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Ambasciata di Oslo, Citibank, Citigroup, Dipartimento del Tesoro, Dipartimento di Stato, Fulbright, lista nera, OFAC, sicurezza, terrorismo, trasferimenti internazionali, usa
di Ann Jones – 5 novembre 2011
Dov’è che ho sbagliato? E’ stato nel suonare le percussioni con una banda di Occupy Wall Street a Times Square quando sono stata a New York di recente? O è stato quando sono tornata alla mia pacifica nuova casa di Oslo e ho cancellato una email di invito ad ascoltare Newt Gingrich tenere una conferenza ai norvegesi sulle elezioni statunitensi? (Sì, persino qui.)
Non so come sia successo. O, addirittura, cosa davvero sia successo. O cosa significhi. Dunque non ne sono venuta a capo, o ricavato solo un mucchio di ansia. Abitualmente scrivo dei problemi del mondo, ma adesso ne ho uno per conto mio. Evidentemente loro pensano che io sia una terrorista.
Cioè, qualcuno del governo USA specializzato nello scovare terroristi sembra aver scovato me e aver posto la sua mano pesante sul mio conto in banca. Penso, ovviamente, che sia uno sbaglio, ma cerco di farlo capire a un ente governativo senza volto, celato dietro un acronimo.
E’ tutto cominciato con una serie di messaggi dalla mia banca: la Citibank. Sì, lo so, avrei dovuto spostare i miei soldi tanto tempo fa, ma nel lontano passato, prima che la Citibank diventasse Citigroup, era la mia amabile banchetta di quartiere, e immagino di essere un’abitudinaria. Inoltre ho appreso, quando ho fatto i miei piani per traslocare in Norvegia, che se i tuoi soldi sono in una banca piccola, devono essere trasferiti a una banca grande come la Citibank o la Chase per poterteli far inviare quando ne hai bisogno, il che significa che ero in trappola comunque.
Dunque, la prima cosa che ho notato è che uno di quei bonifici di soldi che mi servivano non arrivava mai. Quando mi sono informata educatamente, la Citibank mi ha detto che l’operazione non era stata completata. Perché no? Tutta colpa mia, hanno insistito, per non aver fornito informazioni complete. Facendola breve: siamo andato avanti per un paio di settimane, con me che sputavo un numero sempre maggiore di pezzetti d’informazioni personali in precedenza non sollecitate. Solo allora ha cominciato a emergere un po’ di verità.
La banca, in realtà, non stava bloccando il trasferimento del denaro. Il denaro, di fatto, aveva lasciato il mio conto settimane prima, insieme con l’addebito di una commissione di trasferimento. Il responsabile era l’OFAC.
Oh, cosa? Mi sono chiesta. OFAC. Fa rima con “Oh Cacch” ma bisogna stare attenti a come lo si pronuncia. [Il gioco di parole è arduo da rendere: OFAC letto come espressione, e non come acronimo, suona come “Oh, merda!” ma anche “Oh, fotti!”. L’espressione successivamente usata dall’autrice, “Oh-Tack” (resa qui con “Oh Cacch” ovvero “Oh cacchio!”) vale all’incirca “O cazzo!” o anche “Meglio masturbarsi!” – n.d.t.). Pronunciate [l’acronimo] in modo disattento e suonerà proprio come quel che direste venendo a sapere di essere stati risucchiati nel pozzo nero finale della burocrazia top-secret. Risulta, mi informa la banca, che l’OFAC è una divisione del Dipartimento del Tesoro statunitense che “esamina” le transazioni.
“Perché io?” chiedo. Come giornalista di lungo corso la trovo una domanda strana, tanto strana quanto trovarmi a scrivere un articolo su me stessa.
A mo’ di risposta la banca mi rimanda a un collegamento Internet che apre rapporto di 521 pagine scritto in modo così fitto che sembra carta da parati. Intitolato “Cittadini a designazione speciale e persone bloccate”, si rivela essere una lista di quelle che sembrano essere tutte le aziende e le organizzazioni sociali mussulmane del pianeta. E’ a questo punto che digito OFAC su Google, entro nel suo sito, e scopro che l’acronimo sta per Office of Foreign Assets Control [Ufficio del controllo dei patrimoni stranieri – n.d.t.]
La descrizione della sua missione suona raggelante. Esso “amministra e fa rispettare sanzioni economiche e commerciali basate sugli obiettivi della politica estera e della sicurezza nazionale USA contro paesi e regimi stranieri, terroristi, narcotrafficanti internazionali, coloro che sono coinvolti in attività correlate alla proliferazione di armi di distruzione di massa e altre minacce alla sicurezza nazionale, alla politica estera o all’economia degli Stati Uniti.” E vien fuori che si tratta di una succursale di qualcosa di molto più grosso che va sotto il nome terrificante di “Servizi Segreti relativi al Terrorismo e alla Finanza” [Terrorism and Financial Intelligence].
Via di testa
Urca! Forse non aiuta, in questo momento, che io stessi leggendo Top Secret America: The Rise of the New American Security State [USA Top Secret: l’ascesa del nuovo stato statunitense della sicurezza] dei giornalisti del Washington Post Dana Priest e William M. Arkin che parla delle nostre molteplici agenzie ipernutrite, iperzelanti e ad alta segretezza, con un personale composto in misura significativa non solo da dipendenti pubblici ma da subappaltatori privati orientati al profitto. Improvvisamente mi sento presa dalla paranoia nazionale post 11 settembre che ha escogitato tutta quella nuova “sicurezza”. (E anche voi potreste trovarvi presto nei miei panni].
Controllo la lista OFAC con più attenzione. E’ in una specie di ordine alfabetico, ma con notevoli deviazioni incomprensibili, e se il mio nome è lì, di sicuro non riesco a trovarlo. Poiché ho trascorso la maggior parte dell’ultimo decennio a lavorare con organizzazioni di aiuti internazionali e a trasmettere articoli dai posti più dilaniati dalla guerra del pianeta, compreso l’Afghanistan, l’unica cosa che riesco a immaginare è che forse tutti quegli strani visti sul mio grosso passaporto possano aver attivato un allarme rosso da qualche parte a Washington.
Poi cerco il nome della mia padrona di casa norvegese. Ho detto che i fondi trasferiti e mai arrivati servivano per pagarle l’affitto? Lei sta in India, operatrice sanitaria volontaria presso rifugiati tibetani, attualmente impegnata ad aiutare nel rinnovo di un orfanotrofio con 144 bambini. (Cosa potrebbe essere più sospetto di questo??) Non trovo nemmeno il suo nome. Niente e niente Heidi del tutto, in effetti, nel mucchio di Mohammad e Abdul.
Heidi è buddista. Io sono atea. Quasi tutti sulla lista sembrano mussulmani, compresi tizi che suonano davvero pericolosi come “Ahmed l’Egiziano”. Ma immagino che a un cacciatore di terroristi davvero dedito e ben pagato, dobbiamo sembrare tutti uguali.
Ho un bisogno disperato di ottenere l’affitto per Heidi in modo che lei possa coprire le sue spese da volontaria; un’organizzazione internazionale paga per i bisogni dei bambini, ma Heidi fa il lavoro. Così chiamo l’Ambasciata USA di Oslo e parlo con una giovane gentile della sezione incaricata dei “Servizi ai Cittadini Statunitensi”. Le racconto di me e dell’OFAC e di Ahmed l’Egiziano. Dice: “Non ne ho mai sentito parlare. Ma ci sono così tanti di quei servizi di intelligence ora; immagino che sentirò più spesso storie così.” (Forse anche lei sta leggendo Top Secret America).
Lei ne parla con i suoi superiori e mi richiama. L’Ambasciata non può aiutarmi, cittadina o non cittadina, mi dice, perché non si occupa di questioni di denaro e non ha nulla a che fare con il Dipartimento del Tesoro.
“Cosa? Il Dipartimento di Stato non ha rapporti con il Tesoro?”
“No” dice lei. “Immagino di no.”
Forse da quando vi ho prestato attenzione l’ultima volta il Tesoro ha smesso di essere considerato parte del governo. Forse ora appartiene alla Lockheed Martin.
Almeno nel Dipartimento di Stato è rimasta un po’ di compassione. Se proprio sono priva di mezzi, mi assicura, l’Ambasciata potrebbe essere in grado di farmi un prestito per pagare un biglietto aereo che riporterebbe me e i miei due gatti negli Stati Uniti. Immagino non le passi per la testa che, nella situazione attuale, potrei sentirmi molto più al sicuro in Norvegia.
Giù nel buco del coniglio
E comunque tutto quel che voglio fare è chiarire questo casino e così metto la testa nelle fauci del leone e mando una email direttamente all’OFAC. Racconto loro che sono in Norvegia per l’anno grazie a una borsa di studio Fulbright come ricercatrice, vale a dire come parte di un programma di scambi internazionali fondato da un senatore USA e patrocinato dal governo USA, o almeno da una parte della parte di esso del Dipartimento di Stato. Tra le mie responsabilità informali, aggiungo, vi è quella di essere un’ambasciatrice di buona volontà degli Stati Uniti, ma trovo davvero difficile spiegare ai norvegesi che non sono in grado di pagare l’affitto un branco di cacciatori di terroristi, a libro paga del mio governo, si è portato via i miei soldi lasciandosi dietro soltanto una lista di nomi mussulmani.
In modo notevolmente rapido lo stesso OFAC mi risponde, dandomi la sensazione raggelante che fosse rimasto appostato dietro la porta per tutto il tempo. E’ dispiaciuto che io sia “frustrata”. Mi aiuterà, ma solo se fornisco una lista intera di informazioni, per la maggior parte la stessa roba che avevo giù trasmesso tre volte alla mia banca, le stesse informazioni che in seguito la banca aveva affermato che dopo tutto non rappresentavano il problema. (Ancora dopo, la banca avrebbe detto che avevo fornito non troppo poche informazioni, bensì troppe.) Spedisco le leccornie richieste al “Caro Funzionario, o Macchinario, OFAC, a seconda dei casi”.
Due giorni dopo arriva un altro messaggio dall’OFAC, questa volta firmato da “Michael Z.” Come gli afghani, o le spie, evidentemente lui ha solo un nome, ma le mie speranze che possa essere davvero una persona crescono comunque, inesplicabilmente … solo per precipitare di nuovo quando afferma che l’OFAC ha bisogno di ancora altre informazioni. Il tutto affinché Michael Z., presunto essere una persona, possa aiutarmi “più efficacemente”. (Più di quanto, mi chiedo?) Lui, insiste, sta cercando di rintracciare i miei soldi con l’aiuto della mia banca, la quale, per inciso, sta ora bloccandomi la possibilità di consultare online le informazioni sul mio conto corrente.
Mi sembra strano che questo ufficio top-secret dei servizi d’informazione sulla finanza in qualche modo non sia in grado di mettere le mani sui soldi che mi ha preso, ma che ne so io? Sono solo una cittadina.
Poi – siete pronti per questo? – arriva quello che dovrebbe essere il lieto fine. Un messaggio della banca mi dice che i soldi sono spuntati fuori, dopotutto, ed è un fatto che si trovano in una banca norvegese, solo un mese più tardi. Non sarò sfrattata, dopo tutto, e Heidi potrà assicurarsi che quei bambini tibetani ricevano frutta fresca e delle tende verde brillante nuove di zecca.
Tuttavia non è una storia allegra. Così devo trasmettere le mie scuse al senatore da lungo tempo defunto J. William Fulbright: sono davvero dispiaciuta che si siano verificati certi cambiamenti nello spirito e nel funzionamento degli Stati Uniti da quel giorno del 1948 in cui Lei ha lanciato il Suo lungimirante programma di borse di studio per incoraggiare scambi internazionali aperti di istruzione e cultura. E mi scuso per il fatto che alcuni di tali cambiamenti possono avere temporaneamente paralizzato il mio stile di ambasciatrice di buona volontà; cercherò di tornare al loro se solo mi riuscirà di capire da cosa sono stata colpita.
Si è trattato semplicemente di un errore? Un intoppo tecnico? Mi piacerebbe pensarlo, ma che dire di quella lista di “Cittadini a designazione speciale e persone bloccate”? Perché sono stata indirizzata a quella? E che dire di Michael Z., che presumibilmente è una specie di analista d’intelligence presso l’OFAC e che, l’ultima volta che l’ho sentito, stava ancora sollecitando informazioni e cercando di trovare i soldi?
Francamente questa lotta durata un mese mi ha lasciata stanca e a disagio. In questo momento, senatore Fulbright, sono giù di corda, qui, in fondo al buco del coniglio, a cercare di trovare un senso alle cose. (Ho dato un’ultima occhiata alla lista delle “Persone bloccate” è giusto questa settimana si è accresciuta di un’altra pagina). Dunque voglio dirle la verità, senatore, e penso che con il suo grande interesse a relazioni internazionali pacifiche, Lei possa proprio comprendere. Per quanto strano possa sembrare, da quando sono accovacciata quaggiù, in fondo alla buca del coniglio, ho elaborato una certa simpatia per Ahmed l’Egiziano che, ho la vaga sensazione, potrebbe essere quaggiù anche lui. E’ difficile dirlo, quando si è tenuti nel buio, ma forse anche lui è soltanto un altro babbeo come me, ingarbugliato nella macchina supersegreta della sicurezza.
Ann Jones è in Norvegia sotto gli auspici del Programma di Studio Fulbright a condurre ricerche sulle soluzioni economiche, sociali e culturali norvegesi che fanno sì che il paese sia costantemente citato dalle Nazioni Unite come il posto migliore della terra in cui vivere. Contribuisce regolarmente a TomDispatch; è autrice di Kabul in Winter (2006) [Kabul d’inverno] e di War Is Not Over When It’s Over (2010) [La guerra non è finita quando è conclusa].
Questo articolo è comparso originariamente su TomDispatch , un weblog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni a cura di Tom Engelhardt, direttore di edizione di lungo corso, cofondatore dell’American Empire Project [Progetto dell’Impero Americano]. Autore di ‘The End of Victory Culture’ [La fine della cultura della vittoria] e di un romanzo, ‘The Last Day of Publishing’ [L’ultimo giorno di pubblicazione]. Il suo libro più recente è ‘The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s’ [La via americana alla guerra: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama]. (Haymarket Books)
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
http://www.zcommunications.org/one-citizen-s-misadventure-in-securityland-by-ann-jones
Fonte: TomDispatch.com
traduzione di Giuseppe Volpe
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