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NATO contro Pakistan

30 mercoledì Nov 2011

Posted by Redazione in Afghanistan, Asia, Guerra al terrore, Pakistan, Tariq Ali

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Tag

attacco, attentati, checkpoint, esercito, generale Pasha, Haqqani, ISI, Islamabad, Kabul, Mansoor Jiaz, Mike Mullen, NATO, Obama, posto di controllo, Shamsi, sovranità, tradimento, usa, Zardari, Zona Verde

di Tariq  Ali –  30 novembre  2011

L’attacco della NATO al posto di controllo pachistano in prossimità del confine afgano che sabato  ha ucciso 24 soldati deve essere stato deliberato.  Ai  comandanti NATO sono state da tempo fornite dall’esercito Pakistano mappe che segnalano questi posti di controllo. Sapevano che il bersaglio era un avamposto dell’esercito. La spiegazione che essi avevano subito per primi gli spari suona falsa ed è stata violentemente negata da Islamabad.  In precedenza attacchi simili erano dichiarati ‘accidentali’ e venivano presentate, e accettate, scuse.  Questa volta la cosa sembra più grave.  Si è verificata troppo a ridosso di altre ‘violazioni della sovranità’, nelle parole della stampa locale, ma la sovranità pakistana è una finzione.  L’alto comando dell’esercito e i capi politici hanno spontaneamente abdicato alla propria sovranità molti decenni addietro.  Quel che è oggi motivo di vera preoccupazione è che essa sia violata apertamente e brutalmente.

Per rappresaglia il Pakistan ha bloccato i convogli NATO diretti in Afghanistan (il 49% dei quali attraversa il paese) e ha chiesto agli Stati Uniti di sgombrare la base di Shamsi da essi costruita per lanciare attacchi di droni contro obiettivi sia in Afghanistan sia in Pakistan con il permesso dei governanti del paese.  A Islamabad era stata concessa una foglia di fico giuridica: nei documenti ufficiali la base era ufficialmente affittata dagli Emirati Arabi Uniti, la cui ‘sovranità’ è ancor più flessibile di quella del Pakistan.

I motivi dell’attacco restano un mistero, ma il suo impatto no.  Esso creerà ulteriori divisioni all’interno dell’esercito, indebolirà ulteriormente il venale regime di Zardari, rafforzerà i militanti religiosi e farà sì che gli Stati Uniti siano ancor più odiati in Pakistan di quanto già lo erano.

E allora perché farlo?  Era inteso come una provocazione? Obama pensa sul serio di scatenare una guerra civile in un paese già a pezzi? Alcuni commentatori di Islamabad stanno sostenendo questo, ma è improbabile che le truppe NATO occuperanno il Pakistan. Una svolta così irrazionale sarebbe difficile da giustificare in termini di qualsiasi interesse imperiale.  Forse è stato semplicemente un ‘occhio per occhio’ per punire l’esercito pakistano per aver inviato alcuni mesi fa la rete Haqqani a compiere attentati contro l’ambasciata USA e il quartier generale della NATO nella ‘Zona Verde’ di Kabul.

L’attacco NATO arriva sulla scia di un’altra crisi.  Uno dei fidati portaborse di Zardari e della sua defunta moglie a Washington, Husain Haqqani, i cui collegamenti con le agenzie dei servizi segreti USA risalenti agli anni ’70 lo hanno reso un utile intermediario e che Zardari ha nominato ambasciatore del Pakistan a Washington, è stato costretto alle dimissioni.  Haqqani, cui spesso ci si riferiva come all’ambasciatore in Pakistan, sembra essere stato colto con le mani nel sacco: egli risulterebbe aver chiesto a Mansoor Jiaz, un multimilionario vicino alla dirigenza della difesa USA, di portare un messaggio all’ammiraglio Mike Mullen, in cui si sollecitava il suo aiuto contro l’esercito pakistano e veniva offerto in cambio di disperdere la rete Haqqani e di sciogliere l’ISI [la più importante branca dei servizi segreti pakistani – n.d.t.] e di eseguire tutte le istruzioni di Washington.

Mullen ha negato di aver ricevuto un qualsiasi messaggio. Un subordinato dell’esercito lo ha contraddetto. Mullen ha cambiato la sua versione e ha detto che un messaggio era stato ricevuto e ignorato.  Quando l’ISI ha scoperto questo ‘atto di tradimento’, Haqqani, invece di dire  che stava agendo in base a ordini di Zardari, ha negato l’intera storia.  Sfortunatamente per lui, il capo dell’ISI, generale Pasha, aveva incontrato Jiaz e gli era stato dato il Blackberry con i messaggi e le istruzioni. Haqqani non ha avuto altra scelta che dimettersi. Le richieste di processarlo e impiccarlo (le due cose vanno spesso insieme quando c’è di mezzo l’esercito) vanno crescendo. Zardari è schierato con il suo uomo.  L’esercito vuole la sua testa. E ora la NATO è entrata nella mischia. Questa storia non è ancora finita.

Il libro più recente di TARIQ ALI è ‘The Obama Syndrome: Surrender at Home, War Abroad’ [La sindrome di Obama: resa in patria e guerra all’estero]

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/nato-vs-pakistan-by-tariq-ali

Fonte: Counterpunch

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Crisi: quel che forse si dovrebbe fare

29 sabato Ott 2011

Posted by Redazione in Economia, Mondo, Tariq Ali

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Tag

bolivaristi, bolivia, Bush, capitalismo, Clinton, Costituzione Europea, crisi del 2008, Ecuador, Edmund Burke, Glasgow, grecia, H.D. Dickinson, Irlanda, Islanda, Italia, jacqueries, Londra, neoliberalismo, New York, Obama, occupywallstreet, Oscar Wild, Paraguay, Pasok, peru, Portogallo, Reagan, Restaurazione, spagna, Utopia, venezuela, Wall Street

 

 

 

di Tariq Ali  (27 ottobre 2011)

 

“Non vale la pena di guardare una mappa del mondo che non includa Utopia,” ha scritto Oscar Wilde, “perché lascia fuori l’unico paese nel quale l’umanità finisce per approdare. E quando l’umanità ci approda, si guarda in giro, e vedendo un paese migliore, salpa le ancore. Il progresso è la realizzazione delle utopie.” Lo spirito di quel socialista del diciannovesimo secolo vive tra i giovani idealisti che sono scesi nelle piazze a protestare contro il turbocapitalismo globale che ha dominato il mondo a partire dal collasso dell’Unione Sovietica.

I manifestanti di Occupy Wall Street [Occupiamo Wall Street] che hanno preso residenza nel cuore del distretto finanziario di New York stanno dimostrando contro un sistema di dispotismo del capitale finanziario; un vampiro infettato dall’avidità che, per sopravvivere, deve succhiare il sangue dei non ricchi.  I manifestanti mostrano il loro disprezzo nei confronti dei banchieri, delle loro speculazioni finanziarie e dei loro media mercenari che continuano a insistere che non ci sono alternative. Da quando il sistema di Wall Street domina l’Europa, esistono anche qui versioni locali di quel modello. (E’ stato interessante che gli occupanti di Wall Street, e non gli indignados spagnoli o i lavoratori greci in sciopero che hanno avuto un impatto in Inghilterra, rivelino ancora una volta che le vere affinità questo paese  [Tariq Ali scrive dall’Inghilterra – n.d.t.] sono atlantiche, piuttosto che Europee.) I giovani aggrediti con lo spray al peperoncino dalla polizia di New York (NYPD) possono non aver elaborato quello che vogliono, ma è poco ma sicuro che sanno cosa non vogliono e ciò è un inizio importante.

Come siamo arrivati a questo punto? In seguito al collasso del comunismo nel 1991, l’idea di Edmund Burke che “in tutte le società costituite da classi diverse, certe classi devono necessariamente stare più alto” e che “gli apostoli dell’eguaglianza non fanno che cambiare e pervertire il naturale ordine delle cose” è diventata la saggezza del buon senso dell’epoca. Il denaro ha corrotto  la politica,  l’alta finanza l’ha corrotta del tutto. In tutti i centri del capitale abbiamo assistito all’emergere di: Repubblicani e Democratici negli Stati Uniti; Neolaburisti e Conservatori nello stato vassallo dell’Inghilterra; dei Socialisti e Conservatori in Francia; delle coalizioni tedesche, del centrodestra e centrosinistra scandinavi, e così via. In virtualmente ciascuno di questi casi  il sistema bipartitico si è trasformato in un efficace governo nazionale.  E’ entrato in gioco un nuovo estremismo del mercato.  L’ingresso del capitale nei sacri domini delle provvidenze sociali è stato considerato una “riforma” necessaria. Le iniziative della finanza privata che hanno punito il settore pubblico sono diventate la norma e paesi come la Francia e la Germania che erano visti non procedere abbastanza rapidamente in direzione del paradiso neoliberale sono stati regolarmente denunciati sull’Economist e sul Financial Times.

Mettere in discussione questa svolta, difendere il settore pubblico, argomentare a favore della proprietà statale dei servizi pubblici, contrastare la svendita dell’edilizia pubblica, significava essere considerati dinosauri “conservatori”. Tutti erano ora clienti, invece che cittadini; giovani  accademici neolaburisti ambiziosi erano soliti riferirsi timidamente  a quelli costretti a leggere i loro libri come a “clienti”, come a dire che siamo tutti capitalisti adesso. Le élite del potere sociale ed economico riflettevano le nuove realtà. Il mercato era diventato il nuovo Dio, preferibile allo stato.

Ma quelli che si erano bevuti queste idee non si sono mai chiesti: com’è che è successo questo? In realtà è stato necessario lo stato per effettuare la transizione. Interventi statali per puntellare il mercato e  aiutare i ricchi era una cosa che andava bene. E dato che nessun partito offriva un’alternativa i cittadini del Nord America e dell’Europa si sono fidati dei propri politici e si sono avviati come sonnambuli al disastro.

I politici di centro, intossicati dai trionfi del capitalismo, non erano preparati alla crisi di Wall Street del 2008. Lo stesso dicasi della maggior parte dei cittadini, infinocchiati da enormi campagne pubblicitarie che offrivano credito facile e da media domati e acritici, a credere che tutto andasse bene. I leader potevano non essere carismatici ma sapevano come gestire il sistema. Lasciate fare tutto ai politici. Il prezzo di questa apatia istituzionalizzata si paga ora. (A essere corretti, il popolo irlandese e quello francese avevano annusato il disastro nei dibattiti sulla costituzione europea che aveva posto al suo centro il neoliberalismo, e avevano votato contro di essa. Furono ignorati.)

Era comunque evidente a molti economisti che Wall Street stava deliberatamente pianificando la bolla immobiliare, spendendo miliardi in campagne pubblicitarie per incoraggiare la gente ad assumere secondi mutui e ad accrescere i debiti personali per spendere ciecamente in consumi. La bolla doveva scoppiare e quando lo ha fatto il sistema ha vacillato sino a quando lo stato non ha salvato le banche dal collasso totale. Socialismo per i ricchi. Con  la crisi che si diffondeva in Europa, le regole del mercato unico e della concorrenza venivano scaricate nel cesso mentre la UE montava un’operazione di salvataggio.  Le discipline del mercato venivano ora convenientemente dimenticate. L’estrema destra è piccola. L’estrema sinistra a malapena esiste.  E’ l’estremo centro che domina la vita politica e sociale.

Mentre alcuni paesi crollavano (Islanda, Irlanda, Grecia) e altri (Portogallo, Spagna, Italia) contemplavano l’abisso, la UE (in realtà la UB, Unione dei Banchieri) è intervenuta per imporre l’austerità e salvare i sistemi bancari francese, tedesco e inglese. Le tensioni tra il mercato e la responsabilità democratica non potevano essere mascherate più a lungo. L’élite greca fu ricattata alla totale sottomissione e le misure d’austerità ficcate in gola alla cittadinanza hanno portato il paese sull’orlo della rivoluzione. La Grecia è l’anello più debole della catena del capitalismo europeo, la sua democrazia è da molto finita sommersa sotto le onde del capitalismo in crisi.  Scioperi generali e proteste creative hanno reso molto difficile il compito degli estremisti di centro. Osservando le recenti immagini di Atene, in cui la polizia ha usato la forza per evitare che decine di migliaia di cittadini entrassero nel parlamento si sente che i governanti del paese potrebbero non essere in grado di governarlo alla vecchia maniera troppo a lungo.

In precedenza, quest’anno, a Tessalonicco, dove tenevo un discorso a un festival letterario, i principali interessi del pubblico erano politici ed economici, piuttosto che letterari. C’era un’alternativa? Cosa si doveva fare? Essere immediatamente inadempienti, ho risposto. Lasciare l’eurozona, reintrodurre la dracma, istituire una pianificazione a livello locale, regionale e nazionale, coinvolgere la gente nel dibattito su come stabilizzare il paese ma non a spese dei poveri. Ai ricchi dovrebbero essere fatti vomitare i soldi (mediante una tassazione speciale) che hanno accumulato con mezzi sospetti nel corso dell’ultimo decennio. Ma i politici privi di visione al centro del sistema sono ben lontani da idee simili. Molti di loro sono a libro paga del limitato numero di persone che possiede e controlla le risorse economiche di un paese.

Gli Stati Uniti, tormentati dal debito, sotto Obama (un presidente che a tutti i fini pratici ha continuato le politiche del suo predecessore) hanno visto emergere un nuovo movimento di protesta che si è diffuso in tutte le grandi città. L’energia dei giovani occupanti è ammirevole. La primavera è rifuggita troppo a lungo dal cuore degli Stati Uniti politici. I freddi inverni degli anni di Reagan e di Bush non si sono sgelati con Clinton e Obama: uomini vuoti che governano un sistema vuoto in cui il denaro supera in potere qualsiasi altra cosa e lo stato molto chiacchierato è utilizzato principalmente per preservare lo status quo finanziario e per finanziare le guerre del ventunesimo secolo.

La nebbia della confusione si è finalmente sollevata e la gente cerca alternative, ma senza partiti politici poiché virtualmente sono stati tutti rilevati carenti.  Le occupazioni attualmente in atto a New York, Londra, Glasgow e altrove, sono molto diverse dalle proteste del passato. Sono azioni organizzate in tempi di crescente disoccupazione e in cui il futuro appare sinistro. Una maggioranza di giovani – nonostante le dichiarazioni isteriche che le cose non stiano così – non otterrà un’istruzione superiore a meno che non riesca a mettere insieme grandi quantità di denaro e, senza dubbio, dovrà presto affrontare un sistema sanitario a due livelli. La democrazia capitalista presuppone oggi un fondamentale accordo tra i principali partiti rappresentati in Parlamento in modo tale che i loro battibecchi, limitati dalla loro moderazione, divengano del tutto insignificanti.  In altre parole, i cittadini non possono più decidere chi (e come) controlli la ricchezza di un paese, ricchezza che il larga misura è stata creata dagli stessi cittadini.

Se questioni cruciali, come l’allocazione delle risorse, le provvidenze relative all’assistenza sociale, la distribuzione della ricchezza non sono più oggetto di dibattiti reali nelle assemblee rappresentative, perché sorprendersi per l’allontanamento dei giovani dalla politica convenzionale e per la delusione nei confronti di Obama e delle sue parodie globali? E’ questo che spinge la gente nelle strade di più di 90 città.  I politici si sono rifiutati di accettare che la crisi del 2008 sia stata collegata alle politiche neoliberali che hanno perseguito sin dagli anni ’80.  Hanno presunto di poterla fare franca proseguendo come se niente fosse accaduto, ma i movimenti dal basso hanno messo in discussione questa presunzione.  Le occupazioni e le proteste nelle strade contro il capitalismo sono in qualche modo analoghe alle jacquerie (rivolte) contadine dei secoli precedenti.  Condizioni inaccettabili hanno portato a rivolte, che sono poi state represse o si sono calmate per decisione loro. Quel che è importante è che esse sono presagi di quel che ancora sta per venire se le condizioni restano quelle che sono.  Nessun movimento può sopravvivere a meno che crei una struttura democratica permanente per mantenere la continuità politica. Maggiore il supporto a movimenti di questo tipo, maggiore la necessità di una qualche forma di organizzazione.

Le rivoluzioni modello sudamericane contro il neoliberalismo e le sue istituzioni globali sono significative a questo riguardo.  Lotte enormi e vincenti in Venezuela contro il FMI, contro la privatizzazione dell’acqua in Bolivia, e contro la privatizzazione dell’elettricità in Perù, hanno creato le basi per nuove politiche, che hanno trionfato alle urne nei due primi paesi così come in Ecuador e Paraguay. Una volta eletti, i nuovi governi hanno cominciato a mettere in atto, con vari gradi di successo,  le riforme economiche e sociali promesse. Il consiglio offerto al Partito Laburista in Inghilterra nel 1958 dal professor H.D. Dickinson sul New Statesman è stato rifiutato dai Laburisti ma accettato dai capi bolivaristi del Venezuela circa quarant’anni più tardi:

“Perché lo stato sociale sopravviva, lo stato deve trovare una fonte di reddito, propria, una fonte in ordine alla quale abbia titolo prevalente rispetto a quello … dei percettori di profitti. L’unica fonte che io riesco a vedere è quella della proprietà produttiva. Lo stato deve arrivare, in un modo o nell’altro, a possedere una vasta quota della terra e del capitale del paese.  Può non essere una politica popolare: ma, se non è perseguita, la politica del miglioramento dei servizi sociali, che è una politica popolare, diventerà impossibile. Non si possono socializzare a lungo i mezzi di consumo se prima non si socializzano i mezzi di produzione.”

I governanti del mondo vedranno in queste parole poco più che un’espressione di utopismo, ma si sbagliano.  Poiché queste sono riforme strutturali che sono davvero necessarie, non quelli che vengono sollecitate da isolati dirigenti del Pasok ad Atene.  Per quella via si va a ulteriori privazioni, maggior disoccupazione e al disastro sociale.  Quella che è necessaria è una svolta completa preceduta da un’ammissione pubblica che il sistema di Wall Street non è stato capace di funzionare, né poteva farlo, e deve essere abbandonato.  I suoi seguaci inglesi, come tutti i convertiti, sono stati più impietosi e spietati nella loro accettazione del mercato come unico arbitro, sostenuto da una macchina statale neoliberale.  Continuare su questa via richiederà nuovi meccanismi di dominio che lasceranno la democrazia poco più che una scatola vuota. Gli occupanti sono istintivamente consapevoli di questo, che è il motivo per cui sono qui oggi.  Lo stesso non si può dire dei politici estremisti del centro.

Provo assoluta ammirazione per i giovani che occupano le strade e le piazze in differenti parti del mondo.  Sfidano i nostri governanti con umorismo, brio e stile. Ma i banchieri e i politici dal muso duro non saranno facili da sfrattare. E’ necessario un decennio di lotte e di organizzazione per conseguire qualche vittoria.  Perché non unire il maggior numero di persone possibile in una carta delle richieste – un “grandioso reclamo” al parlamento che rappresenta i diritti dei ricchi – e marciare in un milione o più per consegnare di persona il reclamo in autunno? La legge (imposta dopo la Restaurazione del 1666) vieta le dimostrazioni tumultuose all’esterno del Parlamento, ma siamo in grado di  interpretare il termine “tumultuose” alle stessa stregua di un qualsiasi avvocato.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.zcommunications.org/what-should-perhaps-be-done-by-tariq-ali

Fonte: Sunday Herald

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

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