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Questioni con il giovane Chomsky e Parecon

11 venerdì Nov 2011

Posted by Redazione in Michael Albert, Mondo, Parecon

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Tag

allocazione, anarchia, assenza di classi, autogestione, Bakunin, Chomski, combinazioni equilibrate di compiti, consigli dei lavoratori, consumi, divisione del lavoro, intervista, Kropotkin, lavoro socialmente utile, Pannekoek, partiti, pianificazione, produzione, remunerazione, tempo libero

di Michael Albert   – 7 novembre 2011

Nel 1976, un po’ con l’aspetto di Buddy Holly, Noam Chomsky concesse  a Peter Jay quella che considero possa essere la più estesa intervista riguardo a come dovrebbe essere una società desiderabile.  Penso che le idee offerte gli siano tuttora care e che lo siano anche a tanti altri anarchici.  Sono care a me, anche, e hanno influenzato il mio stesso impegno, anche se con qualche modifica.

Chomsky offre le sue osservazioni come parte dell’eredità delle “visioni socialiste libertarie o anarcosindacaliste o comuniste anarchiche” nella “tradizione di Bakunin e Kropotkin e Anton Pannekoek” a favore di “una società organizzata sulla base di unità organiche, comunità organiche.”

Chomsky aggiunge che intende “che i luoghi di lavoro e i quartieri sono centrali” e che “da tali due unità elementari potrebbe derivare, attraverso accordi federali, un tipo altamente integrato di organizzazione sociale che potrebbe avere portata nazionale o addirittura internazionale.”

Chomsky aggiunge che “le decisioni, per una gamma sostanziale, potrebbero essere assunte … da delegati che fanno sempre parte della comunità organica da cui provengono, alla quale ritornano e nella quale, in effetti, vivono.” Anche se alcuni anarchici rifiutano completamente l’idea della rappresentanza, chiaramente non lo fa Chomsky, né lo farei io.

Chomsky chiarisce anche che “la democrazia rappresentativa, come, diciamo, negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, sarebbe criticata da un anarchico di questa scuola su due basi. Primo … perché c’è un monopolio del potere centralizzato nello stato,  e secondo … perché la democrazia rappresentativa è limitata alla sfera politica e non invade in alcun modo serio la sfera economica.”

Dunque la società liberata di Chomsky, Kropotkin, Bakunin e Pannekoek non rifiuta le istituzioni.  Rifiuta, tuttavia, entità politiche o economiche che siano separate dalla popolazione o la dominino.

Chomsky aggiunge che “gli anarchici di questa tradizione hanno sempre pensato che il controllo democratico della vita produttiva dei singoli sia al centro di qualsiasi seria liberazione umana o, quanto a questo, di qualsiasi significativa pratica democratica.” Continua: “finché  le persone sono costrette ad affittare se stesse sul mercato a quelli che sono disponibili ad assumerle, finché il loro ruolo nella produzione è semplicemente quello di strumenti ausiliari, ci sono allora elementi impressionanti di coercizione e di oppressione che rendono molto limitato il parlare di democrazia, se mai ha senso parlarne.”

Penso che sostanzialmente tutti gli anarchici e in realtà tutti gli anticapitalisti di ogni genere sarebbero d’accordo. Comunque sorge una questione: come si organizza un’economia in accordo con la necessità dell’ “autogestione, del controllo diretto da parte del lavoratore … della partecipazione personale all’autogestione.”

Richiesto di un esempio Chomsky risponde: “Un buon esempio di una rivoluzione anarchica davvero su larga scala … è la rivoluzione spagnola del 1936 … “ che fu “in molti modi una testimonianza davvero ispiratrice della capacità dei lavoratori poveri di organizzare e gestire i propri affari, con estremo successo, senza coercizione e controllo” anche se “quanto sia rilevante l’esperienza spagnola per una società industriale avanzata andrebbe discusso in dettaglio.”

Quanto a lui, Chomsky pensa che “l’autogestione … è esattamente la modalità razionale di una società industriale complessa ed avanzata, in cui i lavoratori possono benissimo diventare padroni dei propri affari immediati, cioè, nel dirigere e controllare l’attività, ma possono anche essere in grado di assumere le principali, sostanziali decisioni riguardanti la struttura dell’economia, le istituzioni sociali, la pianificazione, a livello regionale e oltre.” Ma egli aggiunge che “al presente le istituzioni non permettono ai lavoratori di avere il controllo delle informazioni necessarie, e del relativo addestramento, per comprendere queste questioni.”

E così si affaccia di nuovo una domanda ovvia: come si struttura un’economia in modo tale che trasferisca le “informazioni necessarie” e il “relativo addestramento”?

Richiesto di passare a completare la sua visione dell’anarchismo, Chomsky risponde: “Fammi abbozzare quella che ritengo sarebbe grosso modo una posizione unanime e che penso sia essenzialmente corretta. A cominciare dai due modi di organizzazione e controllo, ovvero organizzazione e controllo sul luogo di lavoro e nella comunità, si potrebbe immaginare una rete di consigli dei lavoratori e, a un livello più alto, una rappresentanza di tutte le fabbriche, o di tutti i settori dell’industria, o di tutti i mestieri, e proseguire con assemblee generali dei lavoratori che possono essere regionali e nazionali e internazionali nel loro statuto. E, da un altro punto di vista, si può ipotizzare un sistema di governo che comporti assemblee locali – di nuovo federate regionalmente, che si occupino di problemi regionali, che coprano i mestieri, le industrie, i commerci e così via, e di nuovo anche a livello della nazione e oltre.”  Sono d’accordo con Chomsky che su questo vi è probabilmente unanimità tra gli anarchici, e giustamente, secondo me.

Chomsky continua: “un’idea dell’anarchismo è che la delega di autorità sia piuttosto minimale e che i partecipanti ad essa, in uno qualsiasi di questi livelli di governo, dovrebbero rispondere direttamente alla comunità organica in cui vivono. Di fatto la situazione ottimale sarebbe che la partecipazione ad uno di questi livelli di governo dovrebbe essere temporanea e che, persino durante il periodo in cui ha luogo, dovrebbe essere parziale; cioè i membri di un consiglio dei lavoratori che per un certo periodo operano per prendere decisioni che altri non hanno il tempo di prendere, dovrebbero anche continuare a fare il proprio lavoro come parte della comunità del luogo di lavoro o della comunità di quartiere cui appartengono.” Di nuovo, ciò è incontestabile.

Poi, comunque, viene un punto di possibile preoccupazione. Chomsky afferma: “Quanto ai partiti politici, la mia sensazione è che una società anarchica non dovrebbe prevenire con forza il sorgere di partiti politici.  In effetti l’anarchismo è sempre stato basato sull’idea che ogni genere di letto di Procuste, ogni sistema di norme che sia imposto alla vita sociale, limiterà e sottovaluterà moltissimo la propria energia e vitalità e che ogni sorta di possibilità di organizzazione volontaria possa svilupparsi a quel livello più alto di cultura materiale ed intellettuale.” Sin qui tutto bene, anche se la formulazione minimale  “prevenire con forza” fa presagire quel che segue, quando aggiunge: “ma io penso che sia giusto dire che nella misura in cui i partiti sono ritenuti necessari, l’organizzazione anarchica ha fallito.”

Perché il fatto che delle persone formino un partito politico sarebbe un segno di fallimento?

Chomsky spiega: “Dovrebbe darsi il caso, penserei, che dove ci sia una partecipazione diretta all’autogestione, agli affari sociali ed economici, allora le fazioni, i conflitti, le diversità di interessi e di idee e di opinioni, che dovrebbero essere apprezzate e coltivate, saranno espresse a ciascuno di tali livelli.”

D’accordo. Ma poi Chomsky aggiunge: “Perché dovrebbero ricadere in due, tre o ‘n’ partiti politici è qualcosa che davvero non capisco.  Penso che la complessità degli interessi e della vita umana non si suddivida in quel modo.  I partiti fondamentalmente rappresentano interessi di classe e le classi sarebbero eliminate o sarebbero trascese in una società simile.”

Naturalmente io sono d’accordo sull’eliminazione dei partiti come agenti di interessi di classe. Ma ciò implica che l’esistenza di partiti sarebbe indice di un fallimento?  Chomsky sta dicendo che pensa che le preferenze umane siano così diverse e varie che l’unico motivo per cui un considerevole numero di persone condividerebbe un insieme di idee decisamente contrarie a quelle sostenute da  altri gruppi consisterebbe nel fatto che le persone appartenessero a classi diverse a motivo del fatto di occupare posizioni economiche diverse, avendo così interessi economici opposti. Non penso sia così.

Si immagini un partito che si formi attorno ad alcuni nuovi valori che i partecipanti cercano di sostenere ed introdurre nella vita sociale.  Forse i diritti degli animali, per citare solo uno dei possibili esempi. O forse un nuovo valore economico: rendere uniforme la soddisfazione, diciamo.  O forse il tema è l’aborto, o qualcosa riguardo ai voli nello spazio, o qualcosa che abbia a che fare con i diritti delle generazioni future in confronto con quelli delle popolazioni attuali.  Le persone formano un partito perché concordano su alcuni punti di vista e pensano che gli altri sbaglino nel dissentire da tali idee, e perché vogliono sostenere la propria posizione di concerto gli uni con gli altri. Perché un simile elettorato deve essere una classe, o persino un qualsiasi gruppo all’interno di una gerarchia di potere? Perché non può essere che sia semplicemente un gruppo con un’idea che ritiene molto importante ma dalla quale altri si differenziano?

Comunque fin quando egli afferma che le fazioni sono apprezzate io penso che i valori sottostanti ciò che Chomsky afferma e quel che io correggo siano in accordo.  Quel che io chiamo un partito è semplicemente una grande fazione che copre quartieri e luoghi di lavoro e che, a certi fini, vuole coordinare i propri sforzi collettivi nell’interesse di idee che la fazione condivide.  Dunque se ciò è apprezzato, non c’è alcun contrasto reale, penso.

Chomsky indica anche che non è “persuaso che la partecipazione al governo sia un lavoro a tempo pieno. Può esserlo in una società irrazionale, in cui ogni genere di problemi sorge a motivo della natura irrazionale delle istituzioni.  Ma in una società industriale avanzata che funzioni correttamente organizzata secondo indirizzi libertari, penserei che mettere in atto decisioni prese da organi rappresentativi sia un lavoro a tempo parziale che dovrebbe essere ruotato nella comunità e, inoltre, dovrebbe essere assunto da persone che per tutto il tempo continuino a essere partecipi della stessa propria attività diretta.”

Riguardo a quanto tempo ci voglia per giudicare dispute, occuparsi di azioni antisociali, decidere leggi per circostanze in costante cambiamento e attuare progetti collettivi, io non lo so, ma sospetto che ci voglia parecchio di più di quanto sembra suggerire Chomsky.  Ha tuttavia certamente ragione riguardo al fatto che molti dei nostri governi, se non la maggior parte, non sarebbero più necessari. Ha anche ragione quanto al fatto che tutti in ogni funzione pubblica dovrebbero essere ben preparati a evadere i propri compiti e dovrebbero essere impegnati in tali compiti in modi e con responsabilità che non aumentino il loro potere o la loro ricchezza o la loro capacità di ammassare privilegi per sé stessi o per altri, o di aver voce in capitolo sui risultati al di sopra di quel che è appropriato per tutti i protagonisti. Ovviamente come fare a realizzare tutto questo è la solita questione riguardo all’affermazione che così dev’essere.

Chomsky individua una vasta intuizione sottostante, penso, quando afferma: “Mi sembra che il naturale suggerimento sia che l’autorità dovrebbe essere organizzata industrialmente, semplicemente come uno dei settori dell’industria, con i suoi propri consigli dei lavoratori e con la sua autogestione e con la sua partecipazione ad assemblee più ampie.” Di nuovo, questo è inconfutabile fintanto che teniamo presente che un pilota d’aereo, un operaio dell’industria dell’acciaio, un medico o un gestore di autorità devono tutti avere competenze e conoscenze appropriate, da un lato, ma anche ruoli che non diano loro alcun potere o privilegio complessivo superiore a quello degli altri cittadini, dall’altro.

Poniamo il problema in altri termini. Si considerino due industrie: la produzione di congegni  e l’amministrazione governativa.  In entrambe tali industrie esisterebbero consigli dei lavoratori, ed entrambe non avrebbero autonomia completa ma sarebbero invece soggette a un più vasto piano sociale cui esse, comunque, contribuirebbero, poiché le loro azioni influenzerebbero  gli altri così come le azioni degli altri influenzerebbero loro.  Ciò nonostante i limiti esterni alla produzione di congegni  sono probabilmente molto meno intrusivi per il modo in cui operano ogni giorno i lavoratori che li producono di quanto lo siano i limiti esterni all’esercizio dell’autorità.  Poiché per i produttori di apparecchiature quel che conta è il numero di congegni prodotti e la quantità di risorse da utilizzare in tale produzione (due semplici numeri) e anche che il luogo di lavoro sia privo di classi e, oltre a questo, (considerare le condizioni di lavoro ecc.) gli interessi dei lavoratori sono assolutamente sovrani. Ma quando si considera un lavoro come quello di ufficiale  di polizia, per prendere un esempio dalla sfera politico/governativa, gli interessi della società non sono soltanto di “far rispettare la legge” (il che è molto più complicato che “produrre 45 milioni di congegni usando questa quantità di materiali”)  bensì di farlo in un modo che protegga e rispetti i diritti di ciascuno, non consenta troppa discrezione (ovvero potere) agli ufficiali di polizia nell’esercitare l’autorità su di noi, imponendo in tal modo ulteriori limiti al modo in cui essi operano.  Ma è una questione di grado.  Riflettere sui piloti d’aereo o sui medici rivela la necessità di linee guida e limiti decisi socialmente analoghi a quelli necessari per il governo, anche se unici per ciascuna categoria, compresi i produttori di congegni.

Comunque, a una domanda postagli dall’intervistatore Chomsky viene riferito rispondere: “In una società decente, tutti avrebbero l’opportunità di trovare un lavoro interessante e a ciascuna persona sarebbe concesso il massimo spazio per esprimere il suo talento.”  E poi, come chiedendolo a sé stesso: “Cos’altro sarebbe necessario in particolare [per ottenere tale lavoro], una ricompensa esterna sotto forma di ricchezza e di potere?”  Chomski risponde alla propria domanda: nient’altro, a meno che “presumiamo che applicare i propri talenti in un lavoro interessante e socialmente utile non sia di per sé una ricompensa.”

E’ qui che nascono i problemi.  L’affermazione di cui sopra è sbagliata per tre motivi. Il primo ha a che fare con la necessità di correlare lavoro e consumi, compresa la disponibilità di informazioni e indicatori che permettano a tutti gli interessati scelte sensate.  Il secondo è che una ragione centrale della remunerazione non è soltanto di offrire incentivi, ma di avere risultati giusti sia per quanto riguarda la produzione sia per quanto riguarda i consumi.  E, infine, il terzo problema sta negli incentivi stessi, l’unico aspetto di cui Chomsky parla direttamente.  Ma che qualcuno dica che lui, o lei, ama il suo lavoro, come Chomski sente che tutti direbbero in una società desiderabile – col che io concordo – non è lo stesso che quella persona dica che il lavoro è l’unica cosa che ama. E questa distinzione ovvia e apparentemente pedante è davvero importante.  

Primo: per lavoro intendiamo un impiego (a) all’interno di istituzioni economiche della società e (b) il contribuire al prodotto sociale di cui altre persone, non il produttore o la sua famiglia e i suoi amici, si avvantaggeranno.

Secondo: Chomsky ha ovviamente ragione sul fatto che ci sono ragioni intrinseche per fare un lavoro nell’interesse sociale, per l’espressione di sé e per beneficiare altri. Ma quella che manca è l’ovvia verità parallela che ci sono motivi intrinseci per voler avere anche del tempo libero, e non soltanto per riposare, ma anche per giocare, per relazionarsi con la famiglia e gli amici, per fare cose che ci piacciono ma nelle quali non siamo bravi abbastanza per offrire, nel farle, un contributo alla società, e così via.

In conseguenza, se siamo liberi di scegliere individualmente il rapporto tra il lavoro produttivo per l’economia che noi facciamo e il tempo libero che godiamo non lavorando, e se fare la scelta tra meno lavoro e più produzione ha un impatto zero sulle nostre pretese, come consumatori, sul prodotto sociale, allora possiamo ben scegliere di lavorare meno di quanto la società necessiti o di quanto esigano l’equità e la giustizia.

Per spiegare il suo punto di vista opposto, Chomsky afferma: “C’è una certa quantità di lavoro che semplicemente deve essere fatto se vogliamo mantenere (un valido) livello di vita. Quanto oneroso debba essere tale lavoro è una questione aperta.”

Ciò è sicuramente corretto, anche se è importante rendersi conto che quale sia “un valido livello di vita derivante da quanto viene prodotto” dipende precisamente da una scelta attiva delle persone riguardo al loro desiderio relativo di maggiori prodotti o di maggior tempo libero. Ed è anche importante rendersi conto che parecchio di tale lavoro, per molto tempo a venire, dovrà essere impegnativo, spesso anche noioso e fastidioso e a volte pericoloso.  E che una quantità anche maggiore di esso, per quanto positivo possa essere dedicarvisi,  non sarà intrinsecamente più remunerativa che passare lo stesso tempo, invece, dedicandosi a hobby o a rapporti personali o a giocare, e via di seguito.

Quando Chomsky aggiunge: “Ricordiamo che la scienza e la tecnologia e l’intelletto non sono stati dedicati a … superare il carattere oneroso e autodistruttivo del lavoro necessario della società,” è ovviamente corretto.  Quando aggiunge che “il motivo è sempre stato presupposto che ci sia un sostanziale strato di schiavi che lo eseguiranno semplicemente perché altrimenti morirebbero di fame” ha di nuovo ragione.  Ed è anche corretto nel dire “se l’intelligenza umana fosse rivolta alla questione di come rendere significativo il lavoro della società stessa, non sappiamo quale sarebbe la risposta”.  Vero, ma non accadrà in una settimana, un mese o un decennio. E ci saranno limiti, non ultimi quelli ambientali, a quanto lavoro oneroso possa essere sostituito da lavoro edificante.  Ma, in ogni caso, ciò solleva un altro problema per una buona economia ed è quello che essa deve agevolare un’attenzione sensata e garantita a questioni che riguardano il miglioramento, nel tempo, della qualità della vita lavorativa così come del piacere e dei potenziali non liberati dai prodotti della vita lavorativa.

Chomsky continua: “La mia ipotesi è che una quantità giusta di [lavoro] possa essere resa interamente tollerabile”.  Sarei d’accordo ma vorrei anche dire che c’è un ampio divario tra “interamente tollerabile” da un lato e tanto coinvolgente e interessante quanto noi tipicamente scegliamo di rendere il nostro tempo libero, dall’altro lato.  E “una quantità giusta” è anche molto meno di “tutto”.

Chomsky dice: “E’ un errore pensare che persino il lavoro fisico che spezza la schiena sia necessariamente oneroso.  Molti, incluso me, lo fanno per rilassarsi.”  Certo, ma c’è qualcuno che davvero esegue un lavoro fisico da spezzar la schiena un giorno sì e l’altro anche, per rilassarsi? Non molti, scommetterei.

Chomsky continua: “Recentemente, ad esempio, mi è venuto in testa di piantare trentaquattro alberi in un campo dietro casa, nell’ambito del programma della State Conservation Commission [Commissione Statale per la Conservazione [delle risorse naturali]], il che significa che devo scavare trentaquattro buchi nella sabbia. Sai, per me e per quel che faccio la maggior parte del tempo, quello è un lavoro parecchio duro, ma devo ammettere che mi è piaciuto.  Non mi sarebbe piaciuto se ci fossero state norme lavorative, se avessi avuto un supervisore, e se mi fosse stato ordinato di farlo in un certo momento, e così via.”

La mia ipotesi è che egli non avrebbe trovato piacere in quell’attività anche se fosse stato il suo lavoro, giorno dopo giorno.  Avrebbe potuto piacergli un po’ di meno anche se non si fosse trattato del campo dietro casa e se, lavorando in una squadra, avesse dovuto attenersi a un orario.   E, soprattutto, che gli piacesse o meno, la quantità di tempo che egli vi avrebbe dedicato, semplicemente per il piacere dell’attività, avrebbe potuto facilmente essere parecchio inferiore alla quantità necessaria o alla quantità che altri vi avrebbero dedicato, eccetera.  Che dire del caso in cui qualcuno volesse fare del lavoro estenuante una volta ogni venti o trent’anni e nel resto del tempo volesse dedicarsi a un lavoro di concetto di tipo creativo che desse un grande potere? Chi pianterebbe gli alberi in questo caso?

Quando Chomsky afferma “D’altro canto, se si tratta di un compito assunto soltanto perché interessante, bene, può essere fatto” intende dire che sarà godibile, come è stato per lui. Abbastanza vero. Ma l’implicazione è che tutti possiamo fare solo quel che vogliamo, e che in qualche modo quello che scegliamo di fare in base unicamente al fatto che lo troviamo interessante corrisponderà, quanto alla produzione, a ciò che la gente vuol consumare.

L’intervistatore afferma: “Ti suggerisco che può esserci il pericolo che questa visione delle cose sia un’illusione piuttosto romantica, cui si dedica solo una piccola élite cui capita, come all’élite dei professori, forse dei giornalisti e così via, di trovarsi nella situazione molto privilegiata di essere pagati per fare quello che comunque amano fare”. Penso che sia una questione corretta, ma non coglie ulteriori punti. Cosa è giusto? Cosa ci vuole per trasferire informazioni necessarie?

Chomsky risponde: “E’ per questo che ho iniziato con un grande “se”. Ho detto che prima dobbiamo chiederci in quale misura il lavoro necessario per la società – ovvero il lavoro necessario per mantenere il livello di vita che desideriamo – debba essere oneroso o indesiderabile.  Penso che la risposta sia: molto meno di quanto lo è ora.  Ma supponiamo che ci sia una qualche misura in cui resti oneroso. Beh, in tal caso la risposta è piuttosto semplice: quel lavoro deve essere condiviso in modo eguale tra tutti coloro che sono in grado di farlo.”

Il lavoro nelle miniere di carbone resterà oneroso. Lo stesso vale per molti lavori di pulizia, oltre a moltissimi altri lavori di routine (e, in verità, anche il cuoco migliore e più creativo del pianeta non è probabile che voglia cucinare i pasti di altri per più ore di quante necessitino per giustificare il suo proprio livello di consumi).  Ci dedichiamo tutti a una quota uguale di lavoro in miniera, pulizie, cucina e di ogni altro aspetto oneroso del lavoro? Ovviamente no. Dunque il punto è che ciascuno di noi condividerebbe, nella formulazione di Chomsky, una quantità giusta di tali compiti onerosi assieme ai propri altri compiti intrinsecamente gratificanti, equilibrando i nostri lavoro quanto alla loro onerosità, e io concorderei sul fatto che equilibrare il lavoro di ogni persona in base alle sue implicazioni quanto alla qualità della vita, eliminerebbe per definizione il problema dell’onerosità diseguale da qualsiasi calcolo economico.  In tal caso prestare attenzione all’onerosità come fattore che determini il reddito diventa irrilevante rispetto ai soli risultati.

Ma equilibrando l’onerosità del lavoro non si affronta il problema complessivo degli incentivi, indicatori o dell’equità.  Incentivare significa offrire alle persone motivi per lavorare in un modo e per una durata che determinino una produzione sociale coerente con i desideri popolari, dove tali desideri sono a loro volta mediati dalla conoscenza delle implicazioni del livello di produzione scelto per il lavoro.  Gli indicatori sono informazioni in grado di guidare le persone nel decidere sensatamente e responsabilmente cosa consumare e cosa produrre, e anche su cosa ha senso investire per migliorare ulteriormente il lavoro, generare nuova produzione, ecc.  Ed equità significa assicurare che la distribuzione dei benefici e dei costi associati alla vita economica – sia la produzione sia i consumi e sia cosa facciamo e cosa riceviamo – sia giusta, qualsiasi significato vogliamo attribuire a tale termine.

Poi Chomsky dice: “Nel guardar lavorare le persone … meccanici, ad esempio, penso che spesso si provi un bel po’ di orgoglio nel lavoro.  Penso che quel tipo di orgoglio in … un lavoro complicato ben fatto, perché ci vuole riflessione e intelligenza per farlo, specialmente quando si è anche coinvolti nella gestione dell’impresa, nel decidere come il lavoro sarà organizzato, a cosa serve, quali sono gli scopi del lavoro, cosa può capitare, e cos’ via … penso che tutto ciò possa essere un’attività soddisfacente e gratificante che in effetti richiede abilità, il tipo di abilità che le persone amano esercitare.”

Sono d’accordo che molto del lavoro, ma tutt’altro che tutto, ha caratteristiche di questo tipo.  Ma è importante essere chiari sul fatto che se io sono coinvolto nel decidere quali siano i fini, la composizione e gli orari di lavoro che faccio, non è la stessa cosa che se sono solo io a decidere scopi, composizione e orario.  Io partecipo a un dibattito su ciò che dovrebbe essere fatto, ma, nella votazione, potrei trovarmi dalla parte perdente.  Da buon cittadino, continuo a sentirmi socialmente responsabile dell’adempimento dei compiti, ma i miei incentivi interiori probabilmente saranno inferiore  rispetto al caso in cui la decisione fosse stata presa a modo mio.  In ogni caso, anche quando si trattasse di un lavoro più coinvolgente e più intrinsecamente gratificante, le persone vorranno anche trascorrere del tempo con i figli, godersi degli hobby, festeggiare, meditare o quant’altro.

Chomsky aggiunge, parlando solo dell’aspetto oneroso del lavoro: “Si supponga che ci sia un qualche residuo di lavoro che davvero nessuno vuol fare, di qualsiasi cosa si tratti. OK, allora io dico che quel residuo di lavoro deve essere condiviso equamente e, oltre a ciò, le persone saranno libere di esercitare i propri talenti nel modo che ritengono più adatto.”

Quest’idea è mal ponderata. Primo: nessuno vorrà fare un lavoro che sia antipatico e noioso se il non farlo non avrà effetti negativi noti su di sé e sugli altri.  Secondo: supponiamo che, dopo aver raggiunto un accordo sul bilanciamento dei lavori in relazione alle loro implicazioni per la qualità della vita, nella parte gratificante del mio lavoro io sia libero di usare i miei talenti nel modo che ritengo adatto, come Chomsky suggerisce.  Beh, io un tempo ero un giocatore di tennis abbastanza buono, nulla di cui vantarsi, ma amavo il gioco.  Allora supponiamo che io decida “d’accordo, quello è il talento che voglio esercitare, scegliendo il modo che ritengo più adatto, nelle ore che rimangono dopo aver fatto la mia parte di lavoro oneroso”. Il problema è che giocare a tennis non darebbe alcun contributo utile al prodotto sociale della collettività.

Chomsky può dire che nessuno sceglierà di fare qualcosa che non sia socialmente utile per gli altri, ma come si fa a sapere cosa lo è e cosa non lo è?  Come si fa a sapere che il proprio sforzo non è a un livello accettabile?  Forse la risposta sarebbe che l’industria del tennis deve assumere nuovi giocatori o insegnanti – e non assumerebbe me – ma allora non siamo liberi di esercitare i nostri talenti nel modo che riteniamo adatto.  Possiamo solo farlo all’interno di certe norme e relazioni sociali che prevengono gli sforzi inutili, includendo in ciò l’impedirmi di essere un giocatore di tennis incompetente, o un chirurgo incompetente, e via di seguito.

Ma quali sono queste norme e relazioni che producono buoni risultati economici e che sono anche coerenti con l’eliminazione della divisione in classi e con l’esercizio della propria voce in capitolo nell’autogestione? Queste sono questioni cui si deve dare risposta per dare sostanza ai valori di coloro che favoriscono l’autogestione.

Incalzato ulteriormente dal suo intervistatore, Peter Jay, che dubitava che la quantità di compiti che sarebbero considerati intrinsecamente negativi fosse bassa, Chomsky ha risposto: “Quale che essa sia, nota che abbiamo due alternative.  Un’alternativa è di averla equamente condivisa, l’altra è di progettare istituzioni sociali tali che un qualche gruppo di persone sia semplicemente obbligato a fare quel lavoro, salvo morir di fame. Queste sono le due alternative.”

L’osservazione è sbagliata. Ci si potrebbe, piuttosto, spingere molto in là in direzione del miglioramento degli effetti del lavoro sulla qualità della vita, entro limiti ecologici, limiti di tempo, limiti di allocazione ecc.  Ma poi ci si potrebbe rifiutare di costringere una minoranza a fare tutto quel che rimane.  E si potrebbe anche rifiutare di condividere interamente quella parte in parti uguali. Ma si potrebbe poi, come terza alternativa, remunerare in misura tale da compensare l’impatto negativo dei compiti più onerosi.

Chomski risponde all’intervistatore sollevando grosso modo lo stesso punto, affermando: “Sto presupponendo che tutti sostanzialmente ricevano una remunerazione uguale.” Ma allora ci si chiede, perché dovremmo presupporre ciò o, anche, cosa significa il termina “sostanzialmente”?  Questo è il lato o centrale del tema dell’equità e degli incentivi. E se io mi accontento di un reddito minore – che è una minore pretesa sul prodotto sociale – se lavorare meno ore per ottenere un reddito inferiore significa che io posso aver maggior tempo libero?  Sono libero di optare per un reddito inferiore come base per lavorare meno ore? Se non loro sono, posso avere l’opzione di lavorare meno ore per lo stesso reddito? La prima opzione pare socialmente responsabile.  La seconda no, secondo me.  La prima è anche economicamente praticabile. La seconda no.

Un principio anarchico fondamentale è che ogniqualvolta sia possibile e quando non contrasti con il bene comune, dovremmo consentire alle persone di perseguire le proprie personali visioni di una buona vita.  Avere un unico livello di reddito e un unico orario di lavoro per tutti è un esempio di pretesa non necessaria e coercitiva.  Non ci sono motivi sociali perché le persone non debbano essere in grado  di compensare il reddito con il tempo libero o viceversa (mentre ci sono motivi sociali per cui le persone non dovrebbero poter ridurre il proprio orario di lavoro senza ridurre il proprio reddito, o aumentare il proprio reddito senza aumentare il proprio tempo lavorativo.)

Chomsky dice: “Immaginiamo tre tipi di società: uno, quello attuale, in cui il lavoro indesiderato e affidato a schiavi del salario.  Immaginiamo un secondo sistema in cui il lavoro indesiderato, dopo i migliori sforzi per renderlo significativo, sia condiviso. E immaginiamo un terzo sistema in cui il lavoro indesiderato riceva un’alta paga extra, in modo che le persone lo scelgano volontariamente. Bene, a me sembra uno qualsiasi dei due ultimi sistemi  sia coerente – parlando genericamente – con i principi anarchici.  Mi esprimerei personalmente a favore del secondo, piuttosto che del terzo, ma l’uno e l’altro sono lontanissimi da qualsiasi organizzazione sociale attuale o da qualsiasi tendenza dell’organizzazione sociale contemporanea.”

Non sicuro del perché Chomsky si esprimerebbe a favore della seconda piuttosto che della terza. Affermare che tutti ricevono lo stesso reddito a me sembra, come osservato in precedenza, essere più un limite alle scelte personali – e un limite non necessario – rispetto al permettere o riconoscere alcune differenze di implicazioni per la qualità della vita dei lavori delle persone, remunerandoli in conformità.

Comunque la conclusione di Chomsky su questa materia specifica è inoppugnabile. Entrambe le sue opzioni due e tre esistono realmente e ciascuna è compatibile con l’assenza di classi e con l’autogestione e con l’equità anarchica, come le delinea Chomsky nella sua intervista.  Ma anche dopo tale considerevole accordo, non arriviamo ancora al problema di far quadrare le ore lavorate con la produzione desiderata, né al problema degli indicatori per informare una procedura decisionale intelligente, cioè per fornire le informazioni di cui giustamente Chomsky ha parlato in precedenza e di cui le persone hanno necessità per impegnarsi responsabilmente nella vita economica, né abbiamo abbordato seriamente il tema dei diritti di consumo.

L’intervistatore a questo punto chiede: “A me sembra che ci sia una scelta fondamentale, comunque la si voglia mascherare, tra organizzare il lavoro per la soddisfazione che da alle persone che lo eseguono oppure organizzarlo sulla base del valore che esso produce per la gente che utilizzerà o consumerà quel che viene prodotto.”

Questa formulazione polarizzata manca di cogliere che si possono e si debbono (se deve esserci una vera autogestione) realizzare contemporaneamente entrambe queste priorità arrivando a decisioni informate su se produrre e distribuire determinati beni una volta  considerati sia l’impatto sui lavoratori sia l’impatto sui consumatori.

E ancora l’intervistatore ha continuato: “E [pare a me] che una società che sia organizzata sulla base del dare a ciascuna la massima opportunità di soddisfare i propri passatempi, che è essenzialmente la visione del lavoro per il gusto del lavoro, trovi il suo logico culmine in un monastero, in cui il tipo di lavoro che viene fatto, ovvero la preghiera,  è un lavoro per l’arricchimento di sé del lavoratore e dal quale non deriva la produzione di nulla che sia utile a nessuno e si vive o a un basso livello di vita o si muore davvero di fame.”

Qui ci si spinge troppo in là, ma la questione sottostante è reale.  Cosa collegherà al livello di produzione desiderato il lavoro che viene fatto semplicemente perché è gratificante? Cosa collegherà i bisogni e i desideri di prodotti alle necessità e ai desideri dei lavoratori che producono tali beni?

Chomsky risponde: “La mia sensazione è che quel che rende significativo il lavoro è che …  i suoi prodotti sono davvero utili. Il lavoro dell’artigiano è in parte significativo per l’artigiano  a motivo dell’intelligenza e della competenza che vi vengono immesse, ma in parte anche perché il lavoro è utile … Il fatto che il lavoro che uno fa possa portare a qualcos’altro … questo è molto importante, del tutto indipendentemente dall’eleganza e dalla bellezza che si possono raggiungere.  E penso che ciò copra ogni campo degli sforzi umani.”

Ovviamente quanto precede è vero e tuttavia non affronta il problema sollevato, perché anche se l’osservazione è vera, i problemi rimangono a meno che si voglia dichiarare che il piacere di fare del lavoro autogestito che contribuisca al prodotto sociale sia così grande che tutti vogliano fare più di una quantità, insomma, coerente con quel che la gente vuole consumare, e a meno che uno voglia affermare che la gente conoscerà le quantità corrette automaticamente.

Chomsky aggiunge: “Inoltre io penso che se si guarda a buona parte della storia umana, si scopre le persone, in misura sostanziale, hanno ricavato un certo grado di soddisfazione – spesso parecchia soddisfazione – dal lavoro produttivo e creativo che facevano.”

Vero anche questo. Ma di nuovo non affronta il problema sollevato, a meno che non si voglia affermare quanto detto più sopra.

Chomsky dice: “Io penso che il lavoro liberamente intrapreso possa essere un lavoro utile, significativo, ben fatto.” Naturalmente lo può.  Ma può anche produrre roba che nessuno vuole, o che è di qualità eccessivamente buona o troppo scadente. Può essere gradevole farlo, ma non di qualità sufficiente a offrire un contributo. Come si fa a saperlo?  E, di più, soltanto perché può essere significativo e ben fatto – specialmente se creiamo istituzioni che lo garantiscano – ciò ancora non significa che tutti noi, o forse nemmeno qualcuno di noi, voglia automaticamente farne tanto quanto richiedono i nostri desideri di prodotti.

Chomsky afferma: “Inoltre tu poni un dilemma  che molti pongono, tra il desiderio di soddisfazione nel lavoro e un desiderio di creare cose di valore per la comunità. Ma non è così ovvio che ci sia un qualche dilemma, una qualche contraddizione.”  Se noi vigiliamo su noi stessi – il che significa che abbiamo informazioni che ci permettono di vigilare su noi stessi – forse Chomsky ha ragione. Ma in assenza di tali informazioni, non posso giocare a tennis, o fare il chirurgo come mio lavoro anche se non sono bravo in tali attività?

Chomsky sottolinea un punto particolare riguardo al fatto che il lavoro abbia ricompense intrinseche, e riguardo a tale punto, almeno tra gli anarchici e la gente seria di ogni genere di sinistra, penso che stia sfondando una porta aperta.  Egli afferma: “Ricorda che le persone hanno occupazioni e a me sembra che la maggior parte delle occupazioni che esistono – specialmente quelle che riguardano quelli che sono chiamati servizi, cioè relazioni con esseri umani – abbia associate soddisfazioni e ricompense intrinseche, ovvero il rapporti con gli esseri umani che vi sono coinvolti.  Ciò vale per l’insegnamento e vale per la vendita di gelati.  Concordo sul fatto che vendere gelati non richieda l’impegno o l’intelligenza richiesti dall’insegnamento, e forse per questo sarà un’occupazione meno desiderata.  Ma se così è, dovrà essere condivisa.”

Dunque quel che abbiamo qui è l’emergere di una lista di compiti meno desiderati, e che dovranno essere condivisi mentre le persone fanno anche le cose desiderate che vogliono fare, intrinsecamente per realizzare se stesse per un tempo sufficiente a compiere un lavoro responsabile.  Ovviamente abbiamo anche bisogno di un qualche modo per assicurare che le persone non facciano cose che vogliono fare ma che non sono abbastanza brave a fare per poter produrre un risultato utile.

Qui, tuttavia, sta il nodo della questione.  Chomsky dice: “Quel che sto dicendo è che il nostro caratteristico presupposto che se il piacere nel lavoro, l’orgoglio nel lavoro, è o non correlato o correlato negativamente con il valore del prodotto, ciò è da relativo a uno stadio particolare della storia sociale, precisamente il capitalismo, in cui gli esseri umani sono mezzi di produzione.  Non è in alcun modo vero necessariamente. Ad esempio se si considerano le varie interviste a lavoratori delle catene di montaggio che sono state condotte dagli psicologi industriali, si scopre che una delle cose di cui si lamentano in continuazione è il fatto che il loro lavoro semplicemente non può essere fatto bene; il fatto che la catena di montaggio scorre così rapidamente che non si può fare il lavoro correttamente.”

Che produrre automobili in una fabbrica autogestita sarà di gran lunga meglio che in una capitalista, è vero. Tuttavia che non lo si vorrà fare a esclusione completa del tempo libero, è anch’esso vero.  E l’idea che tutto un lavoro, poiché avvantaggia la società e poiché è autogestito, sarà intrinsecamente gratificante allo stesso livello di ogni altro lavoro è ovviamente sbagliata.  Dunque tali differenze possono contare.  E certamente conterà la durata.

Poi Chomsky dice qualcosa di molto importante, secondo me, e di un po’ diverso. “Ma immaginiamo comunque che a qualche livello sia dannoso. Bene, d’accordo, a quel punto la società, la comunità, deve decidere come attuare dei compromessi. Ogni individuo è sia produttore sia consumatore, dopotutto, e ciò significa che ogni individuo deve aderire a questi compromessi decisi socialmente, se in effetti ci sono dei compromessi.”

Esattamente. Ma questo significa che devono esserci istituzioni che facilitano tali decisioni e dobbiamo avere un qualche tipo di norme, anche, per sapere cos’è corretto, cos’è giusto, cosa, anche, è coerente con il mantenimento dell’assenza di classi nella nostra economia futura.

Chomsky naturalmente sa tutto questo e dunque dice: “Mi sembra che tutti gli anarchici o, quanto a questo, tutte le strutture marxiste basate su sistemi di consigli dei lavoratori e federazioni di essi, offrano esattamente l’insieme di livelli di processo decisionale ai quali possono essere prese le decisioni riguardo a un piano nazionale.  Analogamente le società a socialismo di stato offrono anch’esse un livello di assunzione delle decisioni – diciamo la nazione – in cui possono essere elaborati i piani nazionali.  Sotto questo aspetto non c’è differenza. La differenza ha a che fare con la partecipazione a tali decisioni e il controllo su tali decisioni.”

Nel caso della pianificazione centrale e degli stati autoritari, le decisioni vengono dall’alto. Nell’alternativa anarchica sono autogestite il che penso, se significa qualcosa di coerente, significa che ci diamo da fare per avervi coinvolte le persone nella misura in cui ne sono toccate.  Ma allora abbiamo bisogno di istituzioni e dei relativi flussi di informazioni che permettano, facilitino e addirittura rendano questa la scelta inevitabile.

Come dice Chomsky: “Nella visione degli anarchici e dei marxisti di sinistra … tali decisioni sono prese dalla classe lavoratrice informata mediante le proprie assemblee e i propri diretti rappresentanti che vivono in essa e lavorano in essa.” Perfetto, questo è incontestabile, ma lascia aperta la questione: com’è che i lavoratori – e, come citato in precedenza, anche i consumatori – sono informati? Da dove ottengono le informazioni essenziali per decidere? E, anche, con quali metodi conteggiano le proprie preferenze nel prendere le decisioni cui tutti poi si attengono?

Questo non è chiedere un progetto esecutivo; è chiedere una descrizione strutturale minima che possa dare sostanza reale, e credibilità, alla possibilità dell’autogestione.

Chomsky continua: “Certamente in ogni società industriale complessa dovrebbe esserci un gruppo di tecnici il cui compito consiste nel produrre piani e nello spiegare le conseguenze delle decisioni, nello spiegare alle persone che devono prendere le decisioni che se si decide questo, si avrà probabilmente questa conseguenza, perché è questo che il modello programmatico proposto dimostra, e così via.  Ma il punto è che tali sistemi di pianificazione sono essi stessi industrie e avranno i loro consigli dei lavoratori e faranno parte dell’intero sistema dei consigli, e la distinzione è che questi sistemi di pianificazione non prendono decisioni. Producono piani esattamente allo stesso modo in cui i fabbricanti di automobili producono auto. I piani sono poi resi disponibili ai consigli dei lavoratori e alle assemblee dei consigli allo stesso modo in cui le auto sono disponibili per andarci in giro.”

Anche questo solleva importanti questioni. Cosa impedisce a questi pianificatori e agli altri esperti di dominare i risultati?  Una cosa è offrire competenza nel mettere insieme informazioni. Un’altra cosa è avere potere sui risultati. Come facciamo ad ottenere la prima cosa senza avere la seconda? Analogamente, su quali basi i lavoratori decideranno cosa favorire?  Dov’è, in questo processo, l’opinione e l’influenza dei consumatori?  Perché ci si dovrebbe attenere ai piani che emergono, dove attenervisi implicherebbe naturalmente lavorare un numero specifico di ore e in tempi e modi che uno non potrebbe preferire in modo ottimale?

C’è un senso molto reale in cui la visione economica chiamata economia partecipativa, o parecon, è stata concepita precisamente per rispondere a tutte le questioni sollevate sopra.  L’intervista con il giovani Chomsky è del 1976 e il concepimento e la formulazione della parecon sono cominciati davvero non molto tempo dopo. Come facciamo a dare gambe per camminare a una visione dell’economia anarchica o libertaria e certamente priva di classi e basata sull’autogestione? Le risposte che sono emerse da tali preoccupazioni hanno rilievo direttamente su tutti i punti sollevati sopra e su alcuni altri molto importanti.

In primo luogo la parecon è partita dalla richiesta di autogestione, basata sui consigli dei lavoratori e dei consumatori come sedi del potere decisionale.  E’ lì che le persone si ritrovano, esprimono punti di vista, dibattono opzioni, manifestano preferenze, si accordano su decisioni. Ciò ha anche semplicemente mutuato la pratica del passato. La norma che guida i consigli nella parecon, tuttavia, è stata concepita per guidare le discussioni, i dibattiti e le indagini e poi per conteggiare le preferenze e tutto ciò in modo da conferire a ciascun attore una voce in capitolo nel processo decisionale, proporzionale alla misura in cui ciascuno ne è coinvolto, almeno nella misura del possibile e senza essere eccessivamente pignoli. Ciò ha in un certo modo affinato la pratica del passato.

In secondo luogo è sorta una preoccupazione riguardante la distribuzione dei compiti – del lavoro – tra tutti quelli in grado di lavorare.  Come dovevano essere combinati in compiti in lavori?  Anche se sorgeva il problema della maggiore o minore onerosità, della maggiore o minore gratificazione offerta dai compiti, coerentemente con l’osservazione di Chomsky sulla necessità per i lavoratori di essere preparati a partecipare alle decisioni e ad assumerle, ci siamo resi conto che alcuni tipi di lavoro danno potere a coloro che li compiono e che altri tipi tolgono potere a coloro che li eseguono.  I compiti che danno potere producono non solo merci e servizi ma, per i lavoratori che vi sono impegnati: aumento di fiducia in sé stessi, aumento delle competenze, contatti sociali sempre più ricchi, una consapevolezza sempre crescente delle informazioni critiche e un’esperienza costantemente arricchita della quotidiana assunzione delle decisioni. I compiti che tolgono potere producono non solo merci e servizi, ma, nei lavoratori che vi sono impegnati: una decrescente fiducia in sé stessi, un calo delle abilità, la frammentazione, il declino della consapevolezza delle informazioni critiche e una separazione forzata dal processo decisionale quotidiano.

Combinare i compiti che prevalentemente danno potere in circa il 20% dei lavori e combinando i compiti che prevalentemente lo tolgono in circa l’80% di tutti i lavori, garantisce che il 20% dotato di potere, che chiamiamo la classe coordinatrice, dominerà sull’80% che è privato del potere e che chiamiamo classe lavoratrice.

Abbiamo così visto la necessità di sostituire quella divisione imprenditoriale del lavoro con un nuovo approccio, che abbiamo chiamato combinazioni equilibrate di compiti.  L’idea è di una semplicità banale: equilibrare i compiti che le persone svolgono in funzione dell’effetto in termini di potere.  Eseguiamo tutti dei lavoro con un insieme di compiti e responsabilità che, in media e nel tempo, hanno , in termini di potere, lo stesso impatto di qualsiasi altro lavoro nell’economia.  Naturalmente bilanciare in termini di potere bilancia anche in ampia misura anche in termini di onerosità e di intrinseca desiderabilità dei lavori, ma non interamente.  E, secondo il nostro pensiero, l’equilibrio in termini di potere era di gran lunga il passo più importante da fare per evitare la divisione in classi e tutti i perversi effetti derivati che essa implica.  Leggere differenze di onerosità potevano essere facilmente affrontate mediante assegnazioni differenziali di remunerazioni che compensassero i debiti in cui in tal modo si incorreva, secondo il suggerimento di Chomsky più sopra.

E dunque che dire della remunerazione e dei consumi? Bene, qui arriva un punto chiave di disaccordo con la formulazione nell’intervista a Chomsky. Il primo problema da affrontare è la necessità di equità. Il secondo problema è la necessità che le persone abbiano incentivi per fare quel che dovrebbero fare ma che, basandosi solo sulla propria situazione, preferirebbero non fare.  Il terzo problema è la necessità di avere segnali che comunichino le informazioni richieste per un processo decisionale sano ed etico riguardo a cosa produrre e cosa consumare.  Il quarto problema è la necessità di correlare i desideri di prodotto sociale della popolazione con i desideri della popolazione di lavorare e anche di godere di tempo libero.

Una risposta anarchica frequente è: “D’accordo, facciamo sì di avere il lavoro da chiunque sia in grado di farlo nella misura della sua capacità, e facciamo che il consumo di ogni persona sia conforme alle sue necessità.”  Il problema è che nessuno intende questo in senso letterale.  Cioè, nessuno intende che è a favore del fatto che ciascuno decida indipendentemente da tutti gli altri e basandosi soltanto sulle proprie preferenze quanto prendere del prodotto sociale per il proprio consumo e quanto a lungo lavorare e quale lavoro fare.  Presa in senso letterale, la regola del “da ciascuno a ciascuno” è notevolmente antisociale e dunque non è da intendersi alla lettera.

Se devo basarmi soltanto sui miei gusti, vorrò una quantità di roba.  Perché non prendermela, supponendo che non vi sia ingiustizia in ciò e nessuna perdita per gli altri.  E vorrò anche lavorare solo fino al punto in cui il piacere di lavorare sarà superato dal piacere che avrei dal tempo libero.  In altre parole, vorrò troppo, in realtà di gran lunga troppo.  E, nonostante le intuizioni corrette  di Chomsky riguardo ai valori intrinseci del lavoro, molto probabilmente vorrò anche lavorare molte meno ore di quante sarebbero richieste per soddisfare chiunque esprima desideri di consumo pari ai miei.  C’è dunque un problema – la compatibilità tra lavoro e consumo – per non parlare del tener conto del costo ambientale e sociale completo sia della produzione sia del consumo.

Compito dell’anarchico è risolvere queste faccende senza diffamare o svilire il lavoro o il tempo libero, senza violare l’autogestione e senza imporre una divisione in classi.  Può essere fatto, ritengo, combinando la rete autogestita dei consigli e le combinazioni equilibrate di compiti con due strutture addizionali: la remunerazione in base alla durata, intensità e onerosità del lavoro socialmente valido che facciamo, chiamata remunerazione equa, e la negoziazione cooperativa della produzione e dei consumi da parte di quegli stessi consigli utilizzando procedure che diano conto dei costi e benefici sociali complessivi e che conferiscano a ciascun protagonista una voce in capitolo autogestita, attraverso una metodologia di allocazione chiamata pianificazione partecipativa.

Lo schema remunerativo è equo. Se tutti eseguiamo lavoro socialmente utile – che, nel tempo, ha visto minimizzate le componenti onerose, ma anche prima di ciò – e se tutti lo facciamo per la stessa durata e lavoriamo tutti ugualmente duro e tutti abbiamo una quota uguale di compiti gratificanti e di compiti onerosi, allora dovremmo tutti percepire un reddito medio.  Si può ricevere un reddito superiore, tuttavia, lavorando più a lungo, più duramente e a compiti più onerosi, il tutto in accordo con i compagni di lavoro e il tutto in un modo socialmente produttivo. In alternativa si potrebbe scegliere di attribuire un maggior valore al tempo libero e si potrebbe optare per consumi minori e per un numero di ore minore trascorso nel lavoro socialmente valido.  Entrambe le scelte sono eque, nella visione della parecon.  E il sistema è non solo equo, ma offre anche esattamente gli incentivi necessari per coordinare il lavoro con i desideri del prodotto del lavoro così come precisamente le informazioni necessarie alle persone per decidere sensatamente schemi d’investimento, volumi di produzione ecc.

Anche le procedure di allocazione della pianificazione partecipativa sono desiderabili.  Sono coerenti con l’autogestione, l’assenza di classi e l’equità. Elevano i bisogni e il benessere umano – sia nel lavoro sia nel tempo libero – alla guida delle decisioni economiche.  Le rendono parte fondamentale della gratificazione personale delle persone nel tener conto di tutti gli effetti sociali ed ambientali.

Infine, ho affrontato qui l’intervista al giovane Chomsky per due motivi. Primo, ho voluto portarla alla luce per persone che probabilmente non l’avevano mai vista. Secondo, ho voluto dimostrare che, anche se i motivi e i valori che guidano le formulazioni di Chomsky sono in sintonia con tutte le nostre migliori aspirazioni, alcune delle estrapolazioni a giudizi sulle istituzioni non lo sono.  E, tre, ho voluto affermare che l’economia partecipativa è in sintonia con le aspirazioni anarchiche ma affronta anche accuratamente le effettive complessità della vita economica.

La mia speranza è che la prossima discussione con un anarchico che nutra dubbi sulla parecon possa svolgersi pressappoco così:

Anarchico: Anche se la parecon mi piace molto, rimane un punto chiave che mi preoccupa. Come vedete il lavoro voi pareconisti?

Pareconista: Per lavoro i pareconisti intendono attività intraprese nell’economia per produrre beni o servizi di cui  altri, non la persona che esegue il lavoro, godranno.

Anarchico: Ma in una parecon questo è autogestito, giusto?

Esattamente.

Anarchico: E allora in tal caso il lavoro non è uno dei modi fondamentali in cui una persona si esprime e si gratifica?

Sì, naturalmente, fino a quando è autogestito, senza norme di classe e senza imposizioni che lo pervertano.

Anarchico: E allora perché corrispondere un reddito per eseguire del lavoro autogestito socialmente utile? Remunerare il lavoro non presuppone che, senza essere pagata, la gente preferirebbe vegetare che lavorare? Perché non prendere da ciascuno secondo le sue capacità e dare a ciascuno secondo i suoi bisogni?

Per prima cosa, anche se il lavoro liberamente scelto per conseguire risultati validi è effettivamente parte di una vita gratificante, ciò nonostante certi aspetti del lavoro sono noiosi o gravosi, spingendoci a volerne sopportare di meno. Ma, di più,  anche occuparsi dei bambini è parte di una vita gratificante, o riposare, o giocare, leggere, andare a un concerto o al cinema, fare una passeggiata o vedere qualcosa di nuovo. Altre attività che non riguardano il produrre qualcosa di cui gli altri beneficino attraverso il sistema economico di allocazione sono pure gratificanti, so abbiamo tutti un compromesso,  se vuoi, tra il lavoro per la produzione sociale e il tempo libero che destiniamo ad altri fini, non al vegetare.

Anarchico: Perché non possiamo, ciascuno di noi, decidere quanto tempo e quanto lavoro vogliamo? Perché presupponi che lavoreremo troppo poco o consumeremo troppo?

Dovrebbe decidere ciascuno di noi, sono d’accordo, ma non isolatamente dalle implicazioni per le persone che producono quel che noi consumiamo, o che consumano quel che noi produciamo, e anche per l’ambiente. L’implicazione dell’opzione per meno lavoro e più tempo libero è la generazione di minor prodotto sociale.

Anarchico: Allora, se voglio lavorare di meno, dovrei ricevere corrispondentemente di meno, e mi sta bene.

Ma come fai a sapere quanto è giusto ed equo prendere, o lavorare? Il presupposto della tua regola, ‘da ciascuno a ciascuno’, è che le persone siano responsabili. Ci saranno molte più cose che ti piacerebbe avere […] ma ti limiterai responsabilmente. Ci saranno occasioni in cui preferiresti non lavorare, ma lo farai ugualmente, per essere responsabile.  Presupponiamo semplicemente, cosa di cui la maggioranza dubiterebbe, che tutti si comporteranno automaticamente a questo modo. La questione sorge comunque: come faranno a essere responsabili? In accordo a quale sistema di valori condiviso? Con quali indicatori a guidare le loro scelte?

Anarchico: Così c’è bisogno della remunerazione in base alla durata, intensità e onerosità per ottenere risultati equi, non principalmente come incentivo?

Sì, ma c’è anche un altro problema. Con un reddito, come facciamo nella parecon, il sistema di allocazione non solo è in grado di essere equo, ma è anche in grado di liberare desideri di tempo libero contro desideri di produzione, e anche diversi tipi di lavoro che le persone preferiscono o disdegnano, e anche rivelare i desideri relativi e i costi dei diversi tipi di produzione, in modo tale che possiamo modificare conformemente i nostri piani e investimenti attuali.  Che le persone si limitino in realtà non è così d’aiuto.  E’ meglio per un’economia che le persone rivelino i loro desideri reali e completi, poiché ciò può informare utilmente le scelte di investimento riguardanti dove puntare in futuro, anche se per il momento le persone dovranno finire per accettare di meno.

Anarchico: Continuo a sentire che preferirei non sporcare quel che il lavoro è, e quelle che pensiamo siano le motivazioni delle persone, offrendo delle ricompense.

Non vedo perché un’allocazione equa, con l’autogestione affinché il carattere del lavoro e la sua durata media siano concordati mutuamente, lo sporchi, ma poiché tu hai questa sensazione, forse un’altra osservazione potrebbe colmare la nostra diversità.

Diciamo che creiamo una parecon. Se io ho ragione, sarebbe disastroso non avere una norma di remunerazione diversa da quella che le persone lavorano e scelgono in modo indipendente quel che vogliono fare e avere. Così, per precauzione, per evitare il rischio di risultati distruttivi, perché non partire con la norma della parecon?

Poi, comunque, nel tempo, con la gente che diventa sempre più sociale, sperimentiamo la disponibilità di un numero maggiore di beni gratuiti e di una più indulgente contabilizzazione della durata, intensità e onerosità delle varie industrie e dei vari luoghi di lavoro.  E vediamo quel che succede. Se hai ragione, i risultati non cambieranno o addirittura miglioreranno. In tal caso continuiamo gli esperimenti. Se ho ragione io, i risultati verranno gravemente incasinati, per mancanza di indicatori guida, e sorgeranno molti problemi. Se ciò accade, rallentiamo o interrompiamo gli esperimenti ed esploriamo possibilità di affinare ulteriormente la regola della remunerazione.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo  www.zcommunications.org/querying-young-chomsky-by-michael-albert

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Economia Partecipativa

11 martedì Ott 2011

Posted by Redazione in Michael Albert, Parecon

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Tag

alternative, capitalismo


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

Testo di un discorso tenuto a una riunione patrocinata dalla CNT a Barcellona, Spagna.

Grazie per avermi invitato. E’ un piacere essere qui.

Spero che avremo tempo per un ampio dibattito, perché sono molto ansioso di ascoltare le vostre idee sul nostro argomento, che è la visione di un’economia partecipativa.

Per cominciare, dunque, nelle parole del grande economista inglese John Maynard Keynes

“[il capitalismo] non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso … e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto,
siamo estremamente perplessi.”

Vediamo se possiamo smontare tale perplessità.

In primo luogo, qual è il vero problema del capitalismo?

Il capitalismo è un furto

I più ricchi degli Stati Uniti, per esempio, detengono una ricchezza senza precedenti nella storia.

I più poveri degli Stati Uniti, tuttavia, vivono sotto i ponti in ripari di cartone, o smettono di vivere del tutto.

Il divario, negli Stati Uniti e, analogamente, qui in Spagna è un prodotto sociale, un furto.

Il capitalismo è alienazione e antisocialità

Nel capitalismo i motivi che guidano le decisioni sono pecuniari, non personali.

I motivi sono egoistici, non sociali.

Perseguiamo l’avanzamento individuale a spese degli altri. Non un avanzamento collettivo a beneficio comune.

La conseguenza è ambiente antisociale in cui belle persone finiscono ultime e la logica economica persegue il profitto anziché il benessere sociale.

Il capitalismo è autoritario

Nei luoghi di lavoro capitalisti, quelli che lavorano a compiti tediosi e di routine hanno praticamente zero voce in capitolo sulle condizioni, le produzioni e gli obiettivi. I proprietari dei luoghi di lavoro o coloro che monopolizzano le posizioni
di potere, hanno quasi l’intera autorità.

Nemmeno Stalin, ad esempio, ha mai sognato che il popolo dovesse chiedere il suo permesso per mangiare o andare al bagno, e tuttavia le imprese esercitano quotidianamente tale potere.

Le imprese somigliano alla democrazia quanto i campi di sterminio somigliano alla pace.

Il capitalismo è inefficiente

La ricerca del profitto di mercato spreca le capacità di circa l’ottanta per cento della popolazione addestrandola a sopportare la noia e a prendere ordini, non a realizzare i propri maggiori potenziali.

La ricerca del profitto di mercato spreca anche risorse smisurate nella produzione di articoli che non sono utili e costringendo le persone ad assegnazioni di compiti lavorativi che sono imposti e cui, perciò, viene opposta resistenza.

Il capitalismo è razzista e sessista

Nella concorrenza di mercato i proprietari inevitabilmente sfruttano le gerarchie di razza e di genere prodotte in altre parti della società.

Se fattori extraeconomici riducono il potere negoziale di alcuni protagonisti aumentando quello di altri, creando aspettative gerarchiche su chi dovrebbe comandare e chi dovrebbe ubbidire, i capitalisti sfrutteranno tali gerarchie.

Il capitalismo è violento

La corsa al dominio capitalista del mercato produce nazioni in conflitto con altre nazioni fino a quando quelli che acquisiscono potere sufficiente non si trovano nella posizione di sfruttare le risorse e le popolazioni di quelli che mancano di mezzi di difesa.

La manifestazione finale è l’imperialismo, il colonialismo e la guerra scellerata.

Il capitalismo è insostenibile

Gli avidi di denaro accumulano e accumulano, senza considerazione per i bisogni e i desideri umani. Ignorano o nascondono deliberatamente l’impatto di ciò che fanno non solo ai lavoratori e ai consumatori, ma anche all’ambiente.

Il mercato incentiva calcoli a breve termine. Rende l’accumulo di scarti per evitare costi una via agevole e concorrenzialmente obbligata al guadagno. Le conseguenze si vedono nell’aria e nel suolo. Sono attenuate soltanto da movimenti sociali che obbligano a un comportamento più saggio.

Il capitalismo fa schifo

Potrei ovviamente elencare per molte ore i guasti del capitalismo, le sue patologiche implicazioni umane, sia in teoria sia in statistiche crude, e sono sicuro che sareste in grado di farlo anche voi.

Ma penso che non abbia senso farlo qui, o, in realtà, quasi in nessun altro posto; non  più.

Penso che, arrivati a questo secondo decennio del ventunesimo secolo, solo un numero relativamente limitato di persone sia stato reso così insensibile dai propri vantaggi, o sia stato reso così ignorante dalla sua istruzione avanzata, o sia stato così manipolato dai media e dalla propria ingenuità, o così forzato dalla propria posizione, da non capire che il capitalismo è ora un gigantesco olocausto d’ingiustizia.

Tutti sono a terra, sotto ogni aspetto, e tutti lo sanno.

Come ha detto Keynes, il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso, e nemmeno mantiene le promesse.

E allora cosa vogliamo al suo posto? Parecon.

L’Economia Partecipativa, o Parecon, che è l’alternativa che io sostengo al capitalismo, è costruita su solo quattro impegni istituzionali.

La Parecon non è, perciò, un progetto per un’intera economia. E’ la descrizione di caratteristiche chiave di solo alcuni aspetti di importanza centrale di un’economia.

La Parecon è sufficiente, e soltanto sufficiente, per farci capire che con la Parecon la gente del futuro autogestirà la propria vita economica come deciderà di farlo.

Consigli dei lavoratori e dei consumatori

La prima caratteristica dell’economia partecipativa è rappresentata da una serie di consigli dei lavoratori e consumatori del tipo che abbiamo visto emergere più di recente in luoghi quali l’Argentina e il Venezuela.

La caratteristica aggiuntiva dei consigli della Parecon, tuttavia, è un impegno molto esplicito al processo decisionale autogestito.

Le persone, in una Parecon, influenzano le decisioni in proporzione a quanto risultano toccate da esse. Se una decisione mi toccherà di più, avrò maggior voce in capitolo. Se mi toccherà di meno, avrò minor voce in capitolo.

A volte l’autogestione comporta la regola della maggioranza in base a un voto per ogni persona. Si pensi alla decisione riguardo all’orario d’inizio della giornata lavorativa.

A volte l’autogestione potrebbe richiedere un tipo diverso di conteggio, forse due terzi o tre quarti necessari per vincere, o che voti solo una parte dell’intera popolazione. Si pensi a decisioni che riguardano principalmente un gruppo di lavoro,
in cui vota solo quel gruppo.

A volte, per coloro che stanno decidendo il modo migliore di avvicinarsi a un’autogestione perfetta, può essere necessaria l’unanimità. Si pensi a una squadra che decida il suo programma dando a ciascuno il diritto di veto perché un programma
cattivo potrebbe danneggiare fortemente ciascuna persona.

Ci sono anche occasioni, molte occasioni, in cui tutti riteniamo che un processo decisionale dittatoriale sia quello che meglio si accorda con l’autogestione. Decido io quale quadro mettere nella mia area di lavoro, o di che colore indossare i calzini, e lo faccio da solo, per conto mio, come Stalin.

Il punto è che in una Parecon, tutti questi approcci alle votazioni e persino modi particolari di presentare, discutere e dibattere prima della votazione finale, sono tattiche che utilizziamo per conseguire, quanto meglio sia sensato farlo, un peso autogestito appropriato per tutti i protagonisti coinvolti.

Dunque, come nostro primo impegno abbiamo i consigli autogestiti dei lavoratori e dei consumatori.

Remunerazione equa

La seconda caratteristica centrale della Parecon riguarda la remunerazione equa.

Fermo il resto, in una Parecon guadagneremo di più se lavoreremo più a lungo, più duramente o in condizioni più difficili e dannose.

La remunerazione sarà basata sulla durata, l’intensità e la durezza sopportate. Non sarà basata sulla proprietà, sul potere o sulla produzione.

La Parecon respinge l’idea che qualcuno debba guadagnare di più grazie a qualche atto legale in tasca. Non c’è giustificazione morale per il profitto né vi sono incentivi che lo autorizzino.

La Parecon respinge anche un’economia teppistica in cui uno ottiene quel che riesce a prendersi. Questa è una caratteristica degli scambi di mercato. E’ il tipo di remunerazione che i diplomati delle scuole commerciali celebrano. Hai di più se hai il potere di prendertelo.

Ad Al Capone, il famoso criminale statunitense, fu chiesto una volta quali fossero i suoi sentimenti nei confronti degli Stati Uniti.

Rispose: “Amo gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti sono meravigliosi. Negli Stati Uniti hai tutto quel che sei capace di prendere.”

Così i diplomati delle scuole commerciali e Al Capone sono d’accordo: tieniti quello che sei capace di prendere. Ma la Parecon rifiuta la remunerazione da teppisti.

In modo molto più controverso, la Parecon respinge anche l’idea che dovremmo ritrarre dall’economia un importo uguale al contributo da noi dato ad essa con il nostro lavoro.

Molti socialisti sono favorevoli a questa norma, ma la Parecon la rifiuta. Il motivo di
questo rifiuto è che la Parecon comprende che la nostra produzione dipende da molti
fattori e premiare la produzione premia ciascuno di tali fattori.

Se abbiamo strumenti migliori, produciamo di più. Dovremmo avere un reddito
maggiore per la fortuna di disporre di strumenti migliori?

Se lavoriamo in un ambiente più produttivo, o produciamo articoli di maggior valore,
produciamo un grande valore. Dovremmo avere un reddito maggiore per la fortuna di
lavorare in un posto piuttosto che in un altro?

Se abbiamo qualità innate che aumentano la nostra produttività, produciamo di più.
Dovremmo ricevere un reddito maggiore per essere nati con una grande voce, o
con grandi riflessi, o con una corporatura massiccia o con un talento fantastico per i
calcoli?

La Parecon risponde no a tutte e tre le domande.

Non dovremmo ricevere di più per la fortuna quanto agli strumenti, la fortuna quanto
al luogo di lavoro, o la fortuna quanto alla lotteria genetica.

Dovremmo, invece, ricevere di più se lavoriamo più a lungo, più duramente, o in
condizioni più onerose, facendo un lavoro socialmente valido.

La remunerazione pareconiana ha senso morale e promuove anche lavoro produttivo,
come dovrebbero fare gli incentivi.

La protesta solita riguardo alla remunerazione pareconiana equa è la seguente.

I dottori non andranno all’università e alle scuole di medicina e non si sottoporranno
all’addestramento se non saranno pagati molto di più dei lavoratori delle miniere che
scavano la roccia e di quelli che rigirano gli hamburger da MacDonalds.

In questo modo, con lo schema di remunerazione della Parecon perderemo i dottori
e altri lavoratori creativi, necessari, e ne soffriremo tutti. Questo ci dicono gli
economisti, gli studenti lo ripetono, virtualmente tutti lo danno per scontato.

Di fatto, tuttavia, l’affermazione è totalmente insensata. E’ ripetuta così spesso che la
maggior parte delle persone la prende per vangelo, ma è tutt’altro che ciò.

Considerate che, se solo ci pensate per un paio di minuti, è questo che viene detto.

Sam e Sara hanno appena finito le superiori. Sara va a lavorare in una miniera di
carbone, o da MacDonalds. Sam va all’università, poi alla scuola di medicina, poi a
fare l’interno.

Sara, per essere generosi, guadagnerà 60.000 dollari all’anno per i successivi 45 anni
e poi andrà in pensione. Sam guadagnerà, una volta dottore, 600.000 dollari all’anno
fino a quando andrà in pensione.

Così, ecco quel che gli economisti ci dicono.

Sam deve ricevere quello stipendio perché se lo pagassimo di meno non andrebbe
all’università, non andrebbe alla scuola di medicina, non farebbe l’internista e non
sarebbe un dottore ricco.

Evidentemente la sofferenza dell’università rispetto al trovarsi in una miniera di
carbone per lo stesso periodo, e della scuola di medicina in confronto allo stare in
una miniera di carbone per gli stessi anni, e dell’internato rispetto allo stare in una
miniera di carbone, è così orribile che è necessario quel pagamento per i successivi
decenni come una specie di tangente.

Spero che siate già in grado di comprendere l’assurdità della cosa.

In effetti, se chiedessimo a Sam di scegliere tra il suo percorso verso il dottorato e la
miniera di carbone e MacDonalds, e di farlo alla luce di un salario inferiore a quello
offerto a un dottore … e poi cominciassimo a ridurre il salario proposto e dicessimo:
“Sam, dicci quando sei pronto a rinunciare a diventare dottore e a fare il cambio,
per il fatto di non essere pagato abbastanza”, il risultato sarebbe assolutamente
prevedibile.

Ho fatto questo esperimento dozzine di volte, con studenti in attesa di laurearsi, con
dottori, con altri studenti, tutti che nemmeno cinque minuti prima mi avevano detto
che la remunerazione pareconiana era una cosa idiota e avrebbe portato all’assenza di
medici, e ho ottenuto sempre lo stesso risultato.

Dicono no al passaggio dalla medicina al carbone o agli hamburger partendo da [una
riduzione della paga da medico da] 500.000 dollari, 400.000 dollari … giù giù fino a
60.000 dollari e poi a 50.000 dollari e poi tipicamente mi fermano. E dicono: “Beh,
non so. Quanto posso scendere e comunque sopravvivere?” E finiscono sempre col
ridere, confusi da quanto sia ovvio che i loro insegnanti di economia siano stati dei
bugiardi o degli idioti.

La realtà, ovviamente, è che i medici prendono quel che prendono, perché nel
capitalismo hanno il potere di guadagnare quelle cifre. Non ha nulla a che fare con
la giustizia o gli incentivi. Ha tutto a che fare con la concorrenza del mercato e con
il potere basato su un monopolio di competenze e di sapere che viene attentamente
conservato.

E in una Parecon, anche se invece siamo pagati solo per la durata, intensità e onerosità
del lavoro socialmente valido, tutti vorremo fare le cose di cui siamo capaci e cui
possiamo contribuire. Non è soltanto morale; genera incentivi economicamente
corretti.

Combinazioni equilibrate di compiti

Come sua terza caratteristica, l’economia partecipativa ha bisogno di una divisione
del lavoro.

Se una nuova economia dovesse cancellare la proprietà privata e attuare una
remunerazione equa e anche incorporare i consigli autogestiti, ma conservasse
contemporaneamente l’attuale divisione imprenditoriale del lavoro, i suoi impegni
sarebbero incoerenti.

Se prendete in considerazione i posti di lavoro qui, in giro per il mondo o, quanto
a questo, nelle economie socialiste del ventesimo secolo, rileverete una cosa
sorprendentemente comune. Il modo in cui il lavoro è parcellizzato in compiti è
davvero coerente.

Un lavoro comprende solo compiti che danno potere. I successivi quattro hanno solo
compiti che il potere lo tolgono. Un altro lavoro ha solo compiti che danno potere. I

successivi quattro solo compiti che tolgono potere.

La divisione imprenditoriale del lavoro consiste nell’avere il 20% della forza lavoro
che monopolizza i compiti che danno potere e il restanto 80% che esegue solo
mansioni subordinate, di routine, che rimbecilliscono.

Ciò assicura che il primo gruppo – che voglio chiamare classe coordinatrice –
compresi, per inciso, i medici – domina sul secondo gruppo, la classe lavoratrice.

I coordinatori hanno tutto il sapere, le competenze sociali, la fiducia in sé stessi
e persino l’energia necessari per dibattere e prendere decisioni. I lavoratori sono
derubati del sapere, contrastati nel progresso delle proprie competenze sociali, e
consumati.

Anche con un impegno formale all’autogestione, i coordinatori fanno la loro
comparsa nei dibattiti per le decisioni in un consiglio di lavoratori avendo fissato il
programma della discussione, possedendo tutte le informazioni relative al dibattito
che segue, possedendo solo essi l’abitudine alla comunicazione che informerà di sé
il dibattito ed essendo i soli a possedere e a emanare la sicurezza di sé e l’energia per
una partecipazione piena.

I lavoratori, per contro, essendo stati annoiati e sfiancati dal lavoro ripetitivo e
svuotante che compiono, si presenteranno alle discussioni per le decisioni solo mal
preparati e desiderosi di andare a casa.

Saranno perciò i coordinatori a determinare i risultati. Col tempo cominceranno a
sentirsi superiori. I lavoratori privati del potere cominceranno a evitare le riunioni.
I coordinatori, allora, sceglieranno di remunerarsi meglio, di sveltire le riunioni e le
procedure decisionali escludendo quelli che stanno sotto e di orientare le decisioni
economiche negli interessi della propria classe dominante.

Alcuni anni fa sedevo in una stanza con circa cinquanta lavoratori, ciascuno
proveniente da una fabbrica occupata diversa. Dovevo tenere un discorso ma
suggerii di fare prima un giro di tavolo affinché ciascuno riferisse le sue esperienze.

Queste persone si stavano appena conoscendo e inizialmente erano ottimiste.
Dopotutto erano tutte impegnate in occupazioni e stavano conseguendo successi nelle
fabbriche rilevate dai precedenti proprietari.

Arrivati alla terza persona che riferiva, la stanza si era fatta quieta e l’atmosfera di
ottimismo era svanita. Arrivati alla quinta le cose si erano fatte lacrimose. C’erano
lacrime negli occhi delle persone una volta arrivati alla settima persona, e io sono

intervenuto per dire che avevo sentito a sufficienza per cominciare il mio discorso,
cosa che ho fatto.

Ciascun lavoratore aveva raccontato una storia simile. L’ultima era pressappoco
così: “Non avrei mai pensato che avrei detto qualcosa di simile, ma forse Margaret
Thatcher aveva ragione.”

“Abbiamo rilevato la nostra fabbrica” continuò. “Abbiamo reso le paghe uguali, salvo
che per le differenze nell’orario lavorato. Abbiamo istituito la democrazia e persino
elementi di autogestione. Il tempo è passato. Abbiamo reso la fabbrica un successo
ma ora, odio dirlo, sta tornando tutta la vecchia merda. La nostra democrazia sta
diventando una finzione. I redditi divergono. Si instaura l’alienazione. Forse è
semplicemente impossibile.”

Così io ho parlato degli effetti della divisione imprenditoriale del lavoro che essi
avevano conservato, e del perché era quella la spiegazione del fatto che i coordinatori
acquistavano maggior potere e alla fine ottenevano anche un maggior reddito.

A causa del fatto che circa i quattro quinti occupano posizioni da classe lavoratrice
e circa un quinto posizioni della classe coordinatrice, quest’ultima ha dominato e ha
sviluppato un visione di sé stesse e anche visioni degli altri deformate, e nel tempo è
tornata la vecchia merda.

Sapere questo è stata la differenza tra le persone che hanno ceduto al cinismo e alla
disperazione e quelle che si sono rese conto che c’era una via d’uscita.

L’esito su larga scala di tutto questo è che uno dei tipi di classe che sta sopra i
lavoratori è quella dei padroni. Disponendo di un atto di proprietà, i capitalisti
possiedono i mezzi di produzione. Assumono e licenziano schiavi salariati.
Perseguono il profitto.

Ma la questione sorprendente riguardo alle osservazioni di cui sopra è che anche con
l’eliminazione della classe padronale, non si consegue necessariamente l’assenza di
classi.

Un altro gruppo, anch’esso definito dalla sua posizione nell’economia, non a motivo
della proprietà bensì per la sua posizione nella divisione del lavoro, può continuare
a esercitare un potere virtualmente assoluto, compreso l’ingrandirsi al di sopra dei
lavoratori.

Ne segue che, per evitare il dominio della classe coordinatrice, che è esattamente
quel che accade nel cosiddetto socialismo di mercato o a pianificazione centrale,

dobbiamo sostituire la divisione imprenditoriale del lavoro con un nuovo approccio
alla definizione dei ruoli lavorativi che non dia un potere prevalente ad alcuni
depauperando del potere, in modo schiacciante, gli altri.

La Parecon chiama questo terzo impegno istituzionale “combinazioni equilibrate di
compiti”. Ciascuno di noi in ciascuna società, per definizione, svolgerà lo stesso
insieme di compiti. E’ questo che è un lavoro.

Se l’economia impiega una divisione imprenditoriale del lavoro, i nostri compiti si
combineranno in una posizione che sarà o ampiamente fonte di potere, in quanto
comprende principalmente compiti di potere, oppure sarà largamente depauperante in
quanto include principalmente compiti che svuotano di potere.

In un’economia partecipativa, invece, combiniamo i compiti in lavori in modo tale
che per ciascun lavoratore l’effetto abilitante, in termini di potere, del suo lavoro
sia analogo all’effetto abilitante al potere complessivo di ciascun altro lavoro. Tutti
hanno quella che chiamiamo una combinazione media equilibrata di compiti.

Nella Parecon, cioè, non abbiamo direttori e addetti alla catena di montaggio, editori
e segretarie, chirurghi e infermiere, come accade ora. Le funzioni che queste persone
svolgono ora permarranno, ma il lavoro per adempiere a tali funzioni sarà suddiviso
in modo diverso.

Ovviamente alcuni continueranno a occuparsi di chirurgia, mentre la maggior
parte non lo farà. Tuttavia quelli che utilizzano il bisturi nei cervelli, puliranno
anche i pappagalli, o spazzeranno i pavimenti, o provvederanno ad altre funzioni
dell’ospedale.

In una Parecon il potere totale che gli attuali posti da chirurgo garantiscono è
modificato ricombinando i compiti. Tizio continua a fare il chirurgo, ma finisce con
l’avere una combinazione equilibrata di compiti che include altre attività, come pulire
i pappagalli, che nel complesso assicura a Tizio lo stesso potere totale del nuovo
lavoro della persona che in precedenza si occupava soltanto delle pulizie.

Il dominio della classe coordinatrice sugli altri lavoratori viene cancellato non
eliminando i compiti che danno potere, non obbligando tutti a fare la stessa cosa,
opzioni entrambe impossibili.

Invece distribuiamo i compiti che danno potere e quelli di routine in modo tale che
tutti i protagonisti dell’economia partecipino al processo decisionale autogestito
senza vantaggi o svantaggi derivanti dai propri ruoli economici. Ci sono solo persone
che lavorano. Non c’è la divisione di tale grande gruppo in due classi.

Alcuni affermano che questo approccio spreca i talenti e, in conseguenza, non
soddisfa le aspettative. La sensazione è che perderemo alcuni dei lavori altamente
produttivi dei dottori o degli avvocati o degli ingegneri, e via dicendo, che dovranno
assolvere a un insieme di compiti, compresa una giusta quota di compiti che tolgono
potere.

In realtà questo punto di vista è o pensiero sciatto o pensiero classista.

Sì, se Sam si occupa di chirurgia nel capitalismo per 40 ore alla settimana, e una volta
in una Parecon dedica alla chirurgia soltanto 20 ore alla settimana, o 15, allora in
effetti abbiamo perso 20 o 25 ore del lavoro altamente produttivo di Sam, visto che
Sam passa tutto quel tempo a far pulizie.

E se ciò avviene per tutti i medici, l’attività sanitaria totale svolta dai vecchi medici
scende alla metà, o anche meno.

Il critico sorride e proclama che questo approccio non soddisferà i bisogni.

E’ un modo di pensare sciatto se il critico ha semplicemente trascurato di notare che
abbiamo modificato la società in modo tale che l’80% che prima era stato addestrato
a sopportare la noia e a prendere ordini, reprimendo in tal modo la creatività, nella
Parecon riceve invece un’istruzione indirizzata e realizzare i talenti e le capacità, in
modo tale che c’è un’enorme bacino di persone disponibile a offrire altra gente che si
occupi di chirurgia.

E’ pensiero classista, comunque, se il critico si è ricordato di questo fatto ma lo ha
ritenuto irrilevante perché gli appartenenti all’80% sarebbero incapaci di fare della
buona chirurgia, o di essere buoni avvocati, buoni medici, buoni amministratori, ecc.

Perché ciò è classista? Perché afferma che i lavoratori sono intrinsecamente incapaci
e non semplicemente oppressi.

Ora nessuno di voi avrà bisogno di essere convinto di questa insensatezza, spero, ma
vi troverete spesso a dover convincere altri di questo punto. Perciò ecco due tecniche
che io trovo molto efficaci.

Primo: chiedo agli altri di immaginare di essere nel 1955 e di aver portato tutti i
chirurghi degli Stati Uniti in uno stadio. Dico: “Guardatevi in giro e ditemi se c’è
qualcosa di degno di nota.”

Loro dicono: “Sì, sì, ovviamente, sono tutti maschi.” E io sottolineo che all’epoca,
tutti quegli uomini e anche una notevole percentuale delle donne, avrebbero detto che
ciò era dovuto al fatto che le donne erano intrinsecamente incapaci di fare della buona

chirurgia.

Poi aggiungo che oggi il 51% degli studenti di medicina negli Stati Uniti sono donne,
quindi ciò che era virtualmente un convincimento universale non era conoscenza,
ma sessismo, e io evidenzio che è esattamente la stessa cosa guardare oggi alle
persone della classe lavoratrice e constatare che non sono chirurghi e non hanno
un lavoro che dà potere, e attribuire ciò alla loro mancanza di capacità, invece che
all’ingiustizia.

Il secondo modo in cui cerco di superare quel pregiudizio è raccontando una storia
riguardante l’Argentina.

Mi trovavo nel paese, in una fabbrica di vetro che era stata occupata dai dipendenti
quando i capitalisti si erano arresi e volevano venderla.

Se ne erano andati anche i coordinatori, immaginando che si sarebbero trovati meglio
altrove. Ma i lavoratori erano rimasti. E mesi dopo, quando ho visitato la fabbrica, i
lavoratori facevano funzionare gli impianti e stavano avendo davvero successo.

Parlai con una donna che si occupava dei compiti della direzione finanziaria:
fondamentalmente contabilità, scelte finanziarie ecc. In precedenza lavorava a una
fornace.

Per tutto il giorno aveva ripetuto gli stessi pochi movimenti, tediosi, privi di
specializzazione, insopportabili. Lo faceva giorno dopo giorno. Poi, dopo il
rilevamento della fabbrica, era stata assegnata alle finanze.

Così le chiesi quale fosse stata la cosa più difficile da imparare. Non voleva
rispondere; era timorosa.

Così io dissi: “Si è trattato di imparare a usare i computer?” “No.” “Di
imparare a usare i fogli di calcolo sul computer?” “No.” “Imparare le nozioni di
contabilità?” “No.”

Stavo restando senza idee, così le dissi: “D’accordo. Per favore, me lo dica.”

E lei disse: “Beh, la cosa più difficile fu che prima ho dovuto imparare a leggere.”

Pensate semplicemente a questo. Dalla noia della classe lavoratrice, attraverso
l’apprendimento della lettura, al gestire la finanza. Nel giro di mesi. E questo è
quanto per quel che riguarda la mancanza di capacità.

Pianificazione partecipativa

Arriviamo infine al quarto impegno istituzionale della Parecon.

Supponiamo di avere una molteplicità di luoghi di lavoro e di comunità tutti
impegnati nell’avere consigli dei lavoratori e dei consumatori, a utilizzare procedure
decisionali autogestite, ad avere combinazioni equilibrate di compiti e a remunerare
in base allo sforzo e al sacrificio.

Si supponga, inoltre, di optare per la pianificazione centrale o per l’allocazione in
base ai mercati. Nel suo insieme, ciò costituirebbe una visione nuova e valida?

No, non la costituirebbe. Sia la pianificazione centrale sia i mercati, attraverso le
loro imposizioni sui comportamenti e sulle scelte, distruggerebbero l’autogestione, le
combinazioni equilibrate di compiti e la remunerazione equa.

Con la pianificazione centrale la logica autoritaria dell’impartire ordini e del prendere
ordini imporrebbe il dominio della classe coordinatrice.

Con i mercati, i dettati della concorrenza non solo violerebbero la remunerazione
equa e l’autogestione, ma anch’essi imporrebbero il dominio della classe
coordinatrice.

Queste conseguenze sono non solo prevedibili, in base alla logica di tali tipi di
allocazione – e se avessimo tempo potremmo dimostrarlo – ma sono e sono stati
constatabili nelle situazioni del mondo reale, in particolare in quelle che sono state
chiamate economie socialiste di mercato o a pianificazione centrale, che avrebbero
potuto essere meglio etichettate come coordinatoriste.

Ma allora cosa sostituisce i mercati e la pianificazione centrale per integrare
l’economia partecipativa?

La pianificazione partecipativa è il quarto impegno istituzionale della Parecon. E’
essenzialmente una negoziazione cooperativa delle risorse e delle produzioni da parte
dei consigli autogestiti dei lavoratori e dei consumatori.

Non c’è tempo per esaminare in dettaglio di cosa si tratta a parte l’affermare che non
ha centro, non ha vertice, non ha una posizione inferiore.

Le dinamiche della pianificazione partecipativa rivelano i costi e i vantaggi sociali
reali.

Offrono incentivi appropriati che rendono possibile una remunerazione equa.

Trasmettono motivazioni ai protagonisti per il sostegno reciproco e perché via sia
mutualità di vantaggi mediante la solidarietà.

E pervengono a decisioni autogestite in modo efficiente.

OK, immaginiamo di combinare insieme consigli dei lavoratori e dei consumatori,
procedure decisionali autogestite, remunerazioni in base allo sforzo e al sacrificio,
combinazioni equilibrate di compiti e pianificazione partecipativa.

Quella è l’economia partecipativa, o Parecon.

La nostra affermazione è che la Parecon è non solo priva di classi, e non solo
promuove la solidarietà, la diversità e l’equità, ma, nella misura del possibile e senza
il ricorrere di pregiudizi, attribuisce a ciascun lavoratore e consumatore un appropriato
livello di influenza autogestita riguardo a ciascuna decisione economica.

La Parecon non riduce la produttività per ora lavorativa; offre invece adeguati e
corretti incentivi a tutti per lavorare bene.

La Parecon non ha pregiudizi riguardo a orari di lavoro più lunghi, ma consente una
libera scelta tra lavoro e tempo libero.

La Parecon non persegue ciò che è più vantaggioso per pochi indipendentemente
dall’impatto sui lavoratori, sull’ecologia e, spesso, persino sui consumatori, ma
orienta invece la produzione a ciò che davvero vantaggioso alla luce dei costi e
benefici sociali e ambientali per tutti.

La Parecon non spreca i talenti umani di persone che oggi si occupano di chirurgia,
o che compongono musica, o che in altri modi sono impegnati in lavori difficili e
specialistici richiedendo che esse bilancino ciò occupandosi anche di compiti che
danno meno potere, ma invece fa emergere, in tal modo, una gigantesca riserva di
talenti in precedenza non sfruttati nell’intera popolazione.

La Parecon distribuisce i compiti che danno potere e quelli di routine non solo
giustamente, ma anche in accordo con l’autogestione e l’assenza di classi.

La Parecon non presuppone cittadini divini. Crea invece un contesto in cui, per
progredire nel proprio impegno economico anche persone che maturano interamente
egoiste e antisociali devono preoccuparsi del bene sociale generale e del benessere
degli altri.

Nel capitalismo gli acquirenti cercano di spennare i venditori e viceversa. La persone
sono addestrate dall’economia ad essere antisociali e al fatto che per progredire

devono imparare bene tali lezioni. Nel capitalismo le belle persone finiscono ultime
ovvero, nella mia versione più concisa, l’immondizia sale in alto.

Nella Parecon, al contrario, la solidarietà tra cittadini è prodotta dalla vita economica
allo stesso modo in cui sono prodotti i veicoli, le case, i vestiti o gli strumenti
musicali. Guadagniamo tutti se l’intera società beneficia di una più vasta produzione
complessiva, o da un’accresciuta produttività oraria, o da condizioni di lavoro meno
onerose, o se lavoriamo più duramente o più a lungo per ottenere un reddito extra.

Abbiamo tutti un interesse a cambiamenti nell’economia che migliorino le
combinazioni di compiti medie complessive, perché tutti ne condividiamo gli
attributi.

Implicazioni strategiche

Infine, che differenza produce nel nostro comportamento attuale il sostenere la
Parecon?

Quando Margaret Thatcher, il primo ministro reazionario inglese, disse “Non c’è
alternativa”, identificò accuratamente un ostacolo centrale contro il fatto che le masse
ricercassero attivamente un mondo migliore.

Se si crede che non ci sia un futuro migliore, ne segue che è comprensibile il rifiuto di
una chiamata alla lotta contro la povertà, l’alienazione e persino la guerra.

Se io stessi tenendo un discorso vigoroso che nessuno di voi avesse mai ascoltato,
una descrizione tale da suscitare le lacrime riguardo a  un flagello dell’umanità che
innegabilmente sminuisce le nostre vite e alla fine ci uccide quasi tutti e alla fine
io vi dicessi: “Per favore, in nome della giustizia e per il vostro stesso benessere,
unitevi a me in un movimento contro questo orribile devastatore degli esseri umani:
l’invecchiamento” scoppiereste a ridermi in faccia. Potreste anche dire, pensando
che io sia un po’ svitato, “Svegliati! Cresci. Affronta la realtà. Non si può combattere
l’invecchiamento, è roba da matti.” E potreste dirlo in modo sprezzante, e a buon
diritto.

E non abbiamo incontrato tutti gente che parlava a quel modo?

Beh, la verità è che la maggior parte delle persone pensa che il capitalismo sia per
sempre. Il capitalismo è una specie di legge di natura.

E dal loro punto di vista, combattere contro il capitalismo, o combattere contro i suoi

sintomi, può davvero sembrare roba da matti.

Quando noi diciamo: “Venite a unirvi a noi in un movimento contro il capitalismo”
loro ci sentono dire: “Venite a fare gli scemi, venire a combattere per l’impossibile.”
E ci dicono di crescere e di svegliarci.

Da sostenitore della Parecon spero di offrire una visione economica in grado di
rovesciare quella sensazione, una visione capace di sostituire al cinismo la speranza e
la ragione.

Non sto suggerendo che, sentito questo discorso, voi dovreste diventare sostenitori
della Parecon.

Questo discorso non fornisce dettagli sufficienti, prove sufficienti e voi non avete
nemmeno avuto tempo sufficiente per rimuginarlo.

Quel che io spero è che voi abbiate avuto la sensazione che “ehi, e se la Parecon
davvero rispondesse all’affermazione che non ci sono alternative? E se fosse
un’alternativa valida e fattibile al capitalismo?”

E in quel caso potreste pensare: “Dovrei saperne di più. Potrei addirittura doverne
diventare sostenitore. E quindi, per scoprirlo, devo approfondire ulteriormente.”

Quando tutti andiamo al cinema e vediamo le anime coraggiose del passato
rappresentate sullo schermo mentre combattono la schiavitù, o la subordinazione
delle donne, o il colonialismo, o a favore della pace e della giustizia e contro le
dittature, giustamente proviamo simpatia e ammirazione per le loro azioni.

Gli abolizionisti, le suffragette, i sindacalisti, gli attivisti anti-apartheid, tutti coloro
che ricercano la libertà e la dignità, per noi sono degli eroi.

Ma se ammiriamo il contrapporsi all’ingiustizia, non dovremmo noi stessi alzarci
in piedi contro l’ingiustizia? Se ammiriamo la ricerca di un mondo migliore, non
dovremmo noi stessi perseguire un mondo migliore?

Se ammiriamo il rifiuto dello sfruttamento, dell’alienazione, del dominio e della sua
violenta conservazione, non dovremmo noi stessi appoggiare un modello economico
e una struttura sociale che eliminerà questi orrori e battersi per essi?

Io credo che l’economia partecipativa sia un’economia di questo tipo e che dovrebbe
far parte di una simile società nuova.

Grazie.

Traduzione di Giuseppe Volpe – namm.giuseppe@virgilio.it

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Parecon e la CNT spagnola

30 venerdì Set 2011

Posted by Redazione in Anarchia, Europa, Michael Albert, Parecon

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cnt, spagna

Di  Michael Albert e  CNT spagnola

30 settembre 2011

Questa intervista è stata condotta tramite email in preparazione di un viaggio in Spagna di Michael Albert.  La CNT è la Federazione Anarchica del Lavoro spagnola e Periodico è il giornale della CNT. Le domande provengono da una serie di autori del Periodico.

 1. Storicamente solo pochi autori anarchici hanno analizzato le caratteristiche economiche della società. Dal tuo punto di vista, quali sono i contributi più rilevanti degli anarchici al pensiero economico?

 Il principale contributo economico anarchico, penso, è il desiderio di ridurre al minimo la gerarchia e, al suo posto, estendere la partecipazione informata e l’autogestione.  Questi obiettivi dovrebbero informare ogni riflessione ragionevole sull’economia, o su altri fenomeni sociali.

Una seconda consapevolezza anarchica è stata la sua attenzione al ruolo di fonti di divisione di classe non legate alla proprietà. Bakunin e altri sono stati fondamentali, ritengo, per l’emergere di una comprensione del fatto che una divisione del lavoro che dia a una minoranza un monopolio sul lavoro che conferisce influenza, competenze sociali, iniziativa e fiducia, mentre la maggioranza esegue solo lavori che tolgono potere e che richiedono principalmente obbedienza, riducendo le competenze sociali e la fiducia, fa sì che il primo gruppo, che io chiamo classe coordinatrice, domini il secondo, che io chiamo classe lavoratrice. Comprendere gli interessi di classe come forza motrice dei cambiamenti economici richiede che si evidenzino non solo due classi – capitale e lavoro – bensì tre,  capitale, lavoro e, tra essi, la classe coordinatrice, anche per il motivo, non ultimo, che i coordinatori possono diventare la classe dominante in quello che è stato chiamato socialismo di mercato o a pianificazione centrale, ma che avrebbe dovuto essere chiamato coordinatorismo.

Infine, io credo che il lavoro di Kropotkin sul mutuo aiuto e anche sulle virtù intrinseche del lavoro possa aiutarci a comprendere come i mercati producano antisocialità e cosa serve nella distribuzione per promuovere invece il mutuo aiuto, così come per comprendere l’impatto della divisione contemporanea del lavoro e illuminare quel che serve per avere relazioni economiche eque e ragionevoli incentivi economici.

2. Dal tuo punto di vista, com’è collegata l’analisi del capitalismo che deriva dall’economia applicata con le proposte anarchiche dirette alla creazione di una società nuova? Esistono collegamenti tra l’Economia Politica Radicale, come modo di analizzare il capitalismo e il ruolo dello stato, e l’approccio anarchico all’economia partecipativa come proposta di una società futura? Se esistono, quali sono?

Se l’espressione ‘economia applicata’ si riferisce alla teoria economica convenzionale, come sospetto e presupporrò, penso che ci siano scarsi collegamenti. La teoria convenzionale presta scarsa attenzione alle classi in sé e quasi nessuna attenzione a quella che io chiamo classe coordinatrice e non presta attenzione alle aspirazioni anarchiche, né pressoché a nessun’altra, ad una società nuova.  Invece la teoria economica convenzionale esiste in misura schiacciante per dire cose ragionevolmente intelligenti riguardo ai fenomeni economici, ma solo all’interno del limite paralizzante che quel che viene detto giustifichi l’inevitabilità e la permanenza di strutture quali i mercati, la divisione imprenditoriale del lavoro, la proprietà privata e procedure di assunzione delle decisioni fortemente gerarchiche.  Nessuna di queste ha qualcosa a che vedere con le aspirazioni anarchiche, se non in quanto le nega.

Direi, tuttavia, che ci sono certe intuizioni anche nei reazionari limiti paralizzanti della professione convenzionale, che gli anarchici dovrebbero tenere presenti; ad esempio quelli che incidono su questioni quali l’interconnettività di tutte le scelte economiche e la realtà associata di quelli che sono chiamati costi di opportunità ; vale a dire che quando si è fatto X significa che non sono state fatte varie altre cose che avrebbero potuto essere realizzate con lo stesso lavoro e le stesse risorse, ecc.  Il costo di fare X è non fare Y.  Questa intuizione è un’utile verifica per il pensiero utopico di certi segmenti della sinistra che presuppongono che si possa avere semplicemente gratis tutto quel che si vuole.

Ma, ciò detto, la maggior parte dell’economia è non solo reazionaria, ma anche priva di senso, come, ad esempio, nel caso delle idee ampiamente condivise riguardanti gli incentivi, l’impatto dei mercato, cosa sia l’efficienza, e via di seguito.

Quanto all’economia politica radicale, quella è un’altra faccenda. Sospetto che si differenzi nel mondo, ma nel mio paese, gli Stati Uniti, c’è effettivamente un’Unione degli Economisti Politici Radicali. E’ stata principalmente, anche se non interamente, marxista e ha avuto molte intuizioni valide e importanti, ma è stata anche ostacolata, almeno dal mio punto di vista, dal non aver evidenziato la terza classe citata più sopra.  La maggiore attenzione dedicata dall’economia politica radicale ai temi del potere, dei quotidiani oltraggi di classe, a molti dei mali dei mercati e ad altre questioni è rilevante, tuttavia, per qualsiasi tentativo di realizzare una società e un’economia anarchiche, compresa un’economia partecipativa e una società partecipativa. Osserverei, anche, che la mancanza di attenzione dell’economia radicale all’esistenza di tre classi può ridursi e persino scomparire, sperabilmente portando a un rapporto molto più stretto tra essa e l’anarchismo, compresa, in particolare l’economia partecipativa.

3. Quali politiche economiche e sociali possono perseguire i lavoratori per evitare di soffrire a causa dell’attuale crisi economica?Esistono altre politiche realizzabili, a parte le spese pubbliche, per mitigare la massiccia disoccupazione?

In primo luogo, sarei negligente se non dicessi almeno due parole su questo concetto: crisi.  Cosa costituisce una crisi? Prima della crisi che stiamo attualmente sopportando, decine di milioni di persone sono morte ogni anno di malattie e fame evitabili. Molte di più sono scomparse nell’oblio per difendere le situazioni che hanno generato quelle malattie e quella fame. A miliardi di persone è stato negato un lavoro appagante e sono state fatte impantanare in una subordinazione priva di dignità.  Perché tutto ciò non era una crisi?

Poi è successo qualcosa, alcune bolle sono scoppiate, e improvvisamente c’è stata una crisi. Si potrebbe pensare che sia stato perché quel che era accaduto aveva reso le cose peggiori per la maggior parte della gente. Ma no, non è stata quella la ragione.  La ragione per cui i media hanno proclamato la crisi è stata che quel che era accaduto aveva colpito o minacciato non solo i più poveri e i più deboli, non solo quelli immediatamente al di sopra, i più in basso, bensì quelli al vertice.  Quella che è diventata una crisi è stata una situazione che ha colpito le élite, e in particolare una situazione che avrebbe potuto portare a un grande dissenso che a sua volta avrebbe causato perdite alle élite.

Qual è allora la reazione dell’élite, a parte definire ‘crisi’ la situazione attuale e definire contemporaneamente decine di milioni di cadaveri e miliardi di vite annualmente atrocemente sminuite “normali affari”?  Consiste nel rimuovere o fermare la crisi, ma in modi che fanno sì che, una volta che essa sia terminata, ancora maggior potere e ricchezza affluiscano al vertice e via da quelli che stanno in fondo.

Così, in tale contesto, cosa possono fare i lavoratori? Dire che possiamo dissentire, ribellarci e resiste, è ovviamente vero; ma a qual fine? Dire che possiamo farlo con l’obiettivo di creare una nuova società è, di nuovo, ovviamente vero, ma dato che ciò richiederà tempo, cosa può alleviare la sofferenza adesso? E, di più, cosa può alleviare la sofferenza adesso ma anche far progredire ulteriori conquiste e alla fine una nuova economia e una nuova società?

Alcune idee generali indicano certe politiche realizzabili.  Le idee generali sono: far pagare i ricchi, non i poveri e far sì che i poveri ne escano meglio organizzati e più forti, i ricchi l’opposto, se possibile.

Un tipo di attività valida, allora, è la pratica quotidiana del mutuo aiuto sincero e militante. Ciò può includere il proteggersi delle comunità contro gli sfratti, il proteggersi delle comunità contro le discariche di rifiuti, i movimenti di protezione contro la speculazione sui prezzi, la lotta dei sindacati contro i licenziamenti e i tagli alle paghe, ecc.

Un secondo tipo di attività valida consiste nel pretendere cambiamenti quali l’aumento delle paghe minime, un tetto ai redditi della fascia altissima, tasse altamente progressive che ridistribuiscano la ricchezza e una riallocazione della spesa nazionale da scopi distruttivi od orientati al controllo, a scopi che soddisfino i reali bisogni delle comunità dei lavoratori.

Ma consideriamo la disoccupazione, poiché essa è al centro della crisi attuale.  C’è nulla che i lavoratori possano cercar di fare per alleviare la massiccia disoccupazione, spesa pubblica a parte? Sì, certo che c’è.

Consideriamo un luogo di lavoro con un migliaio di dipendenti. Si supponga che si stiano per licenziare 250 lavoratori, ovvero il 25% che è, penso, una tipica percentuale attuale per molti luoghi in Spagna e negli Stati Uniti centro-occidentali.  Si supponga anche che la ridotta domanda dei prodotti della fabbrica sia la vera ragione dell’imminente decisione di licenziare i 250 lavoratori.

Cosa si deve fare? Bene, se si vuol gestire la situazione mantenendo o aumentando i profitti al momento e nel tempo, si dovrebbero licenziare i 250. Ciò indebolirà tutti i lavoratori accrescendo la disoccupazione e la paura e conserverà almeno la percentuale di profitto, probabilmente conducendo anche a paghe ridotte, e successivamente, quando l’occupazione risale, a un ridotto onere salariale.  Così in questo modo i proprietari affrontano la situazione difficile della ridotta domanda in modi adatti ai propri interessi.  Ma che dire nel caso in cui noi vogliamo garantire che le nostre scelte evitino che la situazione peggiori, o addirittura vogliamo migliorarla?

La risposta è evidente. Invece di licenziare 250 persone si mantengano tutti i dipendenti.  A causa delle ridotte necessità di produzione si riduca la durata della settimana lavorativa del 25%. Tutti hanno ancora un lavoro, ma lavorano meno ore. Ma non fermiamoci qui. La responsabilità della distruzione dell’economia è dei ricchi.  E, cosa più rilevante, essi hanno da molto tempo ricavato un reddito infinitamente superiore a quello che meritano e perciò, OK, manteniamo i salari dei lavoratori al livello in cui erano.  Così, se prima lavoravano quaranta ora e guadagnavano X, ora io lavoro 30 ore ma continuo a portare a casa la mia paga X. La mia paga oraria è aumentata. La riduzione delle ore che lavoro è un vantaggio, non un disastro.

Chi subisce le perdite di entrate senza una riduzione dei salari pagati? I proprietari.  Essi effettivamente ci rimettono in misura importante rispetto al passato.  Si noti che i lavoratori guadagnano non soltanto un aumento delle paghe orarie ma guadagnano anche in tempo libero, che non è un vantaggio da poco, poiché libera tempo per organizzarsi e conseguire ancora altre conquiste.

Noi perciò affrontiamo la disoccupazione in un modo che avvantaggia i lavoratori, non solo di una fabbrica, ma nell’intera economia, a spese dei proprietari e apre la via anche a ulteriori vantaggi. Ma cosa accade se i proprietari non possono letteralmente permettersi di subire il colpo enorme costituito dal pagare salari a un livello molto aumentato?

Beh, anche alcuni che non sono i proprietari attualmente guadagnano più della loro quota. Mi riferisco ai coordinatori, compresi gli avvocati, i medici, i manager, i dirigenti finanziari di alto livello e via di seguito. Perciò affiniamo ulteriormente la nostra richiesta.  Tutti quelli che guadagnano annualmente meno di un certo importo – diciamo meno di 80.000 dollari –  continuano a guadagnare lo stesso totale di prima lavorando il 25% di ore in meno.  Quelli che guadagnavano dell’importo limite subiscono effettivamente un taglio del 25% per il fatto che lavorano il 25% di ore in meno.  Così non sono solo i proprietari a pagare per la crisi economica; lo stesso accade a quella che chiamo la classe coordinatrice, portando, di nuovo a un’equità e giustizia maggiori.

Se, per inciso, questo approccio fosse attuato in tutto il paese, si potrebbe ovviamente scommettere con enorme sicurezza che i governi scoprirebbero molto rapidamente la stupidità delle politiche di decapitazione dei bilanci e la saggezza di nuove tasse e nuove spese sociali e di riduzione degli sprechi di bilancio per rimettere in sesto l’economia a costi minori per le élite.

4. Da una prospettiva anarchica, quali proposte ritieni necessario perseguire per affrontare l’attuale crisi economica?

La richiesta di evitare i licenziamenti, di ridurre la settimana lavorativa e di politiche di ridistribuzione del reddito, è un buon esempio, penso.  E’ valida qualsiasi proposta che imponga un onere maggiore a quelli che dispongono di una ricchezza e di un reddito più elevati e che crei nuove condizioni sociali che aumentino l’organizzazioni, la consapevolezza e le opzioni dei lavoratori in modo che abbiano la probabilità di continuare a perseguire conquiste ancora maggiori.  Ciò includerebbe anche tali ai bilanci militari e l’utilizzo dei risparmi per ricostruire le infrastrutture, creare scuole, abitazioni, assistenza sanitaria migliori, ecc.

5. Quali opportunità, se ce ne sono, pensi crei l’attuale situazione per costruire un’economia anarchica?

La crisi, di per sé, non spinge verso l’anarchismo o verso qualsiasi soluzione progressista. Quando le cose peggiorano allora la regola familiare, in realtà un vero desiderio naturale, è di voler tornare alle condizioni del passato, non di realizzare condizioni rivoluzionarie e ancor meno obiettivi anarchici.

Peggio, i ricchi e potenti vogliono non solo ritornare alla situazione pre-crisi, ma venirne fuori ancor meglio di prima.  I poveri e deboli dovrebbero anch’essi voler sfuggire a nuove sofferenze, ma ottenendo nuovi rapporti in cui star meglio di prima e anche in una posizione migliore per continuare a progredire.

Perciò il problema del rapporto tra i “normali affari” (che significa crisi perpetua) o la distruzione caotica (che è la crisi attuale) con la costruzione di un’economia anarchica non è scritto in qualche legge della società o della natura, ma risiede invece nel carattere della reazione organizzata.  In una situazione di crisi noi aumentiamo efficacemente i nostri numeri, estendiamo la nostra consapevolezza e ampliamo i nostri mezzi di sviluppo e di espressione dei nostri desideri anche nel trasferire i costi ai ricchi e ai potenti? In caso affermativo, bene. In caso negativo la crisi può allora condannare al disastro non solo per il momento, ma per un lungo periodo.

6. Quali compiti specifici consideri essenziali affinché i lavoratori possano autogestire un’economia? Consideri l’anarco-sindacalismo uno strumento utile per mettere i lavoratori in grado di autogestire i mezzi di produzione? Com’è possibile collegare il lavoro rivoluzionario dei sindacalisti con la costruzione di alternative economiche?

Penso che l’autogestione richieda una sede in cui lavoratori e consumatori possano sviluppare le loro preferenze e decidere i risultati dell’economia in un modo autogestito.  E’ per questo che penso che dobbiamo creare e gestire consigli di autogestione dei lavoratori e dei consumatori.

Penso anche che in tali consigli, a meno che lavoratori e consumatori sia tutti analogamente fiduciosi e pronti a partecipare, almeno in media, alle discussioni e alle decisioni che li riguardano, i pochi domineranno i molti.  I lavoratori e i consumatori devono essere preparati allo stesso livello, avere, dalla propria storia e dalla propria condizione, un livello di potere simile, per partecipare. Secondo me, ciò significa che dobbiamo ottenere e gestire una nuova divisione del lavoro medianti quelle che chiamo combinazioni equilibrate di compiti [balanced job complexes].

Penso anche che, se si vuole una vera autogestione per tutti,   non si possano avere grandi disparità di reddito e di ricchezza che possano essere sfruttate come differenze di potere. Ciò significa che dobbiamo ottenere e gestire remunerazioni eque, ovvero un reddito commisurato alla durata, intensità e onerosità del lavoro socialmente utile.

Infine, i mercati e la pianificazione centrale generano entrambi differenze di classe imponendo una classe coordinatrice, di nuovo, sopra i lavoratori.  Così queste modalità di allocazione devono essere respinte e al loro posto io e l’economia partecipativa favoriamo l’ottenimento e la gestione di quella che chiamo pianificazione partecipativa, o negoziazione cooperativa, da parte dei consigli  dei lavoratori e dei consumatori, delle risorse e dei prodotti.

Se l’anarcosindacalismo si riferisce all’anarchismo con un’enfasi sull’auto-organizzazione e autogestione da parte dei lavoratori, compreso l’ottenere un’economia priva di classi e una politica democratica partecipativa, allora ovviamente, sotto tali aspetti, è parte integrante dell’economia partecipativa e della società partecipativa. Se considera la società solo come un’appendice delle idee e delle azioni dei lavoratori – e non persegue anche assemblee politiche di quartiere e consigli dei consumatori – quella sarebbe una differenza reale, ancora da affrontare. Analogamente, se per alcuni esso preclude un’attenzione  ai problemi di genere, sessualità, razza e cultura corrispondente a quella riservata alla classe, allora anche questa sarebbe una differenza, almeno nella portata della focalizzazione.

L’ultima parte della tua domanda è incredibilmente importante. Abbiamo bisogno di creare alternative per imparare da esse, per offrire fiducia, per orientare i nostri sforzi in modo più ampio, ecc.  Abbiamo anche bisogno di batterci all’interno delle strutture esistenti nei sindacati, nei quartieri, ecc., per conseguire conquiste, per restare collegati, per sviluppare il mutuo aiuto, per ampliare il sostegno, ecc.  Ciascuno dei due approcci senza l’altro è carente, il primo potenzialmente scollegato e distante, il secondo potenzialmente riformista; perciò eliminare le antipatie reciproche è fondamentale.  Quanto a come farlo, non penso ci sia alcuna risposta generale o singola. Sospetto che le risposte dipendano interamente dai tipi di situazione che incontriamo e sviluppiamo.

7. Puoi dirci qualche parola sulle origini del modello dell’Economia Partecipativa e sui fondamenti teorici e pratici che ispirano il modello?

Il modello che a Robin Hahnel e a me è capitato di stilare si può sostenere abbia origine solo dalle cose che ci hanno colpito.  Quello è il modo in molti rispondono quando viene loro chiesto “beh, qual è l’origine di quel che hai detto o fatto.” Ma penso che sarebbe sbagliato. Le vere origini della visione dell’economia partecipativa, o parecon, sono nel retaggio della ricerca dell’assenza di classi, e a volte io le faccio risalire al primo sciopero registrato in Egitto, ai tempi dei faraoni. Comunque, la parecon è certamente fortemente influenzata dall’emergere del pensiero socialista, o poi dal pensiero anarchico e dei consigli.

Abbiamo appreso lezioni, ad esempio, non solo dal marxismo e poi dalla critica di vari aspetti del marxismo, ma anche da Bakunin, Kropotkin e poi da Anton Pannekoek, ad esempio. Ma le influenze prossime sono state, penso, principalmente la filosofia e la pratica della Nuova Sinistra degli anni sessanta di cui Robin ed io abbiamo fatto parte e Noam Chomsky cui sono stato particolarmente vicino e dal quale o imparato molto.

Penso che i fondamenti principali siano stati un rifiuto di una concezione ristretta dell’economia, decidendo invece di prestare attenzione non solo alle  risorse e ai prodotti  materiali dell’attività economica, ma anche a quelli personali, sociali ed ecologici; una visione della classe che ha incluso l’attenzione alla proprietà ma ha aggiunto l’attenzione alla divisione del lavoro e ha evidenziato, anche, questioni di consapevolezza ed abitudini; un rifiuto generale sia dei mercati sia della pianificazione centrale per l’allocazione; e un impegno attento ed esaustivamente formulato alla solidarietà e, in particolare, all’autogestione, ovvero al fatto che le persone abbiano voce in capitolo nelle decisioni in proporzione a quanto ne sono toccate.

Penso che il fondamento pratico della parecon sia stata una revisione estesa della storia delle esperienze autonominatesi socialiste in Russia, Cina, Jugoslavia e Cuba e dei relativi tentativi, compresi i movimenti anarchici qui in Spagna, così come delle lezioni derivanti dalle nostre esperienze personali sia nella Nuova Sinistra  e, nel mio caso, sia nel progetto editoriale autogestito chiamato South End Press.

8. Negli anni prima della guerra civile spagnola sono state discusse diverse proposte anarchiche su come organizzare una società, compresa la sua sfera economica. Ciò era chiamato comunismo libertario. L’economia partecipativa è una proposta comunista libertaria?

I modelli di tale periodo, al meglio di quanto sono stato capace di capire, avevano valori splendidi ma erano ancora parecchio legati ai mercati per l’allocazione ed erano solo implicitamente, non esplicitamente, chiari riguardo alla divisione del lavoro e alle regole di remunerazione.  Perciò se stai chiedendo se parecon è la stessa cosa che quei modelli, allora no, parecon non è la stessa cosa. Ma se stai chiedendo se parecon, tutti questi decenni dopo, sta cercando di incorporare lezioni vecchie e nuove in accordo con le aspirazioni di quei modelli, allora io penso che la risposta sia sì, in gran parte.

In realtà, anche se non possiamo saperlo, la base e la maggior parte dei protagonisti più ideologicamente organizzati di quei giorni sarebbero largamente o interamente favorevoli alle caratteristiche definitorie dell’economia partecipativa, compresi i consigli autogestiti dei lavoratori e dei consumatori come sedi di autogestione; la remunerazione per la durata, l’intensità e l’onerosità del lavoro socialmente riconosciuto come realizzazione dell’equità; le combinazioni equilibrate di compiti come veicolo di partecipazione informata e per eliminare le divisioni di classe tra lavoratori e coordinatori e la pianificazione partecipativa, o negoziazione cooperativa di risorse e produzioni da parte di assemblee di lavoratori e consumatori per sostituire la pianificazione centrale e i mercati.  Questo insieme di quattro obiettivi istituzionali è, credo, un elenco minimalista di caratteristiche istituzionali che possono, e probabilmente lo faranno, variare nella loro forma specifica al di là delle loro principali caratteristiche definitorie, in molte industrie, paesi, ecc. e possono, e vogliono, realizzare lo scopo massimalista di un’economia priva di classi, autogestita, solidale ed equa del tipo che tutti gli attivisti sinceramente anticapitalisti e a favore dell’assenza di classi hanno sempre voluto.

9. Quali strategie di transizione favorisce l’economia partecipativa? Quali agenti sociali dovrebbero promuoverle?

Penso che la strategia sia eminentemente contestuale, col che intendo dire che dipende dal luogo e dal tempo e in realtà da tutti le circostanze. Ci sono, comunque, almeno alcune raccomandazioni generali che penso siano virtualmente generali.

Nel perseguire un’economia priva di classi, parecon, facciamolo solo come parte della ricerca di una società partecipativa e perciò insieme con il perseguimento, con priorità uguale, di obiettivi femministi, antirazzisti (che io chiamo intercomunitari) e antiautoritari o anarchici.  Incorporiamo i semi del futuro nel presente. Perseguiamo riforme valide, ma non in modo riformista, che puntino a un cambiamento complessivo e che organizzativamente, concettualmente ed emotivamente si muovano verso di esso.

Sviluppiamo un’organizzazione che utilizzi l’autogestione, che protegga e addirittura apprezzi il dissenso e persegua la diversità nel pensiero e negli atti, che serva ai membri rendendo le loro vite più piacevoli e appaganti sulla via del cambiamento in modo che il movimento cresca, anziché perda continuamente sostegno. Creiamo consigli o assemblee di quartiere e dei luoghi di lavoro e federiamoli in regioni e industrie.

Gestiamo la ricchezza e le situazioni come si farebbe in parecon, equamente e attraverso combinazioni equilibrate di compiti.  Dedichiamoci ad altre questioni di classe e creiamo un movimento che celebri e manifesti la cultura e le preferenze dei lavoratori, non dei coordinatori. Decidiamo la forma della politica partecipativa, se volete, e gestiamo le dispute, le leggi, ecc., coerentemente con quell’insieme di obiettivi. Facciamo lo stesso con la visione culturale e dei rapporti di parentela.  Si potrebbe continuare ma peso che la vera prova stia nelle condizioni speciali che incontreremo e nel modo in cui le affronteremo, imparando  mentre procediamo.

Quanto agli aspetti sociali, un’ipotesi sarebbe che i ruoli guida nelle lotte vadano a quelli al fondo delle gerarchie sociali e dunque ai lavoratori e ai poveri, alle donne, agli omosessuali, a quelli che sono culturalmente repressi e oppressi, a quelli che prendono ordini, ecc. Ma alla fin fine la consapevolezza ancor maggiore è che quelli che sono impegnati negli obiettivi del movimento, che hanno chiarezza del proprio ruolo, e lavorano efficacemente per il successo, sono quelli che daranno il contributo maggiore.

10. E’ realizzabile un modello di sviluppo locale e regionale che comprenda sindacati anarchici all’interno di imprese capitaliste come organizzazioni che raccolgano la maggioranza dei lavoratori, cooperative di lavoro e di consumo, banche del tempo, e scambi di lavoro per i disoccupati, collegati a sindacati anarchici, con l’obiettivo di creare sistemi di intervento autogestiti nei mercati locali del lavoro? Come potrebbe essere collegata questa prassi all’idea dell’economia partecipativa in direzione dell’abolizione del capitalismo e dello stato?

Non solo penso sia realizzabile, penso sia altamente desiderabile e addirittura abbia un’importanza centrale . Per avere successo i movimenti per il cambiamento devono costantemente e incessantemente crescere di dimensione, e anche i membri devono diventare costantemente più impegnati e più capaci di partecipare efficacemente, conoscendo i propri obiettivi, la strategia ecc. Molti tipi di attività  possono aiutare in un simile scenario ma due tipi generali sono immediatamente ovvi.

In primo luogo avviamo attività che essenzialmente riguardano la costruzione di istituzioni coerenti con i nostri obiettivi, ma che operino adesso, nel presente.  Questo è costruire in parte le strutture del nostro movimento, ma può anche, e dovrebbe, essere costruire le nostre proprie comunità e luoghi di lavori autogestiti, federati insieme ecc.  In secondo luogo, abbiamo attività che cercano di ottenere miglioramenti nelle vite delle persone nelle loro istituzioni e quartieri attuali. Questo è lavorare per conseguire cambiamenti – che, per definizione, sono riforme – ma sperabilmente facendolo in modi non riformisti che mirino a insiemi sempre crescenti di vittorie e a preparare i mezzi e ad avere il denaro per campagne sempre più vaste fino a quando, alla fine, non soltanto aboliremo il capitalismo e lo stato ma sostituiremo il capitalismo e le attuali strutture politiche con un’economia partecipativa e una nuova politica partecipativa di nostra scelta.

Le possibilità citate nella domanda includono una combinazione del primo e secondo tipo di attività e nel farlo puntano alla priorità essenziale che non solo dovrebbero essere perseguiti centralmente i due tipi, ma che dovrebbero essere , per quanto possibile, intrecciati.

La creazione di alternative immediate senza lotta all’interno delle istituzioni esistenti corre il grave rischio di essere scollegata, marginale e persino insensibile nei confronti della maggior parte dei cittadini.  Ma le lotte per i miglioramenti nei quartieri e nei luoghi di lavoro delle persone, e in politiche economiche nazionali, che non siano collegate al perseguimento di nuove organizzazioni visionarie, corrono il rischio di perdere di vista gli obiettivi a lungo termine e di diventare meramente riformiste. Comunque, si colleghino le due, ed entrambe saranno enormemente rafforzate e potenziate. Come facciamo questo, di nuovo, è una questione da considerare caso per caso, ma principalmente io penso che la risposta risieda nel considerare ciascuna come un aspetto dell’altra, comprendendo entrambe nel discorso indipendente da su quale delle due siamo concentrati, e mettendo le nostre energie e le nostre capacità di mutuo aiuto al servizio degli altri, ogni volta che farlo sarà d’aiuto.

11. All’interno delle strategie di transizione a una società anarchica, come pensi che possiamo affrontare i problemi collegati alla divisione del lavoro, cioè a quelle che riguardano il ruolo strategico dei tecnici e dei legali (avvocati, medici, lavoratori altamente specializzati, ecc.) così come degli economisti che sono forti difensori del capitalismo?  Come possiamo convincere i nostri amici economisti e perseguire il cambiamento sociale? Quale sarebbe il ruolo di un economista nella parecon?

La prima parte della domanda solleva, di nuovo, il problema del ruolo della classe coordinatrice, e il problema è di come di rapportarsi con essa, e alle strutture che genera, nelle battaglie attuali.  Penso che questa domanda sia fondamentale.  Penso che la risposta sia che dobbiamo sempre essere onesti riguardo alla realtà dell’esistenza  di questa differenza di classe, dobbiamo sviluppare la coscienza e la pratica della classe lavoratrice piuttosto che fare appello alla coscienza e alla pratica della classe coordinatrice; dobbiamo sezionare e contrastare gli assiomi e le abitudini della classe coordinatrice ogni volta che sono élitari e arroganti; dobbiamo incorporare nelle nostre istituzioni combinazioni equilibrate di compiti e dobbiamo combattere per cambiamenti nelle istituzioni convenzionali che facciano avanzare tale nuova divisione del lavoro.  Quando dico che questo è fondamentale è perché nella mia visione il leninismo, nonostante le aspirazioni della maggior parte dei leninisti della base che innegabilmente vogliono l’assenza di classi, è di fatto il programma della classe coordinatrice, non della classe lavoratrice.  Quel che serve non è il paternalismo nei confronti dei lavoratori, non la beneficenza nei confronti dei lavoratori, ma l’autogestione da parte dei lavoratori, e ciò significa la dissoluzione finale della classe coordinatrice mediante la distribuzione di tali attività tra tutti  i lavoratori, piuttosto che tra pochi.

Come fare tutto questo è una grande domanda. Ma le tesi che affermano, ad esempio, che i migliori oratori dovrebbero tenere tutti i discorsi, che i migliori decisori dovrebbero prendere tutte le decisioni, i migliori scrittori scrivere ogni cosa, sono orribilmente sbagliate, e che lo siano inavvertitamente o intenzionalmente, servono agli interessi dei coordinatori.  Sono sbagliate sotto due aspetti.  Primo, quelli che sono i migliori in qualcosa oggi – principalmente grazie a vantaggi nell’addestramento e nella conoscenza – possono non esserlo domani, con l’addestramento e la conoscenza diffusi in modo più vasto. Secondo, quelli che pensano di essere migliori, solitamente non lo sono.  Possono avere maggiore sicurezza, avere vocabolari più fluidi, ma spessissimo ciò si accompagna al bagaglio di presupposti coordinatoristi che limitano tremendamente i vantaggi.  E, secondo, l’unico criterio di validità non è essere migliori in qualcosa; c’è anche la questione dell’equità, della partecipazione, dell’eliminare le gerarchie ingiuste, e queste non sono questioni di poco conto.

Quanto al convincere gli economisti a cambiare opinione, immagino che sia come sostenere idee e valori diversi con qualcuno che ha un forti interessi acquisiti che ostacolano la chiarezza del suo pensiero.  Si deve cercare di superare tale ostacolo, con esempi e prove che diano una scossa alla comprensione e facciano appello a virtù più elevate.  Non facile, specialmente con i tipi di classe coordinatrice che sono stati imbevuti – cosa che l’istruzione è progettata per fare – di idee sulla propria superiorità.  Quanto agli economisti in un’economia partecipativa operativa, nessuno me l’ha chiesto e non ci ho mai pensato. Non sono sicuro. L’effettivo lavoro tecnico che c’è – come il lavoro tecnico che c’è in un ospedale o nella cabina di un aereo, o in uno studio di progettazione – è fatto da persone con combinazioni equilibrate di compiti e con l’addestramento relativo. C’è addirittura qualcosa di simile a un economista in un’economia partecipativa? Immagino di sì, ma davvero non sono assolutamente sicuro di quel che farebbe, o studierebbe, e a qual fine.  A meno che non si trattasse, forse, di scoprire uno stadio ancor più elevato di organizzazione umana della vita economica, oltre parecon e l’assenza di classi.  Penso che il lavoro degli uffici di agevolazione e simili, non dipenda in realtà da quella che probabilmente considereremmo una teoria economica.

Comunque convengo che questa e altre domande correlate sono, o dovrebbero essere, al centro delle differenze tra gli anarchici e i leninisti.  Sono, o dovrebbero essere, al centro della critica dell’economia socialista del ventesimo secolo. E sono, o dovrebbero essere, al centro del pensiero riguardante le strategie per il cambiamento, come tu implicitamente indichi.

12. Quali sono alcune delle strategie che potrebbero aiutarci a reindirizzare lo sviluppo tecnologico incontrollato, che promuove la gerarchizzazione e la stratificazione della società, verso le prassi autogestite che parecon postula?

Devo dire che non penso che lo sviluppo tecnologico sia incontrollato. E, dalla tua domanda, penso che tu sia d’accordo.  Quando ero all’università, ad esempio, in un’istituzione tecnica, mi sono reso conto che  anche se era considerato una bella cosa che i tizi pensassero a come ottenere delle bombe che potessero rintracciare il loro bersaglio (la cosa è stata realizzata per la prima volta intorno al 1970 ed è stata utilizzata, in forma rudimentale, contro le dighe in Vietnam) e che ci fosse una quantità di fondi per perseguire tale “compito tecnico”, non era bello ideare come abbattere un bombardiere B-52 con un’arma manuale.  Non c’erano fondi per questo “compito tecnico”. I compiti erano entrambi ugualmente interessanti e  difficili. La differenza stava nel fatto che il primo compito era negli interessi del potere dell’élite.  Il secondo era contrario a tali interessi.  E perciò era chiaro in modo evidente che la curiosità tecnologica e gli sforzi degli ingegneri e degli scienziati erano  canalizzati . controllati – almeno nelle loro applicazioni, dalle istituzioni d’élite del contesto.  Lo stesso vale più in generale.  Non c’è sostegno per lo studio tecnico di come organizzare i luoghi di lavoro e creare strumenti di lavoro che consentano ai lavoratori di finire per avere maggior potere e di essere in maggiore contatto gli uni con gli altri utilizzandoli.  C’è un mucchio di sostegno per fare il contrario: avere strumenti e luoghi di lavoro che frammentino e, così facendo, indeboliscano i lavoratori.  Di nuovo, quello per cui le tecnologie sono addirittura concepite è controllato.  Potremmo continuare, ma una volta che il problema è messo in questi termini, il punto è evidente anche ai ciechi.  Costruire obsolescenza, perfetto.  Manipolazione mediatica, perfetto. Bombe più grandi ed efficaci, perfetto.  Alimenti economici di lunga durata, non tanto perfetto.  Sincerità dei media, scordatevelo. Strumenti migliori per l’autodifesa collettiva dei deboli e dei poveri, stiamo scherzando?

OK, detto questo, abbiamo una tecnologia che promuove la gerarchia esattamente perché la ricerca e le realizzazioni tecnologiche avvengono nell’ambito del capitale e dello stato. Dunque il percorso migliore per ottenere una tecnologia migliore è uguale al percorso reale per rendere migliore qualsiasi cosa. In primo luogo dobbiamo costruire movimenti che siano capaci di ottenere miglioramenti.  Ciò significa che devono essere in grado di raccogliere un numero di persone sufficiente, e sufficiente impegno, per forzare i risultati che chiediamo.  E ciò significa che devono opporre alle élite una situazione in cui non arrendersi alle nostre richieste è anche peggio – a motivo di quanto più ciò ci provocherà – che non arrendersi.  E’ così che si vincono le battaglie.  In secondo luogo piantando  i semi del futuro nel presente, inclusa la costruzione delle nostre proprie istituzioni, possiamo cercare di introdurre nuove tecnologie nostre. In alcuni campi ciò ci è precluso, almeno per ora, dai costi.  Ma in altri, riguardanti temi di organizzazione e strumenti semplici, è, sospetto, già parecchio possibile, se rendiamo ciò uno dei nostri scopi.

Ad esempio, anche se so che molti a sinistra non solo utilizzano ma anche celebrano Twitter e Facebook, – e la tecnologia delle reti sociali che questi due sistemi elaborano – di fatto queste società e le loro tecnologie sono notevoli esempi attuali di ciò su cui si concentra la tua domanda. Prendono una possibilità sociale che ha un enorme potenziale positivo – comunicazioni e reti a prezzo molto basso a due vie e multidirezionali –  e la pervertono in modo orribile. Ciò è ovviamente prevedibile.  Ci sono imprese immense con strutture societarie, coscienza imprenditoriale e priorità societarie, e dunque che altro ci si potrebbe attendere? Ed è una questione non solo di violazione della privacy e di intensi ampliamenti della commercializzazione, ma anche di una inclinazione sottile e in realtà piuttosto perversa  nei confronti di ogni tipo di mentalità compulsiva e molto competitiva nella comunicazione che riduce il contenuto a idiozie, compromette la durata dell’attenzione, prostituisce l’idea di amicizia ecc.   C’è molto da dire, e con possibili approfondimenti di tutte queste risposte. Ma il punto qui è che questo è un caso insolito in cui anche se queste società hanno a disposizione risorse gigantesche e spendono somme di denaro inimmaginabili nelle infrastrutture e nelle ricerche tecniche, tuttavia è ben possibile che persone e anarchici bene intenzionati, se smettessimo di essere schiavi di Facebook e di Twitter, potrebbero generare strumenti di reti sociali che invertano le tendenze negative che queste imprese impongono e offrono. Potrebbe, invece, essere creata una tecnologia più coerente con il perseguimento della Parecon e, più in generale, con una comunicazione più sana e piena di contenuto. In effetti noi, a Z Communications, lavoriamo con impegno a questo compito.

13. In un’economia in cui i mezzi di produzione abbiano uno status di proprietà sociale, quanto sono responsabili i lavoratori che amministrano l’attività autogestita dei successi e dei fallimenti della propria società? Dovrebbero applicarsi incentivi penalizzanti o positivi in base ai risultati dei lavoratori, nel caso in cui il processo produttivo non sia stato influenzato da fattori esterni?

La domanda è incentrata sulla necessità di avere un’economia che non sprechi le risorse, l’energia e gli sforzi umani in attività disfunzionali, o producendo cose di cui non vi è necessità o producendo a un livello di qualità basso cose che potrebbero essere fatte molto meglio. Un’economia deve tirar fuori l’eccellenza, non nel conseguire profitti bensì nel soddisfare i bisogni e nello sviluppare i potenziali.

Un approccio consiste nel premiare la buona produzione e nel punire quella cattiva. Ma la parecon afferma che le persone sono remunerate per la durata, l’intensità e l’onerosità del lavoro socialmente valido.  E ciò non implica premi o punizioni per sé, ma in relazione all’equa e giusta allocazione. E allora cosa si fa?

Bene, nel capitalismo o nel socialismo del ventesimo secolo, se chiudiamo una fabbrica, ciò colpisce chi vi lavora con la disoccupazione.  All’altro estremo delle possibilità, se permettiamo le fabbriche accumulino i surplus che possono conseguire mediante grandi vendite e bassi costi, si premia un certo tipo di successo che, comunque, non è un successo nel soddisfare i bisogni e nello sviluppare i potenziali, bensì nel generare profitti.

Parecon è diversa. In primo luogo il lavoro deve essere socialmente utile per essere remunerato.  Non posso essere il portiere di una squadra di calcio spagnola,  perché il mio lavoro sarebbe inutile; in realtà peggio, che inutile. E perciò non meriterebbe un reddito.  A tale riguardo vi è una forte correlazione tra luoghi di lavoro che funzionano bene – il che significa che applicano le proprie risorse ed energie e realmente producono risultati desiderati – e la remunerazione dei loro lavoratori.  Ma, tornando all’esempio del calcio, se io fossi un grande portiere, potrei avere quel lavoro. Ma non avrei un reddito enorme per il fatto di essere così bravo; riceverei solo la remunerazione per la durata, la durezza e l’onerosità delle condizioni del mio lavoro, e avrei una combinazione equilibrata di compiti.  Perciò c’è una pressione per soddisfare bisogni, ma non premi eccessivi per farlo.

Ma cosa succede se la mia squadra fa schifo, o se la mia fabbrica produce cose che la gente non vuole più o produce qualcosa che è desiderato, ma in un modo inefficace che spreca energie e lavoro, ecc.  Chiaramente deve esserci un cambiamento. Forse delle innovazioni possono correggere la situazione. Forse la fabbrica, o anche la squadra, devono cambiare prodotto.  O forse l’intera cosa deve essere chiusa e le persone devono lavorare a nuovi scopi.  Ciò che previene questi passi in alcuni sistemi, o li rende difficili, è che essi colpiscono le persone e non si vogliono colpire le persone, e le persone, dal canto loro, non voglio essere colpite.  Ma in un’economia partecipativa se quel  che voglio produrre non è più considerato utile, in realtà il mio continuare a produrlo danneggia la società – sprecando capacità produttiva – e non ha alcun utile neanche per me.  Meglio che io passi a produrre qualcosa di desiderato; il mio reddito non diminuisce nella transizione.  C’è sempre piena occupazione per quelli che vogliono lavorare, poiché ciò è nell’interesse di tutti considerate le istituzioni della parecon che rendono il benessere di ciascuno dipendente da quello di tutti gli altri.

14. L’autogestione e la proprietà sociale dei mezzi di produzione hanno un problema intrinseco: il conflitto tra la libertà individuale e il benessere del collettivo. Un buon esempio può essere il caso in cui un’impresa che ha operato bene sia costretta, contro la volontà dell’assemblea dell’azienda, a impiegare lavoratori finiti disoccupati, riducendo il benessere dei lavoratori che originariamente vi lavoravano.  Il principio dell’autogestione potrebbe essere compromesso per perseguire il principio della solidarietà.  Pensi che le assemblee siano l’istituzione migliore per gestire tali problemi? O dovrebbero essere create nuove istituzioni per gestirli?

Ci sono tempi in cui le difficoltà di alcuni, se devono essere affrontate, esigono che il benessere di altri diminuisca un poco.  Ma penso che il caso che tu proponi non sia un buon esempio di questo. Così, un luogo di lavoro che sia socialmente utile con N ore di lavoro non sarà richiesto di aumentare le N ore assumendo nuovi lavoratori.  Non avrebbe senso. N ore sono quelle che servono.  Più ore non sarebbero socialmente utili, e perciò non garantirebbero un reddito.  Ora, come in una risposta precedente, se per qualche motivo c’è un 10% di disoccupazione nella società, allora sì, tutti i luoghi di lavoro assumerebbero un ulteriore 10% di dipendenti, ma tutti lavorerebbero meno ore cosicché il lavoro totale di tutti i lavoratori resterebbe grosso modo immutato, a meno che la popolazione non scelga di perseguire una produzione maggiore.  Ciò distribuisce il prodotto sociale totale sotto forma di reddito tra tutta la popolazione, piuttosto che tra il 90% della popolazione, perciò, in quel senso, la domanda è corretta.  Penso che i mezzi per gestire ciò sono le norme della vita sociale, principalmente … e allora sì, le istituzioni della società, le procedure di pianificazione, le assemblee, ecc.

Ma se parliamo qualcosa di più locale, allora la situazione è diversa. Non ha senso avere un numero maggiore di persone che lavori per più ore, per ottenere la stessa produzione.  Ha senso, se alcuni sono disoccupati a causa di una domanda in diminuzione per quello che producevano, far sì che, ad esempio, passino a produrre qualcosa di diverso, ma le altre cose che producono dovrebbero essere cose che la gente vuole. Perciò, dovunque lavorino, il loro entrare a far parte dell’azienda non porta a minori redditi per quelli che vi lavorano, né ha altre conseguenze dannose; si traduce semplicemente in maggior produzione di un genere desiderato.

15. Collegato al lavoro dei “comitati di agevolazione delle iterazioni” nel distribuire le risorse in un’economia partecipativa, quali strumenti economici e matematici sarebbero utili? La programmazione lineare e la teoria dei giochi potrebbero essere strumenti utili?

La tua prima domanda rivela uno degli scopi di questi “comitati”, insieme con la raccolta, l’organizzazione e la diffusione delle informazioni rilevanti a ciascun protagonista  con la valutazione delle sue aspettative, ecc.  Certamente l’analisi input/output e la programmazione lineare sono rilevanti nell’individuare le implicazioni e i dati delle preferenze dei piani in elaborazione, sì. La teoria dei giochi è un po’ meno ovvia, ma sì, in un certo senso, forse. Vedremo. L’analisi statistica, comunque, sarebbe certamente molto rilevante. Le proiezioni su come i desideri di certi tipi prevalenti di produzioni – diciamo le camicie – si suddividono tipologicamente, ad esempio, sarebbero importanti. E lo stesso vale per probabili andamenti del tempo, o questioni riguardanti le nascite e le morti, e specialmente le punte di qualsiasi fenomeno simile , o del clima, diciamo, o della salute, in quanto abbiano influenza sulle questioni di pianificazione. E così via.

16.  Nell’economia socialista jugoslava lo stato, così come molte banche regionali, forniva enormi quantità di credito in modo che le grandi industrie nazionali che impiegavano molti lavoratori potessero restare operative e non crescesse la disoccupazione, creando grandi buchi neri che hanno assorbito una parte notevole della ricchezza del paese.  Pensi che in una società partecipativa le imprese inefficienti dovrebbero essere mantenute in modo da non distruggere posti di lavoro?

La Jugoslavia era un’economia di mercato coordinatorista, il che significa che aveva molte caratteristiche dannose.  No, le aziende che sprecano patrimoni di valore non dovrebbero essere conservate ma ovviamente i posti di lavoro sarebbero assicurati. Immagina, come  esperimento puramente  mentale,  un’economia con 1.000 prodotti. Dieci dei prodotti impiegano di gran lunga più lavoratori, gli altri di meno, diciamo.  Supponi che i gusti cambino, o cambino le tecnologie di produzione, ed uno dei luoghi di lavoro ad alta occupazione non abbia più senso come luogo in cui utilizzare lavoro, energia e risorse.  La questione è dire, più o meno: possiamo permetterci di chiudere quella produzione, dato che vi lavorano così tante persone, o dovremmo conservarla, insieme con i posti di lavoro, anche se non ha più senso alla luce dei desideri della gente di beni diversi, alla luce di altre tecniche, ecc.?

La risposta è che dovremmo chiuderla, ovviamente.  Gente che lavora a roba che nessuno vuole, sprecando energie e risorse, ecc, è un’idiozia.  Ma quelli che vi sono impiegati dovrebbero finire con un nuovo lavoro, o ristrutturando il loro luogo di lavoro, o se il luogo di lavoro precedente deve letteralmente essere chiuso, o trasformato in parco giochi, o qualsiasi altra cosa, allora in luoghi di lavoro nuovi o diversi. Questo è quel che fa una pianificazione ragionevole.

Ma, potresti dire, cosa succede se le merci che venivano prodotte non sono più richieste e nessun nuovo desiderio prende il loro posto?  La gente sta bene senza i vecchi prodotti e senza avere nient’altro di nuovo.  In altre parole, la gente sta bene con un livello totale di consumi basso. Molto bene. In quel caso tutti lavoro in qualche modo di meno. E quelli che stavano nell’industria chiusa, lavorano anch’essi in quella misura, come tutti, e poiché tutti sono soddisfatti con meno roba, allora diminuisce la quantità di lavoro totale.  Se la gente vuole più roba, le ore di lavoro crescono.  Questo è lo stesso problema trattato in precedente: disoccupazione dovuta a una domanda diminuita.  Non è una cosa cattiva, quando accade.  Significa soltanto che le persone, complessivamente, preferiscono più tempo libero a più roba; una scelta che le persone dovrebbero essere libere di fare, ma che dovrebbe avere su di loro un impatto simile, piuttosto che alcuni diventino più poveri a causa della disoccupazione.

In effetti gli economisti convenzionali hanno avuto, che io sappia, solo una critica all’economia partecipativa. Dicono: la parecon non incorpora una spinta all’accumulo.  Non costringe a lunghi orari ad alta intensità, indipendentemente dai desideri delle persone. Sottolineano che questo indica che un’economia partecipativa probabilmente opterà per una minore produzione e per maggior tempo libero, e affermano che questa è una critica incriminante.  E’ molto divertente quando la principale critica professionale di quel che si favorisce è in realtà un complemento, non un difetto. Sì, in un’economia partecipativa, le persone possono scegliere di lavorare di meno, senza pressioni per essere costrette a maggior lavoro. Ma questa è una virtù, non una carenza.

17. Come possono interagire le economie regionali e nazionali gestite in modo partecipativo con le altre economie governate dai meccanismi del sistema di mercato? I prezzi internazionali non sarebbero una minaccia al sistema interno della parecon, costringendola ad adattarsi alla competizione internazionale? Credi sia possibile che la parecon coesista con altre regioni e paesi capitalisti?

Immagina che la Spagna sia un’economia partecipativa.  Questo è un salto mentale, non semplicemente perché implica che la popolazione spagnola rivoluzioni l’economia, la politica e l’intera società spagnola, ma poiché implicherebbe che il programma spagnolo non sia sovvertito da una reazione violenta dall’esterno,  molto probabilmente in larga misura su per conto di, e organizzata e realizzata dall’esercito statunitense.  Così, bene, facciamo finta che accada e che i movimenti statunitensi siano  forti abbastanza da evitare l’intervento statunitense, e lo stesso per i movimenti tedeschi, e i movimenti inglesi, ecc.

O, se preferisci, puoi pensare a cosa succederebbe se una tale trasformazione avesse luogo negli Stati Uniti, ma non nella maggior parte degli altri luoghi.  O se si verificasse in un paese più povero e più debole che, in qualche modo, sia in grado di tener fuori, con la solidarietà internazionale, la violenza esterna.

In uno qualsiasi di questi casi, la nuova società partecipativa con un’economia partecipativa interagisce anche sulla scena internazionale, compresa la volontà  di esportare alcuni dei propri prodotti e di importare alcuni prodotti da altri paesi.  Tali scambi si verificano perché se ne possono trarre dei vantaggi.  Un paese ha un clima, o una storia, o qualsiasi altra cosa che facilita la produzione di X, un altro paese produce, invece, Y; ciascuno dei due paesi ha bisogno di qualcosa che l’altro ha, e i due commerciano.  Il passaggio ha vantaggi.  Attualmente il paese che ha una gran forza negoziale (ciò è vero nelle transazioni interne e sui mercati internazionali) ricava la maggior parte dei vantaggi che tipicamente, perciò, allarga le differenze di ricchezza e di potere tra i due.  In effetti la globalizzazione delle imprese riguarda sistematicamente l’alterazione delle regole degli scambi in modo che i relativi vantaggi per le parti più forti aumentino ancor di più e quelli delle parti più deboli scendano ancora più in basso. L’internazionalismo dovrebbe avere il programma opposto.

Un’economia partecipativa, al contrario di quelle con l’allocazione di mercato, vorrebbe commerciare a tassi governati da negoziazioni cooperative di risorse e produzioni alla luce di costi e benefici sociali ed ecologici veri e completi.  Ipotizzando di non avere la parecon a livello mondiale, ciò non può essere fatto in  modo perfetto. Ma ci si può arrivare vicino. Si può cercare di individuare rapporti di scambio equi che riducano le differenze di ricchezza e di potere, piuttosto che ampliarle.

Poi, se una parecon realizza scambi con un paese più debole e più povero, anche se i prezzi di mercato avvantaggerebbero di più la parecon, dovrebbe, per solidarietà e in conformità ai propri valori, scambiare a tassi parecon, al meglio di quanto essi possano essere approssimati, invece, dando così al partner commerciale più debole una quantità maggiore dei vantaggi legati alla transazione.  Se un’economia partecipativa scambiasse con un paese più ricco e potente, anche se preferirebbe utilizzare prezzi parecon – in tal caso a proprio vantaggio – hai ragione sul fatto che tipicamente userebbe invece prezzi di mercato, oppure rinuncerebbe del tutto agli scambi. Ovviamente cc’è spazio per molte discussioni e approfondimenti delle opzioni, ma penso che questo sia il quadro generale.

 Da ZNet – Lo spirito della resistenza è vivo

Fonte: CNT spagnola

Traduzione di Giuseppe Volpe

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Michael Albert presenta la Parecon

18 domenica Set 2011

Posted by Redazione in Michael Albert, Parecon, Video

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The ‘Alternative Economy Cultures (alt.econ.cult) programme on April 3rd – 5th brings together leading international and Finnish thinkers, cultural practitioners and activists, to present alternative economic visions. The seminar aims to tackle not just the financial, but the social, cultural, institutional, human, material, emotional and intellectual forms of capital. Not just about individual gain, boosting, balancing or bail-outs, but common good, peer-to-peer, shared wealth and appropriate reward for effort involved. Bridging the gap between presentations, reflections and things-to-be-done, the discussion-based workshop about peer-fundraising.

Can the crowd-sourcing phenomena be applied to support alternative cultural events in Finland?

Friday 3rd April, 10.00 – 18.00 FULL 1-DAY SEMINAR Cultural practitioners, activists, and economic theorists from Finland and abroad, working from different contexts, strategies and institutional backgrounds, have been invited to contribute to this theme.

Michael Albert (US), Michel Bauwens (BE/TH), Geraldine Juárez (MX), Tapani Köppä (FI), Kristoffer Lawson of Scred (FI), Wojtek Mejor (PL), Saija-Riitta Sadeoja of Porkkanamafia (FI), Oliver Ressler (AT), Sara Sajjad of Piratbyrån (SE), Felix Stalder (AT), Tere Vadén (FI), and Eero Yli-Vakkuri of Uuva Project (FI).

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