, Tom Malinowski, Tribunale di Norimberga, usa

di Diana Johnstone  -8 dicembre 2011

In questi giorni i guerrieri umanitari alzano la cresta, grazie alla vittoria che hanno proclamato in Libia. L’unica superpotenza mondiale, con il sostegno morale, militare e mercenario dell’emirato del Qatar, amante della democrazia, e delle potenze imperialiste storiche, Inghilterra e Francia, è stata, non sorprendentemente, capace di schiacciare in soli sette mesi il governo esistente di un paese scarsamente popolato dell’Africa del Nord. Il paese è stato violentemente “liberato” e lasciato alla mercé di chi voglia appropriarsene. Chi prende quali pezzi di esso, tra le milizie armate, le tribù e i jihadisti islamici, è cosa che ai media e agli umanitari occidentali non interessa più di quanto interessasse loro la vita in Libia prima che il canale della televisione del Qatar, Al Jazeera, stimolasse il loro zelo crociato a febbraio, mediante rapporti non documentati di imminenti atrocità.

La Libia può riprecipitare nell’oscurità mentre i campioni occidentali della distruzione si accaparrano le luci della ribalta. Per dare un po’ di ulteriore sapore al proprio autocompiacimento, concedono un po’ di attenzione derisoria ai poveri sciocchi che non si sono uniti alla fanfara.

Negli Stati Uniti, e ancor più in Francia, i guastafeste contro il partito della guerra sono stati pochi di numero e quasi totalmente ignorati.  Ma questa è un’occasione buona come qualsiasi altra per isolarli ancora di più.

Nel suo articolo “La Libia e la sinistra: Bengasi e dopo”, Michel Bérubé coglie questa occasione per fare un unico mazzo di diversi critici della guerra etichettandoli come “la sinistra manichea” che, secondo lui, si limita a reagire con un’opposizione automatica a qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti. Lui e quelli come lui, invece, riflettono profondamente e scoprono motivi profondi per bombardare la Libia.

Comincia così:

“ A fine marzo 2011 è stato evitato un massacro; non solo un massacro qualunque, attenzione! Perché se Gheddafi e le sue forze fossero riusciti a reprimere la ribellione libica in quella che era la sua roccaforte, Bengasi, le ricadute si sarebbero riverberate ben oltre la Libia orientale.  Come ha scritto Tom Malinowski, di Human Rights Watch,  ‘La vittoria di Gheddafi – parallelamente alla caduta del presidente egiziano Hosni Mubarak – avrebbe segnalato agli altri governi autoritari, dalla Siria all’Arabia Saudita alla Cina, che se si negozia con i dimostranti si perde, ma se li si uccide si vince … “

“ L’attacco guidato dalla NATO alle forze di Gheddafi ha fatto perciò molto di più che prevenire una catastrofe umanitaria in Libia, anche se si dovrebbe riconoscere che già questa sarebbe stata da sola una giustificazione sufficiente.  Ha contribuito a mantenere viva la Primavera Araba … “

Ora, tutto ciò è del tutto ipotetico.

Quale che sia stato il massacro evitato a marzo, altri massacri lo hanno sostituito successivamente.

Cioè, se reprimere una ribellione armata implica un massacro, anche una ribellione armata vittoriosa implica un massacro e dunque si tratta di scegliere tra massacri.

E se le proposte di mediazione latinoamericane e africane fossero state accolte, l’ipotetico massacro avrebbe potuto essere evitato con altri mezzi, persino se la ribellione armata fosse stata sconfitta; un’ipotesi che il partito guerrafondaio si è rifiutato di prendere in considerazione dal bell’inizio.

Ma ancor più ipotetica è l’idea che il fallimento della ribellione libica avrebbe danneggiato fatalmente la ‘Primavera Araba’.  Questa è una pura congettura senza uno straccio di prova a sostegno.

I governi autoritari non avevano certamente bisogno di una lezione che insegnasse loro come gestire i manifestanti, cosa che alla fin fine dipende ai loro mezzi politici e militari.  Mubarak ha perso non perché ha negoziato con i dimostranti, bensì perché il suo esercito finanziato dagli Stati Uniti ha deciso di scaricarlo. In Bahrain l’Arabia Saudita contribuisce a uccidere i dimostranti. In ogni caso i governanti arabi autoritari, non ultimo l’emiro del Qatar, odiavano Gheddafi, che aveva l’abitudine di denunciare faccia a faccia la loro ipocrisia nei consessi internazionali.  Potevano soltanto prendere coraggio dalla sua caduta.

Questi argomenti a favore della guerra appartengono alla classe delle “armi di distruzione di massa” in Iraq o della minaccia di “genocidio” in Kosovo: pericoli ipotetici utilizzati per giustificare una guerra preventiva.  La “guerra preventiva” è quella che permette a una superpotenza militare, che è troppo potente ormai per doversi difendere da attacchi stranieri, di attaccare comunque altri paesi.  Altrimenti, che ragione c’è di avere un esercito così superbo se non possiamo utilizzarlo? Come disse una volta Madeleine Albright.

Più avanti nel suo articolo, Bérubé cita il suo compagno di guerre umanitarie Ian Williams, che ha sostenuto che la litania di obiezioni all’intervento in Libia ‘si sottrae alla domanda cruciale: il mondo avrebbe dovuto lasciare che i civili libici morissero per mano di un tiranno?’ O, in altre parole, la domanda chiave è: ‘Quando un gruppo di persone che sta per essere massacrato chiede aiuto, cosa si fa?’

Con questa scelta di domande ‘cruciali’ o ‘chiave’ che fanno appello al senso di colpa, Bérubé e Williams spazzano via tutte le varie obiezioni legali, etiche e politiche all’attacco NATO contro la Libia.

Ma niente ha autorizzato questi signori a decidere quale sia la ‘domanda chiave’. In realtà la loro ‘domanda chiave’ solleva una quantità di altre domande.

Prima di tutto: chi è quel gruppo di persone? Sta davvero per essere massacrato? Qual è la fonte dell’informazione? I resoconti potrebbero essere esagerati? O potrebbero addirittura essere inventati, per far sì che le potenze straniere intervengano?

Un giovane regista francese, Julien Teil, ha filmato una notevole intervista nella quale il segretario generale della Lega Libica per i Diritti Umani, Slimane Bouchulguir, ammette candidamente di non “non avere prove” della accuse da lui avanzate davanti alla Commissione dell’ONU per i Diritti Umani che ha portato all’immediata espulsione del rappresentante libico e, da lì, alla Risoluzione dell’ONU che ha autorizzato quello che si è trasformato nella guerra della NATO per il cambiamento di regime.  In realtà non è mai stata prodotta alcuna prova del “bombardamento di civili libici” denunciato da Al Jazeera, il canale televisivo finanziato dall’Emiro del Qatar, che è emerso dalla ‘guerra di liberazione’, cui il Qatar ha partecipato,  con una larga fetta di  affari nel settore  petrolifero libico.

Limitiamoci a immaginare quanti gruppi scontenti di minoranza esistono nei paesi di tutto il mondo e che sarebbe felicissimi di avere la NATO al loro fianco per portarli al potere mediante bombardamenti.  Se tutto ciò che dovessero fare per ottenerlo fosse trovare un canale televisivo che trasmetta le loro dichiarazioni di “stare per essere massacrati”, la NATO sarebbe tenuta occupata per alcuni dei prossimi decenni, con grande gioia degli interventisti umanitari.

Un tratto saliente di questi ultimi è la loro credulità selettiva. Da un lato scartano automaticamente tutte le dichiarazioni ufficiali dei governi “autoritari” come falsa propaganda. Dall’altro, sembrano non aver mai notato che le minoranze hanno interesse a mentire riguardo alle proprie condizioni al fine di conquistarsi l’appoggio esterno.  Ho osservato ciò in Kosovo. Per la maggior parte degli albanesi era una questione di dovere virtuoso nei confronti del proprio gruppo nazionale raccontare qualsiasi cosa potesse conquistare il sostegno straniero alla loro causa.  La verità non era un criterio importante.  Non c’era bisogno di biasimarli per questo ma non c’era nemmeno bisogno di credere loro.  La maggior parte dei giornalisti inviati in Kosovo, sapendo cosa i loro direttori avrebbero gradito, basava i propri dispacci su qualsiasi racconto fosse narrato loro da albanesi ansiosi di ottenere che la NATO strappasse il Kosovo alla Serbia e lo consegnasse a loro.  Il che  è quel che è avvenuto.

Di fatto è saggio essere prudenti riguardo a quello che dice ognuna delle parti nei conflitti etnici o religiosi, specialmente in paesi stranieri con i quali non si abbia un’intima familiarità.  Forse le persone mentono raramente nell’omogenea Islanda, ma in gran parte del mondo mentire è un modo normale per promuovere gli interessi di un gruppo.

La toccante ‘domanda chiave’ riguardo al modo di reagire quando un ‘gruppo di persone sta per essere massacrato’ è un trucco retorico per spostare il problema dallo spazio della realtà contraddittoria a quella della finzione puramente moralistica.  Implica che ‘noi’, in occidente, compresi i più passivi spettatori televisivi, siamo in possesso della conoscenza e dell’autorità morale per giudicare e agire in ogni evento concepibile in ogni parte del mondo.  Non ne siamo in possesso.  E il problema è che le istituzioni intermediarie, che dovrebbero possedere la prescritta conoscenza e autorità morale, sono state e sono indebolite e sovvertite dagli Stati Uniti nella loro insaziabile inseguimento di addentare più di quanto possano inghiottire.  Poiché gli Stati Uniti dispongono della potenza militare, promuovono la potenza militare come soluzione a tutti i problemi.  Diplomazia e mediazione sono sempre più trascurate e disdegnate.  Non si tratta neppure di una politica deliberata, meditata, bensì di una conseguenza automatica di sessant’anni di incremento dell’esercito.

La vera domanda chiave

In Francia, il cui presidente Nicolas Sarkozy ha lanciato la crociata anti-Gheddafi, l’unanimità a favore della guerra è stata maggiore che negli Stati Uniti. Una delle poche personalità francesi di spicco a opporvisi è Rony Brauman, un ex presidente di Médecins Sans Frontières [MDF – medici senza frontiere] e un critico dell’ideologia dell’ ‘intervento umanitario’ promossa da un altro ex leader di MDF, Bernard Kouchner. Il numero del 24 novembre di Le Monde ha riportato un dibattito tra Brauman e il principale promotore della Guerra, Bernard Henry Lévy, che ha fatto effettivamente emergere la vera domanda cruciale.

Il dibattito è iniziato con alcune schermaglie sui fatti. Brauman, che inizialmente aveva appoggiato l’idea di un intervento limitato per proteggere Bengasi, ha ricordato di aver rapidamente cambiato idea dopo essersi reso conto che le minacce di cui si parlava erano una questione di propaganda, non di realtà osservabili.  Gli attacchi aerei contro i dimostranti di Tripoli erano un’ “invenzione di Al Jazeera”, osservava.

Al che Bernard Henri Lévy nel suo tipico stile da sfacciato mentitore indignato: “Cosa? Un’invenzione di Al Jazeera? Come puoi, Rony Brauman, negare la realtà, cui tutto il mondo ha assistito,  di quei caccia in picchiata a mitragliare i dimostranti di Tripoli?” Chi se ne frega che nel mondo intero nessuno abbia visto alcunché di simile.  Bhernard Henry Lévy sa che qualsiasi cosa egli dica sarà ascoltata in televisione e letta sui giornali senza necessità di prove.  “Da una parte hai avuto un esercito super-armato, equipaggiato per decenni e preparato per una rivolta popolare. Dall’altra parte c’erano i civili disarmati.”

Quasi nulla di ciò era vero.  Gheddafi, temendo un colpo di stato militare, aveva sempre mantenuto relativamente debole il proprio esercito. Il tanto denunciato equipaggiamento militare occidentale non è mai stato utilizzato e il suo acquisto, così come gli acquisti di armi della maggior parte dei paesi ricchi di petrolio, è stato più un favore ai fornitori occidentali che un contributo utile alla difesa.  Inoltre le rivolte in Libia, diversamente dalle proteste nei paesi vicini, erano notoriamente armate.

Ma a parte le questioni di fatto, il tema cruciale dibattuto tra i due francesi è stato una questione di principio: la guerra è o non è una cosa buona?

Richiesto circa il suo parere sul fatto che la guerra in Libia segni la vittoria del diritto d’intervento, Bauman ha risposto:

“Sì, indubbiamente … Alcuni si rallegrano di tale vittoria. Quanto a me la deploro, perché vedo che c’è una rivalutazione della guerra come mezzo per risolvere i conflitti.”

Brauman ha concluso: “A parte la superficialità con cui il Consiglio Nazionale di Transizione (NTC), la maggior parte dei cui componenti è sconosciuta, è stato immediatamente presentato da Bernard Henri Lévy come un movimento democratico laico, c’è una certa ingenuità nel voler ignorare il fatto che la guerra crea dinamiche favorevoli ai radicale a detrimento dei moderati. Questa guerra non è finita.

“Nell’operare la scelta di militarizzare la rivolta, il NTC ha concesso un’opportunità ai più violenti.  Appoggiando quella scelta in nome della democrazia la NATO ha assunto una grave responsabilità al di là dei propri mezzi.  E’ perché la guerra è in sé stessa una cosa cattiva che non dovremmo scatenarla …”

Bernard Henri Lévy ha avuto l’ultima parola: “La guerra non è una cosa cattiva di per sé! Se rende possibile evitare una violenza maggiore, si tratta di un male necessario … la teoria della guerra giusta sta tutta qui.”

L’idea che questo principio esista è “come una spada di Damocle sulla testa dei tiranni che si considerano padroni del proprio popolo; è già un progresso formidabile”.  Bernard Henri Lévy è reso felice dal pensiero che, a partire dalla fine della guerra in Libia, Bashir Al Assad e Mahmoud Ahmadinejad dormano meno saporitamente.  In breve, si rallegra alla prospettiva di ancora altre guerre.

E così eccoci alla domanda chiave, a quella cruciale: “La guerra è una cosa cattiva di per sé?” Brauman dice che lo è e la stella mediatica nota come BHL dice che non lo è “se rende possibile evitare una violenza maggiore”.  Ma quale violenza è maggiore della guerra? Quando gran parte dell’Europa era ancora in rovine dopo la seconda guerra mondiale, il Tribunale di Norimberga pronunciò il suo verdetto finale proclamando:

“La guerra è essenzialmente un male.  Le sue conseguenze non restano confinate ai soli stati belligeranti ma colpiscono il mondo intero.  Scatenare una guerra d’aggressione, perciò, è non solo un crimine internazionale; è il crimine internazionale supremo che si differenzia dagli altri crimini di guerra solo perché riassume in sé il cumulo del male complessivo.”

E in realtà la seconda guerra mondiale riassunse in sé “cumulo del male complessivo”: la morte di 20 milioni di cittadini sovietici, Auschwitz, il bombardamento di Dresda, Hiroshima e Nagasaki e molto, molto di più.

Sessant’anni dopo  per i cittadini statunitensi e per quella dell’Europa occidentale, che vivono relativamente confortevolmente, con il proprio narcisismo lusingato dall’ideologia dei “diritti umani”, è facile contemplare lo scatenamento di guerre “umanitarie” per “salvare vittime”, guerre in cui essi non corrono rischi maggiori che dedicandosi a un videogioco. Il Kosovo e la Libia sono state guerre umanitarie perfette: niente perdite, nemmeno un graffio, per i bombardieri NATO e nemmeno la necessità di contemplare il bagno di sangue sul terreno.  Con lo sviluppo della guerra mediante droni, una guerra a distanza così sicura apre prospettive infinite a “interventi umanitari” esenti da rischi, che possono consentire a celebrità occidentali come Bernard Henri Lévy di pavoneggiarsi posando da campioni appassionati di vittime ipotetiche di massacri ipotetici ipoteticamente evitati da guerre vere.

La ‘domanda chiave’?  Ci sono molte domande importanti sollevate dalla guerra in Libia e molti motivi validi e importanti per essersi opposti ad essa e continuare ad opporsi.  Come la guerra in Kosovo, ha lasciato un’eredità di odio nel paese preso a bersaglio le cui conseguenze possono avvelenare per generazioni le vite delle persone che vi vivono.  Ciò, ovviamente, non è di speciale interesse per la gente dell’occidente che non presta attenzione al danno umano causato dalle proprie uccisioni umanitarie.  Si tratta soltanto del risultato meno visibile di quelle guerre.

Per parte mia, il problema chiave che motiva la mia opposizione alla guerra in Libia è ciò che essa significa per il futuro degli Stati Uniti e del mondo. Per ben oltre un secolo gli Stati Uniti sono stati fagocitati dal proprio complesso militare-industriale, che ne ha reso infantile il senso morale, ne ha dilapidato la ricchezza e ne ha minato l’integrità politica.  I nostri capi politici non sono capi politici veri, ma sono stati ridotti al ruolo di apologeti di questo mostro, che ha un impulso burocratico per conto proprio: proliferare le basi militari in tutto il mondo, cercare e persino creare servili stati vassalli, provocare inutilmente altre potenze come la Russia e la Cina. Il dovere politico principale degli statunitensi e dei loro alleati europei dovrebbe consistere nel ridurre e smantellare questa gigantesca macchina militare prima che ci porti inavvertitamente al “supremo crimine internazionale” del non ritorno.

Dunque la mia principale opposizione alla recente guerra deriva precisamente dal fatto che, in un momento in cui erano esitanti persino alcuni a Washington, gli “interventisti umanitari” come Bernard Henry Lévy, con la loro sofistica pretesa di “proteggere i civili innocenti” sulla base del principio “R2P” *  hanno alimentato e incoraggiato questo mostro offrendogli il “frutto a portata di mano” di una facile vittoria in Libia. Questo ha reso più difficile di quanto già non fosse la lotta per portare un’apparenza di pace e di sanità mentale nel mondo.

[* “R2P” : “La  Responsibility to Protect (RtoP or R2P)  [Responsabilità della Protezione] è una norma o insieme di principi basata sull’idea che la sovranità non è un privilegio, bensì una responsabilità. RtoP si concentra sulla prevenzione e l’interruzione di quattro crimini: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica, che pone sotto il termine generico complessivo di Atrocità di Massa. La Responsabilità della Protezione può essere considerata come composta da tre parti:

1. Lo Stato ha la responsabilità di proteggere la propria popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, dai crimini contro l’umanità e dalla pulizia etnica (atrocità di massa).

2.Se uno  Stato non è in grado di proteggere da solo la propria popolazione, la comunità internazionale ha la responsabilità di assistere lo stato nel creare il proprio potenziale. Ciò può significare creare capacità di allerta, mediare conflitti tra partiti politici, rafforzare il settore della sicurezza, mobilitare forze di riserva e molte altre azioni.

3. Se uno stato  è manifestamente incapace di proteggere i propri cittadini da atrocità di massa e le misure pacifiche non funzionano, la comunità internazionale ha la responsabilità di intervenire, dapprima diplomaticamente, poi più coercitivamente e, come ultima risorsa, mediante la forza militare.

Fonte Wikipedia – traduzione mia – n.d.t.]

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/here-s-the-key-question-in-the-libyan-war-by-diana-johnstone

Fonte: Counterpunch

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Netanyahu stronca la Primavera Araba ‘antiliberale’

04 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in Asia, Jonathan Cook

≈ Lascia un commento

Tag

Agenzia Ebraica, AIPAC, antidiffamazione, censura, diritti umani, Donald Neff, Goldstone, Irving Moskovitz, israele, Netanyahu, ong, ONU, palestina, primavera araba, rapporto, stato ebraico, stato etnico, Yaakov Amidror, Yaakov Neeman

 


di Jonathan Cook – 03 dicembre  2011

Mentre le proteste infuriavano di nuovo in Medio Oriente, Benjamin Netanyahu, primo ministro d’Israele, ha offerto la settimana scorso la sua valutazione della Primavera Araba. Era, ha detto, una “ondata islamica, antioccidentale, antiliberale, anti-israeliana e antidemocratica”, aggiungendo che i vicini arabi di Israele si stavano “muovendo non in avanti, bensì all’indietro”.

Ci vuole una bella insolenza – o, al minimo, un’epica autoillusione – perché il primo ministro d’Israele dia in questo momento al mondo arabo lezioni di liberalismo e di democrazia.

Nelle settimane recenti, una piena di misure antidemocratiche si è guadagnata il sostegno del governo di destra di Netanyahu, giustificata da una nuova dottrina della sicurezza: non vedere il male, non ascoltare il male e non parlare male di Israele. Se le proposte di legge saranno approvate i tribunali israeliani, i gruppi per i diritti umani e i media israeliani e la comunità internazionale saranno trasformati nelle tre proverbiali scimmiette sagge.

La comunità vigilante israeliana per i diritti umani è stata il principale bersaglio di questo assalto.  Ieri la fazione di Netanyahu nel Likud e il partito Yisrael Beiteinu del suo ministro degli esteri di estrema destra, Avigdor Lieberman, hanno proposto una nuova legge che metterebbe a tacere molta della comunità israeliana per i diritti umani.

La proposta di legge divide efficacemente le organizzazioni non governative (ONG) in due categorie: quelle definite dal diritto come filoisraeliane e quelle considerate “politiche”, o anti-israeliane.  Quelle favorite, come i servizi di ambulanza e le università, continueranno ad essere generosamente finanziate da fonti straniere, principalmente ricchi donatori privati ebrei degli Stati Uniti e dell’Europa.

Quelle “politiche” – intendendo quelle che criticano le politiche governative, specialmente riguardo all’occupazione – saranno interdette dal ricevere fonda da governi stranieri, le loro principali fonti di reddito. Le donazioni da fonti private, sia israeliani sia straniere, saranno assoggettate a un’imposta paralizzante del 45%.

I motivi per essere definiti una ONG “politica” sono convenientemente vaghi:  negare il diritto di Israele ad esistere o il suo carattere democratico ed ebraico; incitare al razzismo; appoggiare la violenza contro Israele; appoggiare la messa sotto processo di politici o soldati da parte di tribunali internazionali; o sostenere boicottaggi dello stato.

Un gruppo per i diritti umani ha avvertito che tutti i gruppi che hanno agevolato il rapporto 2009 dell’ONU del giudice Richard Goldstone riguardante i crimini umani commessi durante gli attacchi israeliani a Gaza dell’inverno 2008 sarebbero vulnerabili in base a tale legge.  Altre organizzazioni, come Rompere il Silenzio che pubblica le testimonianze dei soldati israeliani che hanno commesso crimini di guerra o vi hanno assistito, saranno anch’esse messe a tacere. E una ONG arabo-israeliana ha dichiarato di temere che il suo lavoro di rivendicazione dell’uguaglianza tra tutti i cittadini israeliani, compreso il quinto costituito da palestinesi, e di por fine ai privilegi ebraici verrebbe considerato come negazione del carattere ebraico di Israele.

Al tempo stesso Netanyahu vuole che siano evirati i media israeliani.  La settimana scorsa il suo governo ha imposto il suo peso a favore di una nuova legge antidiffamazione che lascerà solo pochi milionari in una posizione tale da poter criticare i politici e i dirigenti.  Netanyahu ha osservato: “la si può chiamare legge antidiffamazione, ma io la chiamo ‘legge per la pubblicazione della verità’.” I media e i gruppi per i diritti umani temono il peggio.

Questa scimmietta non deve dire il male.

Un’altra proposta di legge, sostenuta dal ministro della giustizia, Yaacov Neeman, è intesa ad alterare la composizione di una giuria che seleziona i giudizi della corte suprema d’Israele.  Diversi posti da giudice stanno per restare vacanti e il governo spera di riempire la corte di nominati che condividano la sua visione ideologica del mondo e che non cassino le sue leggi antidemocratiche, compreso il suo più recente attacco alla comunità dei diritti umani.  Il candidato favorito da Neeman è un colono che ha una storia di sentenze contro le organizzazioni per i diritti umani.

I maggiori parlamentari del partito di Netanyahu stanno spingendo un’altra proposta di legge che renderebbe pressoché impossibile alle organizzazioni per i diritti umani ricorrere alla corte suprema contro le azioni del governo.

La scimmietta giudiziaria non deve vedere il male.

A un certo livello queste e una serie di altre misure – compresa la crescente intimidazione dei media e del mondo accademico israeliano da parte del governo, un giro di vite su chi denunci dall’interno e la legge, recentemente approvata, sul boicottaggio, che espone i critici degli insediamenti a costose cause legali per danni – sono intese a rafforzare l’occupazione disarmando i suoi critici all’interno di Israele.

Ma c’è un altro, ancor più prezioso obiettivo:  assicurarsi che in futuro le abbondanti storie dell’orrore dai territori palestinesi – controllate dalle organizzazioni per i diritti umani, riferite dai media e ascoltate nei tribunali – non giungano mai alle orecchie della comunità internazionale.

La terza scimmietta non deve ascoltare il male.

Il giro di vita è giustificato, nella visione della destra israeliana, a motivo del fatto che le critiche all’occupazione costituiscono non un problema interno, bensì un’indesiderata interferenza straniera negli affari di Israele.  La promozione dei diritti umani – che sia in Israele, nei territori occupati o nel mondo arabo – è considerata da Netanyahu e dai suoi alleati come intrinsecamente non-israeliana e anti-israeliana.

L’ipocrisia è dura da mandar giù. Israele da lungo tempo reclama una speciale dispensa per interferire negli affari sia della UE sia degli Stati Uniti.  I collaboratori dell’Agenzia Ebraica fanno azione di proselitismo tra gli ebrei europei e statunitensi per persuaderli ad emigrare in Israele. In modo unico, alle agenzie di sicurezza di Israele è lasciata briglia sciolta negli aeroporti di tutti il mondo per molestare e invadere la privacy dei noi ebrei che si imbarcano per Tel Aviv. E i delegati politici di Israele all’estero – sofisticati gruppi di pressione come l’AIPAC negli USA – agiscono da agenti stranieri senza essere registrati come tali.

Ovviamente gli scrupoli israeliani riguardanti le intromissioni straniere sono selettivi.  Nessuna restrizione è prevista per gli ebrei stranieri di destra, come il magnate statunitense dei casinò Irving Moskovitz, che hanno pompato enormi somme a sostegno degli insediamenti illegali ebraici costruiti sulle terre  palestinesi.

C’è anche una logica fallace nel ragionamento di Israele. Come fanno notare gli attivisti per i diritti umani, le aree in cui essi svolgono la maggior parte del proprio lavoro non sono localizzate in Israele, bensì nei territori palestinesi che Israele sta occupando in violazione della legge internazionale.

In privato le ambasciate europee hanno cercato di far valere questo punto. La UE concede a Israele uno status commerciale preferenziale, del valore di miliardi di dollari all’anno per l’economia di Israele, a condizione che esso rispetti i diritti umani nei territori occupati. L’Europa sostiene di avere perciò titolo a finanziare il controllo del trattamento israeliano dei palestinesi. Tanto maggiore è il peccato che l’Europa non agisca sulla base delle informazioni che riceve.

Considerato lo stringersi della morsa della destra, ci si può aspettare che essa inventi modi ancor più creativi di imbavagliare la comunità dei diritti umani e i media israeliani e di castrare i tribunali, come modo per por fine alla cattiva stampa.

Gli israeliani sono ossessionati dall’immagine del loro paese all’estero e da quella che considerano una campagna di “delegittimazione” che minaccia non soltanto la prosecuzione dell’occupazione ma anche la sopravvivenza a lungo termine di Israele come stato etnico. La dirigenza è stata inondata di costanti sondaggi dell’opinione globale che mostrano Israele classificato tra i paesi più impopolari del mondo.

La recente decisione palestinese di rivolgersi alla comunità internazionale per il riconoscimento del proprio stato ha solo amplificato tali rimostranze.

Israele non ha intenzione di modificare le proprie politiche o di perseguire la pace. Il governo di Netanyahu oscilla, piuttosto, tra una voglia disperata di approvare leggi ancor più antidemocratiche per scoraggiare le critiche e una modica moderazione motivata dal timore dei contraccolpi internazionali.

Il mese scorso un dibattito al governo sulla legge contro i gruppi per i diritti umani non si è concentrato quasi per nulla sul merito della proposta.  Invece il capo del Consiglio della Sicurezza Nazionale, Yaakov Amidror, è stato chiamato davanti ai ministri per spiegare se Israele avrebbe perso di più approvando tali norme o consentendo ai gruppi per i diritti umani di continuare il controllo dell’occupazione.

Per quanto possa sembrare illusorio, l’obiettivo ultimo di Netanyahu consiste nel riportare l’orologio indietro di 40 anni, a “un’età d’oro” in cui i corrispondenti stranieri e i governi occidentali potevano, senza arrossire, riferirsi all’occupazione dei palestinesi come “benigna”.

Donald Neff, corrispondente da Gerusalemme della rivista Time negli anni ’70, anni dopo ha ammesso che le prestazioni sue e dei suoi colleghi erano così mediocri all’epoca, in larga parte perché erano disponibili così scarse informazioni critiche riguardo all’occupazione. Quando fu testimone diretto di ciò che stava avvenendo, i suoi direttori negli Stati Uniti si rifiutarono di credergli e alla fine fu trasferito.

Ora, comunque, il genio è fuori dalla lampada. La comunità internazionale comprende pienamente – grazie agli attivisti per i diritti umani – sia che l’occupazione è brutale e sia che Israele ha perseguito la pace in malafede.

Se Israele continuerà il suo corso attuale, andrà in frantumi un altro mito da lungo tempo accettato dai paesi occidentali: che Israele sia “la sola democrazia in Medio Oriente”.

Jonathan Cook il Premio Speciale per il Giornalismo ‘Martha Gellhorn’ . I suoi libri più recenti sono ‘Israel and the Clash of Civilisation: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East’ [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e ‘Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair’ [Palestina che scompare: esperimenti israeliani di disperazione umana]. Il suo sito web è www.jkcook.net

Una versione di questo articolo è stata inizialmente pubblicata sul National di Abu Dhabi.

 

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/netanyahu-slams-anti-liberal-arab-spring-by-jonathan-cook

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

La rivoluzione continua

01 giovedì Dic 2011

Posted by Redazione in Africa, Gilbert Achcar

≈ Lascia un commento

Tag

primavera araba

La rivoluzione continua

 

Di Gilbert Achcar

 

29 novembre 2011

 

Mentre si stavano alzando voci dalla destra e da parte della sinistra  che dichiaravano che la “Primavera Araba” era finita, e che consigliavano alle masse ribelli di tornarsene  a casa, di recente  è diventato molto chiaro che il processo rivoluzionario che è stato avviato in Tunisia alla fine dello scorso anno, rimane vivo e vegeto. Di fatto si è rinvigorito e sta sperimentando un nuovo impennata che sarà indubbiamente  seguito da altre nei prossimi anni.

La rivoluzione continua ovunque,  sfidando  tentativi di farla fallire o di sviarla dal suo corso progressista e liberatore. Questi sforzi sono appoggiati dagli Stati Uniti protettori della maggior parte dei regimi afflitti e  controllati dai baluardi della reazione Araba negli stati petroliferi del Golfo.

Sono impegnati in un vano tentativo di spegnere le fiamme della rivoluzione versandogli addosso petrodollari. E li stanno aiutando e incoraggiando  in cambio di una fetta della torta che è stata loro promessa – dai capi della Fratellanza Musulmana appoggiati dall’emirato del Qatar e dai gruppi Salafiti sostenuti dal regno Saudita.

La rivoluzione, tuttavia, continua dovunque: in Yemen dove “La nostra rivoluzione continua” è il nome dato alle dimostrazioni di venerdì scorso che rifiutavano il patto di “compromesso” sul quale il [Pesidente] Saleh, facendo un ampio sorriso, ha apposto la sua firma. Il regno Saudita sta cercando di imporre il patto agli Yemeniti per perpetuare il regime di Saleh, come quello di Mubarak in Egitto, mentre lo stesso Saleh continua a dirigere il gioco dietro le quinte o proprio in Yemen o dal regno Saudita  – il santuario dei despoti corrotti che ha accolto Ben Ali, che si è offerto di ospitare Mubarak e che ha curato Saleh dopo che era stato ferito (in un attentato).

La rivoluzione continua dovunque: in Egitto dove le masse sono scese nelle strade per insorgere di nuovo contro il governo militare. Hanno capito che il comando dell’esercito, che per un po’hanno ritenuto fosse leale verso il popolo, è una parte inseparabile, in effetti  una colonna, del regime, del quale il popolo aveva invocato la caduta. La più grande delle rivoluzioni arabe sia per vastità che per importanza, ha riguadagnato vitalità. La visione e la determinazione di coloro che hanno continuato la lotta  senza scoraggiarsi per l’isolamento temporaneo,  sono state  difese. Erano fiduciosi che la massiccia energia scatenatasi il 25 gennaio non si era esaurita, e che doveva continuare a  essere utilizzata nelle lotte democratiche e sociali.  Queste lotte gemelle possono riuscire soltanto quando si saldano insieme. E’avvenuto quando il tiranno è stato abbattuto e dovrà accadere di nuovo su più vasta scala una volta che il movimento dei lavoratori avrà consolidato la sua nuova organizzazione.

La rivoluzione continua dovunque: in Tunisia, dove nei giorni scorsi le masse si sono  risvegliate nel bacino minerario di Gafsa dove l’insurrezione del 2008  ha preparato la rivoluzione  che è scoppiata due anni dopo a Sidi Bouzid. Hanno   rilanciato  la richiesta originaria della rivoluzione tunisina: il diritto a un lavoro.  Non sono stati ingannati   dalla “transizione ordinata” organizzata dell’élite sociale dominante per mantenere il proprio status, dopo aver cacciato Ben Ali come un agnello sacrificale. Questa “elite” oggi sta cercando di cooptare gli oppositori di ieri.

La rivoluzione continua dovunque: in Siria, dove la lotta popolare continua a intensificarsi, a dispetto della  brutalità e dell’atroce repressione del regime. Un numero crescente di soldati osa disertare dai ranghi dell’esercito per  mettere in atto veramente il loro dovere di difendere la gente.  Le richieste di intervento militare straniero fatte dall’ala destra dell’opposizione vengono nel frattempo  ostacolate.  La destra spera che l’intervento militare consegnerà loro il potere su un piatto d’argento, temendo che l’insurrezione popolare possa riuscire a far cadere il regime per conto proprio.

La rivoluzione continua dovunque: in Libia, dove le voci che denunciano tentativi di sottomettere il paese alla tutela straniera, stanno diventando più forti. I rivoluzionari Amazigh (Berberi) * che hanno avuto una parte importante nel liberare il paese dal dominio del tiranno, hanno rifiutato di riconoscere il nuovo governo perché esso non riconosceva i loro diritti. Si levano sempre più di frequente richieste di tipo sociale, sia  nelle regioni che sono state più   svantaggiate durante  l’ex regime, che nel cuore della capitale. Tutto questo accade in assenza di  un apparato che abbia il monopolio delle armi e capace di proteggere coloro che hanno accumulato ricchezza e privilegi durante il lungo governo di Gheddafi.

La rivoluzione continua dovunque: in Marocco, dove una maggioranza di persone ha boicottato le elezioni pere mezzo del quali la monarchia ha tentato di contenere le proteste popolari, con la speranza che i loro  collaboratori  nella “opposizione leale”, sarebbero stati in grado di far tacere  il vulcano che invece continua a brontolare, con dimostrazioni    dall’opposizione genuina. E condizioni di vita intollerabili rendono inevitabile un’eruzione.

La rivoluzione continua dovunque: in Bahrein, dove le masse ribelli non sono state ingannate  dalla  pantomima  di “indagare sui fatti”che gli Stati Uniti hanno imposto al regno per  far passare con cautela il loro patto programmato per la fornitura di armi. La gente continua a manifestare e a protestare, giorno dopo giorno, convinti che la vittoria alla fine sarà loro e che non gli può essere negata per sempre dalla dinastia Al Khalifa e dal suo patrono, il  casato di Saud per il quale arriverà invece, inevitabilmente, il giorno della resa dei conti.

La rivoluzione continua dovunque, anche nel regno Saudita, dove la gente di Qatif (nella provincia orientale)  è insorta qualche giorno fa, senza farsi scoraggiare dalla repressione accanita del regime. Continueranno a loro lotta fino a quando il “contagio” non si diffonderà in ogni parte della Penisola Araba e tra tutta  sua popolazione, malgrado il malvagio  incitamento settario che è diventata l’ultima arma ideologica della tirannia del Casato di Saud e dell’establishment oscurantista Wahhabita ** che, insieme agli Stati Uniti, loro protettori, li sostiene.

Quando cadrà il trono del Regno della casata di Saud nella Penisola Arabica, cadrà anche il baluardo della reazione araba, e il suo alleato di più lunga data e intermediario dell’egemonia statunitense nella nostra zona (anche più vecchio dell’alleato sionista). Quel giorno l’intero ordine arabo autocratico  e  basato sullo sfruttamento  sarà ormai crollato.

Finché, però, non arriverà quel giorno, la rivoluzione deve continuare. Certamente sperimenterà fallimenti, battute d’arresto, reazioni violente,        tragedie, trappole e cospirazioni. Come si è espresso un giorno il principale capo della Rivoluzione cinese: “La Rivoluzione cinese non è una cena elegante, né un saggio, né un dipinto, non un ricamo; non si può realizzare delicatamente, gradualmente…”La rivoluzione deve quindi continuare a marciare senza stancarsi, tenendo a mente un’altra famosa massima di uno dei capi della Rivoluzione Francese: “Coloro che fanno la rivoluzione a metà, si scavano soltanto la tomba. Ciò che costituisce una repubblica è la distruzione di tutto ciò che la ostacola”.

 

  • http://it.wikipedia.org/wiki/Amazigh
  • ** www.instoria.it/home/movimento_wahhabita.htm

 

Glibert Achcar è professore di Stusi sullo sviluppo e di relazioni Internazionali ala Scuola di Studi Orientali e Africani dell’Università di Londra.

Le opinioni espresse dall’autore non riflettono necessariamente la politica editoriale di al-Akhbar.

 

Da:; Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo –

http://www.zcommunications.org/the-revolution-continues-by-gilbert-achcar

Fonte: al-Akhbar

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly–Licenza Creative Commons CC BY-NC-Sa 3.0

 

 

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Ispirazione dall’America Latina

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in America, Eva Golinger

≈ 1 Commento

Tag

bolivia, Caracas, Caracazo, Carlos Andres Perez, cile, colpo di stato, diritti umani, Ecuadro, egitto, Europa, evo morales, FMI, Hugo Chavez, Medio Oriente, occupywallstreet, primavera araba, Rafael Correa, repressione, repressione poliziesca, rivoluzoine bolivariana, spagna, Tunisia, usa, venezuela

di Eva Golinger  – 25 novembre 2011

Le proteste di Occupy Wall Street che si allargano agli interi Stati Uniti si sono alla fine guadagnate l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. La prolungata crisi economica e la struttura politica escludente hanno spinto migliaia di persone negli Stati Uniti a uscire dai loro locali confortevoli e a scendere in strada a sollecitare il cambiamento.  La brutale repressione della polizia in reazione a dimostrazioni pacifiche in città di tutti gli Stati Uniti ha riempito i titoli dei giornali internazionali, evidenziando l’ipocrisia di un governo veloce nell’accusare e criticare gli altri per le violazioni dei diritti umani mentre perpetua lo stesso, se non peggiore, disgustoso comportamento in patria.

Molti analisti e commentatori hanno attribuito le proteste negli USA alla cosiddetta “Primavera Araba” che ha luogo in Tunisia, Egitto e altre nazioni del Medio Oriente e dell’Africa. I movimenti negli USA e nel mondo arabo hanno condiviso tattiche e caratteristiche simili, compreso l’uso di media sociali come Twitter, Youtube e Facebook, per mobilitare dimostrazioni e pubblicizzare attività di protesta e repressione statale. I protagonisti di queste rivolte sono stati principalmente i giovani e gli indignati e scontenti nei confronti di sistemi che li hanno abbandonati e hanno lasciato senza opportunità milioni di persone impoverite.

In Spagna e in Cile, dimostrazioni analoghe hanno luogo dall’inizio del 2011 e hanno portato migliaia di giovani e studenti a contestare sistemi politici ed economici iniqui e scorretti.  Le rivendicazioni di tutte queste proteste, dal mondo arabo all’Europa agli Stati Uniti, hanno incluso diritti basilari quali l’istruzione gratuita, lavori dignitosi, alloggi, assistenza sanitaria e una maggior inclusione e partecipazione alla politica e al governo.  “Minor rappresentanza, minor partecipazione” sono i gridi che salgono dagli “indignados” di tutto il mondo.

Quello che pochi hanno notato, o hanno intenzionalmente omesso, è come i popoli dell’America Latina siano insorti all’inizio di questo secolo con rivendicazioni e sogni identici a quelli di coloro che protestano oggi negli Stati Uniti, in Europa e nelle nazioni arabe, e come sono stati capaci di prendere democraticamente il potere e cominciare a ricostruire le proprie nazioni. L’influenza delle rivoluzioni del ventunesimo secolo in America Latina sul Movimento Occupiamo e sulla Primavera Araba non può essere sottovalutata.

ISPIRAZIONE A SUD DEL CONFINE

Slogan, cori e commenti dei dimostranti di Occupiamo Wall Street (OWS) che sollecitano la fine del dominio delle imprese e chiedono una spesa pubblica più equa e opportunità per la maggioranza (il 99%) sono analoghi a quelli che si sono sentiti in tutto il Venezuela negli anni ’90, quando la privatizzazione si è impossessata del paese ricco di petrolio, le multinazionali hanno governato e il popolo è stato relegato nelle baraccopoli.

Decenni di esclusione, repressione e cattiva amministrazione del governo e delle risorse in Venezuela hanno portato il popolo (il 99%) alla rivolta, nel 1989, contro un’amministrazione che stava vendendo rapidamente il paese al miglior offerente.  Il “Caracazo” del 27 febbraio 1989 è stato una rivolta popolare di massa nella capitale del Venezuela, Caracas, contro le privatizzazioni e la globalizzazione; contro il governo delle imprese [‘corporatocracy’ nell’originale – n.d.t.]. Il governo, guidato dal presidente Carlo Andres Perez, ha reagito con la repressione brutale.  Più di 3.000 persone sono state uccise dalla violenza delle autorità statali. I corpi sono stati gettati in fosse comuni e lasciati a marcire.

Ma la brutalità della violenza statale non ha fermato la maggioranza venezuelana. Lungo tutti gli anni ’90, il popolo ha cominciato a organizzare la propria frustrazione in una coalizione su scala nazionale nel tentativo di liberarsi del sistema “rappresentativo” bipartitico che aveva governato per decenni.  Al vacillare dell’economia e al crollare delle banche, e con  i politici si sono appropriavano , con il furto, di tutto quello che potevano e cercavano  di vendere il resto, il popolo si è mobilitato.  Nel 1998 è stato eletto da questo movimento di base  un nuovo presidente, ponendo fine al dominio dello governo delle imprese travestito da democrazia.

Il nuovo governo, guidato da Hugo Chavez, ha promesso una completa trasformazione del sistema. Sarà smontato e ricostruito dal popolo.  La democrazia non sarà più “rappresentativa” ma sarà partecipativa.  Ci sarà una redistribuzione delle risorse pubbliche per garantire che il 99% vi sia incluso.  L’assistenza sanitaria e l’istruzione saranno gratuite, universali e accessibili a tutti.  Sarà stilata una nuova costituzione, da ratificarsi dal popolo, per riflettere i bisogni, i sogni e le realtà della società odierna.  Il popolo governerà a livello di base mediante consigli e assemblee delle comunità che controlleranno le risorse locali e daranno ai membri delle comunità il potere decisionale su come le risorse debbano essere utilizzate.  Fioriranno media pubblici, alternativi e comunitari, e saranno incoraggiati dallo stato, al fine di ampliare l’accesso e garantire che tutte le voci siano udite.

Si porrà fine all’indebitamento con l’estero e ai rapporti con le istituzioni finanziarie internazionali.  Importanti risorse strategiche saranno nazionalizzate, recuperate  dalle imprese multinazionali e poste sotto il controllo dei lavoratori.  Le imprese pubbliche saranno gestite dai lavoratori e saranno di loro proprietà.  La politica estera sarà basata sulla sovranità e il rispetto delle altre nazioni, con un accento sull’integrazione, la cooperazione e la solidarietà, invece che sullo sfruttamento, la competizione e il dominio.

Questa non è un’utopia; questa è la Rivoluzione Bolivariana del Venezuela. Ci sono voluti anni per costruirla e ci sono ancora decenni da percorrere e molti problemi e difficoltà da superare, ma il popolo del Venezuela, il 99%, è stato capace di prendere il potere democraticamente e di trasformare la propria nazione.

Nel 2005 i popoli indigeni della Bolivia hanno conquistato il potere attraverso elezioni democratiche, dopo secoli di esclusione, colonialismo e dominazione da parte di una classe dominante di minoranza.  Si sono sollevati e mobilitati contro il governo razzista delle imprese che dominava la nazione e si sono reimpossessati del potere.  Sotto la presidenza di Evo Morales, il primo capo di stato indigeno della nazione, è stata stilata una nuova costituzione che è stata ratificata dal popolo in un referendum nazionale e hanno preso ad aver luogo trasformazioni sociali per realizzare un sistema di giustizia sociale.

In Ecuador, dopo anni di tumulti politici ed economici, colpi di stato e numerosi presidenti cacciati, il popolo ha eletto Rafael Correa e la Rivoluzione dei Cittadini è salita al potere nel 2007. Liberare la nazione dalle redini del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ravvivare l’economia e trasferire il potere al popolo, sono azioni che stanno trasformando l’Ecuador in una nazione sovrana e dignitosa.

 

NEUTRALIZZARE, DISTRUGGERE O COOPTARE LA RIVOLUZIONE

Anche se tutte queste rivoluzioni latinoamericane sono tuttora in corso, il loro accento sulla costruzione di una nazione dalla base, sul potere del popolo, sulla giustizia sociale e una sovranità vera hanno chiaramente ispirato altri nel mondo a combattere per il cambiamento nelle proprie nazioni.  Ma perché così tanti hanno mancato di vedere l’importanza dell’influenza di queste rivoluzioni in ciò che accade oggi negli Stati Uniti, in Europa e nel mondo arabo?

Principalmente perché si tratta di rivoluzioni riuscite, democratiche, pacifiche operate dal popolo, appartenenti al popolo e fatte per il popolo. Non vi sono state influenze “esterne” a dirigerle, manipolarle o tentare di “cooptarle”, come è accaduto nel caso della “Primavera Araba”. Non si sono realizzate in seguito a guerre o rivolte violente bensì piuttosto attraverso processi democratici.  Naturalmente ci sono stati molti tentativi di neutralizzare e distruggere queste rivoluzioni latinoamericane, compreso un colpo di stato in Venezuela nel 2002, un tentativo di colpo di stato in Bolivia nel 2008 e un altro tentato colpo di stato in Ecuador nel 2010. Sino ad oggi sono tutti falliti.

Agenzie USA come il National Endowment for Democracy [Fondo nazionale per la democrazia], l’International Republican Institute [Istituto internazionale Repubblicano], il National Democratic Institute [Istituto Nazionale Democratico], l’Open Society Institute [Istituto per la società aperta] e la US Agency for International Development (USAID) [Agenzia USA per lo sviluppo Internazionale] hanno finanziato e manipolato in continuazione molti di questi gruppi e organizzazioni coinvolte in nelle diverse rivolte nelle nazioni arabe.  L’amministrazione Obama è stata pesantemente coinvolta nei movimenti in Tunisia e in Egitto, circostanza provata dalle continue visite di rappresentanti del Dipartimento di Stato a queste nazioni per assicurarsi che il risultato politico fosse favorevole agli interessi statunitensi.  Washington ha anche tentato di promuovere rivolte analoghe in paesi con governi scomodi, come la Siria e l’Iran.  La guerra brutale contro la Libia e l’assassinio extragiudiziale di Muammar al-Gheddafi un tentativo obliquo degli USA di fronteggiare una “rivoluzione popolare” nella nazione nordafricana.

La manipolazione e l’infiltrazione di forze esterne nei movimenti del mondo arabo hanno contribuito al loro caos, disordine e fallimento nel concretarsi in rivoluzioni vere, vere trasformazioni delle loro strutture politiche, economiche e sociali. Sarebbe una sconfitta amara e tumultuosa per gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali se queste nazioni arabe dovessero costruire i movimenti rivoluzionari sovrani che milioni di persone di quei paesi domandano.

E, tornando agli Stati Uniti, la violenta repressione contro il movimento Occupiamo è un chiaro tentativo di neutralizzare e screditare la prima possibile coalizione che potrebbe crescere sino a diventare una forza politica potente che potrebbe liberare il paese dal regno Democratico-Repubblicano.  Mentre questo movimento lotta per consolidare e definire i suoi obiettivi, le rivoluzioni a sud del confine continuano ad estendersi.

I media delle imprese censurano, distorcono e tentano di imporre il silenzio sui progressi dei movimenti popolari in Bolivia, Ecuador, Venezuela e in altre nazioni latinoamericane. I capi di tali movimenti sono demonizzati dai mass media in un tentativo di sminuire l’importanza delle loro azioni e di farli passare per personaggi pericolosi considerati “matti”.

Nonostante questi tentativi di offuscarle, le rivoluzioni latinoamericane del ventunesimo secolo hanno preparato il terreno per altri nel Sud Globale, e nel Nord, affinché elevino le proprie voci e si uniscano per costruire un mondo migliore.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/inspiration-south-of-the-border-by-eva-golinger

Fonte: Postcards from the Revolutions [Cartoline dalle rivoluzioni]

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Libia e altri interventi USA: a loro non importa se sono bugie

09 mercoledì Nov 2011

Posted by Redazione in America, William Blum

≈ Lascia un commento

Tag

al-Jazeera, al-Qaeda, Bahrain, Bengasi, bombardamenti di civili, Cheddi Jagan, CIA, Clinton, CNN, colpo di stato, Corano, cuba, egitto, embargo, Fox News, Gheddafi, Grenada, Guaiana Britannica, Guatemala, guerra civile, Harry Truman, Hgo Chavez, Ho Chi Minh, ICC, intervento umanitario, iraq, islamici, islamisti, Jay Leno, Lega Libica per i Diritti Umani, Lester D. Mallory, libia, Luis Moreno-Ocampo, Maurice Bishop, Michael Ledeen, NATO, Occupy Oakland, Osama bin Laden, primavera araba, processo di pace, Qatar, risoluzione ONU, sharia, Siria, Soliman Bouchuiguir, subcomandante Marcos, tribalismo, tribù, Tripoli, usa, venezuela, Viagra, Vietnam, World Trade Center, Yemen, Zapatisti

di William Blum – 8 novembre 2011

“Siamo venuti, abbiamo visto, lui è morto”

Il Segretario di Stato USA, Hillary Clinton, ridacchiando nel parlare del perverso assassinio di Moammar Gheddafi.

Si immagini Osama bin Laden o qualche altro capo islamico parlare dell’11 settembre dicendo: “Siamo venuti, abbiamo visto, 3.000 sono morti … ah ah!”

La Clinton e i complici  della NATO nei suoi crimini possono anche essersi fatti una gran risata per il modo in cui hanno ingannato il mondo.  La distruzione della Libia, la riduzione di un moderno stato sociale a cumuli di macerie, le città fantasma, l’assassinio di migliaia di persone … questa tragedia è stata il culmine di una serie di falsità diffuse dai ribelli libici, dalle potenze occidentali e dal Qatar (attraverso la sua stazione televisiva al-Jazeera), dalla dichiarata imminenza di un “bagno di sangue” nella Bengasi tenuta dai ribelli se l’occidente non fosse intervenuto a storie di mitragliatrici di elicotteri e aerei governativi che scaricavano proiettili su un gran numero di civili e racconti di stupri di massa indotti dal Viagra ad opera dell’esercito di Gheddafi. (Quest’ultima favola è stata proclamata alle Nazioni Unite dall’ambasciatore statunitense, come se dei giovani soldati avessero bisogno del Viagra per tirarlo su) (1).

Il New York Times (22 marzo) ha osservato:

“… i ribelli non sentono lealtà nei confronti della verità nel modellare la propria propaganda, dichiarando vittorie inesistenti sui campi di battaglia, affermando di star ancora combattendo in una città chiave giorni dopo che essa è caduta davanti alle forze di Gheddafi, e facendo affermazioni enormemente esagerate sul suo comportamento barbarico.”

Il Los Angeles Times (7 aprile) ha aggiunto quanto segue riguardo all’operazione mediatica dei ribelli:

“Non si tratta di media esattamente corretti ed equilibrati. In effetti come ha gentilmente puntualizzato [il redattore] ci sono quattro regole inviolate sulla copertura da parte delle due stazioni radio, della stazione televisiva e della stampa dei ribelli:

– Niente articoli o commenti a favore [di Gheddafi]

– Niente menzioni di guerra civile (Il popolo libico, orientale ed occidentale, è unificato in una guerra contro un regime totalitario)

– Niente dibattiti riguardo a tribù o tribalismo (C’è solo una tribù: la Libia)

– Nessun riferimento ad al-Qaeda o a estremisti islamici (Quella è propaganda [di Gheddafi]

Il governo libico ha indubbiamente diffuso la sua quota di disinformazione, ma è stata la scia di bugie dei ribelli, per omissione e affermazione, che è stata utilizzata dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU per giustificare il proprio voto a favore dell’intervento “umanitario”, seguito nel Terzo Atto dagli incessanti bombardamenti e missili dei droni della NATO/USA giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese; è difficile essere molto più umanitari di così. Se prima dei bombardamenti NATO/USA al popolo libero fosse stato offerto un referendum al riguardo, si può immaginare che li avrebbero avallati?

Di fatto sembra piuttosto probabile che la maggior parte dei libici appoggiasse Gheddafi.  Altrimenti come avrebbe potuto il governo resistere alle più potenti forze militari del mondo per più di sette mesi? Prima che la NATO e gli USA seminassero la distruzione sul paese, la Libia aveva la più alta aspettativa di vita, il più basso tasso di mortalità infantile e l’indice più elevato di Sviluppo Umano dell’ONU in tutta l’Africa.  Nel corso dei primi pochi mesi di guerra civile, sono state tenute enormi manifestazioni a favore del leader libico. (2)”

Per un ulteriore dibattito sul perché i libici possano essere stati motivati a sostenere Gheddafi date un’occhiata a questo video.

Se Gheddafi fosse stato meno oppressivo nei confronti della sua opposizione politica nel corso degli anni e avesse fatto qualche gesto di accomodamento nei suoi confronti nel corso della Primavera Araba, la parte benevola del suo regime avrebbe potuto mantenerlo al potere, anche se il mondo dispone di un mucchio di prove che rendono chiaro che le potenze occidentali non sono particolarmente interessate all’oppressione politica, salvo che per utilizzarla, quando ne hanno bisogno,  come scusa per gli interventi; in effetti i documenti governativi rinvenuti a Tripoli durante i combattimenti dimostrano che la CIA e i servizi segreti inglesi avevano collaborato con il governo libico nello scovare dissidenti, consegnarli alla Libia e prendere parte agli interrogatori. (3)

In ogni caso molti dei ribelli avevano un motivo religioso per opporsi al governo e hanno svolto un ruolo dominante nell’esercito ribelle; in precedenza molti tra loro avevano combattuto contro gli Stati Uniti in Afghanistan e in Iraq (4). Il nuovo regime libico ha prontamente annunciato che la legge islamica (sharia) sarà la “fonte principale” della legislazione e che le leggi che contrastano “gli insegnamenti dell’Islam” saranno annullate; verrebbe anche ripristinata la poligamia; il libro sacro dei mussulmani, il Corano, consente agli uomini fino a quattro mogli (5).

Così, proprio come in Afghanistan negli anni ’80 e ’90 gli Stati Uniti hanno appoggiato militanti islamici in lotta contro un governo laico.  Per molto meno il governo statunitense ha imprigionato molte persone come “terroristi” negli Stati Uniti.

Quella che in Libia era iniziata come una “normale” violenza da guerra civile da entrambe le parti – replicata in precedenza e da allora dai governi di Egitto, Yemen, Bahrain e Siria senza alcun intervento militare occidentale (gli USA attualmente continuano ad armare i regimi del Bahrain e dello Yemen) – è stata trasformata dalla macchina propagandistica occidentale in un grave genocidio di innocenti da parte di Gheddafi. C’è un altro video che affronta questo tema chiave, “Guerra umanitaria in Libia: non ci sono prove.” La parte principale del film è un’intervista a Soliman Bouchuiguir,  segretario generale e uno dei fondatori, nel 1989, della Lega Libica per i Diritti Umani, forse il principale gruppo dissidente libico, in esilio in Svizzera.

A Bouchuiguir viene chiesto più volte se può documentare le varie accuse mosse contro il leader libico. Dove sono le prove dei molti stupri? Delle molte altre presunte atrocità? Dei più di 6.000 civili dichiaratamente  uccisi dagli aerei di Gheddafi?  Bouchuiguir cita in continuazione come fonte il Consiglio Nazionale di Transizione.  Sì, si tratta dei ribelli che hanno scatenato la guerra civile congiuntamente alle forze NATO/USA.  In altri momenti Bouchuiguir parla di “testimoni”: ragazzine e ragazzini che erano lì, le cui famiglie conosciamo personalmente.”  Dopo un po’ dichiara che “non c’è modo” di documentare queste cose. Ciò è probabilmente vero in qualche misura, ma perché, allora, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU per un intervento militare in Libia? Perché quasi otto mesi di bombardamenti?

Bouchulguir cita anche il fatto che la sua organizzazione, nei suoi sforzi contro Gheddafi,  collabora con il National Endowment for Democracy (Fondo Nazionale per la Democrazia – NED) e c’è da chiedersi se questa persona ha idea che il NED è stato fondato come facciata della CIA. Letteralmente. 

Un’altra fonte di accuse contro Gheddafi e i suoi figli è stata la Corte Penale Internazionale (ICC).  Il procuratore capo della Corte, Luis Moreno-Ocampo, viene mostrato in questo film mentre discute questa stessa questione, delle prove delle accuse, in una conferenza stampa.  Egli fa riferimento a un documento di 77 pagine della ICC che egli afferma contenere le prove. Il film fa vedere  l’indice del documento, che mostra che le pagine da 17 a 71 non sono disponibili al pubblico; queste pagine, che apparentemente contengono le testimonianze e le prove, sono contrassegnate come “segretate”. In un’appendice il rapporto elenca le sue fonti; includono Fox News, CNN, Soliman Bouchulguir e la Lega Libica per i Diritti Umani. In precedenza il film aveva presentato Bouchuiguir che citava la ICC come una delle sue fonti. La documentazione è dunque un serpente che si morde la coda.

Nota storica in calce: “I bombardamenti aerei su civili furono introdotti in Libia dagli italiani nel 1911, perfezionati dagli inglesi in Iraq nel 1920 e utilizzati dai francesi nel 1925 per radere al suolo interi quartieri di città siriane. La demolizione delle case, le punizioni collettive, le esecuzioni sommarie, le detenzioni senza processo, le torture come routine, queste sono state le armi della presa del potere da parte dell’Europa” nel Medio Oriente (6).

L’eterna convinzione del mondo che la politica estera statunitense abbia un lato buono cui si può fare appello

Il 6 aprile 2011 Moammar Gheddafi ha scritto una lettera al presidente Obama in cui ha detto: “Siamo stati colpiti più moralmente che fisicamente a causa di ciò che è stato fatto contro di noi da Lei sia con le azioni sia con le parole.  Nonostante tutto questo, qualsiasi cosa accada, Lei rimarrà sempre nostro figlio … Caro figlio nostro, Eccellenza, Baraka Hussein Abu Oubama, il Suo intervento nel nome degli Stati Uniti è indispensabile affinché la NATO si ritiri finalmente dagli affari libici.” (7)

Prima dell’invasione statunitense nel marzo 2003, l’Iraq cercò di negoziare un accordo di pace con gli Stati Uniti. I dirigenti iracheni, compreso il capo dei  servizi segreti iracheni, volevano che Washington sapesse che l’Iraq non aveva più armi di distruzione di massa e offrivano di consentire a soldati ed esperti statunitensi di effettuare una ricerca;  offrivano anche pieno sostegno a qualsiasi piano statunitense nel processo di pace arabo-israeliano e di consegnare un uomo accusato di essere coinvolto nell’attentato al World Trade Center nel 1993. Se la questione riguardava il petrolio, aggiungevano, avrebbero anche discusso di concessioni agli Stati Uniti (8) … Poi è arrivata la campagna “Shock and Awe”!

Nel 2002, prima del colpo di stato in Venezuela che allontanò temporaneamente Hugo Chavez, alcuni dei cospiratori si erano recati a Washington per avere semaforo verde dall’amministrazione Bush.  Chavez venne a sapere di questa visita e ne fu così angosciato che mandò dirigenti del suo governo a Washington a perorare il proprio caso.  Il successo di questo tentativo può essere giudicato dal colpo di stato che ebbe luogo poco dopo.  (9)

Nel 1994 fu riferito che il capo dei ribelli zapatisti in Messico, il subcomandante Marcos, disse che “si aspettava dagli Stati Uniti che sostenessero gli zapatisti una volta che i servizi segreti USA si fossero convinti che il movimento non era influenzato dai cubani o dai russi.” “Alla fine” disse Marcos, “arriveranno alla conclusione che questo è un problema messicano, con  cause giuste e vere.” (10)  Tuttavia per molti anni gli Stati Uniti hanno fornito all’esercito messicano tutto l’addestramento e tutti i mezzi per schiacciare gli zapatisti.

Il ministro degli esteri guatemalteco nel 1954, Cheddi Jagan della Guaiana Britannica nel 1961 e Maurice Bishop di Grenada nel 1983 rivolsero tutti il loro appello a Washington per essere lasciati in pace. (11) I governi di tutti e tre i paesi furono rovesciati dagli Stati Uniti.

Nel 1945 e 1946 il leader vietnamita Ho Chi Minh, un sincero ammiratore degli Stati Uniti e della Dichiarazione d’Indipendenza, scrisse almeno otto lettere al presidente Harry Truman e al Dipartimento di Stato sollecitando l’aiuto degli Stati Uniti per conquistare l’indipendenza dalla Francia. Scrisse che la pace mondiale era messa in pericolo dagli sforzi francesi di riconquistare l’Indocina e richiese che “le quattro potenze (USA, USSR, Cina e Inghilterra) intervenissero al fine di mediare un accordo equo e portare il problema indocinese davanti alle Nazioni Unite. (12)  Ho Chi Minh non ricevette alcuna risposta. Dopo tutto egli era una specie di comunista.

Le mediazoccole degli Stati Uniti  [presstitutes, nell’originale]

Si immagini che il brutale attacco della polizia all’accampamento di Occupy Oakland, il 25 ottobre, avesse avuto luogo in Iran o a Cuba o in Venezuela o in qualsiasi altro ODE (Officially Designated Enemy [Nemico designato ufficialmente]) …  Prima pagina: Una giusta indignazione con fotografie orripilanti.  Ma ecco il Washington Post il giorno dopo: un articolo di poche righe a pagina tre, dal titolo: “I manifestanti logorano l’apprezzamento nazionale nei loro confronti”; nessuna citazione del veterano dell’Iraq lasciato privo di conoscenza da un proiettile della polizia che aveva preso contatto con la sua testa; quanto alle fotografie: solo una, un ufficiale della polizia di Oakland che accarezza un gatto abbandonato dai manifestanti.

Ed ecco il comico televisivo Jay Leno la notte stessa dell’attacco della polizia ad Oakland: “Dicono che Moammar Gheddafi possa essere stato l’uomo più ricco del mondo … 200 miliardi di dollari.  Con tutti quei miliardi che aveva, ha speso pochissimo per l’istruzione e gli asili nel suo paese. Così immagino che fosse Repubblicano.” (13)

Oggetto dell’umorismo di Leno erano naturalmente i Repubblicani, ma è servito a provocare l’ulteriore demonizzazione di Gheddafi e così ad accrescere la “giustificazione” dell’attacco omicida  degli Stati Uniti alla Libia. Se fossi stato uno degli ospiti di Leno, lì quella sera, mi sarei rivolto al pubblico e avrei detto: “Sentite, gente, sotto Gheddafi gli asili e l’istruzione erano completamente gratuiti. Non vi piacerebbe che fosse così anche qui?”

Penso un numero sufficiente di persone tra il pubblico avrebbero applaudito e gridato per costringere Leno a fare un po’ marcia indietro dalla sua osservazione gratuita e frutto di indottrinamento.

E, giusto per la storia, i 200 miliardi di dollari non sono soldi che si trovano nei conti bancari personali di Gheddafi in nessun posto al mondo, bensì soldi che appartengono allo stato libico. Ma perché cavillare? Non c’è industria pari all’industria dello spettacolo.

La ninna nanna irachena

Il 17 febbraio 2003, un mese prima che iniziassero i bombardamenti in Iraq, pubblicai su Internet un saggio intitolato “Cosa vuole davvero la mafia imperiale?”  a proposito della guerra che ci si aspettava. Nel testo erano citate le parole di Michael Ledeen, ex dirigente di Reagan, allora all’American Enterprise Institute, che era uno dei principali sostenitori dell’attacco all’Iraq:

“Se soltanto permettessimo alla nostra visione del mondo di avanzare e l’abbracciassimo interamente e non cercassimo di essere diligenti e di mettere insieme diligenti soluzioni diplomatiche a questa cosa, ma semplicemente scatenassimo una guerra totale contro questi tiranni, penso che faremmo benissimo e che i nostri figli, tra molti anni, canterebbero grandi canzoni su di noi.”

Dopo un anno dalla tragica farsa che è stato l’intervento statunitense in Iraq non ho potuto resistere.  Ho inviato una email a Ledeen ricordandogli le sue parole e chiedendogli semplicemente: “Vorrei chiederti quali canzoni stanno cantando i tuoi figli in questi giorni.”

Nessuna risposta.

C’è mai stato un impero che non abbia dichiarato a sé stesso e al mondo di essere diverso da tutti gli altri imperi, che la sua missione non consistesse nel saccheggiare e controllare bensì nell’illuminare e liberare?

 

Il voto delle Nazioni Unite sull’embargo a Cuba – 20 anni in fila

Per anni i dirigenti politici e i media statunitensi hanno adorato etichettare Cuba come un “paria internazionale”. Quell’espressione non si sente più. Forse un motivo è il voto annuale all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla risoluzione che s’intitola: “Necessità di por fine all’embargo economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti d’America contro Cuba.” E’ così che è andato il voto (astensioni escluse):

Anno Voti (Sì-No) Voti No
1992   59 – 2 USA, Israele
1993   88 – 4 USA, Israele, Albania, Paraguay
1994 101 – 2 USA. Israele
1995 117 – 3 USA, Israele, Uzbekistan
1996 138 – 3 USA. Israele, Uzbekistan
1997 143 – 3 USA, Israele, Uzbekistan
1998 157 – 2 USA, Israele
1999 155 – 2 USA, Israele
2000 167 – 3 USA, Israele, Isole Marshall
2001 167 – 3 USA, Israele, Isole Marshall
2002 173 – 3 USA, Israele, Isole Marshall
2003 179 – 3 USA, Israele, Isole Marshall
2004 179 – 4 USA, Israele, Isole Marshall, Palau
2005 182 – 4 USA, Israele, Isole Marshall, Palau
2006 183 – 4 USA, Israele, Isole Marshall, Palau
2007 184 – 4 USA, Israele, Isole Marshall, Palau
2008 185 – 3 USA, Israele, Palau
2009 187 – 3 USA, Israele, Palau
2010 187 – 2 USA, Israele
2011 186 – 2 USA, Israele

  

Ogni autunno il voto all’ONU è un promemoria benvenuto del fatto che il mondo non ha completamente perso la ragione e che l’impero statunitense non controlla completamente l’opinione degli altri governi.

Come è cominciato: il 6 aprile 1960, Lester D. Mallory, Vicesegretario di Stato Aggiunto degli Stati Uniti per gli Affari Inter-Americani scrisse un promemoria interno: “La maggioranza dei cubani appoggia Castro … l’unico mezzo prevedibile per alienargli il sostegno interno consiste nella disillusione e nel disamore basati sullo scontento e le privazioni economiche …  dovrebbe essere utilizzato prontamente  ogni mezzo possibile per indebolire la vita economica di Cuba.” Mallory propose “una linea d’azione che … colpisca al massimo negando fondi e forniture a Cuba, che faccia diminuire i salari nominali e reali, che porti la fame, la disperazione e il rovesciamento del governo.” (14)  In seguito, quello stesso anno, l’amministrazione Eisenhower istituì il soffocante embargo contro il suo eternamente dichiarato nemico.

Note

1.Viagra: Reuters,  29 aprile 2011

2.Vedere, ad esempio, “Million Man, Woman and Child March in Tripoli, Libya”, [La marcia di un milione di uomini, donne e bambini a Tripoli, Libia] 20 giugno 2011

3.The Guardian (London), 3 settembre  2011

4.Washington Post, 15 settembre  2011, “Islamists rise to fore in new Libya” [Ascesa in primo piano degli islamisti nella nuova Libia]

5.USA Today, 24 ottobre  2011

6.Rashid Khalidi, professore di Studi Arabi, Columbia University, Washington Post, 11 novembre  2007

7.Associated Press, 6 aprile  2011, alcuni evidenti errori dell’originale sono stati corretti

8.New York Times, 6 novembre  2003

9.New York Times, 16 aprile 2002

10.Los Angeles Times, 24 febbraio 1994, pag.7

11.Guatemala: Stephen Schlesinger e Stephen Kinzer, Bitter Fruit: The Untold Story of the American Coup in Guatemala (1982), pag.183 [Frutto amaro: la storia non raccontata del colpo di stato statunitense in Guatemala]; Jagan: Arthur Schlesinger, A Thousand Days (1965), pagg.774-9 [Mille giorni]; Bishop:Associated Press, 29 maggio1983, “Leftist Government Officials Visit United States” [Dirigenti del governo di sinistra visitano gli Stati Uniti]

12.The Pentagon Papers (NY Times edition, 1971), pagg.4, 5, 8, 26 [I quaderni del Pentagono] ; William Blum, Killing Hope, pag.123) [Uccidere la speranza]

13.Washington Post, 26 ottobre 2011?

14.Dipartimento di Stato, Rapporti con l’Estero degli Stati Uniti  1958-1960, Volume VI, Cuba (1991), pag.885

 

William Blum è autore di:

 •Killing Hope: US Military and CIA Interventions Since World War 2 [Uccidere la speranza: interventi militari e della CIA USA a partire dalla seconda guerra mondiale]

•Rogue State: A Guide to the World’s Only Superpower [Stato canaglia: una guida all’unica superpotenza del mondo]

•West-Bloc Dissident: A Cold War Memoir [Dissidenti del blocco occidentale: memorie della guerra fredda]

•Freeing the World to Death: Essays on the American Empire [Liberare a morte il mondo: saggi sull’impero statunitense]

Parti dei libri possono essere lette, e si possono acquistare copie firmate, a www.killinghope.org

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/it-doesnt-matter-to-them-if-its-untrue-by-william-blum

Fonte: killinghope.org

 traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Giustificazione morale

30 domenica Ott 2011

Posted by Redazione in Economia, Mondo, Noam Chomsky

≈ Lascia un commento

Tag

11 settembre, 99%, Afghanistan, Arabia Saudita, austerità, BCE, brasile, BRIC, Bush, CIA, Cina, concentrazione di ricchezza, droni, egitto, Emirati Arabi Uniti, FBI, figlio unico, finanziarizzazione, Francia, Germaniia, Gheddafi, grecia, Guantanamo, India, inflazione, Inghilterra, iran, libia, Medio Oriente, Obama, Osama bin Laden, pacchetto di stimolo, pakistan, politica estera, Portogallo, presunzione d'innocenza, primavera araba, recessione, Russia, Shanghai Cooperation Organization, Siria, spagna, stagnazione, terrorismo, triumvirato imperiale, Tunisia, Turchia, Unione Africana, Unione Europea, usa, Yemen

 

di Noam Chomsky e Dean Carroll (27 ottobre 2011)

 

Tu sei stato uno dei principali critici della politica estera statunitense in passato. Qual è il tuo punto di vista sulla prestazione in quest’area di Barack Obama da presidente, da quando ha assunto la carica? So che sei stato critico riguardo alla missione per uccidere Osama bin Laden.

Esisteva un principio nella legge anglo-statunitense chiamato principio d’innocenza sino a che la colpevolezza non sia provata in tribunale.  Quanto un sospetto viene preso e può facilmente essere condotto in giudizio, assassinarlo è semplicemente un crimine.  Per inciso, anche l’invasione del Pakistan è stata una violazione della legge internazionale.

C’è allora una qualsiasi giustificazione morale per gli attacchi di droni della CIA in paesi come lo Yemen e il Pakistan, che hanno presumibilmente avuto luogo durante la dirigenza della Casa Bianca da parte di Obama?

Non c’è alcuna giustificazione per gli assassinii mirati.  Erano cose che avvenivano in precedenza, sotto l’ultimo presidente, ma l’amministrazione Obama ha esteso procedure precedenti a una campagna globale di assassinii diretta contro persone sospette di incoraggiare altri a compiere quelle che gli Stati Uniti definiscono azioni terroristiche. Che cosa sia definito “azione terroristica” è qualcosa che solleva questioni piuttosto serie, e questo è un eufemismo.  Si prenda, ad esempio il caso di Guantanamo di un quindicenne che è stato accusato di aver preso un fucile per difendere il suo villaggio, in Aghanistan, quando è stato attaccato da soldati statunitensi. E’ stato accusato di terrorismo e poi inviato a Guantánamo per un totale di otto anni. Dopo otto anni di una prigionia nei quali quel che succede non è un segreto, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato ad altri otto anni di prigione. E’ terrorismo questo? Un ragazzo di quindici anni che difende il suo villaggio dal terrorismo?

Dunque tu pensi che, potenzialmente, l’approccio alla politica estera di Obama sia stato peggiore di quello di George W. Bush, in certe aree?

In termini di terrorismo di stato (ed è così che chiamerei questo) devo dire di sì, e ciò è già stato fatto presente dagli analisti dell’esercito.  La politica dell’amministrazione Bush era di rapire i sospetti e di inviarli a prigioni segrete in non erano trattati molto educatamente, come sappiamo.  Ma l’amministrazione Obama ha intensificato quella politica arrivando a non rapirli, ma a ucciderli.  Ora, ricordiamolo, si tratta di sospetti, anche nel caso di Osama bin Laden.  E’ plausibile che abbia effettivamente pianificato gli attacchi dell’11 settembre, ma quel che è plausibile e quel che è provato sono due cose diverse. Merita essere ricordato che otto mesi dopo gli attacchi, nell’aprile 2002, il capo dello FBI, nella sua più dettagliata comunicazione alla stampa, fu soltanto in grado di affermare di ritenere che il complotto fosse stato ordito in Afghanistan da bin Laden ma realizzato negli Emirati Arabi Uniti, in Germania e negli Stati Uniti. Da allora non è stata prodotta alcuna prova certa, almeno pubblicamente. La commissione sull’11 settembre, creata dal governo, ha ricevuto una quantità di materiale che costituiva una prova indiziaria che ciò era ragionevolmente plausibile, ma è dubbio che una qualsiasi parte di esso reggerebbe in un tribunale indipendente.  Le prove di cui si dispone sono state fornite alla commissione dal governo in base a interrogatori di sospetti in condizioni molto crudeli, come sappiamo.  E’ altamente improbabile che un tribunale indipendente avrebbe potuto prendere sul serio prove simili.

Come vedi il conflitto libico? Le forze occidentali, europee in particolare, hanno fatto bene a  intervenire?

Le tre tradizionali potenze imperiali, Inghilterra, Francia e Stati Uniti, hanno partecipato a una guerra civile dalla parte dei ribelli che non aveva nulla a che vedere con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Che l’azione del triumvirato imperiale sia stata appropriata è questione che penso debba essere discussa e dibattuta.  Certamente non è stata, internazionalmente, una mossa popolare; voglio dire, viene definita comunità internazionale, ma la maggior parte del mondo vi si oppone.  La Libia è un paese africano e l’Unione Africana sollecitava negoziati e diplomazia, ed è stata ignorata.  Brasile, Russia, India e Cina – i paesi BRIC – hanno tenuto all’epoca una riunione in Cina ed hanno anche diffuso una dichiarazione che sollecitava la diplomazia e i negoziati. Persino la Turchia, all’inizio, è stata tiepida e l’Egitto non ha appoggiato l’azione, e dal mondo arabo non è venuto praticamente alcun sostegno.

La domanda vera è: il mandato dell’ONU di proteggere i civili poteva essere attuato mediante la diplomazia? La Libia è una società altamente tribale e vi sono una quantità di conflitti tra le tribù; chi sa cosa verrà fuori da tutto questo!  Il governo di transizione ha già sottolineato che vi sarà una stretta osservanza della legge della Sharia e che verranno negati i diritti delle donne e così via.  Pochissimi in occidente sanno granché di tutto questo.  D’altro canto c’è stato un enorme sostegno popolare a farla finita con Gheddafi, che era un prevaricatore terribile.

E vedi un allargamento e un approfondimento della Primavera Araba con il passare del tempo e con i ribelli in stati come la Siria e l’Iran che prendono coraggio dalle conquiste dei già oppressi cittadini libici?

L’Iran è un caso diverso; ha un regime oppressivo, ma una situazione molto diversa. La Siria è in una situazione estremamente brutta che sta degenerando in guerra civile.  Nessuno ha proposto una politica sensata per gestire la cosa.  In larghe parti del mondo arabo le rivolte a favore della democrazia sono state rapidamente represse.  In Arabia Saudita, lo stato islamista più radicalmente estremo e alleato più stretto degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, ci sono stati timidi sforzi tentativi di protesta e sono stati repressi parecchio rapidamente, in modo tale che la gente ha avuto paura di scendere di nuovo in strada.  Lo stesso vale per il Kuwait e per l’intera regione, la regione del petrolio.  In Bahrain le proteste sono state inizialmente tollerate prima di essere represse violentemente con l’assistenza della forza d’invasione guidata dai sauditi in modi molti brutti, come irrompere in un ospedale ed aggredire medici e pazienti.

In Egitto e in Tunisia c’è stato un progresso significativo, ma limitato.  In Egitto l’esercito non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il suo controllo sulla società, anche se ora il paese ha una stampa libera e un movimento sindacale è stato in grado di organizzarsi ed agire in modo indipendente. Anche la Tunisia ha già una storia di attivismo sindacale. E pertanto il progresso verso la democrazia e la libertà è correlato molto strettamente con l’ascesa dell’attivismo militante di lungo termine. Ciò non dovrebbe sorprendere gli occidentali perché è esattamente quel che è accaduto in occidente.

Come vedi dispiegarsi la geopolitica nei prossimi decenni, con l’ascesa dei BRIC, la mancanza di stabilità in Medio Oriente e il declino dell’occidente?

Gli USA e l’Europa hanno problema in qualche misura diversi.  L’Europa fronteggia problemi finanziari molto gravi, questo non è un segreto, che sono in parte riconducibili all’approccio relativamente umano all’integrazione dei paesi più poveri con le nazioni più ricche.  Prima che fosse creata l’Unione Europea e i paesi del sud più poveri, come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, fossero fatti entrare, c’erano stati tentativi di ridurre la nette differenze tra i paesi avanzati ricchi e quelli più poveri, in modo tale che i lavoratori dell’Europa settentrionale non dovessero affrontare la concorrenza della classe lavoratrice impoverita e sfruttata del sud. Ci sono stati finanziamenti compensativi e altre misure che, naturalmente, non hanno eliminato il divario, ma lo hanno rimosso in misura sufficiente a far sì che le nazioni più povere fossero fatte entrare [nella UE] senza effetti pesanti su quelle ricche del nord.

L’Europa sta ora pagando il prezzo di un approccio relativamente umano e il suo non aver gestito alcuni problemi molto seri, come la straordinaria indipendenza della Banca Centrale Europea e la sua dedizione religiosa alle politiche anti-inflattive, che non sono quelle che dovrebbero essere adottate in un periodo di declino e di recessione. L’Europa dovrebbe fare l’opposto, come gli Stati Uniti dove le politiche sono in qualche modo più realistiche.

Quale ruolo pensi svolgeranno l’Europa e gli Stati Uniti in questo nuovo ordine mondiale che potenzialmente riflette la multipolarità piuttosto che l’egemonia occidentale?

L’Europa e gli Stati Uniti rappresentano ancora una parte enorme dell’economia globale; non ci sono dubbi al riguardo. Se l’Europa riesce a rimettere le proprie cose in ordine, e io penso che dovrà modificare le sue politiche economiche, ha delle opzioni.  Ciò di cui l’Europa ha bisogno ora non è un programma d’austerità, bensì  un pacchetto di stimolo che ripristini la crescita in modo da potere in seguito occuparsi del problema del debito.  Lo stesso vale per gli Stati Uniti.  E’ disponibile una quantità di denaro per programmi di stimolo in entrambe le regioni.  Ciò potrebbe aumentare il debito, ma quello è un problema più a lungo termine.  Le nostre società sono ricolme di ricchezza; la questione è come si intende utilizzarla.

Il tema comune di tutto la letteratura sugli affari internazionali è quello che viene chiamato il declino dell’occidente e la conclusione, a corollario, che il potere globale sta nuovamente passando alle potenze emergenti, Cina e India.  Tale tesi non è plausibile; la crescita economica della Cina è stata per molti versi decisamente spettacolare, ma si tratta di paesi molto poveri.  Il reddito pro capite è ben al di sotto di quello dell’occidente e hanno enormi problemi interni. La Cina, considerata il principale motore economico, è oggi ancora un impianto di assemblaggio.  Se si calcola accuratamente  il deficit commerciale USA nei confronti della Cina in termini di valore aggiunto, si rileva che il dato scende di circa il 25%, mentre aumenta nei confronti del Giappone, di Taiwan e della Corea approssimativamente della stessa percentuale.  Il motivo è che le parti, i componenti e l’alta tecnologia affluiscono in Cina da società periferiche, più industrializzate, così come dagli USA e dall’Europa, e la Cina assembla il tutto. Se si acquista un iPad o roba simile sul quale c’è scritto “esportato dalla Cina”, ben poco del valore aggiunto è cinese.

Certamente, in prosieguo la Cina salirà sulla scala della tecnologia, ma si tratta di una salita difficile e il paese ha problemi interni molto gravi, incluso un problema demografico.  Il periodo di crescita del paese è stato associato a un grande aumento di lavoratori giovani, tra i ventenni o trentenni, ma le cose stanno cambiando, in parte a motivo della politica del “figlio unico”.  Quel che sta arrivando è un declino della popolazione in età da lavoro e un aumento della popolazione più anziana. I cinesi senza dubbio cresceranno e saranno importanti, ma l’India è ancor più impoverita con centinaia di milioni di persone che vivono in miseria. Il mondo sta diventando vario e sta arrivando anche un secolo più vario.  Con l’ascesa dei BRIC, è in arrivo una distribuzione del potere. Per quanto riguarda il declino statunitense, esso è iniziato negli anni quaranta, quando possedeva letteralmente,  con incredibile sicurezza, la metà della ricchezza e della produzione del mondo; non c’era mai stato nulla di simile nella storia. Ciò ha cominciato a declinare molto rapidamente e la cosiddetta “perdita della Cina” si è verificata nel 1949.  Si dava per scontato che noi possedessimo il mondo, che ne fossimo proprietari.  Ben presto ci fu la “perdita del Sud Est Asiatico”. E per  che si sono avute le guerre inter-cinesi e il colpo di stato in Indonesia.

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a quella che è stata chiamata la “perdita del Sud America”. Il Sud America ha cominciato a muoversi in direzione dell’indipendenza e dell’integrazione e gli Stati Uniti sono stati espulsi da tutte le basi militari dell’area. Ed è in corso la creazione di unioni in America Latina, Sud America, Africa e Medio Oriente. L’occidente e i suoi alleati stanno cercando con forza di controllare ciò, ma la cosa sta proseguendo.  E in Cina vi è l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, che comprende gli stati dell’Asia Centrale, con Russia, India e Pakistan quali osservatori. Gli Stati Uniti sono stati esclusi e, sinora, si tratta un’organizzazione internazionale basata sull’energia, basata sull’economia.  E tuttavia è un’altra parte di questa diversificazione del potere nel mondo.

Il declino statunitense è in misura significativa autoinflitto. A partire dagli anni ’70, le economie occidentali hanno operato una svolta netta.  Nel corso della storia la tendenza era stata in direzione della crescita e della speranza. Ciò è cambiato negli anni ’70, quando c’è stata una svolta dell’economia verso la finanziarizzazione e il trasferimento della produzione all’estero a motivo del declino del tasso di profitto dell’industria.  Quella che si è verificata è stata un’altissima concentrazione della ricchezza, per la maggior parte in una parte minuscola del settore finanziario, e la stagnazione e il declino per la maggior parte della popolazione.  Oggi abbiamo slogan del tipo “99% e 1%”. Le cifre non sono del tutto corrette, ma il quadro generale lo è. E’ un problema molto serio e ha portata a una ricchezza spettacolare in pochissime tasche, anche se ciò è molto dannoso per i paesi interessati. Le proteste cui assistiamo in tutto il mondo in questo momento sono un altro sintomo di ciò.

 

Noam Chomsky è professore di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti. E’ autore di più di un centinaio di libri, compreso ‘Current Issues in Linguistic Theory’ [Problemi attuali della teoria linguistica].

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/moral-justification-by-noam-chomsky

Fonte: Public Service Europe

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Dopo Gheddafi l’ovest attende la ricompensa

24 lunedì Ott 2011

Posted by Redazione in Africa, Libia, Phyllis Bennis

≈ Lascia un commento

Tag

AFRICOM, Bengasi, berlusconi, Blair, Condoleeza Rice, Consiglio di Sicurezza dell'ONU, Consiglio Nazionale di Transizione, Francia, Gheddafi, guerra civile, Hillary Clinton, indicatori di sviluppo umano, Libro Verde, Lockerbie, Misurata, Nafusa, NATO, no-fly zone, Obama, primavera araba, Primavera Libica, regime, RIsoluzione 1973, Samantha Power, Sarkozy, Sirte, Susan Rice, TNC, tuareg, usa

 

 

Di Phyllis Bennis (22 ottobre 2011)

La morte del leader libico Moammar Gheddafi rappresenterà probabilmente – anche se è troppo presto per avere certezza di qualsiasi cosa – la fine della fase corrente della guerra civile libica. Se essa aprirà le porte alla pace, alla riconciliazione nazionale, alla democrazia, alla normalizzazione della regione o ad altri obiettivi è ancor meno chiaro.  E analogamente resta incerto quali saranno i rapporto della Libia post-Gheddafi con gli Stati Uniti e gli altri paesi della NATO.

Un commentatore libico questa mattina su Al Jazeera, festeggiando la morte di Gheddafi, l’ha descritta come la “terza caduta” di dittatori della Primavera Araba.  Ma mentre il rovesciamento del regime di Gheddafi, durato 42 anni, trae le sue origini dalle stesse mobilitazioni non violente della Tunisia e dell’Egitto e da quelle in corso in Bahrain, Siria, Yemen e altrove, la traiettoria libica è stata molto diversa.

E’ cominciato allo stesso modo, con una chiamata nazionale alle proteste contro una dittatura responsabile di terribili repressioni, massacri di prigionieri e altro. Ma quando i dimostranti libici hanno preso le armi, e specialmente quando i capi hanno invitato la NATO e gli USA ad essere la “forza aerea del Consiglio Nazionale di Transizione” (TNC) i paralleli tra la ribellione libica e quelle del resto della Primavera Araba hanno cominciato a logorarsi.

Nella fase iniziale la richiesta del TNC di una “zona d’interdizione al volo [no-fly zone]” ha avuto scarso sostegno popolare.  Molti l’hanno descritta, con diffidenza, come un rischio per l’indipendenza della rivoluzione libica.  Ma il sostegno è risultato crescere quando si è parlato di un “inevitabile” e “imminente” massacro a Bengasi, dove i ribelli armati erano concentrati.  Anche tra i ribelli, il sostegno all’intervento USA/NATO non è mai stato unanime, forse per l’incertezza circa le intenzioni di Gheddafi e, in modo cruciale, circa la sua forza.

Un massacro era certamente possibile. Ma la gente di Bengasi aveva già dimostrato la sua capacità di proteggere la propria città. Quando il primo bombardiere NATO, pilotato da un francese, ha attaccato i quattro carri armati libici all’esterno di Bengasi, essi sono stati presi a bersaglio nel deserto all’esterno della città proprio perché erano già stati respinti fuori dalla città dai combattenti anti-Gheddafi.  La forza militare dei ribelli, in quel momento, era ignota, ma la contraddizione visibile tra quella vittoria iniziale e l’affermazione che solo gli attacchi aerei occidentali avrebbero potuto salvare il popolo di Bengasi può essere stata parte del motivo per cui il disagio per il ruolo degli USA e della NATO è proseguito così a lungo.

La questione è ora se e come la Libia post-Gheddafi, avendo rovesciato il suo regime di lungo corso essenzialmente attraverso una guerra civile in cui USA e NATO hanno appoggiato una parte, anziché mediante i processi rivoluzionari indipendenti e in gran parte non violenti in corso in altri paesi della Primavera Araba, possa reclamare l’orgoglio di un posto all’interno di quel risveglio regionale.

Guerra per il controllo, non per il petrolio

Gli Stati Uniti non sono stati gli istigatori originali dell’intervento NATO.  Quel ruolo appartiene all’Europa, a cominciare dalla Francia, il cui presidente stava soffrendo per gli attacchi politici per la sua reazione troppo inadeguata e troppo tardiva alla rivolta tunisina.  Alle preoccupazioni di Sarkozy per la sua popolarità interna si è unito, in Inghilterra, il governo del Partito Conservatore, che era ansioso di reclamare una posizione in quella che prevedeva sarebbe stata la parte vincente della lotta in Libia. Ciò ha preparato il terreno per posizioni europee privilegiate quanto a influenza presso il nuovo governo post-Gheddafi e, naturalmente, per l’accesso privilegiato al petrolio libico.

Così la Francia e l’Inghilterra hanno assunto la guida al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, predisponendo la bozza di una iniziale risoluzione per una “zona d’interdizione al volo”, ufficialmente per “proteggere i civili” in Libia.  L’esercito statunitense non è stato entusiasta della prospettiva. I massimi ufficiali, compreso il capo di stato maggiore Michael Mullen, hanno spiegato come una “zona d’interdizione al volo” da sola non avrebbe funzionato, che sarebbe stato necessario prima bombardare la Libia per “rimuovere” le sue armi antiaeree e per proteggere i piloti occidentali.  La Casa Bianca ha mostrato scarso entusiasmo.

Poi è prevalso un gruppo presso il Dipartimento di Stato guidato dal Segretario di Stato Hillary Clinton, dall’ambasciatore all’ONU Susan Rice e dal consigliere della Casa Bianca Samantha Power, dirigenti che avevano un passato di frequenti sollecitazioni all’azione militare in reazione a violazioni dei diritti umani. Così, invece di votare semplicemente “no” alla risoluzione che il Pentagono aveva dichiarato che non avrebbe funzionato, gli Stati Uniti hanno preso la bozza anglo-francese e l’hanno “migliorata” prevedendo “tutte le misure necessarie” per proteggere i civili, un semaforo verde all’uso di ogni arma, contro ogni bersaglio, per tutto il tempo che il Pentagono e la NATO avrebbero scelto di restare in Libia.  Ciò ha segnato la fine della Primavera Libica e l’apertura di una guerra civile molto difficile e, per i civili, mortale.

L’intervento USA/NATO in Libia non è stato una “guerra per il petrolio”. L’accesso al petrolio non era stato neppure il principale problema negli anni ’70 e ’80, anni di  opposizione USA al ruolo libico nel sostegno ai movimenti di liberazione nazionale nel corso della Guerra Fredda, né negli anni ’90 quando gli USA isolarono la Libia per il suo coinvolgimento nel terrorismo. Il greggio leggero libico è sempre stato ampiamente disponibile nel mercato mondiale del petrolio.

Ma dopo il 2001, quando l’amministrazione Bush era ansiosa di radunare nuove reclute per la sua “guerra globale al terrore”, sono stati inviati emissari a fare le moine al leader libico per tanto tempo scorticato. Nel giro di un paio d’anno Gheddafi è stato  tolto dal ghetto. Aveva accettato di smantellare il nascente programma nucleare libico, aveva offerto risarcimenti alle famiglie dell’attentato di Lockerbie, aveva offerto normali relazioni diplomatiche ai suoi nemici d’un tempo, e futuri, negli Stati Uniti e in Europa.  Arrivati al 2003, o giù di lì, le compagnie petrolifere europee e statunitensi facevano la fila per firmare contratti.  Nel 2007 e dopo, foto di Gheddafi a braccetto con Sarkozy, Tony Blair, Silvio Berlusconi – e sia con Bush e Obama e, celebri, con Condolezza Rice – erano i pezzi forti delle prime pagine dei giornali e dei siti web di tutto il mondo.

Per gli Stati Uniti, nel 2011 l’interesse strategico a rivolgersi contro Gheddafi dopo anni di buone relazioni cameratesche era principalmente basato sulla paura della perdita di controllo. Gheddafi era il nostro uomo adesso, ma gli Stati Uniti dovevano chiedersi: “E se …?” E se il volubile leader libico, sotto pressione per i processi di democratizzazione contro le dittature oltre confine, cambiasse corso e si rivolgesse per collegamenti strategici ai nemici di Washington?  La Cina continua la sua espansione di investimenti e influenza in Africa. “E se …?” Gli oppositori di Gheddafi includono islamici di varie correnti, compresi alcuni salafiti, seguaci dell’Islam estremista con base in Arabia Saudita favorito da alcuni militanti. “E se …?”  Lo stesso popolo libico potrebbe decidere che un’alleanza con l’occidente non sia nel proprio migliore interesse. “ E se …?”

“E se …?” si è presto trasformato in “E allora dài!” E così tutto è cominciato. Il Comando Africano degli USA (AFRICOM) ha avuto la sua prima occasione di mostrare gli attributi (anche se risulta che il capo dell’AFRICOM sia stato sostituito dai comandanti dell’aviazione USA presso le basi NATO in Italia). I leader dell’opposizione libica che all’inizio avevano detto: “Possiamo farcela da soli,” hanno cominciato a dire: “Solo una zona d’interdizione al volo, ma nessun intervento straniero” anche se i massimi generali statunitensi avevano già detto che non si poteva avere l’una senza l’altro.  E con la Risoluzione 1873 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che includeva la formulazione estensiva di “tutti i mezzi necessari” riguardo agli attacchi militari, le altre richieste della risoluzione di negoziati e soprattutto di un immediato cessate il fuoco, sono state scartate dalle potenze occidentali.  Naturalmente anche Gheddafi ha schernito il cessate il fuoco, ma la risoluzione dell’ONU avrebbe dovuto portare a un’enfasi molto maggiore sui negoziati per por fine alla violenza.

Rimane senza risposta la questione riguardante se, quando e in quale misura una nuova Libia possa liberarsi dalla sua attuale dipendenza dagli eserciti occidentali e da altri sostenitori strategici.

Una società divisa

Come nel caso dell’Egitto e della Tunisia è risultato che la maggior parte dei libici erano a sostegno delle richieste di maggiore democrazia, maggiori diritti, persino di una fine del regime. Ma non tutti. Un numero significativo di libici appoggiava chiaramente il regime, una situazione più vicina alla crisi in corso che si manifesta in Siria.

Sarebbe stato sorprendente che non fosse stato così. Nel suo regno durato 42 anni, Gheddafi aveva concentrato il potere nelle sue mani e aveva concesso poca libertà di espressione, libertà di assemblea o di opposizione politica.  Aveva usato le entrate dal petrolio della Libia per armare e addestrare un insieme di milizie geograficamente e politicamente separate, molte delle quali comandate dai suoi figli e da altri parenti, ma che rispondevano solo a lui, mentre l’esercito nazionale ufficiale restava relativamente debole.

Ma la ricchezza petrolifera della Libia è grande abbastanza, e la sua popolazioni abbastanza limitata, il quasi-socialismo da “Libro Verde” di Gheddafi, pur eccentrico quale era, prevedeva comunque sistemi nazionali di assistenza sanitaria, istruzione e sicurezza sociale che avevano portato il paese ai livelli più alti nelle graduatorie degli indicatori di sviluppo umano delle Nazioni Unite.  E, a motivo della singolare concentrazione di potere nelle mani di una sola persona, a Gheddafi era attribuita non solo la repressione ma anche l’occupazione, l’accesso agli ospedali, le borse di studio universitarie eccetera.

Certamente tali diritti economici e sociali non erano disponibili equamente.  La storia moderna della Libia come nazione unificata si è basata su un’unione spesso non facile delle parti occidentale ed orientale che avevano lunghe storie di provincie separate sotto il regime coloniale e prima di esso.  Gheddafi aveva sempre trovato maggior sostegno nella Libia occidentale, Tripoli compresa, rispetto alla metà orientale del paese, dove Bengasi è la città più grande.  La stessa sua città natale, Sirte, dove è stato ucciso giovedì, si trova sulla costa quasi esattamente a mezza strada tra est e ovest.  Sirte, in particolar modo, e la parte occidentale della Libia, in generale, hanno ricevuto un accesso relativamente privilegiato ai vantaggi della ricchezza petrolifera libica.

La sfida che si pone alla Libia post-Gheddafi è tremenda.  Il potere, la responsabilità e specialmente la legittimità della struttura del  governo transitorio restano contestati. La guerra civile ha creato nuove divisioni e ne ha consolidate altre tra parti della popolazione libica. Le spaccature tra l’est e l’ovest si sono amplificate, con il Consiglio Nazionale di Transizione, con sede a Bengasi, ampiamente privo della fiducia di altre aree del paese.  Esso ha già avuto difficoltà a insediarsi a Tripoli, dove resta la rabbia per la sproporzionata rappresentanza della Libia orientale di Bengasi.

Le milizie anti-Gheddafi restano in larga misura indipendenti dal TNC, con combattenti della città occidentale di Misurata e delle Montagne di Nafusa che rendono pubblica la loro posizione di non responsabilità nei confronti del TNC.

Le divisioni si sono esacerbate tra i libici arabi e tuareg, così come tra quelli che parlano lingue diverse, le tribù o i clan locali e le identità regionali.  La divisione tra i libici arabi di pelle più chiara e i libici africani neri è stata ulteriormente peggiorata dalle diffuse aggressioni ai libici di pelle scura e ai lavoratori africani sub-sahariani da parte dei combattenti anti-Gheddafi che li hanno accusati di essere mercenari di Gheddafi.  Anche se mercenari africani hanno fatto realmente parte di alcune milizie pro-Gheddafi, la gran maggioranza degli africani in Libia vi è presente come immigrati economici, che lavorano nelle occupazioni meno pagate e più dure del paese.  Il razzismo implicito in tali attacchi è ora una ferita aperta in tutta la società libica.

Come includerà il TNC – o qualsiasi altra struttura governativa gli succeda – i rappresentanti di Sirte, che molti all’interno o vicini al TNC hanno condannato come lealisti di Gheddafi?  Certamente la popolazione di Sirte comprendeva molti sostenitori del leader abbattuto e ora morto, ma molti avevano lasciato la città prima che i combattimenti si intensificassero nelle settimane recenti.  Stanno ora tornando, per trovare la loro città in rovina, con interi isolati saccheggiati e distrutti.

Il TNC si è impegnato a indire elezioni entro otto mesi dalla “liberazione finale” del paese che ci si attende venga annunciato in qualche momento oggi o domani.  Il primo ministro nominato con il sostegno degli Stati Uniti ha promesso di dimettersi immediatamente dopo quell’annuncio.  Se tali promesse saranno mantenute, se qualcosa che assomigli remotamente a elezioni corrette e libere si potrà organizzare in otto mesi in un paese senza tradizioni recenti di partiti politici o di istituzioni della società civile, resta un’enorme sfida.

C’è stato un affascinante lapsus freudiano giovedì pomeriggio quando il Segretario di Stato Hillary Clinton, riferendosi alla Libia ora inondata di armi, ha descritto la “preoccupazione [statunitense] per come disarmeremo” il paese,  rendendosi solo allora conto dell’errore e correggendo la sua dichiarazione in “o come i libici disarmeranno chiunque detenga armi.”

Se le offerte di “aiuto” statunitensi ed europee  serviranno da copertura per garantire l’elezione di un governo filostatunitense, per mantenere la dipendenza libica dall’occidente e mantenere così un punto d’appoggio statunitense nel centro stesso della Primavera Araba, altrimenti indipendente, sono questioni in sospeso dietro i festeggiamenti odierni nelle strade della Libia.

Phyllis Bennis è membro dell’Institute for Policy Studies. I suoi libri comprendono ‘Calling the Shots: How Washington Dominates Today’s UN’ [Chi comanda: come Washington domina l’ONU odierna]

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.zcommunications.org/after-gadhafi-the-west-eyes-the-libyan-prize-by-phyllis-bennis

Fonte: Salon.com

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

I prezzi del cibo stanno avvicinandosi a un punto di non ritorno?

20 giovedì Ott 2011

Posted by Redazione in Damian Carrington, Economia, Mondo

≈ Lascia un commento

Tag

bar-yam, necsi, povertà, primavera araba

Di Damian Carrington (20 ottobre 2011), Fonte: The Guardian (Originale )

Un provocatorio nuovo studio suggerisce che la tempistica delle rivolte arabe sia collegata a picchi dei prezzi globali del cibo, e che presto i prezzi si manterranno permanentemente sopra il livello che innesca i conflitti.

Cercando spiegazioni semplici alle rivolte della primavera araba che hanno attraversato la Tunisia, l’Egitto e ora la Libia, è chiaramente sciocco se si considerano  i problemi della giustizia sociale, della disoccupazione e della carenza d’acqua che vi svolgono un ruolo.  Ma chiedersi “perchè proprio ora?”  è meno stupido, è un nuovo provocatorio studio propone una risposta: l’esplosione dei prezzi del  cibo.

Esso suggerisce inoltre che ci sia uno specifico livello dei prezzi al di sopra del quale le rivolte e i tumulti diventano molto più probabili.  Tale cifra è 210 nell’ indice dei prezzi della FAO (ONU) : l’indice è attualmente a 234, a causa dei più recenti picchi dei prezzi che hanno avuto inizio a metà 2010.

I ricercatori sostengono, infine, che la tendenza sottostante dei prezzi del cibo – picchi esclusi – significhi che l’indice resterà permanentemente sopra la soglia di 210 entro un anno o due.  Il documento conclude: “L’attuale problema [dei prezzi del cibo] trascende le specifiche crisi politiche nazionali e rappresenta una preoccupazione globale riguardo alle popolazioni e all’ordine sociale vulnerabili.” In altre parole: un grosso problema.

Ora, queste sono affermazioni piuttosto importanti e devo chiarire  che questa ricerca, di un’equipe del New England Complex Systems Institute , non è stata ancora verificata da altri studiosi. E’ stata pubblicata perché Yaneer Bar-Yam, presidente del NECSI, mi ha detto che è importante ora, ma che la verifica è lenta.

La prima parte della ricerca è sufficientemente chiara: le rivolte sono identificate come relative al cibo in rapporto all’indice dei prezzi alimentari.  La correlazione è impressionante, ma costituisce una prova di un rapporto causa-effetto?

Bar-Yam afferma che questo enigma può essere affrontato ponendo la domanda in termini semplici. Potrebbero essere le rivolte a far aumentare i prezzi del cibo, invece del contrario? No, le prime sono locali, i secondi sono globali.  La correlazione potrebbe essere una semplice coincidenza? Sì, c’è una ridottissima probabilità di questo, afferma nel documento l’equipe di Bar-Yam.

Infine, potrebbero essere altri fattori a causare sia la violenza sia gli alti prezzi del cibo? “Nessuno ha suggerito un qualsiasi altro fattore che potrebbe causare entrambe le cose”  dice Bar-Yam. Ad esempio, il petrolio e lo stagno mostrano entrambi andamenti dei prezzi simili a quelli del cibo, ma non sembra probabile che inneschino la violenza. La somiglianza, dice Bar-Yam è dovuta al fatto che tutti i prezzi delle materie prime al picco sono diretti dalla speculazione nei mercati globali.

Piuttosto convincente sin qui, per quanto io posso dire, anche se vi invito a inviarmi commenti se la pensate diversamente.  La parte successiva dello studio rileva che i gravi disordini in Nord Africa e in Medio Oriente sono anch’essi correlati molto strettamente al picco dei prezzi del cibo. Bar-Yam osserva anche: “Diverse delle rivolte iniziali in Nord Africa sono state identificate nelle nuove narrazioni come rivolte per il cibo.”  Da qui i ricercatori fanno le loro previsioni di un superamento permanente della soglia di 210 in 12-14 mesi.

Come  nella questione di cui ho scritto ieri, riguardante l’analisi statistica che ha dimostrato un chiaro collegamento tra le guerre civili, a partire dal 1950, e i cambiamenti climatici globali causati dai cicli di El Nino  si tratta di un’area affascinante di ricerca.

Come afferma il documento di Bar-Yam: “La nostra analisi del collegamento tra i prezzi globali del cibo e i disordini sociali corrobora una crescente conclusione che sia possibile costruire modelli matematici delle crisi economiche e sociali globali.  Identificare una chiave di rivolta per gli eventi futuri è sicuramente utile.”

Proprio davvero. Bar-Yam ha sottoposto una relazione al governo USA identificando il rischio di disordini sociali e di instabilità politica a causa dei prezzi del cibo il 13 dicembre 2010. Quattro giorni dopo Mohamed Bouazizi si è dato fuoco per protesta non essendo in grado di guadagnarsi da vivere vendendo frutta e verdura, un evento che è considerato la scintilla della prima rivolta araba.

C’è il rischio che l’apparente precisione di questi approcci statistici distragga dalla reale sofferenza umana che vi sta dietro.  Non deve essere così. Ma se tale strumento può alzare bandiere rosse per allertare le autorità responsabili circa i problemi incombenti, e contribuire a un’azione tempestiva, sicuramente non sarà una cattiva cosa.

 Traduzione di Giuseppe Volpe

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

La violenza mostra la situazione scomoda delle minoranze dopo la Primavera Araba

12 mercoledì Ott 2011

Posted by Redazione in Africa, Robert Fisk

≈ Lascia un commento

Tag

egitto, medioriente, primavera araba

 di: Robert Fisk (12 ottobre 2011)

Le statistiche sono facili, il futuro no. Ci sono in Egitto 20 milioni di Copti, il 10 per cento della popolazione, la comunità cristiana più grande di quella zona. Il presidente Anwar Sadat una volta ha definito se stesso “un presidente musulmano per una popolazione musulmana” e i Cristiani non lo hanno dimenticato.

 Certamente l’attacco alla chiesa di Assuan ha aiutato ad alimentare il fuoco e i 26 morti sono il più grosso numero di vittime egiziane dai peggiori due giorni della rivoluzione che ha rovesciato il successore di Sadat, Hosni Mubarak. Le paure dei cristiani, però, suscitate da “Amu Hosni” stesso quando pensava che il trono gli stesse scivolando via, indicavano che il governo della Chiesa Copta non appoggiava la rivoluzione fino a due giorni prima della caduta di Mubarak.

I Copti sono i cristiani egiziani originari. Erano la maggioranza durante il dominio di Roma nell’antichità, quando il Profeta Maometto non era ancora nato. Ma i Copti sono Arabi? Alcuni Cristiani lo affermano. Alcuni dicono che essi sono gli Egiziani – “originari”, un po’ esagerato, quando i Musulmani ora li superano per 10 a uno. Durante la rivoluzione, la domenica sono arrivati a Piazza Tahrir per pregare – protetti dai Musulmani. Quando i Musulmani pregavano nella piazza il venerdì, alcuni cristiani andavano lì per proteggerli. Ma questo accadeva allora.

Ci saranno le solite teorie della cospirazione del Cairo riguardo ai fatti terribili accaduti domenica sera. Un problema molto più profondo è all’origine di tutto questo. Hanno sempre detto ai cristiani in molte nazioni del Medio Oriente che essi sono una minoranza, e devono contare sulla protezione dei loro govern. Il primo ministro libanese (Rafic Hariri) che è stato assassinato, diceva sempre ai cristiani che il “patriarca Sfeir è mio amico” – forse non così intimo, come pensava Hariri. Ora il nuovo Patriarca Maronita, Bechara Rai, è stato oggetto di molte critiche per aver suggerito a Parigi che si dovrebbe “dare una possibilità” al regime siriano di risolvere i problemi del paese, un osservazione che egli sostiene sia una falsificazione delle sue parole, ma che pare gli abbia guadagnato il ritiro di un invito a incontrare il presidente Obama.

La Giordania ospita comunità cristiane; c’è perfino una piccola comunità di cristiani francesi in Algeria. Nel 1996, sette monaci francesi sono stati prelevati dal loro monastero a Tiberine e uccisi – forse in un confuso agguato militare dei loro rapitori musulmani – e l’Arcivescovo di Algeri mi disse che aveva dovuto riconoscere le teste tagliate appese a un albero. “Non si può fare a meno di ricordare che Gesù è stato ucciso dalla violenza degli uomini,” mi ha detto – “e in nome della religione.

Non c’è nulla di nuovo sulla violenza “religiosa” in Egitto. Naturalmente, però, si pensava che la rivoluzione egiziana fosse più pulita di questa, un sentiero luminoso verso un nuovo futuro che tutti gli Arabi vorranno emulare. Beh, forse. Il giornalista Abdel Bari Atwan ha spesso detto che “queste cose”, cioè le rivoluzioni, “non sono perfette”. Lo dirà di nuovo oggi, senza altro. E’ una faccenda dolorosa, che riflette la rabbia dei Cristiani e anche quella dei Musulmani e la lunga strada che le rivoluzioni devono compiere per portare la libertà al popolo dell’Egitto.

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

Originale: http://www.zcommunications.org/violence-shows-uneasy-place-of-minorities-after-srab-spring-by-robert-fisk

Fonte: The Indipendent

Traduzione di Maria Chiara Starace

©2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0 

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Archivio per data

  • dicembre 2011 (59)
  • novembre 2011 (94)
  • ottobre 2011 (54)
  • settembre 2011 (11)
  • luglio 2011 (2)
  • aprile 2011 (4)
  • marzo 2011 (1)
  • ottobre 2009 (1)
  • aprile 2008 (1)
  • agosto 2005 (2)
  • febbraio 2004 (1)
  • maggio 2000 (1)
  • gennaio 2000 (2)

Categorie

  • Afghanistan
  • Africa
  • Ahmed Maher
  • America
  • Amira Hass
  • Amnesty International
  • Amy Goodman
  • Anarchia
  • Ann Jones
  • Anne-Marie O'Reilly
  • Anonimo
  • Anthony Alessandrini
  • Arundhati Roy
  • Asia
  • Autori
  • Autori vari
  • Barbara Ehrenreich
  • Bashir Abu-Manneh
  • Ben Schreiner
  • Benjamin Dangl
  • Benjamin Loehrke
  • Bertrand Russell
  • Bill Fletcher jr
  • Bill Quigley
  • Boaventura de Sousa Santos
  • Bolivia
  • Boris Kagarlitsky
  • Carlos Latuff
  • Chris Maisano
  • Cindy Milstein
  • Conn Hallinan
  • Corea del Sud
  • Damian Carrington
  • Dan Iles
  • Danny Schechter
  • David Graeber
  • David Harvey
  • David Porter
  • David Swanson
  • Dean Baker
  • Deena Stryker
  • Diana Johnstone
  • Dick Meister
  • Ecologia
  • Economia
  • Ed Lewis
  • Edward Ellis
  • Egitto
  • Eric Walberg
  • Ethan Miller
  • Europa
  • Eva Bartlett
  • Eva Golinger
  • Farooq Sulehria
  • Federico Fuentes
  • Fidel Castro
  • Frances Fox Piven
  • Frauke Decoodt
  • Gar Alperovitz
  • Gilbert Achcar
  • Giuseppe Volpe
  • Grecia
  • Greg Grandin
  • Guerra al terrore
  • Haggai Matar
  • Haiti
  • Howie Hawkins
  • Hugo Radice
  • Iraq
  • Irene Gendzier
  • Israele
  • Italia
  • Jack Rasmus
  • Jean Sanuk
  • Jenny Brown
  • Jerome E. Roos
  • Jim Lobe
  • John Feffer
  • John Pilger
  • Jonathan Cook
  • Kanya D'Almeida
  • Kim Scipes
  • Lauren Carasik
  • Lee Sustar
  • Libano
  • Libia
  • Lindsey Hilsum
  • Mark Ames
  • Mark Engler
  • Mark Weisbrot
  • Mark Weisbrot
  • Michael Albert
  • MIchael Hudson
  • Michael T. Klare
  • mike carey
  • MIke Davis
  • Mike Epitropoulos
  • Mike Ferner
  • Mona el-Ghobashy
  • Mondo
  • Mondo Z
  • Mostafa Ali
  • Munir Chalabi
  • Mustafa Barghouthi
  • Nancy Elshami
  • Nelson P. Valdés
  • Neve Gordon
  • Nicholas Paphitis
  • nick turse
  • Nikos Raptis
  • Nnimmo Bassey
  • Noam Chomsky
  • Noel Sharkey
  • Norman Finkelstein
  • OWS
  • Pakistan
  • Palestina
  • Pam Martens
  • Pamela Sepulveda
  • Parecon
  • Patrick Cockburn
  • Paul Krugman
  • Paul Street
  • Pervez Hoodbhody
  • Peter Marcuse
  • Phyllis Bennis
  • Raul Zibechi
  • Rebecca Solnit
  • Richard Falk
  • Richard Seymour
  • Richard Wolff
  • Robert Fisk
  • Robert L. Borosage
  • Robert Naiman
  • Robert Reich
  • Robert Scheer
  • Robin Hahnel
  • Russ Wellen
  • Russia
  • Samer al-Atrush
  • Sarah Knuckey
  • Satoko Oka Norimatsu
  • Saul Landau
  • Serge Halimi
  • Seumas Milne
  • Shalini Adnani
  • Shamus Cooke
  • Sharif Abdel Kouddous
  • Simon Basketter
  • Siria
  • Steve Early
  • Steven Greenhouse
  • Taiwan
  • Tariq Ali
  • Ted Glick
  • Tim Dobson
  • Tom Engelhardt
  • Tom Hayden
  • Turchia
  • Una Spenser
  • Uri Avnery
  • Ursula Huws
  • Usa
  • Vandana Shiva
  • Victor Grossman
  • Video
  • Warren Clark
  • WikiLeaks
  • William Blum
  • William Scott
  • Yotam Marom

Autori

Afghanistan Africa America Amira Hass Amy Goodman Anarchia Ann Jones Anthony Alessandrini Asia Autori Autori vari Barbara Ehrenreich Bolivia Boris Kagarlitsky Corea del Sud Danny Schechter David Graeber Dean Baker Ecologia Economia Egitto Ethan Miller Europa Federico Fuentes Fidel Castro Frances Fox Piven Gilbert Achcar Grecia Greg Grandin Guerra al terrore Haiti Iraq Italia John Pilger Jonathan Cook Libano Libia Mark Weisbrot Michael Albert Mondo Mustafa Barghouthi Nancy Elshami Neve Gordon Nicholas Paphitis nick turse Nikos Raptis Nnimmo Bassey Noam Chomsky Noel Sharkey Norman Finkelstein OWS Pakistan Palestina Pamela Sepulveda Pam Martens Parecon Patrick Cockburn Paul Krugman Paul Street Pervez Hoodbhody Phyllis Bennis Raul Zibechi Rebecca Solnit Richard Falk Richard Wolff Robert Fisk Robert L. Borosage Robert Naiman Robert Reich Robert Scheer Robin Hahnel Russia Samer al-Atrush Sarah Knuckey Satoko Oka Norimatsu Saul Landau Serge Halimi Seumas Milne Shalini Adnani Shamus Cooke Simon Basketter Siria Steve Early Tariq Ali Ted Glick Tim Dobson Tom Engelhardt Turchia Una Spenser Uri Avnery Ursula Huws Usa Vandana Shiva Video Warren Clark WikiLeaks William Blum William Scott Yotam Marom

Blog su WordPress.com.

Annulla
loading Annulla
L'articolo non è stato pubblicato, controlla gli indirizzi e-mail!
Verifica dell'e-mail non riuscita. Riprova.
Ci dispiace, il tuo blog non consente di condividere articoli tramite e-mail.
Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: