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Archivi tag: spagna

Sovranità alimentare in Europa

05 lunedì Dic 2011

Posted by Redazione in Dan Iles, Economia, Europa

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Tag

agricoltura, Andrea Ferrante, Austria, Belgio, Blanca G. Ruibal, Bulgaria, cibo, etichette, Europa, Fiandre, filiera corta, GASAP, Giornata Internazionale della Lotta Contadina, grecia, Italia, Jenny Gkiougki, Krems, Mali, Nyeleni, sovranità alimentare, spagna, Valloni, Voedselteams

 

di Dan Iles  – 05 dicembre  2011

‘I sistemi alimentari sono stati ridotti a un modello di agricoltura industrializzata controllato da poche imprese alimentari transnazionali assieme a un piccolo gruppo di enormi catene di distribuzione al dettaglio. E’ un modello inteso a generare profitti e perciò manca del tutto di soddisfare i suoi obblighi.  Invece di essere dedicato alla produzione di cibo […] si concentra sempre più sulla produzione di materie prime, come biocombustibili, mangimi o piantagioni di derrate.  Da un lato ha causato l’enorme perdita di poderi agricoli e delle persone che ricavano da vivere da tali poderi, mentre dall’altro promuove una dieta che è dannosa per la salute e che contiene frutta, verdura e cereali in misura insufficiente.’

Questo afferma la dichiarazione finale del forum europeo Nyeleni per la sovranità alimentare, tenutosi ad agosto nella cittadina di Krems, in Austria, con la partecipazione di 400 delegati da 34 paesi.  Il forum è stato strutturato in modo da suddividere le delegazioni in gruppi con interessi specifici e poi agevolare il dibattito inclusivo e partecipativo in modo da creare la base per una dichiarazione che offrisse una direzione al movimento europeo per la sovranità alimentare.  Tuttavia, come nella maggior parte dei forum di questo tipo, l’elemento più importante è stato costituito dall’opportunità per i produttori, le organizzazioni dei consumatori, i lavoratori, gli attivisti e i promotori di incontrarsi, condividere le proprie storie e pianificare il futuro.

In una sfida diretta all’agenda della “sicurezza alimentare” imposta dall’alto, che accetta quel dominio del nostro sistema alimentare da parte delle grandi imprese che, tanto per cominciare, è parte del problema, la vera lotta contro la fame globale non ha luogo nei parlamenti, nelle istituzioni finanziarie o nei laboratori scientifici. Si tratta invece di agricoltori su piccola scala e di consumatori privati del loro potere che si riuniscono per costruire dal basso un sistema alimentare migliore.  In linea con questo approccio, il forum ha incluso una giornata di protesta presso i supermarket attorno a Krems e un mercato che ha combinato bancarelle dei contadini e informazioni politiche dirette agli abitanti della cittadina.  Questa combinazione si è dimostrato uno strumento potente di contatto.

Nyeleni Europe rappresenta i collettivi agricoli sostenuti dalle comunità, le unioni dei coltivatori organici, le cooperative alimentari locali, le organizzazioni di scambio delle semenze, gli attivisti alimentari, i mercati contadini e gli orti comunitari che formano la prima linea contro l’ondata della grande produzione.

Cosa significa il nome?

In Mali c’è un simbolo potente che potrebbe servire da simbolo della sovranità alimentare.  E’ una donna che ha lasciato il segno nella storia del Mali, come donna e come grande contadina. Quando citi il suo nome tutti sanno cosa quel nome rappresenta.  E’ la madre che porta il cibo, la madre che coltiva, che ha combattuto per essere riconosciuta, da donna, in un ambiente che non le era favorevole.  Questa donna è stata chiamata Nyeleni.  Se usiamo questo simbolo, tutti in Mali sapranno che si tratta di una lotta per il cibo, una lotta per la sovranità alimentare.

Ibrahim

Grecia

La situazione in Grecia è che nei pochi decenni più recenti gli agricoltori sono stati pagati per smettere di coltivare, per abbattere i vecchi alberi, sradicare le vecchie viti, ecc.  […] Così ora c’è una quantità di terra arabile non coltivata, lasciata inutilizzata e apparentemente abbandonata.  Con la crisi economica queste famiglie incassano di meno e ora tutti sono preoccupati perché abbiamo tutta questa terra ma non vi viene coltivano cibo.

Cercando un approccio proattivo alternativo, alcune famiglie stanno tornando a cercare di sostenere direttamente i propri contadini locali.  Si stanno riunendo per formare collettivi di consumo per acquistare i prodotti della terra e cercare di aggirare gli intermediari.  La gente sta anche cercando di creare monete alternative per mantenere locali le economie.

Jenny Gkiougki collabora con gli ‘indignados’ greci.

Belgio

In Belgio vi è una carenza di coesione tra i gruppi agricoli a motivo della barriera linguistica e di tutta la politica che vi si accompagna. In conseguenza vi è scarsissima collaborazione tra i movimenti di base tra le aree dei Valloni e delle Fiandre del Belgio.  Tuttavia alcuni recenti sviluppi nei movimenti alimentari nella parte settentrionale e in quella meridionale del paese sono simili.

Sta crescendo una forte rete alimentare locale nella parte Vallese, il GASAP (Groupe d’Achat Solidaire del l’Agriculture Paysanne) con sede a Bruxelles e il Voedselteams nelle Fiandre. Quest’ultimo ha un’organizzazione migliore con 5 dipendenti a tempo parziale, più di 120 gruppi locali e 80 agricoltori impegnati nel progetto.  Tutti i gruppi hanno un approccio simile in quanto si concentrano sulla prossimità dei produttori alimentari rispetto ai consumatori.  Hanno sviluppato il proprio sistema di selezione per gli agricoltori in quanto le principali etichette organiche non tengono conto della distanza e della dimensione delle coltivazioni come criterio di etichettatura.

Nelle Fiandre sta comparendo un fenomeno nuovissimo  di fattorie di ‘agricoltura sostenuta dalla comunità’  che ha un approccio all’auto-raccolto.  Ce ne sono circa sette al momento e operano in prossimità di città quali Leuven, Gent e Anversa.  I mercati contadini sono anch’essi aumentati in anni recenti e sono stati adottati dalle autorità locali.

L’anno scorso un gruppo di sei progetti di fornitura alimentare a filiera corta ha fatto appello al parlamento fiammingo per un piano di azione strategica sull’agricoltura a filiera corta.  Ciò implicherà il riconoscimento delle filiere corte come innovazione che aumenta il contatto tra produttori di cibo e consumatori, consente ai produttori di fissare i propri prezzi per i propri prodotti e produce cibo per i mercati e le comunità locali.

Wim Merckx, delegato belga dalle Fiandre

Spagna

Come in tutta Europa, i contadini e i piccoli agricoltori stanno scomparendo in Spagna. Le statistiche mostrano che negli ultimi 20 anni ogni ora hanno chiuso tre aziende agricole. C’è una quantità di problemi diversi causati dall’abbandono dell’attività agricola.  Tra essi, a causa del nostro clima arido, c’è l’erosione del suolo e la minaccia di desertificazione. I problemi sociali sono anche peggiori; lo spopolamento dell’ambiente agricolo causa uno squilibrio territoriale e una profonda sconnessione tra città e paesi.

C’è tuttavia un movimento in crescita che offre soluzioni e alternative pratiche al sistema dominante. Per più di dieci anni, ormai, gli agricoltori, i consumatori cittadini, gli attivisti ambientalisti e altri hanno collaborato per la sovranità alimentare, opponendosi alle regole attuali, avvicinando ancor più consumatori e agricoltori e sviluppando modi nuovi e innovativi di combattere la commercializzazione, i cibi OGM e via dicendo.  Vogliamo, e abbiamo necessità, che i contadini producano cibo locale e sano che sia rispetti l’ambiente sia mantenga i vivi i paesi.  E’ bello condividere problemi ed esperienze con gente di tutta Europa e vedere che c’è un forte movimento europeo che lotta per la sovranità alimentare.

Blanca G. Ruibal, Amica della Terra, Spagna

Bulgaria

In Bulgaria, come altrove, è che ci sono numerosi supermercati potenti che non sono obbligati a vendere prodotti locali.  La popolazione è, in generale, poverissima, quindi le persone sono costrette a cercare le merci a prezzo più basso, che normalmente sono importate. Questo uccide i produttori bulgari.

Gruppi locali hanno creato progetti internet per i consumatori che si organizzano insieme per creare una cooperativa alimentare virtuale.  Ciò viene fatto principalmente attraverso gruppi Google, con la gente che ordina in rete quello che le serve e poi invia un ordine collettivo agli agricoltori locali.  Ciò consente agli agricoltori di sapere quanto, di un particolare prodotto, è necessario e su cosa concentrarsi.  Dà loro anche una sicurezza finanziaria considerevolmente migliore.

Un organizzatore alimentare di comunità bulgaro.

Italia

In Italia il principale problema ora è che stiamo trattando il cibo come una qualsiasi merce, e la finanziarizzazione dell’agricoltura è uno dei maggiori esempi di ciò.  La terra è stata abbandonata in tutto il paese, non perché fosse impossibile coltivarla, ma perché il sistema di agricoltura industrializzata ha ritenuto che il mercato locale non fosse più importante.  Ciò ha portato a un’enorme perdita di biodiversità perché abbiamo pensato che le verdure dovessero essere prodotte soltanto in due o tre regioni del sud.

Tuttavia ci sono in Italia più esempi che mai di progetti di sovranità alimentare.  Essi includono mercati contadini che danno ai produttori accesso diretto ai consumatori, che non sono più semplicemente consumatori perché propongono richieste riguardo alla produzione e diventano parte del processo.  In Italia abbiamo ora un milione di pasti al giorno preparati con prodotti biologici, quasi tutti italiani. Questo flusso locale di  denaro sta generando un notevole sviluppo locale per gli agricoltori biologici.

Andrea Ferrante, presidente dell’associazione italiana per l’agricoltura biologica.

 

Il sito Nyeleni Europe viene sviluppato come risorsa del movimento per la sovranità alimentare. Il forum ha concordato azioni a livello europeo, comprese occupazioni di supermercati, marce e altre forme di azione diretta nella “Giornata Internazionale della Lotta Contadina”, il 17 aprile 2012.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/food-for-thought-food-sovereignty-in-europe-by-dan-iles

Fonte: Redpepper Magazine

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Ispirazione dall’America Latina

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in America, Eva Golinger

≈ 1 Commento

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bolivia, Caracas, Caracazo, Carlos Andres Perez, cile, colpo di stato, diritti umani, Ecuadro, egitto, Europa, evo morales, FMI, Hugo Chavez, Medio Oriente, occupywallstreet, primavera araba, Rafael Correa, repressione, repressione poliziesca, rivoluzoine bolivariana, spagna, Tunisia, usa, venezuela

di Eva Golinger  – 25 novembre 2011

Le proteste di Occupy Wall Street che si allargano agli interi Stati Uniti si sono alla fine guadagnate l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. La prolungata crisi economica e la struttura politica escludente hanno spinto migliaia di persone negli Stati Uniti a uscire dai loro locali confortevoli e a scendere in strada a sollecitare il cambiamento.  La brutale repressione della polizia in reazione a dimostrazioni pacifiche in città di tutti gli Stati Uniti ha riempito i titoli dei giornali internazionali, evidenziando l’ipocrisia di un governo veloce nell’accusare e criticare gli altri per le violazioni dei diritti umani mentre perpetua lo stesso, se non peggiore, disgustoso comportamento in patria.

Molti analisti e commentatori hanno attribuito le proteste negli USA alla cosiddetta “Primavera Araba” che ha luogo in Tunisia, Egitto e altre nazioni del Medio Oriente e dell’Africa. I movimenti negli USA e nel mondo arabo hanno condiviso tattiche e caratteristiche simili, compreso l’uso di media sociali come Twitter, Youtube e Facebook, per mobilitare dimostrazioni e pubblicizzare attività di protesta e repressione statale. I protagonisti di queste rivolte sono stati principalmente i giovani e gli indignati e scontenti nei confronti di sistemi che li hanno abbandonati e hanno lasciato senza opportunità milioni di persone impoverite.

In Spagna e in Cile, dimostrazioni analoghe hanno luogo dall’inizio del 2011 e hanno portato migliaia di giovani e studenti a contestare sistemi politici ed economici iniqui e scorretti.  Le rivendicazioni di tutte queste proteste, dal mondo arabo all’Europa agli Stati Uniti, hanno incluso diritti basilari quali l’istruzione gratuita, lavori dignitosi, alloggi, assistenza sanitaria e una maggior inclusione e partecipazione alla politica e al governo.  “Minor rappresentanza, minor partecipazione” sono i gridi che salgono dagli “indignados” di tutto il mondo.

Quello che pochi hanno notato, o hanno intenzionalmente omesso, è come i popoli dell’America Latina siano insorti all’inizio di questo secolo con rivendicazioni e sogni identici a quelli di coloro che protestano oggi negli Stati Uniti, in Europa e nelle nazioni arabe, e come sono stati capaci di prendere democraticamente il potere e cominciare a ricostruire le proprie nazioni. L’influenza delle rivoluzioni del ventunesimo secolo in America Latina sul Movimento Occupiamo e sulla Primavera Araba non può essere sottovalutata.

ISPIRAZIONE A SUD DEL CONFINE

Slogan, cori e commenti dei dimostranti di Occupiamo Wall Street (OWS) che sollecitano la fine del dominio delle imprese e chiedono una spesa pubblica più equa e opportunità per la maggioranza (il 99%) sono analoghi a quelli che si sono sentiti in tutto il Venezuela negli anni ’90, quando la privatizzazione si è impossessata del paese ricco di petrolio, le multinazionali hanno governato e il popolo è stato relegato nelle baraccopoli.

Decenni di esclusione, repressione e cattiva amministrazione del governo e delle risorse in Venezuela hanno portato il popolo (il 99%) alla rivolta, nel 1989, contro un’amministrazione che stava vendendo rapidamente il paese al miglior offerente.  Il “Caracazo” del 27 febbraio 1989 è stato una rivolta popolare di massa nella capitale del Venezuela, Caracas, contro le privatizzazioni e la globalizzazione; contro il governo delle imprese [‘corporatocracy’ nell’originale – n.d.t.]. Il governo, guidato dal presidente Carlo Andres Perez, ha reagito con la repressione brutale.  Più di 3.000 persone sono state uccise dalla violenza delle autorità statali. I corpi sono stati gettati in fosse comuni e lasciati a marcire.

Ma la brutalità della violenza statale non ha fermato la maggioranza venezuelana. Lungo tutti gli anni ’90, il popolo ha cominciato a organizzare la propria frustrazione in una coalizione su scala nazionale nel tentativo di liberarsi del sistema “rappresentativo” bipartitico che aveva governato per decenni.  Al vacillare dell’economia e al crollare delle banche, e con  i politici si sono appropriavano , con il furto, di tutto quello che potevano e cercavano  di vendere il resto, il popolo si è mobilitato.  Nel 1998 è stato eletto da questo movimento di base  un nuovo presidente, ponendo fine al dominio dello governo delle imprese travestito da democrazia.

Il nuovo governo, guidato da Hugo Chavez, ha promesso una completa trasformazione del sistema. Sarà smontato e ricostruito dal popolo.  La democrazia non sarà più “rappresentativa” ma sarà partecipativa.  Ci sarà una redistribuzione delle risorse pubbliche per garantire che il 99% vi sia incluso.  L’assistenza sanitaria e l’istruzione saranno gratuite, universali e accessibili a tutti.  Sarà stilata una nuova costituzione, da ratificarsi dal popolo, per riflettere i bisogni, i sogni e le realtà della società odierna.  Il popolo governerà a livello di base mediante consigli e assemblee delle comunità che controlleranno le risorse locali e daranno ai membri delle comunità il potere decisionale su come le risorse debbano essere utilizzate.  Fioriranno media pubblici, alternativi e comunitari, e saranno incoraggiati dallo stato, al fine di ampliare l’accesso e garantire che tutte le voci siano udite.

Si porrà fine all’indebitamento con l’estero e ai rapporti con le istituzioni finanziarie internazionali.  Importanti risorse strategiche saranno nazionalizzate, recuperate  dalle imprese multinazionali e poste sotto il controllo dei lavoratori.  Le imprese pubbliche saranno gestite dai lavoratori e saranno di loro proprietà.  La politica estera sarà basata sulla sovranità e il rispetto delle altre nazioni, con un accento sull’integrazione, la cooperazione e la solidarietà, invece che sullo sfruttamento, la competizione e il dominio.

Questa non è un’utopia; questa è la Rivoluzione Bolivariana del Venezuela. Ci sono voluti anni per costruirla e ci sono ancora decenni da percorrere e molti problemi e difficoltà da superare, ma il popolo del Venezuela, il 99%, è stato capace di prendere il potere democraticamente e di trasformare la propria nazione.

Nel 2005 i popoli indigeni della Bolivia hanno conquistato il potere attraverso elezioni democratiche, dopo secoli di esclusione, colonialismo e dominazione da parte di una classe dominante di minoranza.  Si sono sollevati e mobilitati contro il governo razzista delle imprese che dominava la nazione e si sono reimpossessati del potere.  Sotto la presidenza di Evo Morales, il primo capo di stato indigeno della nazione, è stata stilata una nuova costituzione che è stata ratificata dal popolo in un referendum nazionale e hanno preso ad aver luogo trasformazioni sociali per realizzare un sistema di giustizia sociale.

In Ecuador, dopo anni di tumulti politici ed economici, colpi di stato e numerosi presidenti cacciati, il popolo ha eletto Rafael Correa e la Rivoluzione dei Cittadini è salita al potere nel 2007. Liberare la nazione dalle redini del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, ravvivare l’economia e trasferire il potere al popolo, sono azioni che stanno trasformando l’Ecuador in una nazione sovrana e dignitosa.

 

NEUTRALIZZARE, DISTRUGGERE O COOPTARE LA RIVOLUZIONE

Anche se tutte queste rivoluzioni latinoamericane sono tuttora in corso, il loro accento sulla costruzione di una nazione dalla base, sul potere del popolo, sulla giustizia sociale e una sovranità vera hanno chiaramente ispirato altri nel mondo a combattere per il cambiamento nelle proprie nazioni.  Ma perché così tanti hanno mancato di vedere l’importanza dell’influenza di queste rivoluzioni in ciò che accade oggi negli Stati Uniti, in Europa e nel mondo arabo?

Principalmente perché si tratta di rivoluzioni riuscite, democratiche, pacifiche operate dal popolo, appartenenti al popolo e fatte per il popolo. Non vi sono state influenze “esterne” a dirigerle, manipolarle o tentare di “cooptarle”, come è accaduto nel caso della “Primavera Araba”. Non si sono realizzate in seguito a guerre o rivolte violente bensì piuttosto attraverso processi democratici.  Naturalmente ci sono stati molti tentativi di neutralizzare e distruggere queste rivoluzioni latinoamericane, compreso un colpo di stato in Venezuela nel 2002, un tentativo di colpo di stato in Bolivia nel 2008 e un altro tentato colpo di stato in Ecuador nel 2010. Sino ad oggi sono tutti falliti.

Agenzie USA come il National Endowment for Democracy [Fondo nazionale per la democrazia], l’International Republican Institute [Istituto internazionale Repubblicano], il National Democratic Institute [Istituto Nazionale Democratico], l’Open Society Institute [Istituto per la società aperta] e la US Agency for International Development (USAID) [Agenzia USA per lo sviluppo Internazionale] hanno finanziato e manipolato in continuazione molti di questi gruppi e organizzazioni coinvolte in nelle diverse rivolte nelle nazioni arabe.  L’amministrazione Obama è stata pesantemente coinvolta nei movimenti in Tunisia e in Egitto, circostanza provata dalle continue visite di rappresentanti del Dipartimento di Stato a queste nazioni per assicurarsi che il risultato politico fosse favorevole agli interessi statunitensi.  Washington ha anche tentato di promuovere rivolte analoghe in paesi con governi scomodi, come la Siria e l’Iran.  La guerra brutale contro la Libia e l’assassinio extragiudiziale di Muammar al-Gheddafi un tentativo obliquo degli USA di fronteggiare una “rivoluzione popolare” nella nazione nordafricana.

La manipolazione e l’infiltrazione di forze esterne nei movimenti del mondo arabo hanno contribuito al loro caos, disordine e fallimento nel concretarsi in rivoluzioni vere, vere trasformazioni delle loro strutture politiche, economiche e sociali. Sarebbe una sconfitta amara e tumultuosa per gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali se queste nazioni arabe dovessero costruire i movimenti rivoluzionari sovrani che milioni di persone di quei paesi domandano.

E, tornando agli Stati Uniti, la violenta repressione contro il movimento Occupiamo è un chiaro tentativo di neutralizzare e screditare la prima possibile coalizione che potrebbe crescere sino a diventare una forza politica potente che potrebbe liberare il paese dal regno Democratico-Repubblicano.  Mentre questo movimento lotta per consolidare e definire i suoi obiettivi, le rivoluzioni a sud del confine continuano ad estendersi.

I media delle imprese censurano, distorcono e tentano di imporre il silenzio sui progressi dei movimenti popolari in Bolivia, Ecuador, Venezuela e in altre nazioni latinoamericane. I capi di tali movimenti sono demonizzati dai mass media in un tentativo di sminuire l’importanza delle loro azioni e di farli passare per personaggi pericolosi considerati “matti”.

Nonostante questi tentativi di offuscarle, le rivoluzioni latinoamericane del ventunesimo secolo hanno preparato il terreno per altri nel Sud Globale, e nel Nord, affinché elevino le proprie voci e si uniscano per costruire un mondo migliore.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/inspiration-south-of-the-border-by-eva-golinger

Fonte: Postcards from the Revolutions [Cartoline dalle rivoluzioni]

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Lo sciopero generale

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in Boaventura de Sousa Santos, Economia, Europa

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corruzione, democrazia, diritti civili, distribuzione della ricchezza, Europa, grecia, Italia, Madison, Oakland, occupywallstreet, Portogallo, Rosa Luxembourg, socialismo, spagna, tradimenti parlamentari, usa


di Boaventura de Sousa Santos – 25 novembre 2011

Gli scioperi generali furono comuni in Europa e negli Stati Uniti verso la fine del diciannovesimo secolo e nei primi decenni del ventesimo.  Provocarono grandi dibattiti all’interno del movimento del lavoro e all’interno dei partiti e movimenti rivoluzionari (anarchici, comunisti, socialisti).

Molto discusse furono l’importanza dello sciopero generale nelle lotte politiche e sociali, le condizioni per il suo successo, il ruolo delle forze politiche nella sua organizzazione.  Rosa Luxembourg (1871-1919) fu una delle presenze più eminenti in questi dibattiti.  Lo sciopero generale – che non ha mai cessato di essere presente in America Latina e che è riemerso con forza in primavera nell’Africa del Nord – torna in Europa (Grecia, Italia, Spagna e Portogallo) e negli Stati Uniti.

La città di Oakland, in California, che era famosa per lo sciopero generale del 1946, ha fatto nuovamente ricordo a questa misura il 2 novembre e nella primavera di quest’anno i sindacati del Wisconsin hanno approvato uno sciopero generale quando la popolazione della città di Madison si stava preparando a occupare la sede del parlamento dello stato – occupazione portata a compimento con successo – nella lotta contro il governatore e la sua proposta di neutralizzare i sindacati, cancellando la contrattazione collettiva per i dipendenti del settore pubblico.

Qual è il significato di questa  ricomparsa dello sciopero generale? Anche se è vero che la storia non si ripete, quali paralleli si possono ricavare con le condizioni e le lotte sociali del passato?

In aree diverse (comunità, città, regioni, paesi) lo sciopero generale è sempre stato una manifestazione di resistenza contro una condizione onerosa e ingiusta di natura generale, cioè una condizione suscettibile di colpire lavoratori, classi lavoratrici o persino la società nel suo complesso, anche se i più direttamente colpiti erano alcuni settori sociali o professionali.

Limitazioni ai diritti civili e politici, repressione violenta di proteste sociali, sconfitte sindacali su problemi collegati alla protezione sociale, delocalizzazione di imprese con impatto diretto sulle vite delle comunità, decisioni politiche contrarie all’interesse nazionale o regionale (“tradimenti parlamentari” come la scelta della guerra o del militarismo): queste sono alcune delle condizioni che in passato hanno portato alla decisione di indire uno sciopero generale.

All’inizio del ventunesimo secolo, viviamo in un’epoca diversa e le condizioni onerose e ingiuste non sono le stesse del passato.  Tuttavia al livello della logica sociale che le governa ci sono paralleli allarmanti ricorrono in profondità nel movimento per uno sciopero generale il 24 novembre in Portogallo.

Ieri la lotta era per  diritti delle classi popolari che erano considerati ingiustamente negati; oggi la lotta è contro l’ingiusta perdita di diritti per i quali hanno lottato così tante generazioni di lavoratori e che sembravano conquiste irreversibili. Ieri la lotta era per una distribuzione più equa della ricchezza nazionale generata da capitale e lavoro; oggi la lotta è contro una distribuzione sempre più diseguale della ricchezza (paghe e pensioni confiscate, orari di lavoro più lunghi e intensi, tasse e salvataggi che favoriscono i ricchi – “l’1%”, secondo gli occupanti di Wall Street – e una vita quotidiana di ansietà e insicurezza, il crollo delle aspettative, la perdita di dignità e speranza per il “99%).

Ieri la lotta era per una democrazia che rappresentasse gli interessi della maggioranza priva di voce; oggi la lotta è per una democrazia che, dopo essere stata parzialmente conquistata, è stata svuotata dalla corruzione, dalla mediocrità e dalla viltà dei capi e dalla tecnocrazia per conto del capitale finanziario che hanno sempre servito.

Ieri la lotta era per alternative (il socialismo) che le classi dominanti riconoscevano come esistenti e perciò reprimevano brutalmente chi le difendeva;  oggi la lotta è contro il luogo comune neoliberale, insistentemente replicato dai media servili, che non c’è alternativa all’impoverimento della maggioranza e allo svuotamento delle scelte democratiche.

In generale possiamo dire che lo sciopero generale in Europa oggi è più difensivo che offensivo e guarda meno a promuovere l’avanzamento della civilità che a evitare il regresso di essa.

E’ per questo che non è più una questione di lavoratori nel loro complesso bensì piuttosto una questione di cittadini impoveriti nel loro complesso, sia quelli che lavorano sia quelli che non possono trovare lavoro, così come di quelli che hanno lavorato per tutta la vita e oggi si vedono minacciate le pensioni.

Nelle strade, l’unica sfera pubblica non ancora occupata dagli interessi della finanza, cittadini che non hanno mai partecipato ai sindacati o ai movimenti sociali, né immaginato di parlare a favore di cause altrui, stanno dimostrando.  Improvvisamente le cause degli altri sono le loro.

Boaventura de  Sousa Santos  laureato in sociologia legale, è professore all’università di Coimbra (Portogallo) e all’Università del Wisconsin, Madison (USA). Traduzione [in inglese] di Roberto D. Hernàndez. L’articolo originale “A Greve Geral”  è stato pubblicato da Carta Major il 16 novembre 2011. En espanol.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/the-general-strike-by-boaventura-de-sousa-santos

Fonte: Mr Zine

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Crisi dell’Eurozona – Domande e risposte

20 domenica Nov 2011

Posted by Redazione in Economia, Ed Lewis, Europa, Hugo Radice

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Tag

agenzie di rating, ATTAC, austerità, BCE, Belgio, crisi, debito sovrano, default, doppio picco, Euromemorandum, Eurozona, finanza globale, Germania, grecia, Inghilterra, Italia, Keynes, mercati, New Left Project, Piano B, Piano Marshall, Portogallo, recessione, spagna, Standard & Poor's, stati periferici, tosatura, UE, unione fiscale

di Hugo Radice e Ed Lewis – 19 novembre 2011

L’economista politico Hugo Radice è membro a vita della Scuola di Studi Internazionali e Politici all’Università di Leeds.  In un’intervista a Ed Lewis del New Left Project [NLF – Progetto della Nuova Sinistra] affronta una serie di domande sull’intensificarsi della crisi nell’Eurozona.

Ci viene detto che l’Eurozona si confronta con una crisi del debito sovrano. E’ vero e, se lo è, cosa significa?

Sì, è vero. La crisi è incentrata sull’indisponibilità degli investitori globali ad acquistare titoli denominati in euro emessi da governi dell’Eurozona che si ritiene abbiano accumulato livelli eccessivi di debito sovrano. Giorno per giorno la prova di questa indisponibilità è riflessa dai prezzi di mercato dei titoli già emessi da questi governi.

Un tema di discussione virtualmente universale nei media inglesi è che i problemi che l’Europa ora affronta sono causati significativamente dagli enormi debiti assunti dagli stati greco e italiano al fine di finanziare gli alti livelli di spesa per l’assistenza e per il settore pubblico.  Il crollo finanziario del 2008 a volte compare sullo sfondo delle discussioni; le cause più profonde di esso (ad esempio la disuguaglianza di reddito) sono virtualmente invisibili.  Qual è la tua valutazione della diagnosi convenzionale della crisi? Cosa direbbero dei media più onesti?

La diagnosi convenzionale è fermamente basata sull’idea che i mercati “liberi” – liberi, cioè, dall’interferenza o dalla regolamentazione pubbliche – sono naturalmente efficienti, intendendo con ciò che essi tendono a dare una valutazione “reale” delle attività finanziarie.  Keynes giustamente fece notare che la maggior parte degli intermediari si limita a seguire il gregge; così se una percentuale sufficiente di loro pensa che il governo greco non possa o non voglia onorare il servizio del debito e il programma di rimborso, allora diventa una profezia che si autoavvera. Ciò nonostante devono esserci fatti oggettivi all’avvio di questo processo di giudizio collettivo. In questo caso il “fatto oggettivo” è che il crollo del 2008-9 ha spinto alcuni stati ‘periferici’ dell’Eurozona a livelli di debito pubblico che erano chiaramente molto più difficili da onorare di quelli della Germania.  Per i mercati ha avuto allora senso chiedere il pagamento di tassi di interesse molto più alti ai paesi periferici, in confronto a quelli richiesti alla Germania (o all’Inghilterra, quanto a questo).

I media sicuramente devono giustificare la visione convenzionale.  Quando singoli o banche hanno prestato fondi al governo greco negli anni precedenti la crisi, è stato perché in quel momento i finanziatori ritenevano che i titoli greci fossero l’investimento migliore (e più redditizio) a disposizione. La “tosatura”, termine con cui si intende la disponibilità ad accettare un valore dei titoli inferiore al nominale quando scadono per il rimborso, riflette la necessità che tali finanziatori si assumano la responsabilità dei loro precedenti errori di giudizio.  Più in generale, in questo caso specifico, dobbiamo chiederci perché non c’erano opportunità di investimento più redditizie in Germania, se l’economia di quel paese è un esempio così brillante di buona amministrazione politica ed economica.  O, quanto a questo, perché non hanno investito nella produzione di beni e servizi nella periferia dell’Europa, piuttosto che in attività finanziarie e in speculazioni immobiliari.

Una delle principali ragioni per questo comportamento degli investitori è la globalizzazione della finanza. Se sei costretto a investire solo nel tuo paese, puoi tenere sotto controllo molto più facilmente  le prospettive delle diverse parti dell’economia. Ma l’esistenza dei mercati globali significa che, anziché spendere un mucchio di soldi per scoprire quali siano le effettive prospettive dei, diciamo, titoli del governo greco, puoi ridurre il rischio che deriva dalla tua ignoranza diversificando le tue scommesse, comprando titoli di molti governi diversi. Inoltre la crescente disponibilità e i costi in caduta dei mercati globali dei titoli significano che puoi (pensi di potere) sempre sbolognare i titoli greci se cominciano ad apparire inaffidabili e tenerti stretti gli altri e più sicuri, diciamo, titoli francesi. In breve, la globalizzazione riduce la competenza media degli investitori e aumenta la loro capacità di autoilludersi; offre anche un ambiente ideale al contagio, nel quale le dicerie si trasformano molto velocemente in realtà.

Dici che parte della responsabilità della crisi del debito va attribuita agli investitori che hanno mal valutato la redditività dei titoli greci. Ma la questione della responsabilità su cui ci si concentra ha a che vedere con la spesa pubblica greca e italiana.  C’è stata dell’irresponsabilità da parte di questi stati riguardo alla spesa pubblica eccessivamente generosa?

Per essere un po’ più precisi gli investitori hanno mal valutato il rischio dei titoli greci, cioè la possibilità che potessero non essere onorati e rimborsati secondo i termini in base ai quali erano stati emessi. Ma, sì, i governi greco e italiano sono stati colpevoli.  Sapevano che sin dal Trattato di Maastricht (sottoscritto nel 1993) gli stati membri della UE erano tenuti a limitare il loro indebitamento al 60% del PIL.  Anche se la misura in cui un qualsiasi particolare livello è sostenibile dipende da variabili imprevedibili come il tasso di crescita economica e il tasso d’inflazione, in una crisi questi fattori passano in secondo piano rispetto al sentimento del mercato, e il limite del 60% è da molto tempo accettato dai mercati obbligazionari come se fosse un limite preciso. Il problema è che un notevole numero di stati della UE ha infranto quel limite,  alcuni (come il Belgio e l’Italia) per molti anni, senza subire conseguenze; c’è stato perciò un certo grado di compiacenza tra finanziatori e debitori durante gli anni del denaro facile sino al 2008.  In breve, il limite del 60% è “irrazionale” in tale forma semplice, ma ha un effetto molto reale una volta che la fiducia del mercato è persa.

C’è stata molta discussione sul fatto che i paesi non onorino i loro debiti. Prima di concentrarci sui particolari puoi dirci cosa comportano le inadempienze dei governi, chi in generale si trova a beneficiare degli inadempimenti e chi tende a perderci. E ci sono modi diversi di finire in mora che comportano conseguenze significativamente diverse?

L’inadempienza si verifica quando un governo non rispetta i termini del contratto stipulato con i finanziatori originali.  Anche se in casi estremi ciò può implicare l’incapacità del governo di effettuare un pagamento di interessi alla scadenza (come il Messico nel 1982), più tipicamente si verifica quando il governo non è in grado di effettuare il rimborso richiesto alla fine del periodo del finanziamento, perché non dispone della liquidità (ad esempio riveniente dalle entrate fiscali) e non riesce a raccogliere altri fondi (è questo che si intende con “rinnovare” i prestiti). Storicamente, quasi ogni governo in un’occasione o nell’altra è risultato inadempiente riguardo ai propri debiti; l’Inghilterra è una eccezione molto rara.  L’inadempienza può assumere due forme principali: o l’inadempienza è negoziata, o “regolare”, il che significa che il finanziatore accetta una certa misura di responsabilità per aver “prestato in eccesso” oppure è unilaterale, che è il caso in cui il governo semplicemente non paga. In quest’ultimo caso la conseguenza è solitamente che per alcuni anni – spesso fino a quando non c’è una significativo cambiamento nel regime dello stato inadempiente o dell’ambiente economico o geopolitico (ad esempio la scoperta di risorse naturali) – il governo semplicemente non è in grado di ottenere ulteriori finanziamenti.  Ma si può finire in qualche modo a metà strada: è il caso dell’inadempienza dell’Argentina nel 2002, e anche se la maggior parte dei detentori stranieri del debito governativo argentino ha accettato una significativa perdita, alcuni hanno rifiutato di farlo e in conseguenza il governo argentino è tuttora impossibilitato a raccogliere finanziamenti all’estero (anche se è in grado di indebitarsi all’interno).

E’ già in atto un piano per una “tosatura” del debito greco.  Concordi con alcuni che a sinistra affermano che la Grecia dovrebbe rendersi totalmente inadempiente circa i propri debiti? E ciò comporterebbe anche uscire dall’Eurozona?

Se la Grecia si dichiarasse totalmente inadempiente, senza un previo accordo con i suoi creditori, ciò porterebbe al caos e al collasso nel sistema finanziario europeo. Anche le banche europee (comprese quelle inglesi) sarebbero in grado di assorbire il costo attingendo alle proprie esistenti riserve di capitale, si ritiene che “i mercati” presumerebbero immediatamente che il Portogallo o la Spagna o l’Italia si sentirebbero allora liberi di fare la stessa cosa.  Ma considerata la piccolissima dimensione dell’economia greca (2% dell’Eurozona) un’inadempienza totale concordata è perfettamente fattibile, se gli altri membri dell’Eurozona (cioè fondamentalmente la Germania) fossero disponibili ad accettarla.  E anche se un’inadempienza unilaterale totale condurrebbe indubbiamente (nel caos che ne seguirebbe) all’uscita della Grecia dall’Eurozona, un’inadempienza concordata potrebbe e dovrebbe assumere la forma di una specie di Piano Marshall dell’Eurozona, sulla falsariga degli aiuti USA all’Europa concordati nel 1947.

E l’Italia? Quali sarebbero le implicazioni di un’inadempienza o dell’uscita dell’Italia dall’Eurozona?

L’Italia ha un’economia molto più grande di quella greca.  E’ uno dei principali partner commerciali della Germania. Se si rendesse inadempiente unilateralmente senza l’accordo con i creditori, l’Eurozona crollerebbe sicuramente. Una riduzione negoziata del debito nel contesto di un “Piano Marshall dell’Eurozona” sarebbe fattibile, ma richiederebbe una radicale ricostruzione delle istituzioni della zona.

Restano intense le pressioni della Germania per consentire che la Banca Centrale Europea agisca da prestatore di ultima istanza. Ma il presupposto sottostante tali pressioni è che la BCE sarebbe allora nella condizione di porre un limite inferiore alla crisi.  Pensi che tale presupposto sia corretto o la dimensione della crisi è tale che nessuna banca centrale sarebbe in grado di calmare i detentori di obbligazioni?

Il presupposto è effettivamente corretto. La BCE potrebbe allora fornire garanzie di liquidità sia ai membri dell’Eurozona sia alle loro banche. Ma i mercati obbligazionari andrebbero convinti che gli stati membri fossero permanentemente impegnati alla nuova architettura che ciò richiederebbe, e specialmente all’”unione fiscale” che renderebbe credibile la cosa avendo entrate fiscali a livello della zona a puntellare i finanziamenti della BCE.

Il governo inglese e i suoi sostenitori hanno martellato sui resoconti convenzionali al fine di dipingere i problemi che affliggono la Grecia e l’Italia come conferma della saggezza delle loro misure d’austerità.  L’agenzia di valutazione del credito Standard & Poor’s è apparentemente d’accordo, affermando che la sua decisione di mantenere la valutazione della tripla A per il debito inglese a lungo termine si troverebbe di fronte a una “pressione al ribasso” se il governo cambiasse corso sull’austerità. Qual è la tua opinione al riguardo?

Il fatto che il governo inglese e Standard & Poor’s condividano la stessa posizione fornisce una prova chiara che c’è una strategia a livello europeo, in realtà a livello mondiale, per far pagare ai cittadini comuni gli errori del settore dei servizi finanziari, trasferendo tutte le responsabilità sui governi e sulle famiglie. Specialmente in considerazione della massiccia redistribuzione dai poveri ai ricchi che ha avuto luogo in quasi ogni paese negli ultimi trent’anni (con la Cina che è soltanto l’esempio più straordinario), l’intero problema avrebbe potuto essere risolto all’istante espropriando una piccola percentuale della ricchezza dell’1% più ricco.  Questa è una verità fondamentale del movimento Occupy.

Naturalmente le agenzie di valutazione del credito, come Standard & Poor’s, sono dipinte come aventi un interesse politicamente neutrale alla capacità degli stati di rimborsare i loro debiti. Ma tu stai dicendo che la loro devozione all’austerità svela il loro programma politico, giusto?

Non penso che le agenzie di valutazione abbiano un programma politico esplicito. Piuttosto riflettono il programma dei loro padroni, che sono le grandi istituzioni finanziarie globali che finanziano il loro lavoro (e dietro di loro, a loro volta, i super-ricchi).

La sinistra, naturalmente, ha avvertito che la probabilità di una recessione a doppio picco è aumentata dal pacchetto d’austerità inglese.  Sei d’accordo su tale diagnosi? Come vedi il futuro dell’economia se proseguiamo lungo il nostro percorso attuale?

Sì, ora sono certamente d’accordo su questo. Per tutto il 2010 e sino agli inizi del 2011 la mia idea era che la spinta della ripresa in Asia e in altre economie “emergenti”, e lo stimolo di una spesa pubblica extra in Europa e in Nord America, sarebbero state sufficienti a mantenere in moto una lenta ripresa. Ma la crisi del debito dell’Eurozona ha avuto un effetto raggelante sulle aspettative di ripresa economica dovunque, compresa l’Asia, e ora sembra esserci poca speranza di evitare un doppio picco.  L’unico modo per gestire la cosa ora (almeno all’interno del capitalismo) consiste in un programma coordinato di inversione dell’austerità e di investimento dei fondi pubblici in energia verde, infrastrutture, istruzioni e edilizia abitativa, creando posti di lavoro e portando a un recupero della fiducia.

Quello che accade ora crea un’opportunità per la sinistra e, in caso affermativo, che tipo di reazione ritieni sarebbe efficace?

Crea opportunità, naturalmente; il problema sta nel tradurre tali opportunità in risultati.  Dopo tre anni di crisi, è chiaro che i popoli europei restano convinti che sono i loro banchieri e politici a dover essere considerati responsabili, e non i lavoratori, che si tratti di quelli del settore pubblico o di quelli del settore privato.  Ma l’attuale sistema di rappresentanza politica è così profondamente compromesso che nessuno dei maggiori partiti di tutti i paesi può accettare una simile conclusione radicale. In realtà la sostituzione di Papandreou in Grecia e di Berlusconi in Italia da parte di banchieri-economisti dimostra che la democrazia parlamentare, in quanto tale, è effettivamente sospesa, a favore del governo dei mercati obbligazionari.  E dietro i mercati obbligazionari sta l’oligarchia globale dei super-ricchi.

In queste circostanze, sta ai cittadini proporre alternative che aprano il sistema politico e la sua cultura. Per ottenere seguito presso i media e i concittadini, queste alternative devono affrontare bisogni sociali specifici, e offrire piani concreti per la loro attuazione.  Il recente Piano B elaborato dalla New Political Economy Network  [Rete per una nuova politica economica] è un buon inizio al riguardo in Inghilterra. Altrove in Europa, la rete ATTAC e il gruppo Euromemorandum stanno facendo anch’essi un eccellente lavoro.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/eurozone-crisis-q-and-a-by-hugo-radice

Fonte: New Left Project

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Dov’è finita la sinistra?

06 domenica Nov 2011

Posted by Redazione in Europa, Serge Halimi

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. Partito Brasiliano del Lavoro, BCE, Benoit Hamon, Berlu8sconi, CE, Ed Miliband, Elena Panaritis, elezioni, FMI, Francois Hollande, Francois MItterand, Fronte della Sinistra, Goldman Sachs, grecia, Irlanda, JOsè Luis Zapatero, Karl Polanyi, Lionel Jospen, Margaret Thatcher, Mario Draghi, Massimo d'Alema, Merkel, Obama, ordine neoliberale, Papandreou, Partito Socialista Europeo, PCF, Portogallo, PS, Sarkozy, Sigmar Gabriel, sinistra, spagna, Sud America

 

 

 

di Serge Halimi  – 5 novembre 2011

Le proteste di Occupy Wall Street negli Stati Uniti sono anche dirette contro i rappresentanti della Street nel Partito Democratico e alla Casa Bianca.  I manifestanti probabilmente non sanno che in Francia i socialisti tuttora considerato esemplare Barack Obama perché, da presidente, diversamente dal Presidente Sarkozy, ha avuto la preveggenza di agire contro le banche.  C’è un malinteso? Quelli che non sono  disponibili o non sono in grado  di attaccare i pilastri dell’ordine neoliberale (finanziarizzazione, globalizzazione dei movimenti dei capitali e delle merci) sono tentati di personalizzare il disastro, di attribuire la crisi del capitalismo a pianificazione scadente o a cattiva gestione da parte di propri oppositori politici.  In Francia si tratta di Sarkozy, in Italia di Berlusconi, in Germania della Merkel; sono loro da condannare.  E altrove?

Altrove, e non solo negli Stati Uniti, dirigenti politici da lungo tempo considerati modelli dalla sinistra moderata si confrontano anch’essi con folle arrabbiate.  In Grecia, il presidente dell’Internazionale Socialista, George Papandreu, sta perseguendo una politica di estrema austerità; privatizzazioni, tagli ai dipendenti pubblici, e consegna della sovranità economica e sociale a una “troika” ultra-neoliberale (1). La condotta dei governi spagnolo, portoghese e sloveno ci ricorda che il termine “sinistra” è ormai così svuotato che non è più associato ad alcun contenuto politico specifico.

L’attuale portavoce del Partito Socialista Francese spiega molto chiaramente  la situazione impossibile della socialdemocrazia europea: nel suo nuovo libro Tourner la page , Benoit Hamon scrive: “Nell’Unione Europea, il Partito Socialista Europeo è storicamente associato, mediante il compromesso che lo collega alla Democrazia Cristiana, alla strategia della liberalizzazione del mercato interno e alle sue implicazioni per i diritti sociali e i servizi pubblici.  Governi socialisti hanno negoziato le misure d’austerità che l’Unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale hanno voluto. In Spagna, Portogallo e Grecia  l’opposizione alle misure d’austerità è naturalmente diretta contro il Fondo Monetario Internazionale e la Commissione Europea, ma anche contro i governi socialisti … Parte della sinistra europea non nega più che sia necessario, come [ritiene] la destra europea, sacrificare lo stato sociale al fine di equilibrare il bilancio e compiacere i mercati … Abbiamo bloccato la marcia del progresso in numerose parti del mondo. Non posso rassegnarmi a questo.” (2)

Altri pensano che lo svilimento sia irreversibile perché è collegato alla trasformazione dei socialisti europei in un’aristocrazia e per la loro mancanza di contatto con il mondo del lavoro.

Il Partito Brasiliano del Lavoro (PT), un partito in genere moderato, ritiene che la sinistra latinoamericana dovrebbe sostituirsi alla sinistra del Vecchio Mondo, troppo capitalistica, troppo atlanticista, e non convincente nella sua pretesa di difendere gli interessi del popolo: “La dirigenza ideologica della sinistra si sta trasferendo in un’altra parte del mondo” secondo un documento per il Congresso del PT di settembre. “Il Sud America è l’esempio saliente (vedasi Latin America Pink Tide [La marea rosa dell’America Latina]) … La sinistra dei paesi europei, che ha avuto una così grande influenza sulla sinistra mondiale dagli inizi del diciannovesimo secolo, non è più riuscita a produrre una risposta adeguata alla crisi e sembra capitolare alle forze del neoliberalismo.” (3)  Il declino dell’Europa può anche segnalare la fine dell’influenza ideologica del continente in cui sono nati i sindacati, il socialismo e il comunismo. L’Europa appare ora più rassegnata di altri alla propria fine.

Una cerimonia rituale

E’ tutto finito? Gli elettori e i militanti di sinistra interessati al contenuto più che all’etichetta possono sperare di combattere la destra (anche nei paesi occidentali) quando i partiti per i quali votano si sono convertiti al neoliberalismo ma conservano il potere di vincere le elezioni?  E’ diventata una cerimonia rituale: la distinzione tra la sinistra riformista e i conservatori viene mantenuta durante la campagna elettorale mediante un’illusione ottica.  Poi, se ne ha l’opportunità, la sinistra governa il paese esattamente come i propri oppositori, facendo attenzione a non turbare l’ordine economico.

La maggior parte dei candidati di sinistra con un occhio a un posto nel governo insiste sul fatto che il cambiamento sociale è necessario, persino urgentemente necessario.  Ma per realizzare tale cambiamento devono vedere in ciò qualcosa di più di uno slogan elettorale e devono vincere le elezioni.  Ed è in quel preciso momento che la sinistra moderata fa la paternale ai “radicali” e agli altri “protestatari”.  Non si  attende un “grande dibattito” (vedasi The US left’s great debate, pag. 12 [Il grande dibattito nella sinistra USA]) né  sogna una società alternativa molto lontana dal mondo, abitata da gente eccezionale.  Per citare il dirigente socialista francese Francois Hollande, non intende “opporsi anziché tentare, frenare anziché agire, resistere invece che conquistare.” Crede che “non battere la destra significa mantenerla in vita, e questo significa sceglierla” (4).  La sinistra radicale preferirebbe, nelle parole di Hollande, “sfruttare ogni rabbia al massimo possibile” invece che “optare per il realismo” (5).

La sinistra al governo ha una briscola: ha dietro di sé, qui ed ora, gli elettori e ha una squadra professionale e impaziente di insediarsi. Ma la vittoria sulla destra non è un sostituto di un programma.  Una volta che le elezioni sono vinte, le strutture già in essere, nazionali, europee o internazionali, probabilmente limiteranno il desiderio di cambiamento espresso nel corso della campagna elettorale.  Negli USA, Obama ha potuto affermare che i gruppi di pressione dell’industria e le mosse di blocco dei Repubblicani al Congresso hanno tolto linfa allo spirito proattivo del governo (“Yes, we can” [Sì, possiamo]) nonostante il sostegno popolare.

Altrove i governi di sinistra hanno spiegato la propria prudenza, o la propria codardia, con discorsi sui limiti e sui problemi ereditati (un settore produttivo non competitivo a livello internazionale, un alto livello del debito) che hanno lasciato scarso spazio di manovra.  Come disse nel 1992 Lionel Jospin: “La nostra vita pubblica è dominata da una strana dicotomia. Da un lato il governo [socialista] è biasimato per la disoccupazione, i problemi nelle periferie, il malcontento sociale, l’estremismo della destra e la disperazione della sinistra.  Dall’altro, viene sollecitato a non abbandonare una politica economico-finanziaria che rende molto difficile gestire questi problemi” (6).

Le sue parole suonano oggi attuali e pertinenti. I socialisti le ricordano ogni volta che argomentano a favore del voto tattico: se la sinistra perde le prossime elezioni, la destra vittoriosa scatenerà immediatamente riforme neoliberali, privatizzazioni, freni ai diritti sindacali, tagli alla spesa pubblica che distruggeranno gli strumenti che potrebbero modellare una nuova politica. Di qui il voto tattico alla sinistra moderata.  E tuttavia ci possono essere lezioni da ricavare dalle sconfitte. Benoit Hamon ammette che in Germania “il risultato delle elezioni parlamentari [del settembre 2009], in cui la percentuale dei voti allo SPD (23%) è stata la più bassa da cent’anni a questa parte, ha convinto la dirigenza che era necessario un cambiamento di direzione” (7).

Analisi politiche ugualmente modeste sono state condotte in Francia dopo la sconfitta socialista del 1993 e in Inghilterra dopo la (parziale) vittoria dei Conservatori nel 2010.  Lo stesso processo probabilmente si ripeterà  presto in Spagna e in Grecia, visto che è improbabile che i governi socialisti attribuiscano la loro imminente sconfitta a politiche rivoluzionarie.  Difendendo Papandreou, la parlamentare socialista greca Elena Panaritis ha citato un esempio inatteso: “A Margaret Thatcher ci sono voluti undici anni per completare le sue riforme in un paese in cui i problemi strutturali non erano così gravi.  Il nostro programma è andato avanti per soli 14 mesi” (8). Ovvero: Papandreou è meglio della Thatcher.

Uscire da questo circolo vizioso significa elencare le condizioni necessarie per mettere in riga la globalizzazione finanziaria. C’è un problema immediato: data la pletora di meccanismi sofisticati che hanno collegato lo sviluppo economico nazionale alla speculazione capitalista negli ultimi 30 anni, anche una politica di riforme relativamente morbida (correggere le tasse non eque, aumentare il potere d’acquisto, conservare il bilancio dell’istruzione) richiede ora significative rotture con il passato sia con l’attuale ordine europeo sia con le precedenti politiche socialiste.

Partiremo male se non rivedremo l’”indipendenza” della Banca Centrale Europea (garantita dai trattati europei che la sua politica monetaria non sarà assoggettata al controllo democratico); se non introdurremo flessibilità nel patto di stabilità e di crescita (che, in una crisi, soffoca una strategia proattiva per gestire la disoccupazione); se non condanneremo l’alleanza liberale-socialdemocratica nel parlamento europeo (che ha portato i socialdemocratici a sostenere Mario Draghi, ex vicepresidente e amministratore delegato della Goldman Sachs, come candidato al posto di presidente della BCE) e se non affronteremo il libero scambio (la politica preferita dalla Commissione Europea) e la revisione del debito pubblico (per evitare di rimborsare speculatori che hanno scommesso contro i paesi più deboli dell’eurozona) (9).

La partita può addirittura essere persa prima di cominciare. Non c’è motivo di credere che Francois Hollande in Francia, Sigmar Gabriel in Germania o Ed Miliband in Inghilterra riusciranno dove hanno fallito Obama, Josè Luis Zapatero e Papandreou.  Immaginare, come spera Massimo d’Alema, che “un’alleanza che ponga l’unione politica dell’Europa al centro della propria politica ravviverà il movimento progressista” (10) è un sogno. Nell’attuale situazione politica e sociale, un’Europa federale rafforzerebbe i già soffocanti meccanismi neoliberali e ridurrebbe il potere sovrano del popolo trasferendolo a organismi tecnocratici ombra. La moneta e il commercio sono già stati federati.

Comunque, fino a quando i partiti della sinistra moderata continueranno a rappresentare la maggior parte degli elettori progressisti, o perché essi appoggiano le politiche di tali partiti o perché essi credono che tali politiche offrano la sola prospettiva di cambiamento nell’immediato futuro, entità politiche più radicali resteranno relegate a piccole parti o saranno mandate dietro le quinte.  Persino con il 15% dei voti, 44 parlamentari, quattro ministri e un’organizzazione che comprendeva decine di migliaia di militanti, il Partito Comunista Francese (PCF) non ha mai influenzato le politiche pubbliche, economiche e finanziarie di Francois Mitterand tra il 1981 e il 1984. Il partito di Rifondazione Comunista in Italia, intrappolato in un’alleanza con partiti di centrosinistra, ha fallito e non ispira; il suo scopo era di evitare, a ogni costo, che Berlusconi tornasse, ma egli tornato comunque, più tardi.

In Francia il Fronte della Sinistra (che comprende il PCF) spera di sconfiggere la tendenza. Esercitando pressioni sul PS spera di contribuire a sfuggire alla tirannia del passato.  Può sembrare un’illusione, persino disperata. Ma, anche se in questo c’è più che la forza elettorale relativa e le costrizioni istituzionali, ci sono anche alcuni precedenti storici.  Nessuna delle grandi conquiste sociali del Fronte Popolare (ferie pagate, la settimana di 40 ore) erano incluse nel modesto programma della coalizione che vinse nell’aprile-maggio 1936; furono gli scioperi di giugno che costrinsero i datori di lavoro francesi ad accettarle.

Quella, comunque, non è soltanto una storia dell’irresistibile forza di un movimento sociale e della pressione che impose a partiti di sinistra timidi e spaventati.  Fu la vittoria elettorale del Fronte Popolare  che diede il via alla rivolta sociale, dando ai lavoratori la sensazione che non sarebbero più stati repressi dalla polizia e dai padroni, come erano stati prima.  Presero coraggio, ma sapevano anche che i partiti per i quali avevano votato non avrebbero dato loro nulla se non vi fossero stati costretti. Di qui la vincente ma rara dialettica tra elezioni e mobilitazione, cabine elettorali e fabbriche. Come stanno le cose ora, un governo di sinistra risparmiato da tale pressione convolerebbe immediatamente a solide nozze  con i tecnocrati, che conoscono solo il neoliberalismo.  La loro ossessione consisterebbe nell’averla vinta sulle agenzie di rating, che immediatamente abbasserebbero la valutazione di qualsiasi paese che perseguisse una genuina politica di sinistra.

E allora, attaccare con audacia o attenersi alla linea  e impantanarsi immediatamente?   I rischi dell’attacco (isolamento, inflazione, declassamento) sono inculcati in noi.  Ma che dire dei rischi di mettersi in riga?  Esaminando la situazione dell’Europa negli anni ’30, lo storico Karl Polanyi ha ricordato che “l’impasse raggiunta dal capitalismo liberale” aveva portato certi paesi a “una riforma dell’economia di mercato ottenuta al prezzo dello sradicamento di tutte le istituzioni democratiche” (11).  Persino Michel Rocard, un socialista estremamente moderato, è allarmato da tale prospettiva: imporre condizioni più dure ai greci potrebbe tradursi nella fine della democrazia greca. “Considerata la rabbia che proverà il popolo” ha scritto il mese scorso, “è dubbio se un qualsiasi governo greco possa reggere senza il sostegno dell’esercito.  Questa triste osservazione si applica probabilmente anche al Portogallo e/o all’Irlanda e/o ad altri, più grandi, paesi.  Sin dove ci si spingerà?” (12).

La repubblica del centro ha dietro di sé istituzioni e media, ma vacilla.  La competizione  è aperta tra un duro autoritarismo neoliberale e una rottura con il capitalismo.  Sembrano cose ancora lontane. Ma quando la gente smette di credere a un gioco politico in cui i dadi sono truccati, quando vede che i governi sono spogliati della loro sovranità, quando chiede che le banche siano messe in riga, quando si mobilita senza sapere dove porterà la sua rabbia, allora la sinistra è ancora molto attiva.

Note

(1)  Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale

(2) Benoit Hamon, Tourner la page, Flammarion, Parigi, 2011,   pagg. 14-19

(3) AFP, 4 settembre 2011

(4) Francois Hollande, Devoirs de verité, Stock, Parigi, pagg. 91 e 206.

(5) Ibidem, pagg. 51 e 43

(6) Lionel Jospin, “Reconstruire la Gauche”, Le Monde, 11 aprile 1992

(7) Benoit Hamon, op.cit. pag. 180

(8) Citato da Alain Salles “L’odyssée de Papandréou”, Le Monde, 16 settembre 2011.

(9) Leggere “ Quand la gauche renoncait au nom de l’Europe”, Le Monde diplomatique, giugno 2005.

(10) Massimo D’Alema, “Le succès de la gauche au Danemark annonce un renouveau européen”, Le Monde, 21 settembre 2011.

(11)  Karl Polanyi, La Grande Transformation, Gallimard, Paris, 1983, p. 305. [In italiano, “La grande trasformazione”, Einaudi, 2010 http://www.einaudi.it/libri/libro/karl-polanyi/la-grande-trasformazione/978880620560 – n.d.t.]

(12) Michel Rocard, “Un système bancaire à repenser”, Le Monde, 4 ottobre 2011.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/where-did-the-left-go-by-serge-halimi

Fonte:  Le Monde Diplomatique   

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Giustificazione morale

30 domenica Ott 2011

Posted by Redazione in Economia, Mondo, Noam Chomsky

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di Noam Chomsky e Dean Carroll (27 ottobre 2011)

 

Tu sei stato uno dei principali critici della politica estera statunitense in passato. Qual è il tuo punto di vista sulla prestazione in quest’area di Barack Obama da presidente, da quando ha assunto la carica? So che sei stato critico riguardo alla missione per uccidere Osama bin Laden.

Esisteva un principio nella legge anglo-statunitense chiamato principio d’innocenza sino a che la colpevolezza non sia provata in tribunale.  Quanto un sospetto viene preso e può facilmente essere condotto in giudizio, assassinarlo è semplicemente un crimine.  Per inciso, anche l’invasione del Pakistan è stata una violazione della legge internazionale.

C’è allora una qualsiasi giustificazione morale per gli attacchi di droni della CIA in paesi come lo Yemen e il Pakistan, che hanno presumibilmente avuto luogo durante la dirigenza della Casa Bianca da parte di Obama?

Non c’è alcuna giustificazione per gli assassinii mirati.  Erano cose che avvenivano in precedenza, sotto l’ultimo presidente, ma l’amministrazione Obama ha esteso procedure precedenti a una campagna globale di assassinii diretta contro persone sospette di incoraggiare altri a compiere quelle che gli Stati Uniti definiscono azioni terroristiche. Che cosa sia definito “azione terroristica” è qualcosa che solleva questioni piuttosto serie, e questo è un eufemismo.  Si prenda, ad esempio il caso di Guantanamo di un quindicenne che è stato accusato di aver preso un fucile per difendere il suo villaggio, in Aghanistan, quando è stato attaccato da soldati statunitensi. E’ stato accusato di terrorismo e poi inviato a Guantánamo per un totale di otto anni. Dopo otto anni di una prigionia nei quali quel che succede non è un segreto, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato ad altri otto anni di prigione. E’ terrorismo questo? Un ragazzo di quindici anni che difende il suo villaggio dal terrorismo?

Dunque tu pensi che, potenzialmente, l’approccio alla politica estera di Obama sia stato peggiore di quello di George W. Bush, in certe aree?

In termini di terrorismo di stato (ed è così che chiamerei questo) devo dire di sì, e ciò è già stato fatto presente dagli analisti dell’esercito.  La politica dell’amministrazione Bush era di rapire i sospetti e di inviarli a prigioni segrete in non erano trattati molto educatamente, come sappiamo.  Ma l’amministrazione Obama ha intensificato quella politica arrivando a non rapirli, ma a ucciderli.  Ora, ricordiamolo, si tratta di sospetti, anche nel caso di Osama bin Laden.  E’ plausibile che abbia effettivamente pianificato gli attacchi dell’11 settembre, ma quel che è plausibile e quel che è provato sono due cose diverse. Merita essere ricordato che otto mesi dopo gli attacchi, nell’aprile 2002, il capo dello FBI, nella sua più dettagliata comunicazione alla stampa, fu soltanto in grado di affermare di ritenere che il complotto fosse stato ordito in Afghanistan da bin Laden ma realizzato negli Emirati Arabi Uniti, in Germania e negli Stati Uniti. Da allora non è stata prodotta alcuna prova certa, almeno pubblicamente. La commissione sull’11 settembre, creata dal governo, ha ricevuto una quantità di materiale che costituiva una prova indiziaria che ciò era ragionevolmente plausibile, ma è dubbio che una qualsiasi parte di esso reggerebbe in un tribunale indipendente.  Le prove di cui si dispone sono state fornite alla commissione dal governo in base a interrogatori di sospetti in condizioni molto crudeli, come sappiamo.  E’ altamente improbabile che un tribunale indipendente avrebbe potuto prendere sul serio prove simili.

Come vedi il conflitto libico? Le forze occidentali, europee in particolare, hanno fatto bene a  intervenire?

Le tre tradizionali potenze imperiali, Inghilterra, Francia e Stati Uniti, hanno partecipato a una guerra civile dalla parte dei ribelli che non aveva nulla a che vedere con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Che l’azione del triumvirato imperiale sia stata appropriata è questione che penso debba essere discussa e dibattuta.  Certamente non è stata, internazionalmente, una mossa popolare; voglio dire, viene definita comunità internazionale, ma la maggior parte del mondo vi si oppone.  La Libia è un paese africano e l’Unione Africana sollecitava negoziati e diplomazia, ed è stata ignorata.  Brasile, Russia, India e Cina – i paesi BRIC – hanno tenuto all’epoca una riunione in Cina ed hanno anche diffuso una dichiarazione che sollecitava la diplomazia e i negoziati. Persino la Turchia, all’inizio, è stata tiepida e l’Egitto non ha appoggiato l’azione, e dal mondo arabo non è venuto praticamente alcun sostegno.

La domanda vera è: il mandato dell’ONU di proteggere i civili poteva essere attuato mediante la diplomazia? La Libia è una società altamente tribale e vi sono una quantità di conflitti tra le tribù; chi sa cosa verrà fuori da tutto questo!  Il governo di transizione ha già sottolineato che vi sarà una stretta osservanza della legge della Sharia e che verranno negati i diritti delle donne e così via.  Pochissimi in occidente sanno granché di tutto questo.  D’altro canto c’è stato un enorme sostegno popolare a farla finita con Gheddafi, che era un prevaricatore terribile.

E vedi un allargamento e un approfondimento della Primavera Araba con il passare del tempo e con i ribelli in stati come la Siria e l’Iran che prendono coraggio dalle conquiste dei già oppressi cittadini libici?

L’Iran è un caso diverso; ha un regime oppressivo, ma una situazione molto diversa. La Siria è in una situazione estremamente brutta che sta degenerando in guerra civile.  Nessuno ha proposto una politica sensata per gestire la cosa.  In larghe parti del mondo arabo le rivolte a favore della democrazia sono state rapidamente represse.  In Arabia Saudita, lo stato islamista più radicalmente estremo e alleato più stretto degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, ci sono stati timidi sforzi tentativi di protesta e sono stati repressi parecchio rapidamente, in modo tale che la gente ha avuto paura di scendere di nuovo in strada.  Lo stesso vale per il Kuwait e per l’intera regione, la regione del petrolio.  In Bahrain le proteste sono state inizialmente tollerate prima di essere represse violentemente con l’assistenza della forza d’invasione guidata dai sauditi in modi molti brutti, come irrompere in un ospedale ed aggredire medici e pazienti.

In Egitto e in Tunisia c’è stato un progresso significativo, ma limitato.  In Egitto l’esercito non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il suo controllo sulla società, anche se ora il paese ha una stampa libera e un movimento sindacale è stato in grado di organizzarsi ed agire in modo indipendente. Anche la Tunisia ha già una storia di attivismo sindacale. E pertanto il progresso verso la democrazia e la libertà è correlato molto strettamente con l’ascesa dell’attivismo militante di lungo termine. Ciò non dovrebbe sorprendere gli occidentali perché è esattamente quel che è accaduto in occidente.

Come vedi dispiegarsi la geopolitica nei prossimi decenni, con l’ascesa dei BRIC, la mancanza di stabilità in Medio Oriente e il declino dell’occidente?

Gli USA e l’Europa hanno problema in qualche misura diversi.  L’Europa fronteggia problemi finanziari molto gravi, questo non è un segreto, che sono in parte riconducibili all’approccio relativamente umano all’integrazione dei paesi più poveri con le nazioni più ricche.  Prima che fosse creata l’Unione Europea e i paesi del sud più poveri, come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, fossero fatti entrare, c’erano stati tentativi di ridurre la nette differenze tra i paesi avanzati ricchi e quelli più poveri, in modo tale che i lavoratori dell’Europa settentrionale non dovessero affrontare la concorrenza della classe lavoratrice impoverita e sfruttata del sud. Ci sono stati finanziamenti compensativi e altre misure che, naturalmente, non hanno eliminato il divario, ma lo hanno rimosso in misura sufficiente a far sì che le nazioni più povere fossero fatte entrare [nella UE] senza effetti pesanti su quelle ricche del nord.

L’Europa sta ora pagando il prezzo di un approccio relativamente umano e il suo non aver gestito alcuni problemi molto seri, come la straordinaria indipendenza della Banca Centrale Europea e la sua dedizione religiosa alle politiche anti-inflattive, che non sono quelle che dovrebbero essere adottate in un periodo di declino e di recessione. L’Europa dovrebbe fare l’opposto, come gli Stati Uniti dove le politiche sono in qualche modo più realistiche.

Quale ruolo pensi svolgeranno l’Europa e gli Stati Uniti in questo nuovo ordine mondiale che potenzialmente riflette la multipolarità piuttosto che l’egemonia occidentale?

L’Europa e gli Stati Uniti rappresentano ancora una parte enorme dell’economia globale; non ci sono dubbi al riguardo. Se l’Europa riesce a rimettere le proprie cose in ordine, e io penso che dovrà modificare le sue politiche economiche, ha delle opzioni.  Ciò di cui l’Europa ha bisogno ora non è un programma d’austerità, bensì  un pacchetto di stimolo che ripristini la crescita in modo da potere in seguito occuparsi del problema del debito.  Lo stesso vale per gli Stati Uniti.  E’ disponibile una quantità di denaro per programmi di stimolo in entrambe le regioni.  Ciò potrebbe aumentare il debito, ma quello è un problema più a lungo termine.  Le nostre società sono ricolme di ricchezza; la questione è come si intende utilizzarla.

Il tema comune di tutto la letteratura sugli affari internazionali è quello che viene chiamato il declino dell’occidente e la conclusione, a corollario, che il potere globale sta nuovamente passando alle potenze emergenti, Cina e India.  Tale tesi non è plausibile; la crescita economica della Cina è stata per molti versi decisamente spettacolare, ma si tratta di paesi molto poveri.  Il reddito pro capite è ben al di sotto di quello dell’occidente e hanno enormi problemi interni. La Cina, considerata il principale motore economico, è oggi ancora un impianto di assemblaggio.  Se si calcola accuratamente  il deficit commerciale USA nei confronti della Cina in termini di valore aggiunto, si rileva che il dato scende di circa il 25%, mentre aumenta nei confronti del Giappone, di Taiwan e della Corea approssimativamente della stessa percentuale.  Il motivo è che le parti, i componenti e l’alta tecnologia affluiscono in Cina da società periferiche, più industrializzate, così come dagli USA e dall’Europa, e la Cina assembla il tutto. Se si acquista un iPad o roba simile sul quale c’è scritto “esportato dalla Cina”, ben poco del valore aggiunto è cinese.

Certamente, in prosieguo la Cina salirà sulla scala della tecnologia, ma si tratta di una salita difficile e il paese ha problemi interni molto gravi, incluso un problema demografico.  Il periodo di crescita del paese è stato associato a un grande aumento di lavoratori giovani, tra i ventenni o trentenni, ma le cose stanno cambiando, in parte a motivo della politica del “figlio unico”.  Quel che sta arrivando è un declino della popolazione in età da lavoro e un aumento della popolazione più anziana. I cinesi senza dubbio cresceranno e saranno importanti, ma l’India è ancor più impoverita con centinaia di milioni di persone che vivono in miseria. Il mondo sta diventando vario e sta arrivando anche un secolo più vario.  Con l’ascesa dei BRIC, è in arrivo una distribuzione del potere. Per quanto riguarda il declino statunitense, esso è iniziato negli anni quaranta, quando possedeva letteralmente,  con incredibile sicurezza, la metà della ricchezza e della produzione del mondo; non c’era mai stato nulla di simile nella storia. Ciò ha cominciato a declinare molto rapidamente e la cosiddetta “perdita della Cina” si è verificata nel 1949.  Si dava per scontato che noi possedessimo il mondo, che ne fossimo proprietari.  Ben presto ci fu la “perdita del Sud Est Asiatico”. E per  che si sono avute le guerre inter-cinesi e il colpo di stato in Indonesia.

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a quella che è stata chiamata la “perdita del Sud America”. Il Sud America ha cominciato a muoversi in direzione dell’indipendenza e dell’integrazione e gli Stati Uniti sono stati espulsi da tutte le basi militari dell’area. Ed è in corso la creazione di unioni in America Latina, Sud America, Africa e Medio Oriente. L’occidente e i suoi alleati stanno cercando con forza di controllare ciò, ma la cosa sta proseguendo.  E in Cina vi è l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, che comprende gli stati dell’Asia Centrale, con Russia, India e Pakistan quali osservatori. Gli Stati Uniti sono stati esclusi e, sinora, si tratta un’organizzazione internazionale basata sull’energia, basata sull’economia.  E tuttavia è un’altra parte di questa diversificazione del potere nel mondo.

Il declino statunitense è in misura significativa autoinflitto. A partire dagli anni ’70, le economie occidentali hanno operato una svolta netta.  Nel corso della storia la tendenza era stata in direzione della crescita e della speranza. Ciò è cambiato negli anni ’70, quando c’è stata una svolta dell’economia verso la finanziarizzazione e il trasferimento della produzione all’estero a motivo del declino del tasso di profitto dell’industria.  Quella che si è verificata è stata un’altissima concentrazione della ricchezza, per la maggior parte in una parte minuscola del settore finanziario, e la stagnazione e il declino per la maggior parte della popolazione.  Oggi abbiamo slogan del tipo “99% e 1%”. Le cifre non sono del tutto corrette, ma il quadro generale lo è. E’ un problema molto serio e ha portata a una ricchezza spettacolare in pochissime tasche, anche se ciò è molto dannoso per i paesi interessati. Le proteste cui assistiamo in tutto il mondo in questo momento sono un altro sintomo di ciò.

 

Noam Chomsky è professore di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti. E’ autore di più di un centinaio di libri, compreso ‘Current Issues in Linguistic Theory’ [Problemi attuali della teoria linguistica].

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/moral-justification-by-noam-chomsky

Fonte: Public Service Europe

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

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Crisi: quel che forse si dovrebbe fare

29 sabato Ott 2011

Posted by Redazione in Economia, Mondo, Tariq Ali

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bolivaristi, bolivia, Bush, capitalismo, Clinton, Costituzione Europea, crisi del 2008, Ecuador, Edmund Burke, Glasgow, grecia, H.D. Dickinson, Irlanda, Islanda, Italia, jacqueries, Londra, neoliberalismo, New York, Obama, occupywallstreet, Oscar Wild, Paraguay, Pasok, peru, Portogallo, Reagan, Restaurazione, spagna, Utopia, venezuela, Wall Street

 

 

 

di Tariq Ali  (27 ottobre 2011)

 

“Non vale la pena di guardare una mappa del mondo che non includa Utopia,” ha scritto Oscar Wilde, “perché lascia fuori l’unico paese nel quale l’umanità finisce per approdare. E quando l’umanità ci approda, si guarda in giro, e vedendo un paese migliore, salpa le ancore. Il progresso è la realizzazione delle utopie.” Lo spirito di quel socialista del diciannovesimo secolo vive tra i giovani idealisti che sono scesi nelle piazze a protestare contro il turbocapitalismo globale che ha dominato il mondo a partire dal collasso dell’Unione Sovietica.

I manifestanti di Occupy Wall Street [Occupiamo Wall Street] che hanno preso residenza nel cuore del distretto finanziario di New York stanno dimostrando contro un sistema di dispotismo del capitale finanziario; un vampiro infettato dall’avidità che, per sopravvivere, deve succhiare il sangue dei non ricchi.  I manifestanti mostrano il loro disprezzo nei confronti dei banchieri, delle loro speculazioni finanziarie e dei loro media mercenari che continuano a insistere che non ci sono alternative. Da quando il sistema di Wall Street domina l’Europa, esistono anche qui versioni locali di quel modello. (E’ stato interessante che gli occupanti di Wall Street, e non gli indignados spagnoli o i lavoratori greci in sciopero che hanno avuto un impatto in Inghilterra, rivelino ancora una volta che le vere affinità questo paese  [Tariq Ali scrive dall’Inghilterra – n.d.t.] sono atlantiche, piuttosto che Europee.) I giovani aggrediti con lo spray al peperoncino dalla polizia di New York (NYPD) possono non aver elaborato quello che vogliono, ma è poco ma sicuro che sanno cosa non vogliono e ciò è un inizio importante.

Come siamo arrivati a questo punto? In seguito al collasso del comunismo nel 1991, l’idea di Edmund Burke che “in tutte le società costituite da classi diverse, certe classi devono necessariamente stare più alto” e che “gli apostoli dell’eguaglianza non fanno che cambiare e pervertire il naturale ordine delle cose” è diventata la saggezza del buon senso dell’epoca. Il denaro ha corrotto  la politica,  l’alta finanza l’ha corrotta del tutto. In tutti i centri del capitale abbiamo assistito all’emergere di: Repubblicani e Democratici negli Stati Uniti; Neolaburisti e Conservatori nello stato vassallo dell’Inghilterra; dei Socialisti e Conservatori in Francia; delle coalizioni tedesche, del centrodestra e centrosinistra scandinavi, e così via. In virtualmente ciascuno di questi casi  il sistema bipartitico si è trasformato in un efficace governo nazionale.  E’ entrato in gioco un nuovo estremismo del mercato.  L’ingresso del capitale nei sacri domini delle provvidenze sociali è stato considerato una “riforma” necessaria. Le iniziative della finanza privata che hanno punito il settore pubblico sono diventate la norma e paesi come la Francia e la Germania che erano visti non procedere abbastanza rapidamente in direzione del paradiso neoliberale sono stati regolarmente denunciati sull’Economist e sul Financial Times.

Mettere in discussione questa svolta, difendere il settore pubblico, argomentare a favore della proprietà statale dei servizi pubblici, contrastare la svendita dell’edilizia pubblica, significava essere considerati dinosauri “conservatori”. Tutti erano ora clienti, invece che cittadini; giovani  accademici neolaburisti ambiziosi erano soliti riferirsi timidamente  a quelli costretti a leggere i loro libri come a “clienti”, come a dire che siamo tutti capitalisti adesso. Le élite del potere sociale ed economico riflettevano le nuove realtà. Il mercato era diventato il nuovo Dio, preferibile allo stato.

Ma quelli che si erano bevuti queste idee non si sono mai chiesti: com’è che è successo questo? In realtà è stato necessario lo stato per effettuare la transizione. Interventi statali per puntellare il mercato e  aiutare i ricchi era una cosa che andava bene. E dato che nessun partito offriva un’alternativa i cittadini del Nord America e dell’Europa si sono fidati dei propri politici e si sono avviati come sonnambuli al disastro.

I politici di centro, intossicati dai trionfi del capitalismo, non erano preparati alla crisi di Wall Street del 2008. Lo stesso dicasi della maggior parte dei cittadini, infinocchiati da enormi campagne pubblicitarie che offrivano credito facile e da media domati e acritici, a credere che tutto andasse bene. I leader potevano non essere carismatici ma sapevano come gestire il sistema. Lasciate fare tutto ai politici. Il prezzo di questa apatia istituzionalizzata si paga ora. (A essere corretti, il popolo irlandese e quello francese avevano annusato il disastro nei dibattiti sulla costituzione europea che aveva posto al suo centro il neoliberalismo, e avevano votato contro di essa. Furono ignorati.)

Era comunque evidente a molti economisti che Wall Street stava deliberatamente pianificando la bolla immobiliare, spendendo miliardi in campagne pubblicitarie per incoraggiare la gente ad assumere secondi mutui e ad accrescere i debiti personali per spendere ciecamente in consumi. La bolla doveva scoppiare e quando lo ha fatto il sistema ha vacillato sino a quando lo stato non ha salvato le banche dal collasso totale. Socialismo per i ricchi. Con  la crisi che si diffondeva in Europa, le regole del mercato unico e della concorrenza venivano scaricate nel cesso mentre la UE montava un’operazione di salvataggio.  Le discipline del mercato venivano ora convenientemente dimenticate. L’estrema destra è piccola. L’estrema sinistra a malapena esiste.  E’ l’estremo centro che domina la vita politica e sociale.

Mentre alcuni paesi crollavano (Islanda, Irlanda, Grecia) e altri (Portogallo, Spagna, Italia) contemplavano l’abisso, la UE (in realtà la UB, Unione dei Banchieri) è intervenuta per imporre l’austerità e salvare i sistemi bancari francese, tedesco e inglese. Le tensioni tra il mercato e la responsabilità democratica non potevano essere mascherate più a lungo. L’élite greca fu ricattata alla totale sottomissione e le misure d’austerità ficcate in gola alla cittadinanza hanno portato il paese sull’orlo della rivoluzione. La Grecia è l’anello più debole della catena del capitalismo europeo, la sua democrazia è da molto finita sommersa sotto le onde del capitalismo in crisi.  Scioperi generali e proteste creative hanno reso molto difficile il compito degli estremisti di centro. Osservando le recenti immagini di Atene, in cui la polizia ha usato la forza per evitare che decine di migliaia di cittadini entrassero nel parlamento si sente che i governanti del paese potrebbero non essere in grado di governarlo alla vecchia maniera troppo a lungo.

In precedenza, quest’anno, a Tessalonicco, dove tenevo un discorso a un festival letterario, i principali interessi del pubblico erano politici ed economici, piuttosto che letterari. C’era un’alternativa? Cosa si doveva fare? Essere immediatamente inadempienti, ho risposto. Lasciare l’eurozona, reintrodurre la dracma, istituire una pianificazione a livello locale, regionale e nazionale, coinvolgere la gente nel dibattito su come stabilizzare il paese ma non a spese dei poveri. Ai ricchi dovrebbero essere fatti vomitare i soldi (mediante una tassazione speciale) che hanno accumulato con mezzi sospetti nel corso dell’ultimo decennio. Ma i politici privi di visione al centro del sistema sono ben lontani da idee simili. Molti di loro sono a libro paga del limitato numero di persone che possiede e controlla le risorse economiche di un paese.

Gli Stati Uniti, tormentati dal debito, sotto Obama (un presidente che a tutti i fini pratici ha continuato le politiche del suo predecessore) hanno visto emergere un nuovo movimento di protesta che si è diffuso in tutte le grandi città. L’energia dei giovani occupanti è ammirevole. La primavera è rifuggita troppo a lungo dal cuore degli Stati Uniti politici. I freddi inverni degli anni di Reagan e di Bush non si sono sgelati con Clinton e Obama: uomini vuoti che governano un sistema vuoto in cui il denaro supera in potere qualsiasi altra cosa e lo stato molto chiacchierato è utilizzato principalmente per preservare lo status quo finanziario e per finanziare le guerre del ventunesimo secolo.

La nebbia della confusione si è finalmente sollevata e la gente cerca alternative, ma senza partiti politici poiché virtualmente sono stati tutti rilevati carenti.  Le occupazioni attualmente in atto a New York, Londra, Glasgow e altrove, sono molto diverse dalle proteste del passato. Sono azioni organizzate in tempi di crescente disoccupazione e in cui il futuro appare sinistro. Una maggioranza di giovani – nonostante le dichiarazioni isteriche che le cose non stiano così – non otterrà un’istruzione superiore a meno che non riesca a mettere insieme grandi quantità di denaro e, senza dubbio, dovrà presto affrontare un sistema sanitario a due livelli. La democrazia capitalista presuppone oggi un fondamentale accordo tra i principali partiti rappresentati in Parlamento in modo tale che i loro battibecchi, limitati dalla loro moderazione, divengano del tutto insignificanti.  In altre parole, i cittadini non possono più decidere chi (e come) controlli la ricchezza di un paese, ricchezza che il larga misura è stata creata dagli stessi cittadini.

Se questioni cruciali, come l’allocazione delle risorse, le provvidenze relative all’assistenza sociale, la distribuzione della ricchezza non sono più oggetto di dibattiti reali nelle assemblee rappresentative, perché sorprendersi per l’allontanamento dei giovani dalla politica convenzionale e per la delusione nei confronti di Obama e delle sue parodie globali? E’ questo che spinge la gente nelle strade di più di 90 città.  I politici si sono rifiutati di accettare che la crisi del 2008 sia stata collegata alle politiche neoliberali che hanno perseguito sin dagli anni ’80.  Hanno presunto di poterla fare franca proseguendo come se niente fosse accaduto, ma i movimenti dal basso hanno messo in discussione questa presunzione.  Le occupazioni e le proteste nelle strade contro il capitalismo sono in qualche modo analoghe alle jacquerie (rivolte) contadine dei secoli precedenti.  Condizioni inaccettabili hanno portato a rivolte, che sono poi state represse o si sono calmate per decisione loro. Quel che è importante è che esse sono presagi di quel che ancora sta per venire se le condizioni restano quelle che sono.  Nessun movimento può sopravvivere a meno che crei una struttura democratica permanente per mantenere la continuità politica. Maggiore il supporto a movimenti di questo tipo, maggiore la necessità di una qualche forma di organizzazione.

Le rivoluzioni modello sudamericane contro il neoliberalismo e le sue istituzioni globali sono significative a questo riguardo.  Lotte enormi e vincenti in Venezuela contro il FMI, contro la privatizzazione dell’acqua in Bolivia, e contro la privatizzazione dell’elettricità in Perù, hanno creato le basi per nuove politiche, che hanno trionfato alle urne nei due primi paesi così come in Ecuador e Paraguay. Una volta eletti, i nuovi governi hanno cominciato a mettere in atto, con vari gradi di successo,  le riforme economiche e sociali promesse. Il consiglio offerto al Partito Laburista in Inghilterra nel 1958 dal professor H.D. Dickinson sul New Statesman è stato rifiutato dai Laburisti ma accettato dai capi bolivaristi del Venezuela circa quarant’anni più tardi:

“Perché lo stato sociale sopravviva, lo stato deve trovare una fonte di reddito, propria, una fonte in ordine alla quale abbia titolo prevalente rispetto a quello … dei percettori di profitti. L’unica fonte che io riesco a vedere è quella della proprietà produttiva. Lo stato deve arrivare, in un modo o nell’altro, a possedere una vasta quota della terra e del capitale del paese.  Può non essere una politica popolare: ma, se non è perseguita, la politica del miglioramento dei servizi sociali, che è una politica popolare, diventerà impossibile. Non si possono socializzare a lungo i mezzi di consumo se prima non si socializzano i mezzi di produzione.”

I governanti del mondo vedranno in queste parole poco più che un’espressione di utopismo, ma si sbagliano.  Poiché queste sono riforme strutturali che sono davvero necessarie, non quelli che vengono sollecitate da isolati dirigenti del Pasok ad Atene.  Per quella via si va a ulteriori privazioni, maggior disoccupazione e al disastro sociale.  Quella che è necessaria è una svolta completa preceduta da un’ammissione pubblica che il sistema di Wall Street non è stato capace di funzionare, né poteva farlo, e deve essere abbandonato.  I suoi seguaci inglesi, come tutti i convertiti, sono stati più impietosi e spietati nella loro accettazione del mercato come unico arbitro, sostenuto da una macchina statale neoliberale.  Continuare su questa via richiederà nuovi meccanismi di dominio che lasceranno la democrazia poco più che una scatola vuota. Gli occupanti sono istintivamente consapevoli di questo, che è il motivo per cui sono qui oggi.  Lo stesso non si può dire dei politici estremisti del centro.

Provo assoluta ammirazione per i giovani che occupano le strade e le piazze in differenti parti del mondo.  Sfidano i nostri governanti con umorismo, brio e stile. Ma i banchieri e i politici dal muso duro non saranno facili da sfrattare. E’ necessario un decennio di lotte e di organizzazione per conseguire qualche vittoria.  Perché non unire il maggior numero di persone possibile in una carta delle richieste – un “grandioso reclamo” al parlamento che rappresenta i diritti dei ricchi – e marciare in un milione o più per consegnare di persona il reclamo in autunno? La legge (imposta dopo la Restaurazione del 1666) vieta le dimostrazioni tumultuose all’esterno del Parlamento, ma siamo in grado di  interpretare il termine “tumultuose” alle stessa stregua di un qualsiasi avvocato.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.zcommunications.org/what-should-perhaps-be-done-by-tariq-ali

Fonte: Sunday Herald

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

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26 mercoledì Ott 2011

Posted by Redazione in America, Anarchia, Michael Albert

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assemblee, Atene, attivismo, autogestione, Barcelona, grecia, Madrid, noia, occupywallstreet, oiccupazioni, semi del futuro, spagna, unanimità, Valencia

di Michael Albert  (25 ottobre 2011)

Devo ancora vedere la mia occupazione più vasta, a Boston, o la precorritrice di tutte le occupazioni, Wall Street. Sono stato, invece, in viaggio nelle ultime sei settimane a Tessalonica e Atene, in Grecia; a Istanbul e Biyarbikar, in Turchia; a Lexington, Kentucky; a Londra, in Inghilterra; a Dublino, in Irlanda e a Barcellona, Madrid e Valencia, in Spagna.

In tutti i questi luoghi ho parlato con persone diverse in molte riunioni e assemblee popolari. Ho incontrato persone coinvolte in occupazioni e uditori riuniti dai miei ospiti per sentir esporre l’economia partecipativa.  Oltre a parlare degli argomenti previsti, la mia priorità è stata di conoscere i movimenti locali.  Ho ripetutamente chiesto cosa desiderassero dire le persone in lotta da molti mesi ad altri prima che si imbarcassero in imprese simili.

La noia, l’impotenza e la ricerca dell’unanimità ostacolano la crescita

In Grecia e Spagna ha predominato un unico messaggio.  Non aveva niente a che fare con l’analisi del capitalismo o con altre messe a fuoco analitiche.  Gli attivisti greci e spagnoli hanno invece riferito di aver avuto grandi assemblee in grandi città e che le loro occupazioni crescevano, crescevano, crescevano, cosicché  le assemblea arrivavano a 12.000, 15.000 partecipanti … e poi si sono assottigliate, assottigliate e assottigliate fino a che, ora, le assemblee non si riuniscono o  riuniscono  centinaia, o meno, di partecipanti.

Tuttavia apprendevo, in continuazione, che nulla era diminuito riguardo al rifiuto, da parte della popolazione, delle ingiustizie che si manifestavano. Le persone, in gran numero,  continuavano ad averne abbastanza e continuavano a partecipare in massa alle dimostrazioni, marce e scioperi.  E dunque perché la maggior parte di coloro che manifestavano e marciavano non partecipava più alle assemblee?  La risposta che udivo ad ogni tappa era che il declino delle assemblee non era dovuto alla repressione, o al fatto che le persone fossero cooptate, o fossero ingannate o rattristate dalle distorsioni dei media o dall’essere ignorate da essi. In effetti l’avvizzimento delle assemblee non era dovuto a nulla che qualcun altro facesse contro le assemblee, o ne dicesse, o non facesse per esse, o non dicesse a proposito di esse, riferivano ripetutamente gli attivisti. Invece, mi dicevano, il problema veniva dall’interno.

Ad esempio, gli attivisti greci e spagnoli hanno affermato che alle assemblee agli inizi le persone parlavano con passione incredibile della propria condizione e dei propri desideri.  Spesso le voci si spezzavano.  Le mani si agitavano.  Ogni volta che qualcuno si alzava a parlare, accadeva qualcosa di vero, di appassionato e di costante. Era incantevole ed eccitante. Le persone non solo apprendevano nuovi fatti e interpretazioni – e, in realtà, tale tipo di apprendimento era relativamente modesto – ma imparava anche a nutrire una nuova fiducia e nuovi modi di coinvolgersi con gli altri.  Ma dopo giorni e poi settimane, il sapore dei discorsi cambiava. Dall’essere persone nuove che parlavano appassionatamente e raccontavano i loro motivi per essere presenti e le loro speranze per il futuro narrando storie profondamente sentite e uniche, gli oratori passavano a farsi persone più esperte o abituate, che tenevano lezioni ai presenti con idee preconfezionate. Le fila degli oratori si facevano sempre più maschili.  I loro discorsi diventavano fondamentalmente preparati.  Ascoltare ripetizioni meccaniche e spesso prevedibili di tirate praticamente da manuale diventava noioso ed alienante. A volte addirittura degradante.

Al tempo stesso, le persone nuove, che erano ancora di gran lunga prevalenti, non sapevano cosa fare durante l’occupazione. “Potevamo fare assemblee,” riferivano, “potevamo discutere e coinvolgerci gli uni con gli altri. Potevamo ascoltare e a volte dibattere un po’”, riferivano il partecipanti greci e spagnoli alle assemblee. “Ma quanto a lungo potevamo far questo e sentire che meritava il tempo speso lontano dalle famiglie, dagli amici, dal lavoro, per non dire da spazi con un tetto sulla testa?”

“Nella loro forma iniziale, le assemblee erano rinvigorenti e incoraggianti. Stavamo creando una nuova comunità” mi è stato detto. “Stavamo facendoci nuovi amici. Ascoltavamo persone nuove. Ci godevamo un contesto in cui il dissenso era la norma. Ma col passare dei giorni, e poi delle settimane, la cosa è diventata troppo scontata.  E non era evidente alla gente cos’altro potesse fare. Non c’erano compiti da realizzare.  Non eravamo più rinati; stavamo morendo. E’ stato duro.  Per molti è stato impossibile continuare ad apprendere e a contribuire.  C’era una volontà, ma non c’era una via. La gente non aveva cose significative da fare che la facesse sentire partecipe di un progetto valido. Ci sentivamo, col tempo, solo parte di una massa di persone.”

“Dopo un po’, molti hanno chiesto perché dovessero stare a sentire discorsi noiosi. Perché dovessero sentirsi a disagio e tagliati fuori dalla famiglia e dal lavoro, se non c’era da fare nulla che fosse costruttivo, nulla che desse potere, nulla che facesse progredire obiettivi validi. E così la gente ha cominciato a partecipare di meno, e poi ad andarsene.”

Un altro fattore che all’inizio era eccitante ma che si seguito è divenuto tedioso è stato la ricerca dell’unanimità. All’inizio era una novità. Implicava fiducia, il che suonava bello. Implicava intenti condivisi, il che se suonava ispiratore. Ma dopo un po’ la ricerca dell’unanimità è diventata una tortura, una perdita di tempo, e i motivi per cui quello fosse l’unico approccio all’assunzione di decisioni sono diventati costantemente meno convincenti.

“Perché non possiamo arrivare a decisioni che non piacciono ad alcuni che non vogliono neppure parteciparvi? Perché non possiamo arrivare a decisioni, avendo una forte minoranza che dissenta, e rispettare tale minoranza e persino consentirle di perseguire altre possibilità per verificarne il valore? Perché dobbiamo consentire che piccoli gruppi costringano a discussioni senza fine, impedendo a molti di parlare  quando quei piccoli gruppi non hanno titolo legittimo a un’influenza maggiore di quella di chiunque altro, eccetto il fatto che il nostro modo di prendere le decisioni assicura loro il diritto di veto?”

Tutte queste dinamiche mi sono state narrate in modo molto vivace e commovente. Nessuno ha detto che la gente aveva smesso di partecipare alle assemblee per paura dei poliziotti o per depressione per il comportamento della stampa.  Nessuno ha detto che la gente se n’era andata per aver maturato dubbi sulla protesta o la resistenza, e ancor meno sulla condizione della società.  Invece tutti quelli con i quali ho parlato, e si trattava di persone molto impegnate, mi hanno detto che i partecipanti se ne andavano per mancanza di buoni motivi per restare. Tirate le somme, il fatto era che le assemblee erano diventare noiose e, ironicamente, anche scoraggianti. La gente si chiedeva “perché devo stare qui ogni giorno ed ogni notte?” Questa domanda era un tormento. Ha fatto sì che, a legioni, voltassero pagina.

Rendere ancor migliore quel che è già molto buono

“Qual è la soluzione?” ho chiesto in ogni nuova città e abbiamo discusso delle possibili risposte.

“Occupare ma, meglio ancora, autogestire” mi è stato detto. La prima scelta è fondamentalmente passiva, la seconda è attiva e produce compiti e occasioni per contribuire.

Crescere  in numero e consapevolezza, ma quelli che diventano bene competenti devono restare in contatto con i nuovi e ricordare sempre che il coinvolgimento di nuove persone è la cosa che conta di più.  Altrimenti i veterani diventano più istruiti ma anche più distaccati, e i nuovi non rimarranno.

Perché non tenere delle classi di studio? Perché non avere attività creative? Perché non avere azioni che ottengano cambiamenti? Parlare sempre a nuova gente. Parlare sempre sulla base dell’esperienza, degli eventi, non sulla base di idee preconcette. Coinvolgere sempre se stessi e nuove persone in attività concrete e valide.  Rendere chiare le opzioni e facile esservi coinvolti.

Ovviamente alcune cose non possono essere risolte direttamente a livello di occupazione.  Dormire fuori è una passione dei giovani, ma non una scelta adatta a tutti.  A Dublino questo è stato particolarmente evidente.  Così, anche se dormire in uno spazio occupato ha senso per un po’ di  giovani e senzatetto, perché non dare proattivamente per scontato che molti altri, particolarmente coloro che hanno famiglia, non dormiranno, né potranno dormire, sotto le stelle?  Perché non avere un programma di attività che restituisca le persone alle loro case ogni notte, a fini organizzativi, o forse per qualsiasi altra cosa ad eccezione del tempo esplicitamente previsto per le assemblee?

Le idee che sono echeggiate in molte discussioni, e che gli attivisti coinvolti hanno avvertito necessitare di preponderante sostegno, comprendono: una volta che un’occupazione abbia una larga partecipazione, far sì che sottogruppi inizino altre occupazioni in altri luoghi, tutti federati insieme e assicurandosi mutuo sostegno.  Nelle occupazioni più locali, di quartiere, visitare ogni casa. Parlare con ogni residente. Coinvolgere quanti più vicini sia possibile. Individuare necessità realmente sentite. Se quel che più turba il vicinato sono preoccupazioni riguardanti gli alloggi, gli asili nido, la disciplina del traffico, il mutuo soccorso, la solitudine, qualsiasi cosa, cercare di agire per affrontare il problema.

Far sì che le occupazioni si autogesticano e creino innovazioni artisticamente, socialmente e politicamente.  Occupare interni, non soltanto luoghi esterni. Forse è un salto, ma non così grande. A Barcellona e Madrid alcuni hanno cominciato sperimentalmente a occupare appartamenti e altri edifici abbandonati, in preparazione, ritengo, a invitare i senzatetto ad abitarvi nonché per utilizzarli per le riunioni e attività simili.  A Valencia sono stato all’occupazione appena nascente dell’università, iniziata, in realtà, dopo un discorso. Ma  occupare edifici, specialmente istituzioni come università e media, non è soltanto una questione di convocare la gente, anche via Twitter, e quella arriva. Si tratta di andarla a prendere, informarla, ispirarla, arruolarla, incoraggiarla, e allora verrà.

In Grecia e in Spagna, e in qualche misura in altri luoghi che ho visitato, la violenza è stata un’altra questione centrale. Tutti coloro con i quali ho parlato sono stati concordi nel considerarla un approccio suicida per due motivi. In primo luogo la violenza è la principale forza dello stato. Spostare i termini del conflitto in direzione della violenza li sposta esattamente dove lo stato e le élite li vogliono, verso la loro forza. In secondo luogo, la violenza distorce il progetto. Lo rende inaccessibile a molti. Rende critici i passanti. Riduce il seguito e il seguito è la base di ogni conquista.

Sono stato in Grecia una quantità di volte e nei miei primi viaggi quest’ottica era molto debole tra i giovani greci, che erano tipicamente molto più pronti a (e ansiosi di) battersi. Ma ora la posizione della nonviolenza sta acquistando aderenti in Grecia. In Spagna, sin dall’inizio, è stata predominante e gli attivisti spagnoli hanno avuto successo nell’evitare di dare allo stato il pretesto per la violenza, facendo sì, in questo modo, che ogni atto di violenza dello stato gli si ritorcesse contro.

Si dimentichi la violenza e le rivolte, si sviluppino campagne che promanino dalle occupazioni, il che significa, hanno detto gli attivisti spagnoli, sviluppare richieste per cui lottare.  In effetti gli attivisti coinvolti hanno richiesto in continuazione quali rivendicazioni potrebbero unire la base e per quali si potesse combattere in modi creativi e partecipativi in modo che siano possibili vittorie che realmente contino per la vita della gente ed entusiasmino e stimolino altre lotte. Essi hanno avvertito che mentre il carattere indefinito del dissenso ha funzionato in modo fantastico all’inizio, ed era autorizzato nell’attesa di un seguito sufficiente a far sì che le rivendicazioni rappresentassero le effettive visioni della base, non semplicemente quelle dei leader, nel tempo c’è bisogno di una messa a fuoco.

Alcuni suggerimenti che sono emersi quanto alle richieste sono stati benvenuti. Altri meno. Ad esempio a tutti piaceva richiedere grandi tagli alla spesa militare per stanziamenti, ampliati, di fondi per programmi sociali. Ma quel che è piaciuto davvero alla gente è stato quando la rivendicazione è stata approfondita  per estenderla a comprendervi la trasformazione della destinazione delle basi militari, che sarebbero state abbandonate o chiuse a motivo dei tagli di bilancio, in modo che restassero aperte e vi fossero realizzati validi lavori pubblici come la costruzione di nuovi alloggi per le persone a basso reddito, in primo luogo per i residenti nelle basi che ne avevano bisogno e li avrebbero apprezzati, e poi per i senzatetto.

E quanto ai senzatetto una rivendicazione che ha fatto centro è stata il congelamento dei pignoramenti, la restituzione delle case, la distribuzione di quelle vacanti, dar casa ai senzatetto, compresa l’idea ti mettere in atto occupazioni per perseguire direttamente questi risultati, un processo che è iniziato a Barcellona e a Madrid che hanno anche solidi movimenti per bloccare i pignoramenti.

Un altro approccio che è sembrato raccogliere considerevole sostegno è stato la richiesta di piena occupazione.  Ma non era tutto. Riconoscendo l’attuale mancanza di domanda dei beni prodotti, la gente si è resa conto che una richiesta sensata di piena occupazione avrebbe reso necessaria la riduzione della settimana lavorativa del 10 – 25%, a seconda del tasso di disoccupazione del paese.  Naturalmente se la maggior parte delle persone si fosse vista diminuire il reddito di un importo corrispondente, sarebbe stata una catastrofe e perciò la richiesta di ore ridotte di lavoro doveva essere combinata con la richiesta che la maggior delle persone non avrebbe dovuto subire perdite di reddito.  (Politiche di salari minimi e una tassazione progressiva redistributiva avrebbero anch’esse fatto parte dell’insieme).  La piena occupazione inoltre rafforza i lavoratori perché quando tutti hanno lavoro, la minaccia di essere licenziati diminuisce fino ad essere quasi irrilevante.  Ottenere questa conquista significa anche che i lavoratori godono di maggior tempo libero e di paghe orarie più elevate per quelli in stato di bisogno.  I costi aggiuntivi andrebbero sopportati dai proprietari, e se essi non fossero d’accordo, benissimo, i lavoratori potrebbero voler occupare quelle fabbriche e poi passare ad autogestirle.

Un’altra idea popolare è consistita nel rivolgersi ai media. Un’opzione che è echeggiata come possibile obiettivo per una campagna, anche se naturalmente non otterrebbe una trasformazione totale, (pur certamente essendo nella direzione di essa), consisteva nel chiedere una o due nuove sezioni sui giornali tradizionali, o nei programmi televisivi o in qualsiasi spazio potesse essere dedicato, ad esempio, al dissenso nel campo del lavoro, o al femminismo, o alla pace, o all’ecologia, e via di seguito. Cosa fondamentale, tali spazi non sarebbero gestiti nel solito modo imprenditoriale ma, invece, attraverso l’autogestione da parte dei partecipanti sotto l’ombrello delle principali organizzazioni sindacali, femministe, pacifiste o ecologiste, ad esempio.

In questi scambi di vedute gli attivisti immaginavano una campagna mondiale contro i media convenzionali, contro la spesa militare, a favore di alloggi di qualità per quelli a basso reddito e a favore della piena occupazione, comprese una parallela redistribuzione del reddito e l’aumento del tempo libero.  Essi si raffiguravano queste campagne come un’unificazione della protesta in direzione della resistenza e un’unificazione della resistenza nell’autogestione creativa, anche mentre ciascuna occupazione era collegata ai singoli problemi locali.

Autogestioni!

Le occupazioni – o quelle che potranno finire per essere note come autogestioni – si verificherebbero nei quartieri locali e si federerebbero a livello cittadino e oltre, ma anche agli ingressi, e forse anche all’interno, dei media convenzionali e degli uffici di reclutamento e delle basi militari, dei ministeri e degli uffici governativi e, infine, ci si può immaginare anche delle fabbriche e di altri luoghi di lavoro.  E in ciascuno di tali tentativi non tutti dovrebbero dormire all’aperto ma tutti dovrebbero dedicare parte del proprio tempo, delle proprie risorse, delle proprie intuizioni ed energie a aiutare una campagna o l’altra del progetto complessivo.

La rivoluzione, per dir così, non è immediatamente a portata di mano. Nella mia gioventù gridavamo: “Vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso!” Era uno slogan bello per l’incitamento. Ma dobbiamo anche comprendere che ci vuole tempo, ci vuole uno sforzo costante, occorre impiegare non settimane o mesi, ma anni.

In effetti anche con l’incredibile velocità e ingegno delle attuali esplosioni di attivismo, vi sono innegabilmente scenari pessimistici in cui le occupazioni si riducono e le dimostrazioni hanno luogo per un po’ di tempo ma riescono a conseguire risultati solo minori, ammesso che ne conseguano, fino a quando il movimento non cede alla patologia.  Questo è ciò che i greci e gli spagnoli stanno cercando di evitare. E’ per questo che stanno avviando nuovi tipi di occupazioni, dirette ai media, agli alloggi, alle università e alla trasformazione dei bilanci e presto, forse, alle assunzioni e ai licenziamenti.  Progetti che sono intesi ha promuovere ed ampliare la partecipazione in modi che portino al coinvolgimento di masse di persone, tutte consapevoli di quel che vogliono e di come possono contribuire ad ottenerlo.

Ci sono, tuttavia, anche scenari ottimistici in cui le occupazioni si diversificano e si trasformano in progetti autogestiti che irradiano campagne per il cambiamento dando anche il benvenuto alla costante partecipazione di innumerevoli protagonisti di tutte le età e orientamenti.  In questo quadro, le marce quotidiane a sostegno di altre campagne in città – come attualmente a New York – con la crescita del numero e della fiducia in sé stessi, fanno sì che edifici vuoti diventino residenze e luoghi d’incontro, che le aziende dei media convenzionali diventino obiettivi di occupazione, e lo stesso riguardo alle università e ad altri luoghi di lavoro di ogni genere.  Contemporaneamente i quartieri locali generano le loro proprie assemblee, di nuovo, come a New York, avviate da residente che si sono fatti le ossa in precedenti e più ampi sforzi a livello cittadino e poi i partecipanti locali, con pazienza e in modo empatico, entrano in ogni casa, in ogni cucina o soggiorno e suscitano aspirazioni e, col tempo, partecipazione.

Percorsi di progresso

Immaginare tutto questo e molto di più, una volta liberata l’ambizione delle persone dalle manette del pessimismo quotidiano, non è stato difficile per le persone con cui ho parlato.  Il percorso ottimistico è uno scenario che implica il piantare nel presente i semi del futuro. E’ uno scenario che dirige l’energia e le intuizioni alla costruzione di alternative, ma anche alla conquista di risultati ora, per i quali, tutti, ci si batte e che vengono realizzati in modi che costruiscono aspirazioni e organizzazione dirette alla conquista di ancora altri risultati in futuro.

Abbiamo bisogno di un senso delle proporzioni e di senso del tempo. Le occupazioni ora in corso coinvolgono ancora una piccola percentuale, in realtà una percentuale minuscola, delle persone che soffrono e che sono arrabbiate.  Per crescere, le occupazioni devono concepire sé stesse  molto esplicitamente in modi che affrontino le necessità immediate, sia mirati a obiettivi di lungo termini realizzabili e validi, e sviluppino forme di partecipazione inducano la gente normale, che sopporta normali condizioni dure, a sentire che dedicare il proprio tempo ha senso perché alla fine potrà portare a un nuovo sistema sociale con risultati di gran lunga migliori delle condizioni attualmente subite. Occupazioni che sono iniziate come reazione a follie economiche devono anche ampliarsi e adottare un’ottica più omnicomprensiva, tenendo conto non solo dell’economia ma anche, e ugualmente, di questioni di razza, genere, età, capacità, ecologia, e guerra e pace.  E’ questo che fa di un movimento un progetto minaccioso in grado di indurre alla capitolazione autorità timorose di renderlo ancor più vasto. E’ questo, anche, che rende un movimento meritevole di vincere.

Ci serve non solo pazienza a fronte di una lotta lunga, ma anche un senso di ottimismo e di desiderio.  Le occupazioni sono un punto di partenza, una vera prova del fuoco di iniziazione, e hanno già un sostegno più vasto di quanto evidenzi la partecipazione diretta ad esse.  C’è una possibilità che si cela dietro questi eventi che è fantastica nelle sue potenziali implicazioni.   Dovremmo tutti avere pazienza e  restare lucidi, e tuttavia dovremmo anche renderci conto che questo può essere un momento molto speciale, in particolare per i giovani, in cui è possibile lasciare un segno indelebile, duraturo e incredibilmente desiderabile nella storia.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.zcommunications.org/occupy-to-self-manage-by-michael-albert

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

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Parecon e la CNT spagnola

30 venerdì Set 2011

Posted by Redazione in Anarchia, Europa, Michael Albert, Parecon

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cnt, spagna

Di  Michael Albert e  CNT spagnola

30 settembre 2011

Questa intervista è stata condotta tramite email in preparazione di un viaggio in Spagna di Michael Albert.  La CNT è la Federazione Anarchica del Lavoro spagnola e Periodico è il giornale della CNT. Le domande provengono da una serie di autori del Periodico.

 1. Storicamente solo pochi autori anarchici hanno analizzato le caratteristiche economiche della società. Dal tuo punto di vista, quali sono i contributi più rilevanti degli anarchici al pensiero economico?

 Il principale contributo economico anarchico, penso, è il desiderio di ridurre al minimo la gerarchia e, al suo posto, estendere la partecipazione informata e l’autogestione.  Questi obiettivi dovrebbero informare ogni riflessione ragionevole sull’economia, o su altri fenomeni sociali.

Una seconda consapevolezza anarchica è stata la sua attenzione al ruolo di fonti di divisione di classe non legate alla proprietà. Bakunin e altri sono stati fondamentali, ritengo, per l’emergere di una comprensione del fatto che una divisione del lavoro che dia a una minoranza un monopolio sul lavoro che conferisce influenza, competenze sociali, iniziativa e fiducia, mentre la maggioranza esegue solo lavori che tolgono potere e che richiedono principalmente obbedienza, riducendo le competenze sociali e la fiducia, fa sì che il primo gruppo, che io chiamo classe coordinatrice, domini il secondo, che io chiamo classe lavoratrice. Comprendere gli interessi di classe come forza motrice dei cambiamenti economici richiede che si evidenzino non solo due classi – capitale e lavoro – bensì tre,  capitale, lavoro e, tra essi, la classe coordinatrice, anche per il motivo, non ultimo, che i coordinatori possono diventare la classe dominante in quello che è stato chiamato socialismo di mercato o a pianificazione centrale, ma che avrebbe dovuto essere chiamato coordinatorismo.

Infine, io credo che il lavoro di Kropotkin sul mutuo aiuto e anche sulle virtù intrinseche del lavoro possa aiutarci a comprendere come i mercati producano antisocialità e cosa serve nella distribuzione per promuovere invece il mutuo aiuto, così come per comprendere l’impatto della divisione contemporanea del lavoro e illuminare quel che serve per avere relazioni economiche eque e ragionevoli incentivi economici.

2. Dal tuo punto di vista, com’è collegata l’analisi del capitalismo che deriva dall’economia applicata con le proposte anarchiche dirette alla creazione di una società nuova? Esistono collegamenti tra l’Economia Politica Radicale, come modo di analizzare il capitalismo e il ruolo dello stato, e l’approccio anarchico all’economia partecipativa come proposta di una società futura? Se esistono, quali sono?

Se l’espressione ‘economia applicata’ si riferisce alla teoria economica convenzionale, come sospetto e presupporrò, penso che ci siano scarsi collegamenti. La teoria convenzionale presta scarsa attenzione alle classi in sé e quasi nessuna attenzione a quella che io chiamo classe coordinatrice e non presta attenzione alle aspirazioni anarchiche, né pressoché a nessun’altra, ad una società nuova.  Invece la teoria economica convenzionale esiste in misura schiacciante per dire cose ragionevolmente intelligenti riguardo ai fenomeni economici, ma solo all’interno del limite paralizzante che quel che viene detto giustifichi l’inevitabilità e la permanenza di strutture quali i mercati, la divisione imprenditoriale del lavoro, la proprietà privata e procedure di assunzione delle decisioni fortemente gerarchiche.  Nessuna di queste ha qualcosa a che vedere con le aspirazioni anarchiche, se non in quanto le nega.

Direi, tuttavia, che ci sono certe intuizioni anche nei reazionari limiti paralizzanti della professione convenzionale, che gli anarchici dovrebbero tenere presenti; ad esempio quelli che incidono su questioni quali l’interconnettività di tutte le scelte economiche e la realtà associata di quelli che sono chiamati costi di opportunità ; vale a dire che quando si è fatto X significa che non sono state fatte varie altre cose che avrebbero potuto essere realizzate con lo stesso lavoro e le stesse risorse, ecc.  Il costo di fare X è non fare Y.  Questa intuizione è un’utile verifica per il pensiero utopico di certi segmenti della sinistra che presuppongono che si possa avere semplicemente gratis tutto quel che si vuole.

Ma, ciò detto, la maggior parte dell’economia è non solo reazionaria, ma anche priva di senso, come, ad esempio, nel caso delle idee ampiamente condivise riguardanti gli incentivi, l’impatto dei mercato, cosa sia l’efficienza, e via di seguito.

Quanto all’economia politica radicale, quella è un’altra faccenda. Sospetto che si differenzi nel mondo, ma nel mio paese, gli Stati Uniti, c’è effettivamente un’Unione degli Economisti Politici Radicali. E’ stata principalmente, anche se non interamente, marxista e ha avuto molte intuizioni valide e importanti, ma è stata anche ostacolata, almeno dal mio punto di vista, dal non aver evidenziato la terza classe citata più sopra.  La maggiore attenzione dedicata dall’economia politica radicale ai temi del potere, dei quotidiani oltraggi di classe, a molti dei mali dei mercati e ad altre questioni è rilevante, tuttavia, per qualsiasi tentativo di realizzare una società e un’economia anarchiche, compresa un’economia partecipativa e una società partecipativa. Osserverei, anche, che la mancanza di attenzione dell’economia radicale all’esistenza di tre classi può ridursi e persino scomparire, sperabilmente portando a un rapporto molto più stretto tra essa e l’anarchismo, compresa, in particolare l’economia partecipativa.

3. Quali politiche economiche e sociali possono perseguire i lavoratori per evitare di soffrire a causa dell’attuale crisi economica?Esistono altre politiche realizzabili, a parte le spese pubbliche, per mitigare la massiccia disoccupazione?

In primo luogo, sarei negligente se non dicessi almeno due parole su questo concetto: crisi.  Cosa costituisce una crisi? Prima della crisi che stiamo attualmente sopportando, decine di milioni di persone sono morte ogni anno di malattie e fame evitabili. Molte di più sono scomparse nell’oblio per difendere le situazioni che hanno generato quelle malattie e quella fame. A miliardi di persone è stato negato un lavoro appagante e sono state fatte impantanare in una subordinazione priva di dignità.  Perché tutto ciò non era una crisi?

Poi è successo qualcosa, alcune bolle sono scoppiate, e improvvisamente c’è stata una crisi. Si potrebbe pensare che sia stato perché quel che era accaduto aveva reso le cose peggiori per la maggior parte della gente. Ma no, non è stata quella la ragione.  La ragione per cui i media hanno proclamato la crisi è stata che quel che era accaduto aveva colpito o minacciato non solo i più poveri e i più deboli, non solo quelli immediatamente al di sopra, i più in basso, bensì quelli al vertice.  Quella che è diventata una crisi è stata una situazione che ha colpito le élite, e in particolare una situazione che avrebbe potuto portare a un grande dissenso che a sua volta avrebbe causato perdite alle élite.

Qual è allora la reazione dell’élite, a parte definire ‘crisi’ la situazione attuale e definire contemporaneamente decine di milioni di cadaveri e miliardi di vite annualmente atrocemente sminuite “normali affari”?  Consiste nel rimuovere o fermare la crisi, ma in modi che fanno sì che, una volta che essa sia terminata, ancora maggior potere e ricchezza affluiscano al vertice e via da quelli che stanno in fondo.

Così, in tale contesto, cosa possono fare i lavoratori? Dire che possiamo dissentire, ribellarci e resiste, è ovviamente vero; ma a qual fine? Dire che possiamo farlo con l’obiettivo di creare una nuova società è, di nuovo, ovviamente vero, ma dato che ciò richiederà tempo, cosa può alleviare la sofferenza adesso? E, di più, cosa può alleviare la sofferenza adesso ma anche far progredire ulteriori conquiste e alla fine una nuova economia e una nuova società?

Alcune idee generali indicano certe politiche realizzabili.  Le idee generali sono: far pagare i ricchi, non i poveri e far sì che i poveri ne escano meglio organizzati e più forti, i ricchi l’opposto, se possibile.

Un tipo di attività valida, allora, è la pratica quotidiana del mutuo aiuto sincero e militante. Ciò può includere il proteggersi delle comunità contro gli sfratti, il proteggersi delle comunità contro le discariche di rifiuti, i movimenti di protezione contro la speculazione sui prezzi, la lotta dei sindacati contro i licenziamenti e i tagli alle paghe, ecc.

Un secondo tipo di attività valida consiste nel pretendere cambiamenti quali l’aumento delle paghe minime, un tetto ai redditi della fascia altissima, tasse altamente progressive che ridistribuiscano la ricchezza e una riallocazione della spesa nazionale da scopi distruttivi od orientati al controllo, a scopi che soddisfino i reali bisogni delle comunità dei lavoratori.

Ma consideriamo la disoccupazione, poiché essa è al centro della crisi attuale.  C’è nulla che i lavoratori possano cercar di fare per alleviare la massiccia disoccupazione, spesa pubblica a parte? Sì, certo che c’è.

Consideriamo un luogo di lavoro con un migliaio di dipendenti. Si supponga che si stiano per licenziare 250 lavoratori, ovvero il 25% che è, penso, una tipica percentuale attuale per molti luoghi in Spagna e negli Stati Uniti centro-occidentali.  Si supponga anche che la ridotta domanda dei prodotti della fabbrica sia la vera ragione dell’imminente decisione di licenziare i 250 lavoratori.

Cosa si deve fare? Bene, se si vuol gestire la situazione mantenendo o aumentando i profitti al momento e nel tempo, si dovrebbero licenziare i 250. Ciò indebolirà tutti i lavoratori accrescendo la disoccupazione e la paura e conserverà almeno la percentuale di profitto, probabilmente conducendo anche a paghe ridotte, e successivamente, quando l’occupazione risale, a un ridotto onere salariale.  Così in questo modo i proprietari affrontano la situazione difficile della ridotta domanda in modi adatti ai propri interessi.  Ma che dire nel caso in cui noi vogliamo garantire che le nostre scelte evitino che la situazione peggiori, o addirittura vogliamo migliorarla?

La risposta è evidente. Invece di licenziare 250 persone si mantengano tutti i dipendenti.  A causa delle ridotte necessità di produzione si riduca la durata della settimana lavorativa del 25%. Tutti hanno ancora un lavoro, ma lavorano meno ore. Ma non fermiamoci qui. La responsabilità della distruzione dell’economia è dei ricchi.  E, cosa più rilevante, essi hanno da molto tempo ricavato un reddito infinitamente superiore a quello che meritano e perciò, OK, manteniamo i salari dei lavoratori al livello in cui erano.  Così, se prima lavoravano quaranta ora e guadagnavano X, ora io lavoro 30 ore ma continuo a portare a casa la mia paga X. La mia paga oraria è aumentata. La riduzione delle ore che lavoro è un vantaggio, non un disastro.

Chi subisce le perdite di entrate senza una riduzione dei salari pagati? I proprietari.  Essi effettivamente ci rimettono in misura importante rispetto al passato.  Si noti che i lavoratori guadagnano non soltanto un aumento delle paghe orarie ma guadagnano anche in tempo libero, che non è un vantaggio da poco, poiché libera tempo per organizzarsi e conseguire ancora altre conquiste.

Noi perciò affrontiamo la disoccupazione in un modo che avvantaggia i lavoratori, non solo di una fabbrica, ma nell’intera economia, a spese dei proprietari e apre la via anche a ulteriori vantaggi. Ma cosa accade se i proprietari non possono letteralmente permettersi di subire il colpo enorme costituito dal pagare salari a un livello molto aumentato?

Beh, anche alcuni che non sono i proprietari attualmente guadagnano più della loro quota. Mi riferisco ai coordinatori, compresi gli avvocati, i medici, i manager, i dirigenti finanziari di alto livello e via di seguito. Perciò affiniamo ulteriormente la nostra richiesta.  Tutti quelli che guadagnano annualmente meno di un certo importo – diciamo meno di 80.000 dollari –  continuano a guadagnare lo stesso totale di prima lavorando il 25% di ore in meno.  Quelli che guadagnavano dell’importo limite subiscono effettivamente un taglio del 25% per il fatto che lavorano il 25% di ore in meno.  Così non sono solo i proprietari a pagare per la crisi economica; lo stesso accade a quella che chiamo la classe coordinatrice, portando, di nuovo a un’equità e giustizia maggiori.

Se, per inciso, questo approccio fosse attuato in tutto il paese, si potrebbe ovviamente scommettere con enorme sicurezza che i governi scoprirebbero molto rapidamente la stupidità delle politiche di decapitazione dei bilanci e la saggezza di nuove tasse e nuove spese sociali e di riduzione degli sprechi di bilancio per rimettere in sesto l’economia a costi minori per le élite.

4. Da una prospettiva anarchica, quali proposte ritieni necessario perseguire per affrontare l’attuale crisi economica?

La richiesta di evitare i licenziamenti, di ridurre la settimana lavorativa e di politiche di ridistribuzione del reddito, è un buon esempio, penso.  E’ valida qualsiasi proposta che imponga un onere maggiore a quelli che dispongono di una ricchezza e di un reddito più elevati e che crei nuove condizioni sociali che aumentino l’organizzazioni, la consapevolezza e le opzioni dei lavoratori in modo che abbiano la probabilità di continuare a perseguire conquiste ancora maggiori.  Ciò includerebbe anche tali ai bilanci militari e l’utilizzo dei risparmi per ricostruire le infrastrutture, creare scuole, abitazioni, assistenza sanitaria migliori, ecc.

5. Quali opportunità, se ce ne sono, pensi crei l’attuale situazione per costruire un’economia anarchica?

La crisi, di per sé, non spinge verso l’anarchismo o verso qualsiasi soluzione progressista. Quando le cose peggiorano allora la regola familiare, in realtà un vero desiderio naturale, è di voler tornare alle condizioni del passato, non di realizzare condizioni rivoluzionarie e ancor meno obiettivi anarchici.

Peggio, i ricchi e potenti vogliono non solo ritornare alla situazione pre-crisi, ma venirne fuori ancor meglio di prima.  I poveri e deboli dovrebbero anch’essi voler sfuggire a nuove sofferenze, ma ottenendo nuovi rapporti in cui star meglio di prima e anche in una posizione migliore per continuare a progredire.

Perciò il problema del rapporto tra i “normali affari” (che significa crisi perpetua) o la distruzione caotica (che è la crisi attuale) con la costruzione di un’economia anarchica non è scritto in qualche legge della società o della natura, ma risiede invece nel carattere della reazione organizzata.  In una situazione di crisi noi aumentiamo efficacemente i nostri numeri, estendiamo la nostra consapevolezza e ampliamo i nostri mezzi di sviluppo e di espressione dei nostri desideri anche nel trasferire i costi ai ricchi e ai potenti? In caso affermativo, bene. In caso negativo la crisi può allora condannare al disastro non solo per il momento, ma per un lungo periodo.

6. Quali compiti specifici consideri essenziali affinché i lavoratori possano autogestire un’economia? Consideri l’anarco-sindacalismo uno strumento utile per mettere i lavoratori in grado di autogestire i mezzi di produzione? Com’è possibile collegare il lavoro rivoluzionario dei sindacalisti con la costruzione di alternative economiche?

Penso che l’autogestione richieda una sede in cui lavoratori e consumatori possano sviluppare le loro preferenze e decidere i risultati dell’economia in un modo autogestito.  E’ per questo che penso che dobbiamo creare e gestire consigli di autogestione dei lavoratori e dei consumatori.

Penso anche che in tali consigli, a meno che lavoratori e consumatori sia tutti analogamente fiduciosi e pronti a partecipare, almeno in media, alle discussioni e alle decisioni che li riguardano, i pochi domineranno i molti.  I lavoratori e i consumatori devono essere preparati allo stesso livello, avere, dalla propria storia e dalla propria condizione, un livello di potere simile, per partecipare. Secondo me, ciò significa che dobbiamo ottenere e gestire una nuova divisione del lavoro medianti quelle che chiamo combinazioni equilibrate di compiti [balanced job complexes].

Penso anche che, se si vuole una vera autogestione per tutti,   non si possano avere grandi disparità di reddito e di ricchezza che possano essere sfruttate come differenze di potere. Ciò significa che dobbiamo ottenere e gestire remunerazioni eque, ovvero un reddito commisurato alla durata, intensità e onerosità del lavoro socialmente utile.

Infine, i mercati e la pianificazione centrale generano entrambi differenze di classe imponendo una classe coordinatrice, di nuovo, sopra i lavoratori.  Così queste modalità di allocazione devono essere respinte e al loro posto io e l’economia partecipativa favoriamo l’ottenimento e la gestione di quella che chiamo pianificazione partecipativa, o negoziazione cooperativa, da parte dei consigli  dei lavoratori e dei consumatori, delle risorse e dei prodotti.

Se l’anarcosindacalismo si riferisce all’anarchismo con un’enfasi sull’auto-organizzazione e autogestione da parte dei lavoratori, compreso l’ottenere un’economia priva di classi e una politica democratica partecipativa, allora ovviamente, sotto tali aspetti, è parte integrante dell’economia partecipativa e della società partecipativa. Se considera la società solo come un’appendice delle idee e delle azioni dei lavoratori – e non persegue anche assemblee politiche di quartiere e consigli dei consumatori – quella sarebbe una differenza reale, ancora da affrontare. Analogamente, se per alcuni esso preclude un’attenzione  ai problemi di genere, sessualità, razza e cultura corrispondente a quella riservata alla classe, allora anche questa sarebbe una differenza, almeno nella portata della focalizzazione.

L’ultima parte della tua domanda è incredibilmente importante. Abbiamo bisogno di creare alternative per imparare da esse, per offrire fiducia, per orientare i nostri sforzi in modo più ampio, ecc.  Abbiamo anche bisogno di batterci all’interno delle strutture esistenti nei sindacati, nei quartieri, ecc., per conseguire conquiste, per restare collegati, per sviluppare il mutuo aiuto, per ampliare il sostegno, ecc.  Ciascuno dei due approcci senza l’altro è carente, il primo potenzialmente scollegato e distante, il secondo potenzialmente riformista; perciò eliminare le antipatie reciproche è fondamentale.  Quanto a come farlo, non penso ci sia alcuna risposta generale o singola. Sospetto che le risposte dipendano interamente dai tipi di situazione che incontriamo e sviluppiamo.

7. Puoi dirci qualche parola sulle origini del modello dell’Economia Partecipativa e sui fondamenti teorici e pratici che ispirano il modello?

Il modello che a Robin Hahnel e a me è capitato di stilare si può sostenere abbia origine solo dalle cose che ci hanno colpito.  Quello è il modo in molti rispondono quando viene loro chiesto “beh, qual è l’origine di quel che hai detto o fatto.” Ma penso che sarebbe sbagliato. Le vere origini della visione dell’economia partecipativa, o parecon, sono nel retaggio della ricerca dell’assenza di classi, e a volte io le faccio risalire al primo sciopero registrato in Egitto, ai tempi dei faraoni. Comunque, la parecon è certamente fortemente influenzata dall’emergere del pensiero socialista, o poi dal pensiero anarchico e dei consigli.

Abbiamo appreso lezioni, ad esempio, non solo dal marxismo e poi dalla critica di vari aspetti del marxismo, ma anche da Bakunin, Kropotkin e poi da Anton Pannekoek, ad esempio. Ma le influenze prossime sono state, penso, principalmente la filosofia e la pratica della Nuova Sinistra degli anni sessanta di cui Robin ed io abbiamo fatto parte e Noam Chomsky cui sono stato particolarmente vicino e dal quale o imparato molto.

Penso che i fondamenti principali siano stati un rifiuto di una concezione ristretta dell’economia, decidendo invece di prestare attenzione non solo alle  risorse e ai prodotti  materiali dell’attività economica, ma anche a quelli personali, sociali ed ecologici; una visione della classe che ha incluso l’attenzione alla proprietà ma ha aggiunto l’attenzione alla divisione del lavoro e ha evidenziato, anche, questioni di consapevolezza ed abitudini; un rifiuto generale sia dei mercati sia della pianificazione centrale per l’allocazione; e un impegno attento ed esaustivamente formulato alla solidarietà e, in particolare, all’autogestione, ovvero al fatto che le persone abbiano voce in capitolo nelle decisioni in proporzione a quanto ne sono toccate.

Penso che il fondamento pratico della parecon sia stata una revisione estesa della storia delle esperienze autonominatesi socialiste in Russia, Cina, Jugoslavia e Cuba e dei relativi tentativi, compresi i movimenti anarchici qui in Spagna, così come delle lezioni derivanti dalle nostre esperienze personali sia nella Nuova Sinistra  e, nel mio caso, sia nel progetto editoriale autogestito chiamato South End Press.

8. Negli anni prima della guerra civile spagnola sono state discusse diverse proposte anarchiche su come organizzare una società, compresa la sua sfera economica. Ciò era chiamato comunismo libertario. L’economia partecipativa è una proposta comunista libertaria?

I modelli di tale periodo, al meglio di quanto sono stato capace di capire, avevano valori splendidi ma erano ancora parecchio legati ai mercati per l’allocazione ed erano solo implicitamente, non esplicitamente, chiari riguardo alla divisione del lavoro e alle regole di remunerazione.  Perciò se stai chiedendo se parecon è la stessa cosa che quei modelli, allora no, parecon non è la stessa cosa. Ma se stai chiedendo se parecon, tutti questi decenni dopo, sta cercando di incorporare lezioni vecchie e nuove in accordo con le aspirazioni di quei modelli, allora io penso che la risposta sia sì, in gran parte.

In realtà, anche se non possiamo saperlo, la base e la maggior parte dei protagonisti più ideologicamente organizzati di quei giorni sarebbero largamente o interamente favorevoli alle caratteristiche definitorie dell’economia partecipativa, compresi i consigli autogestiti dei lavoratori e dei consumatori come sedi di autogestione; la remunerazione per la durata, l’intensità e l’onerosità del lavoro socialmente riconosciuto come realizzazione dell’equità; le combinazioni equilibrate di compiti come veicolo di partecipazione informata e per eliminare le divisioni di classe tra lavoratori e coordinatori e la pianificazione partecipativa, o negoziazione cooperativa di risorse e produzioni da parte di assemblee di lavoratori e consumatori per sostituire la pianificazione centrale e i mercati.  Questo insieme di quattro obiettivi istituzionali è, credo, un elenco minimalista di caratteristiche istituzionali che possono, e probabilmente lo faranno, variare nella loro forma specifica al di là delle loro principali caratteristiche definitorie, in molte industrie, paesi, ecc. e possono, e vogliono, realizzare lo scopo massimalista di un’economia priva di classi, autogestita, solidale ed equa del tipo che tutti gli attivisti sinceramente anticapitalisti e a favore dell’assenza di classi hanno sempre voluto.

9. Quali strategie di transizione favorisce l’economia partecipativa? Quali agenti sociali dovrebbero promuoverle?

Penso che la strategia sia eminentemente contestuale, col che intendo dire che dipende dal luogo e dal tempo e in realtà da tutti le circostanze. Ci sono, comunque, almeno alcune raccomandazioni generali che penso siano virtualmente generali.

Nel perseguire un’economia priva di classi, parecon, facciamolo solo come parte della ricerca di una società partecipativa e perciò insieme con il perseguimento, con priorità uguale, di obiettivi femministi, antirazzisti (che io chiamo intercomunitari) e antiautoritari o anarchici.  Incorporiamo i semi del futuro nel presente. Perseguiamo riforme valide, ma non in modo riformista, che puntino a un cambiamento complessivo e che organizzativamente, concettualmente ed emotivamente si muovano verso di esso.

Sviluppiamo un’organizzazione che utilizzi l’autogestione, che protegga e addirittura apprezzi il dissenso e persegua la diversità nel pensiero e negli atti, che serva ai membri rendendo le loro vite più piacevoli e appaganti sulla via del cambiamento in modo che il movimento cresca, anziché perda continuamente sostegno. Creiamo consigli o assemblee di quartiere e dei luoghi di lavoro e federiamoli in regioni e industrie.

Gestiamo la ricchezza e le situazioni come si farebbe in parecon, equamente e attraverso combinazioni equilibrate di compiti.  Dedichiamoci ad altre questioni di classe e creiamo un movimento che celebri e manifesti la cultura e le preferenze dei lavoratori, non dei coordinatori. Decidiamo la forma della politica partecipativa, se volete, e gestiamo le dispute, le leggi, ecc., coerentemente con quell’insieme di obiettivi. Facciamo lo stesso con la visione culturale e dei rapporti di parentela.  Si potrebbe continuare ma peso che la vera prova stia nelle condizioni speciali che incontreremo e nel modo in cui le affronteremo, imparando  mentre procediamo.

Quanto agli aspetti sociali, un’ipotesi sarebbe che i ruoli guida nelle lotte vadano a quelli al fondo delle gerarchie sociali e dunque ai lavoratori e ai poveri, alle donne, agli omosessuali, a quelli che sono culturalmente repressi e oppressi, a quelli che prendono ordini, ecc. Ma alla fin fine la consapevolezza ancor maggiore è che quelli che sono impegnati negli obiettivi del movimento, che hanno chiarezza del proprio ruolo, e lavorano efficacemente per il successo, sono quelli che daranno il contributo maggiore.

10. E’ realizzabile un modello di sviluppo locale e regionale che comprenda sindacati anarchici all’interno di imprese capitaliste come organizzazioni che raccolgano la maggioranza dei lavoratori, cooperative di lavoro e di consumo, banche del tempo, e scambi di lavoro per i disoccupati, collegati a sindacati anarchici, con l’obiettivo di creare sistemi di intervento autogestiti nei mercati locali del lavoro? Come potrebbe essere collegata questa prassi all’idea dell’economia partecipativa in direzione dell’abolizione del capitalismo e dello stato?

Non solo penso sia realizzabile, penso sia altamente desiderabile e addirittura abbia un’importanza centrale . Per avere successo i movimenti per il cambiamento devono costantemente e incessantemente crescere di dimensione, e anche i membri devono diventare costantemente più impegnati e più capaci di partecipare efficacemente, conoscendo i propri obiettivi, la strategia ecc. Molti tipi di attività  possono aiutare in un simile scenario ma due tipi generali sono immediatamente ovvi.

In primo luogo avviamo attività che essenzialmente riguardano la costruzione di istituzioni coerenti con i nostri obiettivi, ma che operino adesso, nel presente.  Questo è costruire in parte le strutture del nostro movimento, ma può anche, e dovrebbe, essere costruire le nostre proprie comunità e luoghi di lavori autogestiti, federati insieme ecc.  In secondo luogo, abbiamo attività che cercano di ottenere miglioramenti nelle vite delle persone nelle loro istituzioni e quartieri attuali. Questo è lavorare per conseguire cambiamenti – che, per definizione, sono riforme – ma sperabilmente facendolo in modi non riformisti che mirino a insiemi sempre crescenti di vittorie e a preparare i mezzi e ad avere il denaro per campagne sempre più vaste fino a quando, alla fine, non soltanto aboliremo il capitalismo e lo stato ma sostituiremo il capitalismo e le attuali strutture politiche con un’economia partecipativa e una nuova politica partecipativa di nostra scelta.

Le possibilità citate nella domanda includono una combinazione del primo e secondo tipo di attività e nel farlo puntano alla priorità essenziale che non solo dovrebbero essere perseguiti centralmente i due tipi, ma che dovrebbero essere , per quanto possibile, intrecciati.

La creazione di alternative immediate senza lotta all’interno delle istituzioni esistenti corre il grave rischio di essere scollegata, marginale e persino insensibile nei confronti della maggior parte dei cittadini.  Ma le lotte per i miglioramenti nei quartieri e nei luoghi di lavoro delle persone, e in politiche economiche nazionali, che non siano collegate al perseguimento di nuove organizzazioni visionarie, corrono il rischio di perdere di vista gli obiettivi a lungo termine e di diventare meramente riformiste. Comunque, si colleghino le due, ed entrambe saranno enormemente rafforzate e potenziate. Come facciamo questo, di nuovo, è una questione da considerare caso per caso, ma principalmente io penso che la risposta risieda nel considerare ciascuna come un aspetto dell’altra, comprendendo entrambe nel discorso indipendente da su quale delle due siamo concentrati, e mettendo le nostre energie e le nostre capacità di mutuo aiuto al servizio degli altri, ogni volta che farlo sarà d’aiuto.

11. All’interno delle strategie di transizione a una società anarchica, come pensi che possiamo affrontare i problemi collegati alla divisione del lavoro, cioè a quelle che riguardano il ruolo strategico dei tecnici e dei legali (avvocati, medici, lavoratori altamente specializzati, ecc.) così come degli economisti che sono forti difensori del capitalismo?  Come possiamo convincere i nostri amici economisti e perseguire il cambiamento sociale? Quale sarebbe il ruolo di un economista nella parecon?

La prima parte della domanda solleva, di nuovo, il problema del ruolo della classe coordinatrice, e il problema è di come di rapportarsi con essa, e alle strutture che genera, nelle battaglie attuali.  Penso che questa domanda sia fondamentale.  Penso che la risposta sia che dobbiamo sempre essere onesti riguardo alla realtà dell’esistenza  di questa differenza di classe, dobbiamo sviluppare la coscienza e la pratica della classe lavoratrice piuttosto che fare appello alla coscienza e alla pratica della classe coordinatrice; dobbiamo sezionare e contrastare gli assiomi e le abitudini della classe coordinatrice ogni volta che sono élitari e arroganti; dobbiamo incorporare nelle nostre istituzioni combinazioni equilibrate di compiti e dobbiamo combattere per cambiamenti nelle istituzioni convenzionali che facciano avanzare tale nuova divisione del lavoro.  Quando dico che questo è fondamentale è perché nella mia visione il leninismo, nonostante le aspirazioni della maggior parte dei leninisti della base che innegabilmente vogliono l’assenza di classi, è di fatto il programma della classe coordinatrice, non della classe lavoratrice.  Quel che serve non è il paternalismo nei confronti dei lavoratori, non la beneficenza nei confronti dei lavoratori, ma l’autogestione da parte dei lavoratori, e ciò significa la dissoluzione finale della classe coordinatrice mediante la distribuzione di tali attività tra tutti  i lavoratori, piuttosto che tra pochi.

Come fare tutto questo è una grande domanda. Ma le tesi che affermano, ad esempio, che i migliori oratori dovrebbero tenere tutti i discorsi, che i migliori decisori dovrebbero prendere tutte le decisioni, i migliori scrittori scrivere ogni cosa, sono orribilmente sbagliate, e che lo siano inavvertitamente o intenzionalmente, servono agli interessi dei coordinatori.  Sono sbagliate sotto due aspetti.  Primo, quelli che sono i migliori in qualcosa oggi – principalmente grazie a vantaggi nell’addestramento e nella conoscenza – possono non esserlo domani, con l’addestramento e la conoscenza diffusi in modo più vasto. Secondo, quelli che pensano di essere migliori, solitamente non lo sono.  Possono avere maggiore sicurezza, avere vocabolari più fluidi, ma spessissimo ciò si accompagna al bagaglio di presupposti coordinatoristi che limitano tremendamente i vantaggi.  E, secondo, l’unico criterio di validità non è essere migliori in qualcosa; c’è anche la questione dell’equità, della partecipazione, dell’eliminare le gerarchie ingiuste, e queste non sono questioni di poco conto.

Quanto al convincere gli economisti a cambiare opinione, immagino che sia come sostenere idee e valori diversi con qualcuno che ha un forti interessi acquisiti che ostacolano la chiarezza del suo pensiero.  Si deve cercare di superare tale ostacolo, con esempi e prove che diano una scossa alla comprensione e facciano appello a virtù più elevate.  Non facile, specialmente con i tipi di classe coordinatrice che sono stati imbevuti – cosa che l’istruzione è progettata per fare – di idee sulla propria superiorità.  Quanto agli economisti in un’economia partecipativa operativa, nessuno me l’ha chiesto e non ci ho mai pensato. Non sono sicuro. L’effettivo lavoro tecnico che c’è – come il lavoro tecnico che c’è in un ospedale o nella cabina di un aereo, o in uno studio di progettazione – è fatto da persone con combinazioni equilibrate di compiti e con l’addestramento relativo. C’è addirittura qualcosa di simile a un economista in un’economia partecipativa? Immagino di sì, ma davvero non sono assolutamente sicuro di quel che farebbe, o studierebbe, e a qual fine.  A meno che non si trattasse, forse, di scoprire uno stadio ancor più elevato di organizzazione umana della vita economica, oltre parecon e l’assenza di classi.  Penso che il lavoro degli uffici di agevolazione e simili, non dipenda in realtà da quella che probabilmente considereremmo una teoria economica.

Comunque convengo che questa e altre domande correlate sono, o dovrebbero essere, al centro delle differenze tra gli anarchici e i leninisti.  Sono, o dovrebbero essere, al centro della critica dell’economia socialista del ventesimo secolo. E sono, o dovrebbero essere, al centro del pensiero riguardante le strategie per il cambiamento, come tu implicitamente indichi.

12. Quali sono alcune delle strategie che potrebbero aiutarci a reindirizzare lo sviluppo tecnologico incontrollato, che promuove la gerarchizzazione e la stratificazione della società, verso le prassi autogestite che parecon postula?

Devo dire che non penso che lo sviluppo tecnologico sia incontrollato. E, dalla tua domanda, penso che tu sia d’accordo.  Quando ero all’università, ad esempio, in un’istituzione tecnica, mi sono reso conto che  anche se era considerato una bella cosa che i tizi pensassero a come ottenere delle bombe che potessero rintracciare il loro bersaglio (la cosa è stata realizzata per la prima volta intorno al 1970 ed è stata utilizzata, in forma rudimentale, contro le dighe in Vietnam) e che ci fosse una quantità di fondi per perseguire tale “compito tecnico”, non era bello ideare come abbattere un bombardiere B-52 con un’arma manuale.  Non c’erano fondi per questo “compito tecnico”. I compiti erano entrambi ugualmente interessanti e  difficili. La differenza stava nel fatto che il primo compito era negli interessi del potere dell’élite.  Il secondo era contrario a tali interessi.  E perciò era chiaro in modo evidente che la curiosità tecnologica e gli sforzi degli ingegneri e degli scienziati erano  canalizzati . controllati – almeno nelle loro applicazioni, dalle istituzioni d’élite del contesto.  Lo stesso vale più in generale.  Non c’è sostegno per lo studio tecnico di come organizzare i luoghi di lavoro e creare strumenti di lavoro che consentano ai lavoratori di finire per avere maggior potere e di essere in maggiore contatto gli uni con gli altri utilizzandoli.  C’è un mucchio di sostegno per fare il contrario: avere strumenti e luoghi di lavoro che frammentino e, così facendo, indeboliscano i lavoratori.  Di nuovo, quello per cui le tecnologie sono addirittura concepite è controllato.  Potremmo continuare, ma una volta che il problema è messo in questi termini, il punto è evidente anche ai ciechi.  Costruire obsolescenza, perfetto.  Manipolazione mediatica, perfetto. Bombe più grandi ed efficaci, perfetto.  Alimenti economici di lunga durata, non tanto perfetto.  Sincerità dei media, scordatevelo. Strumenti migliori per l’autodifesa collettiva dei deboli e dei poveri, stiamo scherzando?

OK, detto questo, abbiamo una tecnologia che promuove la gerarchia esattamente perché la ricerca e le realizzazioni tecnologiche avvengono nell’ambito del capitale e dello stato. Dunque il percorso migliore per ottenere una tecnologia migliore è uguale al percorso reale per rendere migliore qualsiasi cosa. In primo luogo dobbiamo costruire movimenti che siano capaci di ottenere miglioramenti.  Ciò significa che devono essere in grado di raccogliere un numero di persone sufficiente, e sufficiente impegno, per forzare i risultati che chiediamo.  E ciò significa che devono opporre alle élite una situazione in cui non arrendersi alle nostre richieste è anche peggio – a motivo di quanto più ciò ci provocherà – che non arrendersi.  E’ così che si vincono le battaglie.  In secondo luogo piantando  i semi del futuro nel presente, inclusa la costruzione delle nostre proprie istituzioni, possiamo cercare di introdurre nuove tecnologie nostre. In alcuni campi ciò ci è precluso, almeno per ora, dai costi.  Ma in altri, riguardanti temi di organizzazione e strumenti semplici, è, sospetto, già parecchio possibile, se rendiamo ciò uno dei nostri scopi.

Ad esempio, anche se so che molti a sinistra non solo utilizzano ma anche celebrano Twitter e Facebook, – e la tecnologia delle reti sociali che questi due sistemi elaborano – di fatto queste società e le loro tecnologie sono notevoli esempi attuali di ciò su cui si concentra la tua domanda. Prendono una possibilità sociale che ha un enorme potenziale positivo – comunicazioni e reti a prezzo molto basso a due vie e multidirezionali –  e la pervertono in modo orribile. Ciò è ovviamente prevedibile.  Ci sono imprese immense con strutture societarie, coscienza imprenditoriale e priorità societarie, e dunque che altro ci si potrebbe attendere? Ed è una questione non solo di violazione della privacy e di intensi ampliamenti della commercializzazione, ma anche di una inclinazione sottile e in realtà piuttosto perversa  nei confronti di ogni tipo di mentalità compulsiva e molto competitiva nella comunicazione che riduce il contenuto a idiozie, compromette la durata dell’attenzione, prostituisce l’idea di amicizia ecc.   C’è molto da dire, e con possibili approfondimenti di tutte queste risposte. Ma il punto qui è che questo è un caso insolito in cui anche se queste società hanno a disposizione risorse gigantesche e spendono somme di denaro inimmaginabili nelle infrastrutture e nelle ricerche tecniche, tuttavia è ben possibile che persone e anarchici bene intenzionati, se smettessimo di essere schiavi di Facebook e di Twitter, potrebbero generare strumenti di reti sociali che invertano le tendenze negative che queste imprese impongono e offrono. Potrebbe, invece, essere creata una tecnologia più coerente con il perseguimento della Parecon e, più in generale, con una comunicazione più sana e piena di contenuto. In effetti noi, a Z Communications, lavoriamo con impegno a questo compito.

13. In un’economia in cui i mezzi di produzione abbiano uno status di proprietà sociale, quanto sono responsabili i lavoratori che amministrano l’attività autogestita dei successi e dei fallimenti della propria società? Dovrebbero applicarsi incentivi penalizzanti o positivi in base ai risultati dei lavoratori, nel caso in cui il processo produttivo non sia stato influenzato da fattori esterni?

La domanda è incentrata sulla necessità di avere un’economia che non sprechi le risorse, l’energia e gli sforzi umani in attività disfunzionali, o producendo cose di cui non vi è necessità o producendo a un livello di qualità basso cose che potrebbero essere fatte molto meglio. Un’economia deve tirar fuori l’eccellenza, non nel conseguire profitti bensì nel soddisfare i bisogni e nello sviluppare i potenziali.

Un approccio consiste nel premiare la buona produzione e nel punire quella cattiva. Ma la parecon afferma che le persone sono remunerate per la durata, l’intensità e l’onerosità del lavoro socialmente valido.  E ciò non implica premi o punizioni per sé, ma in relazione all’equa e giusta allocazione. E allora cosa si fa?

Bene, nel capitalismo o nel socialismo del ventesimo secolo, se chiudiamo una fabbrica, ciò colpisce chi vi lavora con la disoccupazione.  All’altro estremo delle possibilità, se permettiamo le fabbriche accumulino i surplus che possono conseguire mediante grandi vendite e bassi costi, si premia un certo tipo di successo che, comunque, non è un successo nel soddisfare i bisogni e nello sviluppare i potenziali, bensì nel generare profitti.

Parecon è diversa. In primo luogo il lavoro deve essere socialmente utile per essere remunerato.  Non posso essere il portiere di una squadra di calcio spagnola,  perché il mio lavoro sarebbe inutile; in realtà peggio, che inutile. E perciò non meriterebbe un reddito.  A tale riguardo vi è una forte correlazione tra luoghi di lavoro che funzionano bene – il che significa che applicano le proprie risorse ed energie e realmente producono risultati desiderati – e la remunerazione dei loro lavoratori.  Ma, tornando all’esempio del calcio, se io fossi un grande portiere, potrei avere quel lavoro. Ma non avrei un reddito enorme per il fatto di essere così bravo; riceverei solo la remunerazione per la durata, la durezza e l’onerosità delle condizioni del mio lavoro, e avrei una combinazione equilibrata di compiti.  Perciò c’è una pressione per soddisfare bisogni, ma non premi eccessivi per farlo.

Ma cosa succede se la mia squadra fa schifo, o se la mia fabbrica produce cose che la gente non vuole più o produce qualcosa che è desiderato, ma in un modo inefficace che spreca energie e lavoro, ecc.  Chiaramente deve esserci un cambiamento. Forse delle innovazioni possono correggere la situazione. Forse la fabbrica, o anche la squadra, devono cambiare prodotto.  O forse l’intera cosa deve essere chiusa e le persone devono lavorare a nuovi scopi.  Ciò che previene questi passi in alcuni sistemi, o li rende difficili, è che essi colpiscono le persone e non si vogliono colpire le persone, e le persone, dal canto loro, non voglio essere colpite.  Ma in un’economia partecipativa se quel  che voglio produrre non è più considerato utile, in realtà il mio continuare a produrlo danneggia la società – sprecando capacità produttiva – e non ha alcun utile neanche per me.  Meglio che io passi a produrre qualcosa di desiderato; il mio reddito non diminuisce nella transizione.  C’è sempre piena occupazione per quelli che vogliono lavorare, poiché ciò è nell’interesse di tutti considerate le istituzioni della parecon che rendono il benessere di ciascuno dipendente da quello di tutti gli altri.

14. L’autogestione e la proprietà sociale dei mezzi di produzione hanno un problema intrinseco: il conflitto tra la libertà individuale e il benessere del collettivo. Un buon esempio può essere il caso in cui un’impresa che ha operato bene sia costretta, contro la volontà dell’assemblea dell’azienda, a impiegare lavoratori finiti disoccupati, riducendo il benessere dei lavoratori che originariamente vi lavoravano.  Il principio dell’autogestione potrebbe essere compromesso per perseguire il principio della solidarietà.  Pensi che le assemblee siano l’istituzione migliore per gestire tali problemi? O dovrebbero essere create nuove istituzioni per gestirli?

Ci sono tempi in cui le difficoltà di alcuni, se devono essere affrontate, esigono che il benessere di altri diminuisca un poco.  Ma penso che il caso che tu proponi non sia un buon esempio di questo. Così, un luogo di lavoro che sia socialmente utile con N ore di lavoro non sarà richiesto di aumentare le N ore assumendo nuovi lavoratori.  Non avrebbe senso. N ore sono quelle che servono.  Più ore non sarebbero socialmente utili, e perciò non garantirebbero un reddito.  Ora, come in una risposta precedente, se per qualche motivo c’è un 10% di disoccupazione nella società, allora sì, tutti i luoghi di lavoro assumerebbero un ulteriore 10% di dipendenti, ma tutti lavorerebbero meno ore cosicché il lavoro totale di tutti i lavoratori resterebbe grosso modo immutato, a meno che la popolazione non scelga di perseguire una produzione maggiore.  Ciò distribuisce il prodotto sociale totale sotto forma di reddito tra tutta la popolazione, piuttosto che tra il 90% della popolazione, perciò, in quel senso, la domanda è corretta.  Penso che i mezzi per gestire ciò sono le norme della vita sociale, principalmente … e allora sì, le istituzioni della società, le procedure di pianificazione, le assemblee, ecc.

Ma se parliamo qualcosa di più locale, allora la situazione è diversa. Non ha senso avere un numero maggiore di persone che lavori per più ore, per ottenere la stessa produzione.  Ha senso, se alcuni sono disoccupati a causa di una domanda in diminuzione per quello che producevano, far sì che, ad esempio, passino a produrre qualcosa di diverso, ma le altre cose che producono dovrebbero essere cose che la gente vuole. Perciò, dovunque lavorino, il loro entrare a far parte dell’azienda non porta a minori redditi per quelli che vi lavorano, né ha altre conseguenze dannose; si traduce semplicemente in maggior produzione di un genere desiderato.

15. Collegato al lavoro dei “comitati di agevolazione delle iterazioni” nel distribuire le risorse in un’economia partecipativa, quali strumenti economici e matematici sarebbero utili? La programmazione lineare e la teoria dei giochi potrebbero essere strumenti utili?

La tua prima domanda rivela uno degli scopi di questi “comitati”, insieme con la raccolta, l’organizzazione e la diffusione delle informazioni rilevanti a ciascun protagonista  con la valutazione delle sue aspettative, ecc.  Certamente l’analisi input/output e la programmazione lineare sono rilevanti nell’individuare le implicazioni e i dati delle preferenze dei piani in elaborazione, sì. La teoria dei giochi è un po’ meno ovvia, ma sì, in un certo senso, forse. Vedremo. L’analisi statistica, comunque, sarebbe certamente molto rilevante. Le proiezioni su come i desideri di certi tipi prevalenti di produzioni – diciamo le camicie – si suddividono tipologicamente, ad esempio, sarebbero importanti. E lo stesso vale per probabili andamenti del tempo, o questioni riguardanti le nascite e le morti, e specialmente le punte di qualsiasi fenomeno simile , o del clima, diciamo, o della salute, in quanto abbiano influenza sulle questioni di pianificazione. E così via.

16.  Nell’economia socialista jugoslava lo stato, così come molte banche regionali, forniva enormi quantità di credito in modo che le grandi industrie nazionali che impiegavano molti lavoratori potessero restare operative e non crescesse la disoccupazione, creando grandi buchi neri che hanno assorbito una parte notevole della ricchezza del paese.  Pensi che in una società partecipativa le imprese inefficienti dovrebbero essere mantenute in modo da non distruggere posti di lavoro?

La Jugoslavia era un’economia di mercato coordinatorista, il che significa che aveva molte caratteristiche dannose.  No, le aziende che sprecano patrimoni di valore non dovrebbero essere conservate ma ovviamente i posti di lavoro sarebbero assicurati. Immagina, come  esperimento puramente  mentale,  un’economia con 1.000 prodotti. Dieci dei prodotti impiegano di gran lunga più lavoratori, gli altri di meno, diciamo.  Supponi che i gusti cambino, o cambino le tecnologie di produzione, ed uno dei luoghi di lavoro ad alta occupazione non abbia più senso come luogo in cui utilizzare lavoro, energia e risorse.  La questione è dire, più o meno: possiamo permetterci di chiudere quella produzione, dato che vi lavorano così tante persone, o dovremmo conservarla, insieme con i posti di lavoro, anche se non ha più senso alla luce dei desideri della gente di beni diversi, alla luce di altre tecniche, ecc.?

La risposta è che dovremmo chiuderla, ovviamente.  Gente che lavora a roba che nessuno vuole, sprecando energie e risorse, ecc, è un’idiozia.  Ma quelli che vi sono impiegati dovrebbero finire con un nuovo lavoro, o ristrutturando il loro luogo di lavoro, o se il luogo di lavoro precedente deve letteralmente essere chiuso, o trasformato in parco giochi, o qualsiasi altra cosa, allora in luoghi di lavoro nuovi o diversi. Questo è quel che fa una pianificazione ragionevole.

Ma, potresti dire, cosa succede se le merci che venivano prodotte non sono più richieste e nessun nuovo desiderio prende il loro posto?  La gente sta bene senza i vecchi prodotti e senza avere nient’altro di nuovo.  In altre parole, la gente sta bene con un livello totale di consumi basso. Molto bene. In quel caso tutti lavoro in qualche modo di meno. E quelli che stavano nell’industria chiusa, lavorano anch’essi in quella misura, come tutti, e poiché tutti sono soddisfatti con meno roba, allora diminuisce la quantità di lavoro totale.  Se la gente vuole più roba, le ore di lavoro crescono.  Questo è lo stesso problema trattato in precedente: disoccupazione dovuta a una domanda diminuita.  Non è una cosa cattiva, quando accade.  Significa soltanto che le persone, complessivamente, preferiscono più tempo libero a più roba; una scelta che le persone dovrebbero essere libere di fare, ma che dovrebbe avere su di loro un impatto simile, piuttosto che alcuni diventino più poveri a causa della disoccupazione.

In effetti gli economisti convenzionali hanno avuto, che io sappia, solo una critica all’economia partecipativa. Dicono: la parecon non incorpora una spinta all’accumulo.  Non costringe a lunghi orari ad alta intensità, indipendentemente dai desideri delle persone. Sottolineano che questo indica che un’economia partecipativa probabilmente opterà per una minore produzione e per maggior tempo libero, e affermano che questa è una critica incriminante.  E’ molto divertente quando la principale critica professionale di quel che si favorisce è in realtà un complemento, non un difetto. Sì, in un’economia partecipativa, le persone possono scegliere di lavorare di meno, senza pressioni per essere costrette a maggior lavoro. Ma questa è una virtù, non una carenza.

17. Come possono interagire le economie regionali e nazionali gestite in modo partecipativo con le altre economie governate dai meccanismi del sistema di mercato? I prezzi internazionali non sarebbero una minaccia al sistema interno della parecon, costringendola ad adattarsi alla competizione internazionale? Credi sia possibile che la parecon coesista con altre regioni e paesi capitalisti?

Immagina che la Spagna sia un’economia partecipativa.  Questo è un salto mentale, non semplicemente perché implica che la popolazione spagnola rivoluzioni l’economia, la politica e l’intera società spagnola, ma poiché implicherebbe che il programma spagnolo non sia sovvertito da una reazione violenta dall’esterno,  molto probabilmente in larga misura su per conto di, e organizzata e realizzata dall’esercito statunitense.  Così, bene, facciamo finta che accada e che i movimenti statunitensi siano  forti abbastanza da evitare l’intervento statunitense, e lo stesso per i movimenti tedeschi, e i movimenti inglesi, ecc.

O, se preferisci, puoi pensare a cosa succederebbe se una tale trasformazione avesse luogo negli Stati Uniti, ma non nella maggior parte degli altri luoghi.  O se si verificasse in un paese più povero e più debole che, in qualche modo, sia in grado di tener fuori, con la solidarietà internazionale, la violenza esterna.

In uno qualsiasi di questi casi, la nuova società partecipativa con un’economia partecipativa interagisce anche sulla scena internazionale, compresa la volontà  di esportare alcuni dei propri prodotti e di importare alcuni prodotti da altri paesi.  Tali scambi si verificano perché se ne possono trarre dei vantaggi.  Un paese ha un clima, o una storia, o qualsiasi altra cosa che facilita la produzione di X, un altro paese produce, invece, Y; ciascuno dei due paesi ha bisogno di qualcosa che l’altro ha, e i due commerciano.  Il passaggio ha vantaggi.  Attualmente il paese che ha una gran forza negoziale (ciò è vero nelle transazioni interne e sui mercati internazionali) ricava la maggior parte dei vantaggi che tipicamente, perciò, allarga le differenze di ricchezza e di potere tra i due.  In effetti la globalizzazione delle imprese riguarda sistematicamente l’alterazione delle regole degli scambi in modo che i relativi vantaggi per le parti più forti aumentino ancor di più e quelli delle parti più deboli scendano ancora più in basso. L’internazionalismo dovrebbe avere il programma opposto.

Un’economia partecipativa, al contrario di quelle con l’allocazione di mercato, vorrebbe commerciare a tassi governati da negoziazioni cooperative di risorse e produzioni alla luce di costi e benefici sociali ed ecologici veri e completi.  Ipotizzando di non avere la parecon a livello mondiale, ciò non può essere fatto in  modo perfetto. Ma ci si può arrivare vicino. Si può cercare di individuare rapporti di scambio equi che riducano le differenze di ricchezza e di potere, piuttosto che ampliarle.

Poi, se una parecon realizza scambi con un paese più debole e più povero, anche se i prezzi di mercato avvantaggerebbero di più la parecon, dovrebbe, per solidarietà e in conformità ai propri valori, scambiare a tassi parecon, al meglio di quanto essi possano essere approssimati, invece, dando così al partner commerciale più debole una quantità maggiore dei vantaggi legati alla transazione.  Se un’economia partecipativa scambiasse con un paese più ricco e potente, anche se preferirebbe utilizzare prezzi parecon – in tal caso a proprio vantaggio – hai ragione sul fatto che tipicamente userebbe invece prezzi di mercato, oppure rinuncerebbe del tutto agli scambi. Ovviamente cc’è spazio per molte discussioni e approfondimenti delle opzioni, ma penso che questo sia il quadro generale.

 Da ZNet – Lo spirito della resistenza è vivo

Fonte: CNT spagnola

Traduzione di Giuseppe Volpe

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