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Le missioni segrete di addestramento condotte dal Pentagono in Medio Oriente

16 venerdì Dic 2011

Posted by Redazione in nick turse, Usa

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Le missioni segrete di addestramento del Pentagono in  Medio Oriente

 

Di Nick Turse

 

14 dicembre 2011

 

Mentre sbocciava  la Primavera Araba  e il presidente Obama era incerto se parlare in favore dei dimostranti che cercavano un cambiamento nel Greater Middle East (Oriente Grande :è un termine entrato di recente nella geopolitica che indica, oltre il Medio Oriente propriamente detto, anche l’Iran, l’Afghanistan e il Pakistan), il Pentagono ha agito con decisione.  Ha creato legami sempre più forti con alcuni dei regimi più repressivi della zona, costruendo basi militari e  negoziando vendite e trasferimenti di armi ai despoti dal Bahrein allo Yemen.

Mentre le forze di sicurezza di tutta la zona usavano la mano pesante contro il dissenso dei democratici, il Pentagono mandava ripetutamente truppe per missioni di addestramento per i militari alleati di quelle zone. Nel corso di più di 40 operazioni di questo genere, che si chiamavano: Eager Lion  Friendship Two, che a volte duravano settimane e mesi ognuna, insegnavano alle forze di sicurezza del Medio Oriente gli aspetti più raffinati della contro insurrezione tattiche per piccole unità,  raccolta di informazioni, e operazioni informative, tutte abilità fondamentali per sconfiggere le insurrezioni popolari.

Questi esercitazioni  di addestramento congiunto, raramente riportate dai mezzi di informazione, e raramente citate al di fuori dell’ambiente militare, costituiscono il nocciolo di un sistema elaborato di vecchia data che lega il Pentagono ai militari dei regimi repressivi di tutto il Medio Oriente. Sebbene il Pentagono stenda un velo di segretezza su queste esercitazioni, rifiutandosi di rispondere a domande importanti sulla loro portata, scopo o costo, un’indagine fatta dal sito TomDispatch rivela le linee generali di un programma di addestramento in tutta la zona che ha grandi ambizioni e che è del tutto in disaccordo con gli obiettivi professati da Washington di appoggio alle riforme democratiche nel Greater Middle East.

 

Leoni, marines e Marocchini  – Oh, mamma mia!

 

Il 19 maggio, il presidente Obama si è finalmente interessato della Primavera Araba in modo serio. Ha dichiarato chiaramente di stare con i dimostranti e di essere contro i governi repressivi, asserendo che “gli interessi dell’America non sono contrari alle speranze della gente, ma sono essenziali per realizzarle.”

Quattro giorni prima, proprio i dimostranti dei quali il presidente aveva preso le parti,  avevano dimostrato a Temara, in Marocco.  Erano diretti a una struttura che si sospettava ospitasse un centro  segreto per gli interrogatori autorizzati dal governo. E’ stato allora che le forze di sicurezza del regno hanno attaccato.(Vedi: rumori dal Mediterraneo.blogspot.com/2011/05/tempra-le-torture-della-nuova-era.html)

“Ero in un gruppo di circa 11 dimostranti, inseguiti dalle auto della polizia.,” ha detto allo Human Rights Watch (HRW) – Osservatorio per i diritti umani, Oussama el-Khlifi, un dimostrante di 23 anni della capitale, Rabat. “Mi hanno costretto a dire: “Lunga vita al re”  e mi hanno colpito a una spalla. Quando hanno visto che non ero caduto, mi hanno colpito la testa  con una  mazza e ho perso conoscenza. Quando sono rinvenuto, mi sono trovato in ospedale con il naso rotto e una lesione a una spalla.”

A circa cinque ore di macchina verso sud, c’era un altro raduno in condizioni molto più favorevoli. Nella città di mare di Agadir, era in corso una cerimonia per festeggiare il trasferimento di un comando militare. “Siamo qui per appoggiare ….impegni bilaterali con uno dei nostri più importanti alleati nella zona,” ha detto il colonnello John Caldwell del Corpo dei Marines degli Stati Uniti al raduno che segnava l’inizio della seconda fase dall’African Lion, un’esercitazione annuale congiunta per l’addestramento fatta  insieme alle forze armate del Marocco.

Il Comando statunitense per l’Africa (AFRICOM), cioè il quartier generale che sovrintende alle operazioni in Africa, ha programmato 13 importanti esercitazioni congiunte di questo tipo soltanto nel 2011, dall’Uganda al Sud Africa,dal Senegal al Ghana, che comprendono anche l’esercitazione African Lion. La maggior parte delle missioni di addestramento nel Greater Middle East sono, tuttavia, realizzate dal Comando centrale (CENTCOM), che sovrintende alle guerre e ad altre attività militari in 20 nazioni di quell’area.

“Ogni anno lo USCENTCOM (Comando centrale statunitense) realizza più di 40 esercitazioni con una vasta gamma di nazioni che collaborano con noi    nella zona,” ha detto a TomDispatch un portavoce militare. “Dato che le nazioni che ci ospitano sono politicamente sensibili,  lo USCENTCOM non discute la natura di molte delle nostre esercitazioni al di fuori delle nostre relazioni bilaterali.”

Delle molte esercitazioni congiunte di addestramento che ha patrocinato, il CENTCOM  ne riconosce due delle quali fa il nome: Leading Edge, un’esercitazione di 30 nazioni centrata sulla contro-proliferazione, svoltasi negli Emirati Arabi Uniti  (United Arab Emirates – UAE) alla fine del 2010 e Eager Resolve, un’esercitazione annuale per simulare una reazione coordinata a un attacco chimico, biologico, radiologico, nucleare o con esplosivi ad alto potenziale; vi partecipano gli stati membri del Consiglio della cooperazione del Golfo: Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Saudi Arabia e gli UAE.

Tuttavia i documenti militari, i rapporti  di dominio pubblico, ed altri dati analizzati da TomDispatch, aprono una finestra sui rapporti con altre nazioni per l’ addestramento che il CENTCOM ha rifiutato di riconoscere. Mentre i dettagli di queste missioni nel caso migliore sono scarsi,  i risultati sono chiari: durante il 2011, le truppe statunitensi hanno operato regolarmente con le forze di sicurezza che hanno anche addestrato, appartenenti a numerosi regimi che stavano attivamente respingendo le proteste democratiche e soffocando il dissenso all’interno dei confini dei loro paesi.

 

Diventare amici del  Regno

 

In gennaio, per esempio, il governo dell’Arabia Saudita  ha ridotto la scarsa libertà di espressione che esisteva in quel regno, per mezzo dell’istituzione di nuove restrizioni sulle notizie su Internet e i commenti fatti dai cittadini riguardo a queste. Lo stesso mese, le autorità saudite hanno avviato azioni repressive per le dimostrazioni pacifiche. Poco dopo, sei Sauditi hanno richiesto al governo il riconoscimento del primo partito politico del paese che, secondo quanto riferisce l’Osservatorio dei Diritti Umani, aveva tra gli scopi dichiarati, “maggiore democrazia e protezione dei diritti umani.” Sono stati subito arrestati.

Il 19 febbraio, soltanto tre giorni dopo quegli arresti, le forze statunitensi e quelle saudite hanno avviato la Friendship Two, un esercitazione di addestramento a Tabuk, in Arabia Saudita. Per dieci giorni, 4.100 soldati americani e sauditi si sono esercitati in manovre di combattimento e in tattiche di contro insurrezione  sotto il sole implacabile del deserto. “Questa è un’esercitazione fantastica  in una sede  fantastica e stiamo mandando un messaggio veramente ottimo alla gente di questa zona,” continuava a dire il Maggiore  Bob Livingston , un comandante della Guardia Nazionale che prendeva parte alla missione. “Gli impegni che abbiamo con l’esercito dell’Arabia Saudita  riguardano il loro esercito, il nostro esercito ma dimostrano anche alla popolazione di questa zona la nostra capacità di collaborare reciprocamente e la nostra capacità di operare insieme.”

 

Eager Lights  e Eager Lions

 

Quando la Primavera Araba ha deposto i despoti alleati degli Stati Uniti in Tunisia e in Egitto, il regno di Giordania, dove criticare il re Abdallah o protestare anche pacificamente contro le politiche del governo è un reato, ha continuato a soffocare il dissenso.  L’anno scorso, per esempio, le forze statali di sicurezza hanno preso d’assalto la casa del ventiquattrenne studente di informatica Imad al-Din al-Ash e lo hanno arrestato. Il suo reato? Un articolo in rete nel quale chiamava il re “effeminato.”

In marzo le forze giordane di sicurezza non sono riuscite a entrare in azione e alcune si sono anche unite ai dimostranti favorevoli al governo quando  questi hanno attaccato dei militanti pacifici che chiedevano riforme politiche.  Poi sono arrivare le dichiarazioni che forze governative avevano torturato i militanti islamisti.

Nel frattempo, in marzo, le truppe statunitensi si sono unite alle forze giordane nella Eager Light, un’esercitazione di addestramento ad Amman, la capitale della Giordania, focalizzata sull’addestramento per operazioni di contro insurrezione. Poi, dall’11 al 30 giugno, migliaia di soldati delle forze di sicurezza giordane e di truppe statunitensi hanno condotto l’esercitazione Eager Lion centrata su missioni di operazioni speciali e  di guerra irregolare e anche contro insurrezione. (http://www.disarmiamoli.org/index2.php?option=com_content&do_pdf=1&id=231).

In novembre, Christophe Wilcke, dell’Osservatorio per i Diritti Umani,    ha rimproverato duramente  la Giordani a per il processo di 150 dimostranti arrestati in primavera con accusa di terrorismo dopo una rissa in  pubblico cui partecipavano sostenitori del regime. “Soltanto i membri dell’opposizione sono soggetti a un procedimento giudiziario. Il processo….è seriamente scorretto,” ha scritto Wilcke. Sceglie gli islamisti in base ad accuse di terrorismo e getta dubbi sulla strada presa dal regime verso reali riforme politiche, l’impegno per un governo di diritto, e il dichiarato desiderio di proteggere i diritti della libertà di espressione e di riunione.”

Più o meno nello stesso periodo, le truppe statunitensi stavano  preparando     l’Operazione  Flexible Saif. Per circa quattro mesi le truppe americane si sono impegnate nell’addestramento essenziale dei militari giordani, secondo gli Americani che vi hanno preso parte, concentrandosi su argomenti che andavano dai fondamenti del servizio militare fino ai fondamenti per la raccolta di informazioni.

 

Chi sono i fortunati guerrieri del Kuwait?

 

All’inizio di quest’anno, le forze di sicurezza del Kuwait hanno assaltato e arrestato i dimostranti “Bidun”(senza nazionalità), ** una minoranza della popolazione che chiedevano diritto di cittadinanza dopo avere avuto per 50 anni uno status di apolidi nel regno ricco di petrolio. “Le autorità del Kuwait ….dovrebbero permettere ai dimostranti di parlare e di riunirsi liberamente , come è nel loro diritto,” ha scritto Sarah Leah Whitson, Direttrice per  dell’Osservatorio per i Diritti Umani in  Medio Oriente. Di recente il Kuwait ha usato la mano pesante contro i militanti  che usano internet. In luglio, Priyanka Motaparthy dell’Osservatorio per i Diritti Umani ha scritto sulla rivista Foreign Policy che il ventiseienne Nasser Abul è stato portato bendato  e ammanettato in un’aula di tribunale del Kuwait. Il suo reato, secondo quanto riferisce Motaparthy, è stato “di aver    scritto alcune volte  Twitter  per criticare le famiglie al potere in Bahrein e in Arabia Saudita.”

Questa primavera, le truppe statunitensi hanno partecipato alla Lucky Warrior, un’esercitazione di addestramento di 4 giorni in Kuwait destinata a perfezionare le abilità specifiche  per combattere in quella zona. Lo scarso materiale disponibile dalle forze armate non parla di un coinvolgimento diretto del Kuwait nella Lucky Warrior, ma i documenti esaminati da TomDispatch indicano che sono stati usati  traduttori in  altre “edizioni” dell’esercitazione, facendo quindi pensare a un coinvolgimento del Kuwait e/o di altre nazioni arabe nell’operazione. La segretezza del Pentagono, tuttavia, rende impossibile sapere la portata completa della partecipazione dei collaboratori del Pentagono in quella zona.

TomDispatch ha identificato altre operazioni di addestramento nella zona che il CENCOM ha mancato di riconoscere, compresa la Steppe Eagle, un’esercitazione annuale multilaterale realizzata nel Kazakistan, nazione repressiva, dal 31 luglio al 23 agosto durante la quale si è svolto l’addestramento delle truppe locali in: missioni di scorta, operazioni  di transennamento di una zona destinata ad essere perquisita.  Poi c’è stato il  Raduno della Falcon Air, un’esercitazione  per tattiche di supporto aereo   ravvicinato * che comprendeva anche una “gara” di bombardamento, svolta in ottobre dall’aviazione  statunitense, giordana, e turca nella base aerea di Shaheed Mwaffaq Salti in Giordania.

Le forze armate statunitensi hanno anche organizzato un seminario sulla attualità e le informazioni sulle  operazioni militari, con membri delle forze armate libanesi che comprendeva, secondo un Americano che  vi ha partecipato, una discussione “sull’uso della propaganda come supporto dell’informazione sulle operazioni militari”.

Queste missioni di addestramento sono soltanto una piccola delle molte che si svolgono in segreto, lontano dagli occhi indiscreti della stampa o delle popolazioni locali. Sono una componente fondamentale di un sistema enorme di sostegno del Pentagono che  trasporta anche  aiuti e armi a una serie di regni  medio orientali e di dittature alleati degli Stati Uniti. Queste missioni congiunta assicurano stretti legami tra le forze armate statunitensi e le forze di sicurezza di governi repressivi in tutta la zona, offrendo a Washington accesso e influenza e ai paesi che ospitano queste esercitazioni le più moderne strategie militari, le tattiche e gli strumenti del commercio in un momento in cui sono, o temono di essere, assediati dai dimostranti che cercano di   lo spirito democratico che cercano di trarre vantaggio dallo  spirito democratico che si sta propagando nella zona.

 

Segreti e bugie

 

Le forze armate statunitensi hanno ignorato le richieste di TomDispatch che avevano lo scopo di sapere se delle operazioni congiunte erano state rimandate, se c’erano stati dei cambiamenti di data,  o se erano state  cancellate in seguito alle dimostrazioni della Primavera Araba. In agosto, tuttavia, la Agenzia French Press ha riferito che la Bright Star, un’esercitazione biannuale di addestramento cui partecipano le forze militari statunitensi ed egiziane, era stata cancellata in seguito all’insurrezione popolare che aveva deposto il presidente Hosni Mubarak, alleato di Washington.

Il numero delle esercitazioni di addestramento in tutta la zona  sconvolta  dalle proteste democratiche, e perfino le informazioni essenziali sul numero complessivo delle missioni di addestramento del Pentagono nella zona, sul luogo dove si svolgono, sulla durata, su chi vi partecipa,  rimangono in gran parte sconosciute. Il CENTCOM tiene regolarmente segrete queste informazioni per gli Americani per non parlare delle popolazioni di tutto il Grande Medio Oriente.

I militari hanno si sono anche rifiutati di fare commenti sulle esercitazioni in programma per il 2012. Ci sono tuttavia buone ragioni per credere che il loro numero aumenterà perché i despoti della zona pensano di respingere le forze popolari che vogliono un  cambiamento. “Con la fine dell’operazione New Dawn in Iraq e la riduzione delle forze   in Afghanistan, le esercitazioni della USCENTCOM continueranno ad avere come obiettivo….la preoccupazione per la reciproca sicurezza e l’intensificazione dei rapporti già forti e duraturi in quella zona,” ha fatto sapere  un portavoce della CENTCOM a TomDispatch in una mail.

Dato che le dimostrazioni a favore della democrazia e la rivolta popolare sono le “preoccupazioni per la sicurezza” dei regimi dall’Arabia Saudita e dal Bahrein alla Giordania e allo Yemen, non è difficile immaginare come i moderni metodi di addestramento usati dal Pentagono, la sua scuola per le tattiche di contro insurrezione, e il suo aiuto nelle tecniche di raccolta di informazioni segrete potrebbero essere usate nei mesi prossimi.

Questa primavera,  quando si svolgeva  l’operazione African Lion  e i dimostranti marocchini che erano stati malmenati, si curavano le ferite, il presidente Obama affermava che “gli Stati Uniti sono contrari all’uso della violenza e della repressione contro il popolo della zona” e difende i diritti umani fondamentali dei cittadini di tutto il Greater Middle East. Ha aggiunto: “Questi diritti comprendono la libertà di espressione, la libertà di associazione pacifica, libertà di religione, parità tra uomini e donne davanti alla legge e il diritto di scegliere i propri dirigenti, sia che si viva a Baghdad o a Damasco, a Sanaa o a Tehran.”

Rimane la domanda: gli Stati Uniti credono che le stesse cose si possano dire per le persone che vivono ad Amman, a Kuwait City, a Rabat o a Riyhad? E se è così, perché il Pentagono sta rinforzando la posizione dei governanti repressivi di quelle capitali?

 

  • http://it.wikipedia.org/wiki/Supporto_aereo_ravvicinato

 

** http://it.globalvoicesonline.org/2011/06/kuwait-capovolgi-il-tuo-avatar-sostieni-i-bidun/

 

 

Nick Turse è direttore associato di TomDispatch.com. Ha vinto dei premi di giornalismo e i suoi articoli sono apparsi sul Los Angeles Times, The Nation e regolarmente su TomDispatch. Questo articolo è il terzo della sua nuova serie sul cambiamento dell’impero americano. Potete seguirlo su Twitter@NickTurse, su Tumbir e su Facebook.

 

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su TomDispatch.com, un weblog del Nation Institute, che offre un flusso continuo di fonti alternative, notizie e opinioni da parte di Tom Engelhardt, direttore editoriale, co-fondatore dell’American Empire Project, autore del libro : The End of Victory Culture (La fine della cultura della vittoria) e anche del romanzo: The Last Days of Publishing (Gli ultimi giorni dell’editoria). Il suo libro più recente è: The American way of War:How Bush’s Wars Became Obama’s (Haymarket Books) ( Lo stile bellico Americano: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama).

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.znetitaly.org

http://www.zcommunications.org/the-pentago-s-secret-training-missions-in-the-middle-east-by-nick-turse

Fonte: TomDispatch.com

 

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly–Licenza Creative Commons   CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

 

 

 

 

 

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La rischiosa minaccia di Obama alla Cina

13 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Michael T. Klare, Mondo

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Di Michael T. Klare

7 dicembre 2011

Per quanto riguarda la linea politica della Cina, l’amministrazione Obama salta davvero dalla padella nella brace?  Nel tentativo di voltare pagina riguardo a due guerre disastrose nel Grande Medio Oriente, potrebbe iniziare una nuova Guerra Fredda in Asia –considerando ancora una volta il petrolio come la chiave per arrivare alla supremazia globale.

La nuova politica è stata annunciata dallo stesso presidente Obama il 17 novembre in un discorso al parlamento australiano nel quale ha esposto una visione geopolitica audace ed estremamente pericolosa. Invece di focalizzarsi sul Grande Medio Oriente, come è avvenuto nell’ultimo decennio, gli Stati Uniti concentreranno il loro potere nell’area dell’Asia Orientale e del Pacifico. “Il mio orientamento è chiaro,” ha dichiarato a Canberra: “Poiché pianifichiamo e  facciamo i preventivi  per il futuro, destineremo le risorse necessarie a mantenere la nostra forte presenza militare in questa zona.” Mentre i funzionari dell’amministrazione insistono a spiegare che questa nuova linea politica non è indirizzata in modo specifico alla Cina, l’implicazione è abbastanza chiara: da ora in poi, l’obiettivo principale della strategia militare americana non sarà l’antiterrorismo, ma sarà il contenimento di quella terra in forte espansione economica, a qualsiasi rischio o costo.

Il nuovo centro di gravità del pianeta

 

La nuova importanza che si dà  sull’Asia e al contenimento della Cina è necessaria, insistono a dire i più alti funzionari, perché l’area asiatica e del Pacifico ora costituisce il “centro di gravità” dell’attività economicamondiale. Mentre gli Stati Uniti si sono impantanati in Iraq e in Afghanistan, si sostiene che la Cina aveva un  margine di azione per  espandere la sua influenza nella zona. Per la prima volta dalla II Guerra mondiale, Washington non è più l’attore economico dominante in quella area. Se gli Stati Uniti vogliono mantenere il loro titolo di suprema  potenza mondiale, deve, sostengono, ristabilire la sua supremazia nella zona e far arretrare l’influenza cinese. Nei prossimi decenni, nessun compito di politica estera sarà più importante di questo.

In linea con questa nuova strategia, l’amministrazione ha intrapreso molte mosse intese a sostenere  il poter americano in Asia,  e a mettere quindi la Cina sulla difensiva. Queste iniziative comprendono la decisione di inviare 250 Marines  – che un giorno potranno diventare 2.500 – in  una base militare australiana a Darwin sulla costa settentrionale di quel paese, e l’adozione, il 18 novembre, della “Dichiarazione di Manila”, una promessa di più stretti rapporti con le Filippine.

Contemporaneamente, la Casa Bianca ha annunciato che la vendita di 24 caccia a reazione F-16  all’Indonesia e una visita di Hillary Clinton all’isolata Birmania, da lungo tempo alleata della Cina, la prima visita in quel paese di un segretario di stato dopo 56 anni. La Clinton ha anche parlato di maggiori legami diplomatici e militari con Singapore, la Thailandia e il Vietnam – tutte nazioni  vicine alla Cina o di sorvegliare   le vie commerciali più importanti sulle quali la Cina fa affidamento per l’importazione di materie prime e sull’esportazione di prodotti finiti.

Come hanno descritto i funzionari dell’amministrazione, queste iniziative mirano a massimizzare i vantaggi dell’America in campo diplomatico e militare in un’epoca in cui la Cina domina il regno economico nella zona. In un recente articolo  sulla rivista Foreign Policy, la Clinton ha fatto intendere che se gli Stati Uniti diventano deboli,  non si può più sperare che prevalgano contemporaneamente in varie zone. Devono scegliere i loro campi di battaglia attentamente e usare le loro limitate risorse   – la maggior parte di tipo militare – per ottenere i massimi vantaggi. Considerata la centralità strategica dell’Asia riguardo al potere globale, bisogna concentrare le risorse in quella area.

“Nei dieci anni passati,,” scrive la Clinton, “abbiamo stanziato immense risorse a [Iraq e Afghanistan]. Nei prossimi dieci anni dobbiamo essere intelligenti e agire in modo  sistematico riguardo a dove investire tempo ed energia, in modo da essere nella posizione migliore per sostenere la nostra posizione di comando [e] i nostri interessi…. Uno dei compiti più importanti dell’ arte di governare americana  nel prossimo decennio sarà quindi di fissare degli  incrementi di investimento in maniera sostanziale – nei campi: economico, diplomatico, strategico e di qualsiasi altro tipo nella zona asiatica del Pacifico.”

Questa riflessione, centrata chiaramente sull’aspetto militare, appare pericolosamente provocatoria. I passi annunciati implicano un incremento della presenza militare nelle acque ai confini della Cina e un incremento dei legami di tipo militari con i paesi vicini di quella nazione e sono passi che certamente susciteranno allarme a Pechino e  faranno diventare più rigidi coloro che fanno parte della cerchia al potere (specialmente la dirigenza militare cinese) che sono a favore di una reazione più militante e militarizzata alle incursioni statunitensi.  Qualsiasi forma tale reazione assuma, una cosa è sicura: la dirigenza della seconda potenza economica mondiale non si permetterà di apparire debole di fronte a un concentrazione di forze americane alla periferia del  suo paese. A sua volta ciò significa che forse getteremo i semi di una nuova Guerra fredda in Asia nel 2011.

La concentrazione di forze militari degli Stati Uniti e la possibilità di un potente contrattacco  cinese, sono stati già oggetto di discussione sulla stampa americana ed asiatica. Non ha ricevuto invece alcuna attenzione una aspetto cruciale di questa lotta incipiente: la misura in cui le mosse improvvise di Washington sono state dettate da una recente analisi dell’equazione dell’energia globale che rivelano (secondo come la vede l’amministrazione Obama) un aumento di punti deboli della Cina e nuovi vantaggi per Washington.

La nuova equazione dell’energia

 

Per decenni gli Stati Uniti sono stati pesantemente dipendenti dall’importazione di petrolio, e molto proveniva dal Medio oriente e dall’Africa, mentre la Cina era largamente autosufficiente per la produzione di petrolio. Nel 2001, gli Stati Uniti consumavano 19.6 milioni di barili di petrolio al giorno, mentre ne producevano  soltanto 9 milioni di barili. (1 barile= 42 galloni americani, 1 gallone americano =3,78 litri, n.d.T.). Il fatto di dover dipendere da forniture straniere per la differenza di 10,6 milioni di barili, si dimostrò una fonte di enorme preoccupazione per coloro che a Washington attuavano i piani economici e politici che reagirono creando legami più stretti  e di tipo militare con i produttori di petrolio del Medio Oriente, ed entrando in guerra di tanto in tanto per garantirsi la sicurezza delle fonti di approvvigionamento del petrolio.

Nel 2001 la Cina consumava soltanto 5milioni di barili al giorno e quindi, avendo una produzione interne di 3,3 milioni di barili, doveva importare soltanto 1,7 milioni di barili. Queste cifre fredde hanno fatto sì che i suoi dirigenti si preoccupassero molto meno dell’affidabilità dei loro principali  fornitori di petrolio di oltre oceano e quindi non hanno dovuto riprodurre lo stesso tipo di  complicate relazioni di politica estera  in cui Washington era da lungo tempo coinvolto.

Adesso, l’amministrazione Obama ha concluso, le cose cominciano a cambiare. Come risultato, dell’economia cinese in forte espansione e del fatto che sta emergendo  una ragguardevole classe media che è in continuo aumento (molti di loro si sono comprati la loro prima macchina), il consumo di petrolio del paese sta esplodendo. Mentre  il consumo era di     7,8 milioni di barili al giorno nel 2008, raggiungerà, secondo le previsioni recenti del Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti, i 13,6 milioni di barili nel 2020 e i 16,9 milioni di barili nel 2035. La produzione interna di petrolio, d’altra parte, si ipotizza che aumenterà da 4 milioni di barili al giorno nel 2008 a 5,3 milioni nel 2035. Non ci si deve quindi sorprendere che ci si aspetta che le importazioni cinesi schizzeranno  dai 3,8 milioni di barili al giorno, a 11,6 milioni nel 2035, per cui in quella data supereranno il numero di barili degli Stati Uniti.

Nel frattempo gli Stati Uniti, possono ipotizzare  una situazione energetica migliore. Grazie all’aumento della produzione in zone di “petrolio duro” degli Stati Uniti, compreso il Mar Glaciale Artico al largo delle coste dell’Alaska, le acque profonde  del Golfo del Messico, e le formazioni  scistose in Montana, Nord Dakota e Texas, le future importazioni si ipotizza che diminuiranno, anche se aumenterà il consumo di energia. Inoltre, è probabile che ci sarà maggiore disponibilità di petrolio dall’Emisfero occidentale piuttosto che dal Medio Oriente o dall’Africa. Questo avverrà, anche in questo caso, grazie allo sfruttamento di  ulteriori aree  di  “petrolio duro”, comprese le sabbie bituminose nella zona del fium Athabasca in Canada,(http://it.wikipedia.org/wiki/Sabbie_bituminose) i giacimenti petroliferi brasiliani nelle acque profonde dell’Atlantico,  le regioni ricche di risorse energetiche della Colombia,  una volta straziata dalla guerra e ora sempre più in pace.  Secondo il Dipartimento dell’Energia, la produzione congiunta  negli Stati Uniti, in Canada e in Brasile, si ipotizza che arrivi a 10,6 milioni di barili al giorno tra il 2009 e il 2035, un salto enorme, se consideriamo che la maggior parte delle zone del mondo ipotizzano una diminuzione di produzione.

A chi appartengono, queste rotte marittime, comunque?

 

Da una prospettiva geopolitica, tutto quello che abbiamo detto sembra conferire un reale vantaggio agli Stati Uniti, anche se la Cina diventasse mai più vulnerabile ai ghiribizzi  degli eventi lungo le rotte marittime verso terre lontane. Vuol dire che Washington sarà in grado di contemplare un graduale allentamento dei suoi legami militari e politici con gli stati produttori di petrolio del Medio Oriente che hanno dominato così a lungo la sua politica estera e lo hanno condotto a quelle guerre che sono costate così tanto e che hanno provocato così tanta devastazione.

In effetti, come ha detto a Canberra il presidente Obama, gli Stati Uniti sono ora in una posizione in cui possono cominciare a focalizzare le loro capacità militari in qualche altra zona. “Dopo un decennio in cui abbiamo combattuto due guerre che ci sono costate tanto,” ha dichiarato, gli Stati Uniti rivolgono ora l’attenzione al vasto potenziale dell’area asiatica del Pacifico.”

Per la Cina queste ipotesi comportano un potenziale indebolimento  strategico. Sebbene parte del petrolio che la Cina importa viaggerà via terra attraverso gli oleodotti dal Kazakistan e dalla Russia, la maggior parte di esso arriverà ancora sulle petroliere dal Medio Oriente, dall’Africa e dall’America Latina lungo rotte marittime controllate dalla Marina statunitense. Infatti quasi ogni  petroliera  che trasporta il petrolio in Cina viaggia nel Mar Cinese meridionale, una zona di mare che l’amministrazione Obama sta ora cercando di porre sotto il suo effettivo controllo navale.

Assicurandosi il dominio navale del Mar cinese meridionale e delle acque adiacenti, l’amministrazione Obama mira evidentemente ad acquisire  l’energia del ventunesimo secolo, equivalente al ricatto nucleare del ventesimo secolo. Questa linea politica implica una minaccia: “spingeteci troppo in là, e metteremo la vostra economia in ginocchio bloccando il vostro flusso di forniture  essenziali di energi”. Naturalmente nessuna di queste cose verrà mai detta pubblicamente, ma è inconcepibile che funzionari importanti dell’amministrazione non ragionino in base a queste linee, e ci sono molte prove che i Cinesi sono profondamente preoccupati per questo rischio, come indicato, per esempio, dai loro frenetici sforzi  di costruire oleodotti incredibilmente costosi attraverso tutta l’Asia fino al bacino del Mar Caspio.

Mentre diventa più chiara la natura del progetto strategico di Obama, è indiscutibile che i dirigenti cinesi come reazione, faranno dei passi per assicurare la sicurezza delle linee di trasporto cinesi  dell’energia.

Alcune di queste mosse saranno indubbiamente di carattere economico e diplomatico e comprenderanno, per esempio gli sforzi di corteggiare altri   paesi protagonisti di quella area,  zona come il Vietnam e l’Indonesia e anche i paesi  maggiori fornitori di petrolio come l’Angola, la Nigeria e l’Arabia Saudita. Non fate errori, però: ci saranno anche sforzi di tipo militare. Un significativo aumento della flotta navale cinese – ancora piccola e arretrata se la paragoniamo alle flotte degli Stati Uniti e dei loro principali alleati – sembrerebbe certamente inevitabile. Analogamente, ci saranno certamente legami militari più stretti tra Cina e Russia e anche con gli stati membri dell’Asia Centrale che fanno parte della Shanghai Cooperation Organization (Kazakistan, Kirghisistan, Tagikistan e Uzbekistan).

Inoltre Washington potrebbe ora provocare gli inizi di una corsa agli armamenti in Asia fatta in puro stile da guerra fredda, che nessuna delle due nazioni potrebbe, alla lunga, permettersi. Tutto ciò è probabile porti a maggiore tensione e a un rischio accentuato di intensificazione  involontario che può derivare da futuri incidenti che potranno coinvolgere navi statunitensi, cinesi e degli alleati; ne è già successo uno nel marzo 2009 quando una flottiglia di imbarcazioni della marina cinese ha circondato una nave statunitense da pattugliamento  per la guerra contro i sottomarini,  The  Impeccable, e ha quasi provocato uno scontro a fuoco. Dato che un numero sempre maggiore di navi da guerra circoleranno in queste acque in maniera sempre più provocatoria, il rischio che un incidente del genere diventi un qualche cosa di molto più esplosivo può soltanto aumentare.

I rischi e i costi potenziali di questa politica che mette l’aspetto  militare al primo posto, condotta  verso la Cina,  non saranno limitati all’Asia. Nell’impulso di promuovere una maggiore auto sufficienza nella produzione energetica, l’amministrazione Obama dà la sua approvazione a tecniche di produzione come: perforazioni nell’Artico, perforazioni in mare aperto, fratturazione idraulica, che è garantito porteranno verso un’ulteriore catastrofe ambientale in patria come quella della Deepwater Horizon.* Contare sulle sabbie petrolifere del Canada, la “più sporca” delle energie, provocherà un aumento nelle emissioni di gas serra e a una molteplicità di altri rischi ambientali, mentre la produzione del petrolio nell’Atlantico        a largo delle coste brasiliane e altrove presenta una serie di seri pericoli.

Tutto questo ci assicura che, dal punto di vista ambientale, militare ed economico ci troveremo in un mondo più e non meno pericoloso. Il desiderio di abbandonare dalle disastrose guerre nel Grande Medio Oriente (il Medio Oriente propriamente detto, più Turchia, Iran, Pakistan e Afghanistan, n.d.T.), per affrontare problemi chiave che stanno covando in Asia, è comprensibile, ma la scelta di una strategia che dà così tanta importanza al dominio  e alla provocazione militare, è destinata a provocare una reazione dello stesso tipo. Non è certo una strada prudente     da seguire che, alla lunga non migliorerà gli interessi americani in  un’epoca in cui la cooperazione economica globale è di importanza fondamentale. Sacrificare l’ambiente per acquisire maggiore indipendenza energetica non ha più senso.

Una nuova Guerra fredda in Asia e una politica energetica in un emisfero che potrebbe mettere in pericolo il pianeta è una mistura fatale che dovrebbe essere riesaminata prima che lo scivolamento verso lo scontro e il disastro ambientale diventi irreversibile. Non bisogna essere dei veggenti per sapere che questa non è la definizione di  buona arte di governare  ma di marcia della follia.

  • http://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_ambientale_della_piattaforma_petrolipetrolifera_Deepwater_Horizon

Michael T. Klare  è professore di studi sulla pace e la sicurezza mondiale all’Hampshire College, è collaboratore del sito TomDispatch e autore, da pochissimo di Rising powers, Shrinking Planet.(LePotenze crescono, il pianeta diminuisce). La versione come film documentario del suo precedente libro Blood and Oil (Sangue e petrolio) si può richiedere alla Media Education Foundation. Per ascoltare la più recente audio intervista su Tomcast fatta a Klare da Timothy MacBain, nel corso della quale Klare discute i preparativi militari americani  nel Pacifico, cliccate su  : tomdispatch.blogspot.com/2011/12/new-cold-war-in-asia.html

 oppure scaricatelo sul vostro iPod da :itunes.apple.com/us/podcast-from-tomdispatch-com/id357095817

Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta su TomDispatch.com, un weblog del Nation Institute, che offre un flusso continuo di fonti alternative, notizie e opinioni da parte di Tom Engelhardt, direttore editoriale, co-fondatore dell’American Empire Project, autore del libro : The End of Victory Culture (La fine della cultura della vittoria) e anche del romanzo: The Last Days of Publishing (Gli ultimi giorni dell’editoria). Il suo libro più recente è: The American way of War:How Bush’s Wars Became Obama’s (Haymarket Books) ( Lo stile bellico Americano: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama).

 

Da Z Net- Lo spirito della  resistenza è vivo

http://www.znetitaly.org

http://www.zcommunications.org/obama-s-risky-oil-threat-to-china-by-michael-t-klare

Fonte TomDispatch.com

Traduzione di Maria Chiara Starace

© 2011 ZNETItaly–Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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La “progenie” del MIT

10 sabato Dic 2011

Posted by Redazione in Europa, Nikos Raptis

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Tag

grecia, Occupy Wall Street, rivolte studentesche, successo, università, usa

 

 

di Nikos Raptis  -10 dicembre 2011

 

Quando nel 1861 Jacob Bigelow, un medico, “battezzò”  a Boston un nuovo istituto come il “Massachusetts Institute of Technology” [MIT – Istituto tecnologico del Massachusetts] intendeva, con tale nome, “indicare che lo studio della scienza al MIT, piuttosto che essere una forma di istruzione compita, sarebbe stato indirizzato a finalità pratiche.”

 

Se fosse vivo oggi, il dottor Bigelow sarebbe d’accordo sul fatto che tra le altre “finalità pratiche” del MIT possa esserci lo studio e la “creazione” di armamenti bellici, destinati, cioè, allo sterminio della vita umana? Chi lo può dire. E’ morto nel 1897.

 

Per essere giusti, tra le “finalità pratiche” del MIT ci sono discipline che sono di beneficio all’umanità. Prendete il mio settore, la “meccanica del suolo”, che si occupa di frane, terremoti, liquefazione del suolo, argini (Katrina), gallerie, ponti, ferrovie, ecc. che proteggono e migliorano la vita umana.

 

Tuttavia quel che Bigelow non poteva immaginare era che il MIT avrebbe “partorito” (o, meglio, “costruito”) un “esercito” di élite native in tutto il mondo controllate dagli Stati Uniti come “strumenti” per dominare il pianeta.

 

Dato che la Grecia è quasi quotidianamente nei titoli dei media, è interessante prendere in esame la “progenie” del MIT che è diventata élite dominante in Grecia, a vantaggio delle élite USA.

 

Nel mio precedente articolo su ZNet “Terremoti: appello ai turchi e ai greci” del 18 novembre 2011, citavo: “Così, parte della popolazione della Grecia settentrionale fu costretta a inondare Atene e a cominciare a costruire … decine di migliaia di ‘creazioni’ alla Le Corbusier”, cioè di immobili residenziali a più piani in cemento.

 

Tuttavia, oltre agli operai, che concretamente costruirono gli edifici, fu necessario che questi fossero progettati da ingegneri civili. Ciò fu fatto da una parte degli ingegneri greci della mia generazione, a partire dai primi anni ’50.

 

Fu fatto così:

 

Un giovane ingegnere di famiglia non benestante, appena finita la scuola e dopo i due anni di servizio militare obbligatorio, decide di mettersi in affari nel settore dell’edilizia residenziale ad Atene.

 

Egli avvicina una famiglia che vive in una casa vecchia. Propone di buttarla giù e di costruire un nuovo edificio residenziale di, diciamo, sette piani, con dieci appartamenti in totale. Alla famiglia andranno tre appartamenti e all’ingegnere i restanti sette. Questo è il primo stadio, particolarmente cruciale, dell’intera procedura.  E’ fondamentale che il giovane ingegnere si guadagni la fiducia della famiglia e ottenga un contratto firmato. Questo necessita di un “talento” posseduto soltanto da persone con certi “valori”.  Il giovane ingegnere è al verde, e tuttavia ha il talento di presentarsi (da commediante) come una persona seria, onesta, energica ecc. e di assicurarsi così il contratto.  Questo è il “talento”, nella storia umana, degli imprenditori spietati, freddi e calcolatori.

 

Al giovane ingegnere ci vogliono due giorni (in realtà un paio d’ore) per disegnare i piani architettonici dell’intero futuro edificio e per stendere i progetti (di aspetto ufficiale).

 

Questi progetti sono mostrati alla famiglia che è proprietaria della casa vecchia e a potenziali clienti che acquisteranno gli appartamenti finiti.

 

I clienti, all’epoca, erano greci benestanti in cerca di investire, numerosi greci che lavoravano sulle navi dei famosi magnati greci delle compagnie marittime, agricoltori che avevano venduto la propria terra per comprare un appartamento, greci della classe media che erano in grado di ottenere prestiti dalle banche, ecc.

 

Il giovane ingegnere, usando il suo “talento”, persuade uno o due dei clienti a pagare in anticipo il futuro appartamento, cosa che, all’epoca, molti greci facevano con entusiasmo.

 

Ora il giovane ingegnere ha soldi sufficienti per cominciare la costruzione dell’edificio a più piani, anche se è al verde.

 

Dopo aver pagato il costo di costruzione dell’edificio (tra il 20 e il 25% del valore finale dell’immobile) e aver consegnato gli appartamenti concordati alla famiglia, quello che resta al giovane ingegnere è circa il 40 – 45% del valore dell’edificio, senza averci messo un soldo di suo.

 

Ripete l’ “impresa” costruendo dozzine di immobili abitativi a più piani per una decina d’anni e ammasso una gran quantità di denaro (e di prestigio).

 

[Parentesi: nei successivi quattro decenni ogni genere di persona che avesse ‘talenti’ imprenditoriali simili a quelli descritti più sopra entrò in questo lucroso settore e diventò molto ricca. I più inclini furono macellai, ristoratori, avvocati, persino dottori e poliziotti. Tutto quel che dovevano fare era “comprare”, per una miseria, la firma di un ingegnere civile, appena uscito di scuola, e fare il resto a seconda delle opportunità. Anche eliminando gli elementi strutturali.]

 

Il passo successivo del nostro eroe, ora ben sistemato, consiste nell’ottenere commesse e spedizioni pubbliche (con visioni alla quasi Onassis). Egli comincia anche a “coltivare” relazioni con le élite politiche greche nei locali della buona società.

 

Tuttavia il nostro giovane ingegnere (dei primi anni ’50) non parla inglese, a causa delle sue origini piuttosto umili, e “utilizza” altri ingegneri greci istruiti negli USA per entrare nei lucrosi mercati dell’Arabia: l’Arabia Saudita, la Libia, il Kuwait ecc.

 

[Parentesi: con sua sorpresa il ricco imprenditore greco dell’ingegneria, “fattosi da sé”, scopre che i migliori ingegneri civili della regione araba sono palestinesi espatriati, trasformati in rifugiati dalla pia religiosità di Israele. Chiusa parentesi.]

 

Il non più così giovane ingegnere, che economicamente è molto potente, risolve il suo problema con la lingua inglese, per le future avventure economiche, inviando suo figlio al MIT.

 

La progenie del nostro eroe greco ritorna con una laurea (naturalmente) in ingegneria civile, come papà. Ovviamente il figliolo non utilizzerà mai sul campo le conoscenze acquisite al MIT.  Ci vogliono da cinque a dieci anni perché un giovane ingegnere senta di aver raggiunto un punto di maturazione che lo soddisfi come ingegnere.  La giovane “progenie” del MIT non ha tempo per simili frivolezze.

 

Papà ha già raggiunto una posizione “invidiabile”. Il potere economico gli ha aperto le porte a molte interessanti attività.  Grazie ai suoi amici dell’élite politica è entrato nel regno dei media, della stampa e di “altro” e (probabilmente) ha attirato l’interesse dell’ambasciata USA di Atene. In realtà ha raggiunto il vertice del successo “mondano”. E’ diventato un “incoronatore di re” nella società greca.

 

Così la “progenie” intellettuale del MIT e la “progenie” biologica del nostro eroe è diventato il principe della corona dell’”impero” di papà e (cosa molto più importante) è diventato un membro in vista dell’élite greca controllata dagli USA, che esibisce la sua laurea come “un’insegna di regalità (intellettuale)” e fare il suo dovere patriottico seguendo le offerte di persone come … Hillary!

 

Questo è andato avanti per più di mezzo secolo, non solo in Grecia ma anche in India, in Pakistan, in Turchia e persino in Italia, in Francia, in Germania, e via dicendo.  E non solo passando per il MIT, ma anche per Harvard.

 

E che dire del Seminario Internazionale Harvardiano di Kissy (alias Heinz Alfred Kissinger, o Henry Kissinger) che, per esempio, ha offerto al popolo francese Valery Giscard d’Estaign come presidente della “repubblica” francese?

 

Ora, non tutti i giovani che frequentano il MIT o Harvard finiscono come “principi della corona” dei loro papà di “successo” e  “occupati” presso i “benevoli” Stati Uniti.  C’è un intero “spettro” di essere umani che giunge al vertice educativo offerto da queste istituzioni.

 

A un’estremità dello spettro si trova semplicemente un gruppo di giovani molto intelligenti, di tutte le nazioni, che contribuiscono all’avanzamento del sapere nel fertile terreno del MIT.  Sfortunatamente la maggior parte di essi, con l’età, si “nasconde” nell’accademia e non segue l’esempio di Noam Chomssky che, oltre a contribuire al sapere umano, contribuisce principalmente ad alleviare l’umana sofferenza.

 

La parte centrale dello spettro è affollata da giovani che o sono di origini umili o sono figli di genitori piuttosto benestanti. La maggior parte di essi, che resti negli Stati Uniti o ritorni in patria, vive dignitosamente e onestamente.  Tuttavia alcuni di loro soccombono alla barbarie dell’élite economica USA e tornano nella terra natia come strumenti delegati di quell’élite, in paesi come la Grecia. Ad esempio, la maggior parte delle mattine abbiamo la fortuna di vedere in televisione un greco laureato al MIT che, con arroganza e un sorrisetto di autocompiacimento, pontifica sulla situazione economica della Grecia, mentre attorno a lui la sofferenza della gente comune ha raggiunto un punto estremo.

 

Infine, all’altra estremità dello spettro c’è un piccolo numero della progenie dell’élite di altri paesi controllata dagli USA, come per esempio l’eroe dell’ingegneria della storia appena raccontata, che ritorna dal MIT come erede del “titolo nobiliare” di papà, di nuovo come “strumento” della filantropia USA (una parola greca composta da ‘filo’ (amare) e ‘anthropos’ (gli umani)).

 

Ignorando la generalizzazione del dottor Bigelow sulle “finalità pratiche” del MIT, oggi è imperativo (e utopistico?) chiedere alla gente del MIT, come persone, di rifiutarsi di costruire droni per gli Obama. E anche ridicolizzare gli studenti stranieri che sono disponibili a diventare fattorini delle élite USA.

 

Come sempre, c’è speranza.  In questo caso, ad esempio, c’è, negli stessi Stati Uniti, la “Unione degli Scienziati Coinvolti”, che è nata come collaborazione tra studenti e membri della facoltà al MIT nel 1969.

 

 

 

P.S.

 

Collegato a quello narrato c’è il caso di Linda Katechi, rettore dell’Università della California a Davis, che è stata coinvolta nel famigerato avvenimento degli spray al peperoncino contro gli studenti.

 

La Katechi è nata ad Atene nel 1954 e si è laureata al Politecnico (o Università Tecnica Nazionale di Atene) nel 1977. Nel novembre 1973 partecipò alla rivolta degli studenti del Politecnico contro la dittatura militare istigata dagli USA del 1967-1974.

 

La rivolta al Politecnico durò tre giorni, dal mercoledì al venerdì.  La maggioranza degli studenti che protestavano, circa 4.000,  apparteneva alla sinistra.  Il gruppo dominante e più energico erano i comunisti; Maoisti (divisi in due o tre fazioni), filo-Sovietici (che partecipavano alla rivolta con riluttanza), anti-Sovietici,  (quasi socialisti) del centro politico e persino alcuni “progressisti” di destra.  Venerdì, il terzo giorno, agli studenti si unirono i lavoratori.

 

Di questi il gruppo più “interessante” era (ed è) la dirigenza studentesca del centro (quasi socialista) che fu  “utilizzata” dalla famiglia Papandreou per formare un governo greco che ha governato il paese per trent’anni, fino ad oggi ed al casino attuale.  Alcuni membri di quella dirigenza sono oggi milionari e il resto è costituito da ricchi proprietari di ville, ecc.  Oggi essi partecipano inoltre a un governo con i … neonazisti!

 

Tuttavia alcuni dei giovani rivoltosi del Politecnico, la maggior parte di sinistra, vivono da allora vite oneste e piuttosto tristi.  Uno di essi, ad esempio, un ex maoista che in realtà fu quello che ebbe un ruolo principale nel “forzare” il resto degli studenti ad appoggiare la rivolta mentre c’era una tendenza a lasciare il Politecnico, dopo essere passato attraverso la “normale” tortura nelle camere di torture supervisionate dagli USA ed avere formato una famiglia, ora deve lavorare tutto il giorno nella professione medica anche se soffre di una malattia peggiore del cancro.

 

[Il rettore Katechi probabilmente lo conosce perché lei era la Politecnico durante la rivolta e probabilmente era presente durante la decisione dell’assemblea generale].  Nikos Raptis (non mio parente), un giovane matematico, dopo essere anche lui passato per la normale tortura, è morto a 32 anni, non più di 8 anni dopo la rivolta. Alcuni degli studenti rivoltosi, dopo essere rimasti profondamente delusi da quel che accadeva attorno a loro nella Grecia post-“rivoluzionaria”, si sono suicidati.  

 

Dato che la maggioranza degli studenti in rivolta era di sinistra, è ragionevole supporre che la Katechi appartenesse anch’essa alla sinistra all’epoca.  Anche il fatto che sia cresciuta nell’isola di Salamis, una località della classe operaia, a volte chiamata “la discarica dei rifiuti” di Atene, autorizza tale ipotesi.

 

Una persona come la Katechi ha dunque potuto trattare gli studenti del “movimento Occupiamo” al campus di Davis dell’Università della California in modo così “diverso” dalla sua esperienza greca? Tale esperienza è adeguatamente descritta dal destino del giovane greco di Rodi che, in mia presenza, si è recato dal citato professionista della medicina che aveva “forzato” la rivolta del Politecnico, e che stava diventando cieco da entrambi gli occhi perché un porco (alias un poliziotto) di Rodi, nel corso di una dimostraizone, gli aveva sbattuto la testa contro un pilastro metallico provocandogli il distacco di entrambe le retine.  Ovviamente i poliziotti (alias i porci) di Davis hanno usato la tecnologia avanzata degli “spray al peperoncino” invece dei mezzi primitivi delle loro controparti greche.

 

La risposta è “sì”! La Katechi ha potuto farlo. La storia è piena di casi simili.

 

Vi è, infine, una punta di ironia qui: il termine “katechi” in greco significa “occupa” (terza persona singolare del verbo ‘occupare’). Inoltre il nome di battesimo della Katechi è “Pisti”, che significa la “donna fedele”. Fedele religiosamente, ideologicamente o cosa?

 

Questo è il mio secondo articolo su ZNet riguardante l’ “americanizzazione” di una persona e gli effetti di tale “mutazione”. Il primo, del 4 giugno 1999, trattava dell’ “americanizzazione” di Ernst Franz Hanstaengl ad Harvard e i suoi conseguenti tentativi di “americanizzazione” del suo amico Adolf H. il “terrorista”, secondo il libro del 1990 di Otto Gritschneder.

 

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

 

http://www.zcommunications.org/the-mit-offspring-by-nikos-raptis

 

traduzione di Giuseppe Volpe

 

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Guerra in Libia: la domanda chiave

10 sabato Dic 2011

Posted by Redazione in Africa, Diana Johnstone

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Ahmadinejad, al-Jazeera, Arabia Saudita, Assad, Auschwitz, Bahrain, Bengasi, Bernard Kouchner, Bernard-Henry Lévy, Dresda, Francia, genocidio, Gheddafi, Hiroshima, Human Rights Watch, Ian Williams, Inghilterra, intervento umanitario, Julien Teil, Kosovo, Le Monde, libia, massacro di civili, mediazione, MIchael Bérubé, MSF, Nagasaki, NATO, NIcolas Sarkozy, primavera araba, Qatar, R2P, rivolta, Rony Brauman, seconda guerra mondilale, Slimane Bouchuiguir, Tom Malinowski, Tribunale di Norimberga, usa

di Diana Johnstone  -8 dicembre 2011

In questi giorni i guerrieri umanitari alzano la cresta, grazie alla vittoria che hanno proclamato in Libia. L’unica superpotenza mondiale, con il sostegno morale, militare e mercenario dell’emirato del Qatar, amante della democrazia, e delle potenze imperialiste storiche, Inghilterra e Francia, è stata, non sorprendentemente, capace di schiacciare in soli sette mesi il governo esistente di un paese scarsamente popolato dell’Africa del Nord. Il paese è stato violentemente “liberato” e lasciato alla mercé di chi voglia appropriarsene. Chi prende quali pezzi di esso, tra le milizie armate, le tribù e i jihadisti islamici, è cosa che ai media e agli umanitari occidentali non interessa più di quanto interessasse loro la vita in Libia prima che il canale della televisione del Qatar, Al Jazeera, stimolasse il loro zelo crociato a febbraio, mediante rapporti non documentati di imminenti atrocità.

La Libia può riprecipitare nell’oscurità mentre i campioni occidentali della distruzione si accaparrano le luci della ribalta. Per dare un po’ di ulteriore sapore al proprio autocompiacimento, concedono un po’ di attenzione derisoria ai poveri sciocchi che non si sono uniti alla fanfara.

Negli Stati Uniti, e ancor più in Francia, i guastafeste contro il partito della guerra sono stati pochi di numero e quasi totalmente ignorati.  Ma questa è un’occasione buona come qualsiasi altra per isolarli ancora di più.

Nel suo articolo “La Libia e la sinistra: Bengasi e dopo”, Michel Bérubé coglie questa occasione per fare un unico mazzo di diversi critici della guerra etichettandoli come “la sinistra manichea” che, secondo lui, si limita a reagire con un’opposizione automatica a qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti. Lui e quelli come lui, invece, riflettono profondamente e scoprono motivi profondi per bombardare la Libia.

Comincia così:

“ A fine marzo 2011 è stato evitato un massacro; non solo un massacro qualunque, attenzione! Perché se Gheddafi e le sue forze fossero riusciti a reprimere la ribellione libica in quella che era la sua roccaforte, Bengasi, le ricadute si sarebbero riverberate ben oltre la Libia orientale.  Come ha scritto Tom Malinowski, di Human Rights Watch,  ‘La vittoria di Gheddafi – parallelamente alla caduta del presidente egiziano Hosni Mubarak – avrebbe segnalato agli altri governi autoritari, dalla Siria all’Arabia Saudita alla Cina, che se si negozia con i dimostranti si perde, ma se li si uccide si vince … “

“ L’attacco guidato dalla NATO alle forze di Gheddafi ha fatto perciò molto di più che prevenire una catastrofe umanitaria in Libia, anche se si dovrebbe riconoscere che già questa sarebbe stata da sola una giustificazione sufficiente.  Ha contribuito a mantenere viva la Primavera Araba … “

Ora, tutto ciò è del tutto ipotetico.

Quale che sia stato il massacro evitato a marzo, altri massacri lo hanno sostituito successivamente.

Cioè, se reprimere una ribellione armata implica un massacro, anche una ribellione armata vittoriosa implica un massacro e dunque si tratta di scegliere tra massacri.

E se le proposte di mediazione latinoamericane e africane fossero state accolte, l’ipotetico massacro avrebbe potuto essere evitato con altri mezzi, persino se la ribellione armata fosse stata sconfitta; un’ipotesi che il partito guerrafondaio si è rifiutato di prendere in considerazione dal bell’inizio.

Ma ancor più ipotetica è l’idea che il fallimento della ribellione libica avrebbe danneggiato fatalmente la ‘Primavera Araba’.  Questa è una pura congettura senza uno straccio di prova a sostegno.

I governi autoritari non avevano certamente bisogno di una lezione che insegnasse loro come gestire i manifestanti, cosa che alla fin fine dipende ai loro mezzi politici e militari.  Mubarak ha perso non perché ha negoziato con i dimostranti, bensì perché il suo esercito finanziato dagli Stati Uniti ha deciso di scaricarlo. In Bahrain l’Arabia Saudita contribuisce a uccidere i dimostranti. In ogni caso i governanti arabi autoritari, non ultimo l’emiro del Qatar, odiavano Gheddafi, che aveva l’abitudine di denunciare faccia a faccia la loro ipocrisia nei consessi internazionali.  Potevano soltanto prendere coraggio dalla sua caduta.

Questi argomenti a favore della guerra appartengono alla classe delle “armi di distruzione di massa” in Iraq o della minaccia di “genocidio” in Kosovo: pericoli ipotetici utilizzati per giustificare una guerra preventiva.  La “guerra preventiva” è quella che permette a una superpotenza militare, che è troppo potente ormai per doversi difendere da attacchi stranieri, di attaccare comunque altri paesi.  Altrimenti, che ragione c’è di avere un esercito così superbo se non possiamo utilizzarlo? Come disse una volta Madeleine Albright.

Più avanti nel suo articolo, Bérubé cita il suo compagno di guerre umanitarie Ian Williams, che ha sostenuto che la litania di obiezioni all’intervento in Libia ‘si sottrae alla domanda cruciale: il mondo avrebbe dovuto lasciare che i civili libici morissero per mano di un tiranno?’ O, in altre parole, la domanda chiave è: ‘Quando un gruppo di persone che sta per essere massacrato chiede aiuto, cosa si fa?’

Con questa scelta di domande ‘cruciali’ o ‘chiave’ che fanno appello al senso di colpa, Bérubé e Williams spazzano via tutte le varie obiezioni legali, etiche e politiche all’attacco NATO contro la Libia.

Ma niente ha autorizzato questi signori a decidere quale sia la ‘domanda chiave’. In realtà la loro ‘domanda chiave’ solleva una quantità di altre domande.

Prima di tutto: chi è quel gruppo di persone? Sta davvero per essere massacrato? Qual è la fonte dell’informazione? I resoconti potrebbero essere esagerati? O potrebbero addirittura essere inventati, per far sì che le potenze straniere intervengano?

Un giovane regista francese, Julien Teil, ha filmato una notevole intervista nella quale il segretario generale della Lega Libica per i Diritti Umani, Slimane Bouchulguir, ammette candidamente di non “non avere prove” della accuse da lui avanzate davanti alla Commissione dell’ONU per i Diritti Umani che ha portato all’immediata espulsione del rappresentante libico e, da lì, alla Risoluzione dell’ONU che ha autorizzato quello che si è trasformato nella guerra della NATO per il cambiamento di regime.  In realtà non è mai stata prodotta alcuna prova del “bombardamento di civili libici” denunciato da Al Jazeera, il canale televisivo finanziato dall’Emiro del Qatar, che è emerso dalla ‘guerra di liberazione’, cui il Qatar ha partecipato,  con una larga fetta di  affari nel settore  petrolifero libico.

Limitiamoci a immaginare quanti gruppi scontenti di minoranza esistono nei paesi di tutto il mondo e che sarebbe felicissimi di avere la NATO al loro fianco per portarli al potere mediante bombardamenti.  Se tutto ciò che dovessero fare per ottenerlo fosse trovare un canale televisivo che trasmetta le loro dichiarazioni di “stare per essere massacrati”, la NATO sarebbe tenuta occupata per alcuni dei prossimi decenni, con grande gioia degli interventisti umanitari.

Un tratto saliente di questi ultimi è la loro credulità selettiva. Da un lato scartano automaticamente tutte le dichiarazioni ufficiali dei governi “autoritari” come falsa propaganda. Dall’altro, sembrano non aver mai notato che le minoranze hanno interesse a mentire riguardo alle proprie condizioni al fine di conquistarsi l’appoggio esterno.  Ho osservato ciò in Kosovo. Per la maggior parte degli albanesi era una questione di dovere virtuoso nei confronti del proprio gruppo nazionale raccontare qualsiasi cosa potesse conquistare il sostegno straniero alla loro causa.  La verità non era un criterio importante.  Non c’era bisogno di biasimarli per questo ma non c’era nemmeno bisogno di credere loro.  La maggior parte dei giornalisti inviati in Kosovo, sapendo cosa i loro direttori avrebbero gradito, basava i propri dispacci su qualsiasi racconto fosse narrato loro da albanesi ansiosi di ottenere che la NATO strappasse il Kosovo alla Serbia e lo consegnasse a loro.  Il che  è quel che è avvenuto.

Di fatto è saggio essere prudenti riguardo a quello che dice ognuna delle parti nei conflitti etnici o religiosi, specialmente in paesi stranieri con i quali non si abbia un’intima familiarità.  Forse le persone mentono raramente nell’omogenea Islanda, ma in gran parte del mondo mentire è un modo normale per promuovere gli interessi di un gruppo.

La toccante ‘domanda chiave’ riguardo al modo di reagire quando un ‘gruppo di persone sta per essere massacrato’ è un trucco retorico per spostare il problema dallo spazio della realtà contraddittoria a quella della finzione puramente moralistica.  Implica che ‘noi’, in occidente, compresi i più passivi spettatori televisivi, siamo in possesso della conoscenza e dell’autorità morale per giudicare e agire in ogni evento concepibile in ogni parte del mondo.  Non ne siamo in possesso.  E il problema è che le istituzioni intermediarie, che dovrebbero possedere la prescritta conoscenza e autorità morale, sono state e sono indebolite e sovvertite dagli Stati Uniti nella loro insaziabile inseguimento di addentare più di quanto possano inghiottire.  Poiché gli Stati Uniti dispongono della potenza militare, promuovono la potenza militare come soluzione a tutti i problemi.  Diplomazia e mediazione sono sempre più trascurate e disdegnate.  Non si tratta neppure di una politica deliberata, meditata, bensì di una conseguenza automatica di sessant’anni di incremento dell’esercito.

La vera domanda chiave

In Francia, il cui presidente Nicolas Sarkozy ha lanciato la crociata anti-Gheddafi, l’unanimità a favore della guerra è stata maggiore che negli Stati Uniti. Una delle poche personalità francesi di spicco a opporvisi è Rony Brauman, un ex presidente di Médecins Sans Frontières [MDF – medici senza frontiere] e un critico dell’ideologia dell’ ‘intervento umanitario’ promossa da un altro ex leader di MDF, Bernard Kouchner. Il numero del 24 novembre di Le Monde ha riportato un dibattito tra Brauman e il principale promotore della Guerra, Bernard Henry Lévy, che ha fatto effettivamente emergere la vera domanda cruciale.

Il dibattito è iniziato con alcune schermaglie sui fatti. Brauman, che inizialmente aveva appoggiato l’idea di un intervento limitato per proteggere Bengasi, ha ricordato di aver rapidamente cambiato idea dopo essersi reso conto che le minacce di cui si parlava erano una questione di propaganda, non di realtà osservabili.  Gli attacchi aerei contro i dimostranti di Tripoli erano un’ “invenzione di Al Jazeera”, osservava.

Al che Bernard Henri Lévy nel suo tipico stile da sfacciato mentitore indignato: “Cosa? Un’invenzione di Al Jazeera? Come puoi, Rony Brauman, negare la realtà, cui tutto il mondo ha assistito,  di quei caccia in picchiata a mitragliare i dimostranti di Tripoli?” Chi se ne frega che nel mondo intero nessuno abbia visto alcunché di simile.  Bhernard Henry Lévy sa che qualsiasi cosa egli dica sarà ascoltata in televisione e letta sui giornali senza necessità di prove.  “Da una parte hai avuto un esercito super-armato, equipaggiato per decenni e preparato per una rivolta popolare. Dall’altra parte c’erano i civili disarmati.”

Quasi nulla di ciò era vero.  Gheddafi, temendo un colpo di stato militare, aveva sempre mantenuto relativamente debole il proprio esercito. Il tanto denunciato equipaggiamento militare occidentale non è mai stato utilizzato e il suo acquisto, così come gli acquisti di armi della maggior parte dei paesi ricchi di petrolio, è stato più un favore ai fornitori occidentali che un contributo utile alla difesa.  Inoltre le rivolte in Libia, diversamente dalle proteste nei paesi vicini, erano notoriamente armate.

Ma a parte le questioni di fatto, il tema cruciale dibattuto tra i due francesi è stato una questione di principio: la guerra è o non è una cosa buona?

Richiesto circa il suo parere sul fatto che la guerra in Libia segni la vittoria del diritto d’intervento, Bauman ha risposto:

“Sì, indubbiamente … Alcuni si rallegrano di tale vittoria. Quanto a me la deploro, perché vedo che c’è una rivalutazione della guerra come mezzo per risolvere i conflitti.”

Brauman ha concluso: “A parte la superficialità con cui il Consiglio Nazionale di Transizione (NTC), la maggior parte dei cui componenti è sconosciuta, è stato immediatamente presentato da Bernard Henri Lévy come un movimento democratico laico, c’è una certa ingenuità nel voler ignorare il fatto che la guerra crea dinamiche favorevoli ai radicale a detrimento dei moderati. Questa guerra non è finita.

“Nell’operare la scelta di militarizzare la rivolta, il NTC ha concesso un’opportunità ai più violenti.  Appoggiando quella scelta in nome della democrazia la NATO ha assunto una grave responsabilità al di là dei propri mezzi.  E’ perché la guerra è in sé stessa una cosa cattiva che non dovremmo scatenarla …”

Bernard Henri Lévy ha avuto l’ultima parola: “La guerra non è una cosa cattiva di per sé! Se rende possibile evitare una violenza maggiore, si tratta di un male necessario … la teoria della guerra giusta sta tutta qui.”

L’idea che questo principio esista è “come una spada di Damocle sulla testa dei tiranni che si considerano padroni del proprio popolo; è già un progresso formidabile”.  Bernard Henri Lévy è reso felice dal pensiero che, a partire dalla fine della guerra in Libia, Bashir Al Assad e Mahmoud Ahmadinejad dormano meno saporitamente.  In breve, si rallegra alla prospettiva di ancora altre guerre.

E così eccoci alla domanda chiave, a quella cruciale: “La guerra è una cosa cattiva di per sé?” Brauman dice che lo è e la stella mediatica nota come BHL dice che non lo è “se rende possibile evitare una violenza maggiore”.  Ma quale violenza è maggiore della guerra? Quando gran parte dell’Europa era ancora in rovine dopo la seconda guerra mondiale, il Tribunale di Norimberga pronunciò il suo verdetto finale proclamando:

“La guerra è essenzialmente un male.  Le sue conseguenze non restano confinate ai soli stati belligeranti ma colpiscono il mondo intero.  Scatenare una guerra d’aggressione, perciò, è non solo un crimine internazionale; è il crimine internazionale supremo che si differenzia dagli altri crimini di guerra solo perché riassume in sé il cumulo del male complessivo.”

E in realtà la seconda guerra mondiale riassunse in sé “cumulo del male complessivo”: la morte di 20 milioni di cittadini sovietici, Auschwitz, il bombardamento di Dresda, Hiroshima e Nagasaki e molto, molto di più.

Sessant’anni dopo  per i cittadini statunitensi e per quella dell’Europa occidentale, che vivono relativamente confortevolmente, con il proprio narcisismo lusingato dall’ideologia dei “diritti umani”, è facile contemplare lo scatenamento di guerre “umanitarie” per “salvare vittime”, guerre in cui essi non corrono rischi maggiori che dedicandosi a un videogioco. Il Kosovo e la Libia sono state guerre umanitarie perfette: niente perdite, nemmeno un graffio, per i bombardieri NATO e nemmeno la necessità di contemplare il bagno di sangue sul terreno.  Con lo sviluppo della guerra mediante droni, una guerra a distanza così sicura apre prospettive infinite a “interventi umanitari” esenti da rischi, che possono consentire a celebrità occidentali come Bernard Henri Lévy di pavoneggiarsi posando da campioni appassionati di vittime ipotetiche di massacri ipotetici ipoteticamente evitati da guerre vere.

La ‘domanda chiave’?  Ci sono molte domande importanti sollevate dalla guerra in Libia e molti motivi validi e importanti per essersi opposti ad essa e continuare ad opporsi.  Come la guerra in Kosovo, ha lasciato un’eredità di odio nel paese preso a bersaglio le cui conseguenze possono avvelenare per generazioni le vite delle persone che vi vivono.  Ciò, ovviamente, non è di speciale interesse per la gente dell’occidente che non presta attenzione al danno umano causato dalle proprie uccisioni umanitarie.  Si tratta soltanto del risultato meno visibile di quelle guerre.

Per parte mia, il problema chiave che motiva la mia opposizione alla guerra in Libia è ciò che essa significa per il futuro degli Stati Uniti e del mondo. Per ben oltre un secolo gli Stati Uniti sono stati fagocitati dal proprio complesso militare-industriale, che ne ha reso infantile il senso morale, ne ha dilapidato la ricchezza e ne ha minato l’integrità politica.  I nostri capi politici non sono capi politici veri, ma sono stati ridotti al ruolo di apologeti di questo mostro, che ha un impulso burocratico per conto proprio: proliferare le basi militari in tutto il mondo, cercare e persino creare servili stati vassalli, provocare inutilmente altre potenze come la Russia e la Cina. Il dovere politico principale degli statunitensi e dei loro alleati europei dovrebbe consistere nel ridurre e smantellare questa gigantesca macchina militare prima che ci porti inavvertitamente al “supremo crimine internazionale” del non ritorno.

Dunque la mia principale opposizione alla recente guerra deriva precisamente dal fatto che, in un momento in cui erano esitanti persino alcuni a Washington, gli “interventisti umanitari” come Bernard Henry Lévy, con la loro sofistica pretesa di “proteggere i civili innocenti” sulla base del principio “R2P” *  hanno alimentato e incoraggiato questo mostro offrendogli il “frutto a portata di mano” di una facile vittoria in Libia. Questo ha reso più difficile di quanto già non fosse la lotta per portare un’apparenza di pace e di sanità mentale nel mondo.

[* “R2P” : “La  Responsibility to Protect (RtoP or R2P)  [Responsabilità della Protezione] è una norma o insieme di principi basata sull’idea che la sovranità non è un privilegio, bensì una responsabilità. RtoP si concentra sulla prevenzione e l’interruzione di quattro crimini: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica, che pone sotto il termine generico complessivo di Atrocità di Massa. La Responsabilità della Protezione può essere considerata come composta da tre parti:

1. Lo Stato ha la responsabilità di proteggere la propria popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, dai crimini contro l’umanità e dalla pulizia etnica (atrocità di massa).

2.Se uno  Stato non è in grado di proteggere da solo la propria popolazione, la comunità internazionale ha la responsabilità di assistere lo stato nel creare il proprio potenziale. Ciò può significare creare capacità di allerta, mediare conflitti tra partiti politici, rafforzare il settore della sicurezza, mobilitare forze di riserva e molte altre azioni.

3. Se uno stato  è manifestamente incapace di proteggere i propri cittadini da atrocità di massa e le misure pacifiche non funzionano, la comunità internazionale ha la responsabilità di intervenire, dapprima diplomaticamente, poi più coercitivamente e, come ultima risorsa, mediante la forza militare.

Fonte Wikipedia – traduzione mia – n.d.t.]

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/here-s-the-key-question-in-the-libyan-war-by-diana-johnstone

Fonte: Counterpunch

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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La rinascita del darwinismo sociale

07 mercoledì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Economia, Robert Reich

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darwinismo sociale, Jay Gould, Mitt Romney, Newt Gingrich, passatisti, Repubblicani, Rockefeller, Ron Paul, sopravvivenza dei più adatti, usa, Vanderbilt, William Graham Sumner

di Robert Reich  – 06 dicembre  2011

Che tipo di società, esattamente, vogliono i moderni Repubblicani?  Sono andato ascoltando i candidati Repubblicani nel tentativo di discernere una filosofia complessiva, una visione ampiamente condivisa, un’immagine ideale degli Stati Uniti.

Dicono di volere un governo più limitato, ma non può essere così.  La maggior parte di loro cerca una difesa nazionale più massiccia e una sicurezza interna più muscolare.  Quasi tutti vogliono ampliare i poteri del governo di perquisire e sorvegliare, all’interno degli Stati Uniti, di sradicare possibili terroristi e cancellare gli immigrati privi di documenti, di “rendere sicuri” i confini della nazione.  Vogliono condanne più dure, compresa una più estesa applicazione della condanna a morte.  Molti vogliono anche che il governo si intrometta negli aspetti più intimi della vita privata.

Si definiscono conservatori, ma non si tratta neppure di questo.  Non vogliono conservare quello che attualmente abbiamo.  Vorrebbero piuttosto riportare indietro il paese, a prima degli anni ’60 e ’70, della Legge per la Protezione dell’Ambiente e dei programmi Medicare e Medicaid; a prima del New Deal e dei suoi provvedimenti per l’assistenza sociale, l’assicurazione contro la disoccupazione, della settimana lavorativa di quarantaquattro ore , delle leggi contro il lavoro minorile e del riconoscimento ufficiale dei sindacati; addirittura a prima dell’Era Progressista e delle prime imposte nazionali sul reddito, delle leggi antitrust e della Federal Reserve.

Non sono conservatori. Sono passatisti. E gli Stati Uniti che cercano sono quelli che abbiamo avuto nell’Età d’Oro della fine del diciannovesimo secolo.

Quella è stata un’era in cui la nazione era ipnotizzata dalla dottrina della libera impresa, ma pochi statunitensi hanno effettivamente goduto di una gran libertà. Baroni della rapina  come il finanziere Jay Gould, il magnate delle ferrovie Cornelius Vanderbilt e il tycoon del petrolio John D. Rockefeller controllavano gran parte dell’industria statunitense; il divario tra ricchi e poveri era diventato un abisso; i quartieri poveri finivano ai limiti della degradazione; i bambini lavoravano lunghe ore nelle fabbriche; le donne non potevano votare e gli americani neri erano soggetti a Jim Crow; e i lacchè dei ricchi depositavano letteralmente sacchi di denaro sulle scrivanie dei parlamentari compiacenti.

Per dirlo in modo più efficace, è stata l’era in cui le idee di William Graham Sumner, un professore di scienze politiche e sociali alla Yale, dominavano il pensiero sociale statunitense.  Sumner aveva portato Charles Darwin negli Stati Uniti e lo aveva distorto in una teoria che si adattasse ai tempi.

Pochi statunitensi vivi oggi hanno letto qualcosa degli scritti di Sumner, ma essi ebbero un effetto elettrificante sugli Stati Uniti negli ultimi tre decenni del diciannovesimo secolo.

Per Sumner e per i suoi seguaci, la vita era una lotta competitiva in cui potevano sopravvivere solo i più adatti e attraverso tale lotta le società, nel tempo, diventavano più forti.  Un corollario di tale principio era che il governo doveva fare poco o nulla per aiutare chi era nel bisogno, perché ciò avrebbe interferito con la selezione naturale.

Si ascoltino i dibattiti repubblicani di oggi e si constaterà una continua ripetizione meccanica di Sumner. “La civiltà dispone di una scelta semplice” scriveva Sumner negli anni ’80 del 1800.  Si tratta o della “libertà, diseguaglianza, sopravvivenza del più adatto” oppure della “non-libertà, uguaglianza e sopravvivenza dei non adatti. La prima fa progredire la società e ne favorisce i membri migliori; la seconda riporta la società indietro e ne favorisce i membri peggiori.”

Suona familiare?

Newt Gingrich non solo fa eco ai pensieri di Sumner, ma ne imita la famosa arroganza.  Gingrich afferma che dobbiamo ricompensare gli “imprenditori” (termine con il quale egli intende chiunque abbia fatto una pila di quattrini) e ci ammonisce a non “coccolare” i bisognosi. [Gingrich  “attualmente, è uno dei principali animatori dell’opposizione di destra al presidente Barack Obama […] ed è accreditato come uno dei possibili candidati repubblicani alla Casa Bianca nel 2012” – fonte Wikipedia – n.d.t.]. Egli definisce “veramente stupide” le leggi contro il lavoro minorile e afferma che i bambini poveri dovrebbero occuparsi delle pulizie nelle proprie scuole.  Si oppone ad ampliare l’assicurazione contro la disoccupazione perché, dice, “sono contrario a dare soldi alla gente per non far nulla.”

Sumner, analogamente, metteva in guardia contro il concedere sussidi a persone che definiva “negligenti, apatiche, inefficienti, stupide e imprudenti.”

Mitt Romney [altro possibile candidato Repubblicano alle presidenziali – n.d.t.]non vuole che il governo faccia granché sotto nessun aspetto riguardo alla disoccupazione.  Ed è inflessibile contro l’aumento delle tasse ai milionari, basandosi sulla motivazione Repubblicana standard che i milionari creano posti di lavoro.

Ecco Sumner, più di un secolo fa: “I milionari sono il prodotto della selezione naturale che agisce sull’intero corpo dell’umanità per scegliere coloro che meglio possono soddisfare i requisiti affinché un certo lavoro sia compiuto […] E’ perché sono scelti in questo modo che la ricchezza confluisce nelle loro mani,  la ricchezza loro e quella che è affidata loro […] Possono essere giustamente considerati come i protagonisti della società selezionati naturalmente.” Anche se vivono nel lusso “è un buon affare per la società.”

Altri Repubblicani di belle speranze corrispondono allo stampo di Sumner.  A Ron Paul, che favorisce la revoca del piano di assistenza sanitaria di Obama, nel corso di un dibattito Repubblicano a settembre è stato chiesto quale risposta medica raccomanderebbe se entrasse in coma un giovane che avesse scelto di non sottoscrivere una polizza sanitaria. Risposta di Paul: “E’ questo che è la libertà: assumersi i propri rischi.”  Il pubblico Repubblicano ha applaudito.

In altre parole, se il giovane morisse per mancanza di assicurazione sanitaria, ne sarebbe responsabile.  Sopravvivenza dei più adatti.

Il darwinismo sociale ha offerto una giustificazione morale alle selvagge iniquità e crudeltà sociale della fine del diciannovesimo secolo.  Ha permesso, ad esempio, a John D. Rockefeller di affermare che la fortuna che aveva accumulato grazie al suo gigantesco Standard Oil Trust era “semplicemente la sopravvivenza del più adatto”.  Era, insisteva, “l’opera di una legge di natura e di Dio”.

Il darwinismo sociale ha anche compromesso i tentativi dell’epoca di costruire una nazione di prosperità ampiamente diffusa e di salvare la nostra democrazia dalla stretta presa di un pugno di persone al vertice. E’ stato utilizzato dai privilegiati e dai potenti per convincere tutti gli altri che il governo non doveva fare praticamente nulla.

Non è stato che nel ventesimo secolo che gli Stati Uniti hanno rigettato il darwinismo sociale.  Abbiamo creato la vasta classe media che è diventata il cuore della nostra economia e democrazia.  Abbiamo costruito reti di sicurezza per salvare i cittadini che erano caduti in basso senza colpa.  Abbiamo realizzato regolamenti per proteggere dagli inevitabili eccessi dell’avidità dei liberi mercati.  Abbiamo tassato i ricchi e investito in beni pubblici – scuole pubbliche, università pubbliche, trasporti pubblici, parchi pubblici, assistenza sanitaria pubblica – che ci hanno fatto stare tutti meglio.

In breve, abbiamo rifiutato l’idea che ciascuno di noi si trovi in un contesto competitivo per la sopravvivenza.

Ma non sbagliamoci.  Se uno dell’attuale gruppo di Repubblicani di belle speranze diventasse presidente, e se i Repubblicani passatisti prendessero il controllo della Camera o del Senato, o di entrambi, il darwinismo sociale ritornerà.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/the-rebirth-of-social-darwinism-by-robert-reich

Fonte: Robertreich.org

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Vertice in Venezuela per la creazione della Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (CELAC)

07 mercoledì Dic 2011

Posted by Redazione in America, Economia, Federico Fuentes

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ALBA, Alvaro Garcia, Alvaro Uribe, America Latina, America XXI, Banca del Sud, bolivia, canada, capitalismo, CELAC, Colombia, costi e prezzi equi, crisi globale, cuba, Ecuador, Eva Golinger, Grande Polo Patriottico, Guardia Nazionale Bolivarista, Hugo Chavez, Luis Bilbao, Manuel Santos, OAS, Parmalat, prezzi bloccati, Rafael Correa, socialismo, UE, UNASUR, usa, venezuela

di Federico Fuentes  – 06 dicembre  2011

Un vertice di enorme importanza si è tenuto in Venezuela il 2 e 3 dicembre. Duecento anni dopo che i combattenti per l’indipendenza dell’America Latina hanno lanciato per la prima volta il loro grido di battaglia per un’America Latina unita, 33 capi di stato della regione si sono riuniti per formare la Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (CELAC).

Per l’America Latina il vertice ha rappresentato un ulteriore passo via dal suo tradizionale ruolo di cortile di casa degli Stati Uniti e il suo emergere come attore per suo proprio merito della politica internazionale.

Risorse

L’importanza di questa nuova istituzione nella politica mondiale non può essere sopravvalutata.  Il prodotto interno lordo complessivo dei paesi della CELAC la rende la terza maggiore potenza economica mondiale.

E’ anche sede delle più vaste riserve mondiali di petrolio ed è anche la prima e più grande produttrice mondiale di cibo e di energia, rispettivamente.

La CELAC, inoltre, cresce da esperimenti e organismi inter-regionali esistenti.

Essi includono l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), il Consiglio di Difesa dell’UNASUR, la Banca del Sud (che attende soltanto l’approvazione del parlamento uruguaiano per dare alla vita una banca che conterà su 20 miliardi di dollari di progetti di sviluppo) e la creazione di meccanismi di scambio tra alcuni paesi che sostituiscono il dollaro con monete locali e nuove monete regionali.

Un’altra importante iniziativa di integrazione è l’Alleanza Bolivarista dei Popolo della Nostra America (ALBA), un blocco anti-imperialista di nove nazioni inizialmente formato, nel 2004, dai governi socialisti di Cuba e del Venezuela.

La CELAC esclude esplicitamente gli Stati Uniti e il Canada.

Tuttavia Cuba, che è stata esclusa dall’Organizzazione degli Stati Americani (OAS) per aver osato sfidare l’impero statunitense e attuare una rivoluzione, non è stata inclusa ed è stata scelta per ospitare il Vertice CELAC del 2013.  Il Cile è già stato scelto per ospitare quello dell’anno prossimo.

Alcuni stanno già sostenendo che la CELAC rappresenterà il chiodo finale sulla bara dell’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), tradizionalmente dominata dai potenti vicini del nord.

Il presidente ecuadoriano Rafael Correa ha dichiarato il 29 novembre: “Crediamo di aver bisogno di un profondo cambiamento del sistema inter-americano, fondamentalmente latinoamericano, perché è chiara la forza gravitazionale degli Stati Uniti [all’interno dell’OAS].”

“Abbiamo bisogno di un altro sistema […] in cui discutere i nostri problemi nella regione, non a Washington [quartier generale dell’OAS], in cui le istituzioni che sono separate dalla nostra visione, dalle nostre tradizioni e dai nostri valori e bisogni, non ci vengano imposte.”

Lo stesso giorno, il vicepresidente della Bolivia, Alvaro Garcia Linera, ha dichiarato che il vertice rappresenterà “un incontro di popoli, a difesa del nostro destino, senza tutele, senza patroni, in modo che insieme possiamo trovare una soluzione ai nostri problemi, senza la presenza degli Stati Uniti.”

Indebolimento dell’impero

Il passo ha luogo in un momento in cui la potenza economica e politica degli Stati Uniti è in declino e l’Unione Europea è sull’orlo del collasso.

“L’America Latina è un continente in movimento che si confronta con un mondo in crisi,” ha affermato Garcia Linera.  “L’America Latina è l’avanguardia del mondo quanto a idee, quanto a trasformazione, quanto a proposte al servizio del popolo e dell’umanità.”

Luis Bilbao, direttore della rivista America XXI, diffusa in tutta l’America Latina, in un articolo del 28 novembre ha affermato che la CELAC rappresenta “un’opportunità senza precedenti di fare della regione il punto di partenza di una nuova fase della storia dell’umanità.”

L’America Latina è in una posizione unica, considerato il contesto globale, contrassegnata da tre caratteristiche chiave: “Ha una dinamica di convergenza regionale mentre tutti gli altri [continenti] soffrono di violente forze centrifughe;  sino ad ora, in conseguenza della recessione dei centri imperialisti, ha sofferto di meno; [e] all’interno di  questo complesso eterogeneo convergente esiste un nucleo vitale che, di fronte al collasso del capitalismo […] ha alzato la bandiera del socialismo del ventunesimo secolo.”

Gli Stati Uniti hanno tentato tutto il possibile per bloccare la CELAC. L’ex presidente colombiano, Alvaro Uribe, una marionetta degli USA, ha fatto il tentativo più recente.

Un articolo del 28 novembre di Venezuelanalysis.com ha affermato che durante una visita per incontrare l’opposizione venezuelana di destra, Uribe ha sollecitato i suoi membri a diffondere una “dichiarazione pubblica” che denunciasse i crescenti rapporti tra Colombia e Venezuela.

Sotto Uribe le relazioni tra Venezuela e Colombia erano quasi degenerate in guerra. Uribe si è anche dato da fare per minare dall’interno i progressi dell’UNASUR.

Nonostante egli continui molta delle politica neoliberale e oppressiva di Uribe in patria, Venezuelanalysis.com afferma che il presidente colombiano Manuel Santos “ha adottato una posizione notevolmente diversa in politica estera, intesa a integrare la Colombia nelle organizzazioni regionali e a ristabilire relazioni bilaterali con altri paesi dell’America Latina.”

Questo non significa che il governo colombiano, o molti altri paesi latinoamericani, non seguano più i dettati USA in politica estera nella regione o che tutti concordino sul fatto che la CELAC dovrebbe automaticamente sostituire l’OAS.

Né significa che non ci siano differenze importanti su come affrontare la crisi economica globale e le guerre imperiali, come il recente attacco della NATO alla Libia.

Bilbao ha osservato che non ci si può attendere un’unica reazione unificata da parte della CELAC a queste enormi sfide, “tuttavia quel che è possibile è trovare un minimo comun denominatore”.

L’idea che il cortile di casa degli Stati Uniti crei il proprio vicinato per risolvere collettivamente i problemi, libero da interventi esterni, è un punto di partenza importante.

Il Venezuela fa strada

Che il vertice si sia tenuto in Venezuela ha rappresentato un doppio colpo per gli interessi statunitensi.  Avendo scatenato una campagna incessante per distruggere la rivoluzione bolivarista venezuelana, il fatto che esso sia stato scelto per ospitare il vertice smonta le bugie diffuse da Washington e dai media delle imprese riguardo al fatto che il Venezuela sarebbe isolato nella regione.

Inoltre la presenza di un presidente venezuelano Hugo Chavez completamente ripresosi, il cui attacco di cancro all’inizio dell’anno aveva costretto a dilazionare il vertice da luglio, ha cancellato le speranze che i problemi di salute riuscissero dove il colpi di stato e i piani di destabilizzazione appoggiati dagli Stati Uniti contro il governo Chavez avevano fallito.

Chavez, invece, ha annunciato di essere pronto a candidarsi alla rielezione alla elezioni presidenziali del 7 ottobre dell’anno prossimo.

In risposta all’appello di Chavez di formare un “Grande Polo Patriottico” di partiti e movimenti sociali in appoggio alla sua rielezione su una piattaforma di approfondimento della rivoluzione, più di 32.000 organizzazioni hanno sottoscritto la campagna nel corso del periodo di registrazione di quattro settimane iniziato a inizio ottobre.

I sondaggi indicano il sostegno a Chavez a più del 50%.  L’opposizione sostenuta dagli Stati Uniti resta incapace di raccogliere candidati in grado di sfidarlo seriamente.

In risposta, gli Stati Uniti stanno accelerando una grande campagna per cercare di evitare un nuovo mandato per le politiche anticapitaliste di Chavez.

La giornalista d’inchiesta Eva Golinger ha affermato, in un articolo dell’11 agosto su Chavezcode.com, che gli Stati Uniti hanno già stanziato 20 milioni di dollari per finanziare l’opposizione l’anno prossimo.

Un’altra tattica importante utilizzata consiste nell’accumulo e nella speculazione capitalista sui prezzi del cibo per provocare scarsità e peggiorare l’inflazione, che già viaggia sopra il 22% quest’anno.

Il mondo dei grandi affari ha usato questa tattica con successo per contribuire a sconfiggere il referendum del 2007 su una serie di riforme costituzionali proposte da Chavez, dando ai capitalisti la loro unica vittoria elettorale in 12 anni.

Il 27 novembre Chavez ha  affermato che nei giorni scorsi la Guardia Nazionale Bolivarista ha sequestrato 127.000 chili di riso, 132.000 chili di farina, 256.000 chili di latte in polvere, 85.000 litri di olio vegetale, 246.000 chili di zucchero e 10.500 chili di caffè, tutti illegalmente ammassati da società private.

Una società interessata, l’italiana Parmalat, ha pubblicato  una dichiarazione il 26 novembre su diversi giornali.  Ha affermato essere  “strano” che il governo abbia sequestrato 210.000 chili di latte in polvere dai suoi magazzini, visto che quel latte si presumeva destinato alla società di distribuzione statale, CASA, in base a un contratto firmato.

Chavez ha risposto il giorno dopo: “Abbiamo scoperto che la Parmalat ammassava il latte questo è tipico della borghesia … pensano che siamo pazzi o idioti … Signori della Parmalat, noi non siamo stupidi.”

Egli ha ordinato  una indagine su vasta scala a carico della società e ricordò alla Parmalat che il suo governo ha il potere di espropriare la società, se continua a compiere azioni simili.

Nazionalizzazioni

Un articolo della Reuters del 14 ottobre ha citato dati forniti da Conindustria, una federazione industriale venezuelana, che mostrano che quest’anno sono state nazionalizzate 459 società. Da quando Chavez ha assunto il potere le imprese nazionalizzate sono stimate in 1.045.

Ciò ha assicurato che lo stato svolge un ruolo dominante in settori strategici quali il petrolio, l’elettricità, il cemento, l’acciaio, le telecomunicazioni e la produzione e distribuzione alimentare.

Il giorno dopo la reazione di Chavez la Parmalat ha pubblicato un’altra lettera aperta offrendo le sue “scuse più sincere” per aver mancato di “comunicare adeguatamente quel che è emerso” riguardo al latte in polvere.

Essa si è impegnata ad appoggiare il governo nel garantire che i bisogni del popolo siano soddisfatti.

La Parmalat non è l’unica società che Chavez ha ordinato di controllare. Egli ha indicato la Colgate Palmolive, la Pepsi Cola, la Heinz, la Nestlé, la Coca Cola, l’Unilever, la Glaxo Smith Kline  e la Polar, la più grande impresa alimentare venezuelana.

Esse sono tra le società colpite dai controlli sui prezzi di 18 articoli alimentari, igienici e per la casa, in effetto dal 22 novembre.

Dal 2003 il governo ha imposto controlli sui prezzi di vari beni alimentari essenziali.

In base alla nuova Legge sui Costi e Prezzi Equi, il prezzi di 18 beni sono congelati sino a metà dicembre.  L’organismo di nuova creazione, la Sovrintendenza Nazionale sui Prezzi e Costi Equi, verifica le imprese che producono tali merci per stabilire quanto costi realizzare il prodotto, al fine di fissare un prezzo di vendita ragionevole.

Dal 15 dicembre tale prezzo dovrà essere stampato sul prodotto. A quelli che non rispetteranno il regolamento saranno comminate sanzioni.

Un seconda fase inizierà a gennaio e riguarderà i medicinali.

Il 7 novembre Chavez ha dichiarato al canale televisivo statale VTV: “Non possiamo concedere ai grandi proprietari di attività e alle grandi imprese la libertà di continuare a saccheggiare le tasche dei venezuelani.”

La nuova legge, ha dichiarato Chavez, “è stata necessaria e ha formato parte di una strategia di intervento statale nell’economia che, a sua volta, è parte della transizione dal capitalismo […] al socialismo.”

Senza dubbio la battaglia tra la democrazia socialista e la dittatura dei mercati continuerà a riscaldarsi con l’approssimarsi delle elezioni presidenziali.

Il risultato di questa battaglia avrà ramificazioni importanti non solo per il futuro del Venezuela, ma per quella della CELAC e del mondo.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/summit-in-venezuela-opens-new-phase-in-history-by-federico-fuentes

Fonte: New Left

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Nucleare iraniano: come i media hanno stravolto il rapporto della IAEA

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Asia, Benjamin Loehrke, Greg Grandin, Guerra al terrore

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armi nucleari, IAEA, iran, James Clapper, NIE, nucleare, servizi segreti, Teheran, usa

 

di Greg Thielmann e Benjamin Loehrke  – 06 dicembre  2011

Quando, agli inizi del mese, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) ha diffuso un rapporto sul programma nucleare iraniano, molte agenzie mediatiche e politici ne hanno ricavato due messaggi: che l’agenzia con sede a Vienna ora confuta le stime del passato della comunità dei servizi segreti statunitensi e che ora l’Iran sta accelerando sulla bomba.  Entrambe le rappresentazioni sono sbagliate.  E tuttavia queste affermazioni sono state ripetute abbastanza spesso da dar loro credibilità presso il pubblico e il Congresso.

La maggior parte degli analisti che hanno familiarità con il rapporto sono d’accordo sul fatto che “non c’è niente nel rapporto che non fosse noto in precedenza ai governi delle maggiori potenze”;  un Iran nucleare “non è né imminente né inevitabile”.  Anche se è chiaro che la continuazione, da parte dell’Iran, sulle armi nucleari è una preoccupazione grave per la sicurezza internazionale, “non c’è stata alcuna pistola fumante quanto alle intenzioni dell’Iran riguardo alle armi nucleari.”  

E allora perché analisi contrastanti di un documento estremamente burocratico e tecnocratico?

Washington parla molto, ma non legge altrettanto.  Questo è il modo più semplice per spiegare perché i commentatori hanno trascurato la coerenza tra la Stima dell’Intelligence Nazionale (NIE) del 2007 sull’Iran e il più recente rapporto della IAEA sul programma nucleare iraniano.

Il PDF NIE del 2007 sull’Iran aveva raggiunto la conclusione, da titoloni sui giornali, che, con elevata certezza, nell’autunno 2003 l’Iran aveva interrotto il suo programma di armamenti nucleari (distinto dal programma di arricchimento dell’uranio e da quello dei missili balistici).  Inoltre il NIE affermava:

“Valutiamo anche, con certezza da moderata ad alta, che Teheran stia al minimo mantenendo aperta l’opzione di sviluppare armi nucleari …

Riteniamo, con elevata certezza, che l’interruzione sia durata almeno diversi anni. (Tuttavia, a motivo di diverse lacune del servizi di intelligence discusse altrove in questa Valutazione [il Dipartimento dell’Energia e il Consiglio Nazionale dei Servizi Segreti] stimano con una certezza solo moderata che l’interruzione di tali attività rappresenti un’interruzione dell’intero programma iraniano relativo alle armi nucleari.)

Stimiamo con moderata certezza che Teheran non abbia riavviato il suo programma di armamenti nucleari a tutta la metà del 2007, ma non sappiamo se attualmente intenda sviluppare armi nucleari.”

Tutto ciò è notevolmente coerente con il più recente rapporto della IAEA, che ha osservato:

“[Gli sforzi dell’Iran quanto alle armi nucleari] … sono stati interrotti improvvisamente in seguito a un ‘ordine di stop’ emesso alla fine del 2003 da alti dirigenti iraniani.  Secondo tale informazione, tuttavia, il personale è rimasto al suo posto per registrare e documentare i progressi dei rispettivi progetti … L’agenzia è preoccupata perché alcune delle attività intraprese dopo il 2003 sarebbero altamente rilevanti per un programma di armamento nucleare.”

Il NIE lasciava aperta la possibilità che l’Iran potesse continuare attività collegate agli armamenti.  Con quattro anni di maggior prospettiva il più recente rapporto della IAEA fornisce maggiori dettagli sul lavoro bellico condotto dall’Iran prima del 2003, poi aggiorna le informazioni disponibili sulla misura inferiore del lavoro condotto dopo il 2003. Le nuove attività hanno compreso:

– Conduzione di ricerca sperimentale, dopo il 2003, sull’iniziazione emisferica di alti esplosivi;

– Ulteriore validazione, dopo il 2006, di un progetto di iniziatori neutronico;

– Conduzione di studi su modelli, nel 2008 e 2009, che potrebbero stabilire il prodotto di un’esplosione nucleare;

Portare avanti attività disparate di ricerca non corrisponde al riavvio a pieno campo di un programma integrato di armamenti.  Quel tipo di attività continua a risultare essere stato interrotto nel 2003.  Da allora le attività sembrano più un affinamento, da parte dell’Iran, della sua precedente comprensione del progetto delle armi nucleari, non una corsa alla bomba.

Perciò, nello spiegare i più recenti documenti classificati del NIE diffusi a marzo di quest’anno, James Clapper, direttore dei servizi d’informazione nazionali, ha dichiarato al Comitato del Senato sulle Forze Armate (PDF) :

“Continuiamo a ritenere che l’Iran stia mantenendo aperta l’opzione di sviluppare armi nucleari, in parte sviluppando varie potenzialità nucleari che lo mettono in una posizione migliore per produrre tali armi, nel caso decidesse di farlo. Non sappiamo, tuttavia, se alla fine l’Iran deciderà di costruire armi nucleari.”

La testimonianza di Clapper ha confermato il recente rapporto IAEA, che ha aggiunto considerevoli dettagli al sommario ‘disinfettato’ del NIE 2007.

L’esteso rapporto della IAEA costituisce una forte indicazione che i servizi d’informazione statunitensi nel 2007 sul programma nucleare iraniano si erano basati su prove solide che non sono state smentite dalle informazioni più recenti.  La situazione dell’Iran non è statica; sono necessarie costanti rivalutazioni e analisi aggiornate per ogni processo di intelligence dinamico e professionale.

Inoltre, condividere con il pubblico le informazioni sulle conclusioni raggiunte è vitale per informare il dibattito in corso. La IAEA merita credito sia per la qualità delle sue analisi sia per condividere le sue opinioni qualificate su questi temi critici con il pubblico più vasto, in particolare visto che non è stato diffusa alcuna sintesi dei più recenti aggiornamenti del NIE.

I guru e i politici che utilizzano il rapporto più recente della IAEA per attaccare il rapporto 2007 del NIE stanno, al minimo, distorcendo le informazioni e, al peggio, facendo giochi politici con la sicurezza nazionale.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/pakistan-anatomy-of-a-crisis-by-conn-hallinan

Fonte: Bulletin of Atomic Scientists

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Pakistan: anatomia di una crisi

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Asia, Conn Hallinan, Guerra al terrore

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A-130, Afghanistan, Alleanza del Nord, Apache, armi di precisione, Ashfaq Nadeem, Ashram Nader, attacchi chirurgici, Bonn, Boulder, CIA, Cina, confine, droni, fuoco amico, India, iran, Islamabad, Kabul, Karzai, Mullah Samiullah Rahmani, NATO, pakistan, pashtun, posti di confine, Russia, Shamsi, soldati pachistani uccisi, tagiki, talebani, usa, uzbeki, Volcano, Wajid Shamsul Hasan, Yang Jiechu

di Conn Hallinan  – 05 dicembre  2011

Successivamente agli attacchi della NATO del 26 novembre a due posti di
confine che hanno ucciso 24 soldati pachistani, ciò che ci si chiede è se
l’attacco sia stato un incidente nel “buio della guerra” o un colpo calcolato
diretto a silurare il colloqui di pace in Afghanistan.  Considerato che l’incidente ha precipitato a
un nuovo minimo le relazioni tra Washington e Islamabad in un momento critico
della guerra decennale, la risposta è di vitale importanza.

Secondo la NATO, i soldati statunitensi e afgani sono finiti sotto il fuoco
dal lato pachistano del confine e hanno reagito per difendersi.  Ufficiali statunitensi hanno suggerito che
siano stati i talebani a organizzare l’incidente al fine di avvelenare le
relazioni tra USA e Pakistan.  Ma ci sono
alcuni fatti che suggeriscono che lo scontro possa essere stato qualcosa di più
di un caso di “fuoco amico” realizzato da un nemico astuto, su un confine mal
definito e nel normale caos del campo di battaglia.

Il comandante talebano afgano Mullah Samiullah Rahmani nega che i suoi
fossero addirittura nell’area il gruppo di insorti non è mai riluttante a
prendersi il merito di conflitti militari (ovviamente, se c’è inganno, ciò è
esattamente quello che i talebani direbbero).
Tuttavia questa particolare regione è una regione che
l’esercito pachistano occupa da diversi anni ed è considerata “ripulita” da
insorti.

L’incidente non è stato un caso di un attacco di droni o di un
bombardamento andato storto, un evento abbastanza comune. Nonostante tutti i
discorsi sulle “armi di precisione” e sugli “attacchi chirurgici”, i droni
hanno inflitto centinaia di morti civili e bombe da 500 libbre
hanno poco in comune con le  sale
operatorie.  Gli strumenti della NATO
sono stati invece elicotteri da attacco Apache e, secondo l’Associated Press, e un velivolo
d’assalto A-130. In poche parole l’assalto è stato condotto da piloti in carne
ed ossa che presumibilmente hanno identificato i bersagli per i propri
superiori.

Questi bersagli sono stati due fortificazioni di confine, un’architettura
che non è mai stata associata ai talebani. E’ vero che il confine tra il
Pakistan e l’Afghanistan è permeabile e non sempre chiaramente definito, ma gli
insorti afghani non costruiscono postazioni di cemento. Un “forte” è una
banalità per un drone o per un caccia da combattimento, ed è per questo che i
talebani preferiscono le grotte e i bunker nascosti.

Abbastanza ovviamente le due parti dissentono su quel che è successo.  Gli statunitensi affermano di essere stati
attaccati dal confine pachistano, di aver ingaggiato un combattimento di tre
ore e di aver chiamato gli elicotteri alla fine della battaglia.

Ma, secondi i pachistani, non c’era stato fuoco dalla loro parte del
confine e sono stati gli elicotteri a iniziare la battaglia, che è durata un
po’ meno di due ore. I pachistani dicono anche che ci sono stati due attacchi
di Apache. Il primo ha attaccato l’avamposto Volcano e quando il forte gemello
vicino, l’avamposto Boulder, ha aperto il fuoco sugli elicotteri, anch’esso è
finito sotto attacco.  Il Pakistan
afferma che i suoi militari hanno contattato la NATO per avvertirla che stava
attaccando truppe pachistane, ma che il fuoco è proseguito.  Gli elicotteri alla fine si sono ritirati,
soltanto per riapparire e rinnovare l’attacco quando i pachistani hanno cercato
di rinforzare i forti assediati.

Può essere stato un caso di cattive informazioni d’intelligence?

Secondo i pachistani, Islamabad ha avuto cura di fornire alla NATO le
coordinate delle proprie postazioni  per
evitare incidenti esattamente di questo tipo. Il generale pachistano
Ashfaq Nadeem ha affermato
“non è possibile” che le “forze NATO non conoscessero la localizzazione
delle postazioni pachistane.”  Il generale pachistano
Ashram Nader
ha definito l’attacco un “atto deliberato di aggressione”.

Può essere stato “deliberato”? Errori si verificano in guerra, ma la
tempistica di questo scontro è profondamente sospetta.

La cosa avviene in un momento delicato, quando circa 50 paesi si stavano
preparando a riunirsi a Bonn, in Germania, per colloqui intesi a risolvere la
guerra afghana.  In quella riunione il
Pakistan è centrale, il solo paese della regione con estesi contatti tra i vari
gruppi di insorti.  Se gli USA
pianificheranno davvero il ritiro delle truppe per il 2014, avranno necessità
di una stretta collaborazione del Pakistan.

“Questo potrebbe essere uno spartiacque nelle relazioni del Pakistan con
gli Stati Uniti,” ha dichiarato al Guardian
(UK)
l’alto commissario per l’Inghilterra,
Wajid Shamsul Hasan. “Potrebbe far naufragare il calendario del ritiro delle
truppe statunitensi.”

Il Pakistan si è ora ritirato dai colloqui di Bonn e le relazioni tra
Washington e Islamabad sono pessime, quanto mai lo sono state prima.  I pachistani hanno bloccato due principali
vie di terra verso l’Afghanistan, percorsi su cui si muove circa il 50% delle
forniture belliche.  Islamabad ha anche
chiesto che la CIA chiuda la sua base di droni a Shamsi, nella provincia
pachistana del Beluchistan.

Chi trarrà vantaggio da queste ricadute?

Non è un segreto che molti nell’esercito USA sono scontenti della
prospettiva di negoziati con i talebani, in particolare con il più letale
alleato dell’organizzazione, il Gruppo Haqqani. C’è uno strappo non dichiarato
ma generalmente noto tra il Dipartimento della Difesa e il Dipartimento di
Stato, con il primo che vuole battere gli insorti prima di sedersi a discutere
mentre il secondo non è certo che tale tattica funzionerebbe.  Qualcuno del lato in uniforme della divisione
potrebbe aver deciso di far deragliare, o quanto di meno di danneggiare, l’incontro
di Bonn?

Non è nemmeno un segreto che non tutti in Afghanistan vogliono la pace, in
particolare se implica un accordo con i talebani.  L’Alleanza del Nord, costituita
principalmente da tagiki e uzbeki, non vuole avere nulla a che fare con i talebani
insediati  pashtun che sono
principalmente raggruppati al sud e ad est e nelle regioni tribali del
Pakistan.  L’esercito afgano è
prevalentemente tagiko, popolazione che non solo costituisce il grosso della
truppa, ma anche il 70% del comando.  Il
presidente Hamid Karzai è un pashtun, ma è in larga misura una facciata del
governo di Kabul dominato dall’Alleanza del Nord.

Ci sono anche in gioco temi regionali più vasti.

Non è stato sorprendente che la Cina
si sia immediatamente schierata a difesa del Pakistan, con il ministro degli
esteri cinese Yang Jiechu che ha espresso “profondo sconvolgimento e forte
preoccupazione” per l’incidente.  La Cina
non è contenta del dispiegamento della NATO in Afghanistan e ancor meno della
possibilità di basi statunitensi permanenti in quel paese.  In un incontro del 2 novembre a Istanbul, la
Cina, insieme con Pakistan, Iran e Russia, si è opposta a uno spiegamento
statunitense a lungo termine nella regione.

L’Iran è preoccupato per la minaccia costituita dalla potenza militare
statunitense ai propri confini;
Islamabad è preoccupata del fatto che prolungare la guerra
destabilizzerà ulteriormente il Pakistan e Bejing e Mosca nutrono sospetti che
gli statunitensi abbiano posto le loro mire sulle risorse petrolifere e sul gas
dell’Asia Centrale.  Sia la Russia sia la
Cina dipendono dagli idrocarburi dell’Asia Centrale, la prima per le
esportazioni in Europa e la seconda per gestire le sue fiorenti industrie.

La Cina è anche preoccupata riguardo alla recente svolta strategica dell’amministrazione
Obama in direzione dell’Asia.  Gli Stati
Uniti sono intervenuti apertamente in dispute tra la Cina e i suoi vicini dell’Asia
sud-orientale, nel sud della Cina, e recentemente hanno firmato un accorto per
dispiegare 2.500 marines in Australia. Washington ha anche rafforzato i suoi
legami con l’Indonesia e ha riscaldato quelli con il Myanmar. Per la Cina tutto
questo appare come una campagna per circondare Beijing di alleati USA e tenere
un dito premuto sulla giugulare energetica cinese.  Circa l’80% del petrolio cinese si muove
attraverso l’Oceano Indiano e il Mare Meridionale Cinese.

Un ingrediente chiave di qualsiasi formula per bilanciare il potere e l’influenza
crescenti della Cina in Asia è il ruolo dell’India. New Delhi si è
tradizionalmente mantenuta neutrale in politica estera, ma, a partire dall’amministrazione
Bush, si è fatta sempre più vicina a Washington.  La Cina e l’India hanno un rapporto spinoso
che risale alla guerra di confine del 1962 tra i due paesi e al sostegno della
Cina al tradizionale nemico dell’India, il Pakistan.  Le rivendicazioni della  Cina su parte dell’area al confine indiano non
hanno migliorato le cose.

L’India gradirebbe anche un governo a Kabul privo di talebani e qualsiasi
cosa che metta Islamabad a disagio va benissimo a New Delhi.  Ci sono elementi nell’esercito e nella comunità
diplomatica statunitensi che vorrebbero vedere Washington scaricare la sua
alleanza con il Pakistan e spingere l’India a rapporti più stretti.  Un buon numero di indiani prova gli stessi
sentimenti.

Sin qui la
Casa Bianca si è rifiutata di scusarsi
, facendo invece trapelare una storia
secondo cui mostrarsi deboli con il Pakistan in un anno di elezioni negli USA è
impossibile.

Alla fine, lo scontro al confine può rivelarsi un incidente, anche se non è
probabile che lo sapremo mai per certo.
Le indagini militari non sono famose per accuratezza e molto di quel che
è accaduto resterà secretato.

Ma con tutte queste correnti trasversali che si incrociano sui cieli bui
del Pakistan, forse qualcuno ha visto un’occasione e l’ha colta.  In un certo senso è irrilevante che l’attacco
sia stato deliberato o stupido: ne avvertiremo a lungo le conseguenze ed è
probabile che le onde si diffonderanno da una collina rocciosa del Pakistan
fino ai limiti estremi dell’Oceano Indiano e oltre.

 

Conn Hallinan può
essere letto presso middleempireseries.wordpress.com

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/pakistan-anatomy-of-a-crisis-by-conn-hallinan

Fonte: Dispatches from the Edges

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC
BY-NC-SA 3.0

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L’inazione USA sul clima è “criminale”, dicono gli attivisti

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Ecologia, Kanya D'Almeida, Mondo

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Tag

Banca Mondiale, calotta polare, cambiamento climatico, CDM, Cochabamba, COP, Dena Hoff, Durban, Francisca Porchas, geoingegneria, GGJA, ghiacciai, Jen Soriano, Jill JOhnston, Jonathan Pershing, La Via Campesina, Madre Terra, mercati del carbonio, Obama, ONU, protocollo di Kyoto, REDD, Todd Stern, TransCanada Keystone XL, UN FCC, usa

di Kanya D’Almeida  – 05 dicembre  2011

Washington – La delegazione degli Stati Uniti alla 17esima Conferenza annuale delle Parti (COP) per la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sul Cambiamento Climatico (UN FCC) a Durban, Sud Africa, ha subito le pesanti critiche dei leader della società civile e degli attivisti di tutto il mondo per essersi opposta a soluzioni reali per il problema del cambiamento climatico.

Tra le 15.000 e le 20.000 persone (agricoltori, sindacalisti, insegnanti, contadini, studenti, addetti alla nettezza urbana, lavoratori dei trasporti e altri cittadini indignati) si sono raccolte sabato all’esterno dei locali di consultazione dell’ONU a Durban chiedendo  “cambiamento del sistema, non cambiamento del clima”.  

Molti di questi dimostranti hanno marciato sull’ambasciata USA reclamando che “il maggiore inquinatore del mondo” cominci ad appoggiare soluzioni climatiche che beneficino il 99%.

In solidarietà con le loro controparti africane, cittadini di 20 città degli Stati Uniti hanno manifestato contro le azioni ecodistruttive dell’ “uno per cento” nell’ambito della giornata globale d’azione del 3 dicembre per salvare il pianeta e “occupare il clima”.

Promossi dall’Alleanza della Base per la Giustizia Globale (GGJA), una rete nazionale di organizzazioni di base, assieme alla sezione nordamericana del movimento internazionale di agricoltori, La Via Campesina (che conta 200 milioni di membri), gli eventi di sabato sono stati un tentativo di riunire sotto un’unica bandiera disparate lotte collegate al clima.

“Siamo mobilitati per denunciare le soluzioni palliative promosse dai governi e dalle imprese – come i mercati del carbonio, il REDD++ e la geoingegneria – che sono tutte soltanto dei modi creativi per consentire alle imprese di continuare ad accumulare profitti a spese della gente e di Madre Terra,” ha dichiarato Dena Hoff, membro del National Family Farm Coalition residente nel Montana.

“Come rappresentanti della terra, che alimenta la popolazione mondiale, non possiamo restare a guardare mentre i nostri ecosistemi sono distrutti per l’avidità delle imprese,” ha aggiunto.

“Il governo e le imprese USA sono l’uno per cento responsabile della maggior parte dell’inquinamento che colpisce il 99% del mondo,” ha affermato sabato Francisca Porchas, del Labor Community Strategy Center con sede a Los Angeles. “Noi chiediamo che gli Stati Uniti riducano immediatamente le emissioni di carbonio del 50% del livello attuale entro il 2017 e che smettano di intralciare il procedere del pagamento del debito climatico e della creazione di un accordo internazionalmente vincolante.”

Negli Stati Uniti le azioni hanno preso il via venerdì, quando una delegazione rappresentante i capi di centinaia di  tribù di nativi americani si sono presentati al presidente Barack Obama con l’Accordo della Madre Terra , un documento che afferma la loro opposizione allo sviluppo della  condotta duramente contestata, TransCanada  Keystone XL, che attraversa il paese indiano.

“Preso atto che la conduttura si estenderebbe per 1.980 miglia, da Alberta, Canada, a Nederland, Texas, trasportando sino a 900.000 barili al giorno di petrolio grezzo lurido delle sabbie bituminose” l’Accordo ha condannato severamente il progetto come “suicida” per schiere di comunità native e di luoghi sacri, nonché per la falda acquifera Ogallala, che attualmente sostiene milioni di persone e irriga enormi aree di terra agricola nell’intero cuore degli Stati Uniti.

L’indecisione del governo USA riguardo al progetto, nonostante riferite prove di numerose fuoruscite e dati inconfutabili sull’impatto della conduttura, è indicativa della sua complessiva indifferenza alle richieste dei movimenti sociali e della società civile, dicono gli attivisti.

La delegazione USA a Durban, guidata dall’inviato speciale Todd Stern e dal suo vice, Jonathan Pershing, è rimasta indifferente alla pressione della società civile, continuando a spingere la sua agenda di promozione di nuovi sistemi di “finanziamento climatico” per mitigare l’impatto delle emissioni di carbonio e del riscaldamento globale.

Ciò, nonostante il fatto che un rapporto del 2011 della Banca Mondiale , preparato per la riunione del G20 di quest’anno in Francia e fatto arrivare al Guardian a settembre, abbia ammesso che i mercati globali del carbonio sono in grosse difficoltà.

“Il valore delle transazioni nel mercato CDM [Clean Development Mechanism – Meccanismo di Sviluppo Pulito] primario è sceso ripidamente nel 2009 e ulteriormente nel 2010 … tra croniche incertezze sugli obiettivi futuri di mitigazione e sui meccanismi del mercato dopo il 2012,” ha affermato il rapporto.

Nonostante il fallimento dei mercati finanziari nel regolare sé stessi, per non dire del regolare il clima, Stern e Pershing hanno bloccato persino le proposte più diluite sul tavolo dei negoziati a Duban, quali la creazione di un Fondo Climatico Verde, avallato dalle nazioni maggiormente sviluppate e dall’Eurozona.

“Gli Stati Uniti stanno mettendo il carro davanti ai buoi quanto al fondo per il clima, rifiutandosi di firmare qualcosa prima che siano stati elaborati i dettagli,” ha dichiarato a Inter Press Service Jen Soriano, coordinatrice delle comunicazioni della delegazione del GGJA a Durban. “Di fatto non può essere concretizzato nulla fino a quando, innanzitutto, paesi come gli Stati Uniti non si impegnano per il fondo; così questa è una perfetta tattica di stallo.”

“Essa riflette la totale incapacità dell’amministrazione di assumere la guida, persino riguardo a una proposta che sarebbe sostanzialmente amministrata da attori (controversi) orientati al lucro, come la Banca Mondiale,” ha aggiunto.

“La delegazione USA ha anche dichiarato ieri a una riunione di ONG a Durban che assolutamente non ratificherà nuovamente una versione aggiornata del protocollo di Kyoto fino al 2010 […] dimostrando che l’agenda statunitense non ha alcuna base scientifica,” ha affermato la Soriano.

In effetti, ogni documento degno di menzione sul cambiamento climatico, dallo storico Accordo dei Popoli di Cochabamba firmato l’anno scorso in Bolivia fino al rapporto 2011 del Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (UN IPCC), prevede conseguenze catastrofiche se i paesi industriali non limiteranno il riscaldamento globale a meno di 2 gradi Celsius e non rispetteranno le condizioni base stilate nel protocollo di Kyoto.

I firmatari dell’Accordo di Cochabamba hanno sottolineato: “Tra il 20 e il 30 per cento delle specie sarebbe a rischio di estinzione, vaste estensioni di foresta sarebbero colpite, siccità e inondazioni colpirebbero regioni diverse del pianeta, i deserti si estenderebbero e lo scioglimento della calotta polare e dei ghiacciai delle Ande e dell’Himalaya si aggraverebbe.”

“Molti stati isolani scomparirebbero e l’Africa soffrirebbe un aumento della temperatura di più di 3 gradi Celsius. Analogamente la produzione di cibo diminuirebbe e il numero di persone che soffrirebbe la fame nel mondo aumenterebbe drammaticamente, un numero che già supera l’1,02 miliardi di persone.”

Nel frattempo i 220 scienziati che compongono l’IPCC dell’ONU ha fatto notare il mese scorso che “eventi atmosferici estremi” probabilmente drenerebbero miliardi dalle nostre economie nazionali e distruggerebbero milioni di vite, particolarmente in Africa.

“Dobbiamo pensare non soltanto in termini di perdita di vite ma anche di trasformazione climatica, di perdita di case, di separazione di famiglie e di povertà,” ha dichiarato a IPS Jill Johnston, coordinatrice dei programmi del Sindacato dei Lavorato del Sud-Ovest.

In effetti la Banca Mondiale ancora a febbraio aveva affermato che ulteriori 44 milioni di persone sono state spinte nella povertà quest’anno dall’aumento dei prezzi del cibo e che milioni di altre potrebbero patire la fame entro la fine del 2012, se continua la tendenza attuale.

“Considerata su questo sfondo, la posizione degli Stati Uniti è stata incredibilmente irresponsabile in questi colloqui. La sua negligenza nel trovare soluzioni reali alla crisi climatica spesso rasenta il crimine,” ha aggiunto la Johnston.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/u-s-inaction-on-climate-is-criminal-activists-say-by-kanya-dalmeida

Fonte: Inter Press Service

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Uccidere l’euro

04 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in America, Economia, Europa, Paul Krugman

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Austria, BCE, bolla, crisi, debito, default, deficit, Economia, euro, Finlandia, grecia, inflazione, politiche espansive, prezzi, ripresa, sistema bancario, stagnazione, usa

di Paul Krugman  – 03 dicembre  2011

L’euro può essere salvato? Non molto tempo fa ci veniva detto che i possibili peggiori sviluppi consistevano in un’inadempienza della Grecia. Ora sembra sin troppo probabile un disastro molto più vasto.

E’ vero, la pressione dei mercati si è allentata un po’ mercoledì, dopo che le banche centrali hanno fatto un reboante annuncio di linee di credito ampliate (il che, di fatto, non produrrà quasi alcuna differenza).  Ma persino gli ottimisti ora vedono l’Europa avviata alla recessione, mentre i pessimisti ammoniscono che l’euro può diventare l’epicentro di un’altra crisi finanziaria globale.

Com’è che le cose sono andate in modo così sbagliato?  La risposta che sentirete di continuo è che la crisi dell’euro è stata causata dall’irresponsabilità fiscale.  Accendete la televisione e probabilmente vi ritroverete con qualche guru che dichiara che se gli Stati Uniti non tagliano le spese finiremo come la Grecia. La GRECIA!

Ma è vero quasi il contrario.  Anche se i capi dell’Europa continuano a insistere che il problema è la troppa spese delle nazioni debitrici, il problema vero è che c’è troppo poca spesa nell’Europa nel suo complesso.  E i loro tentativi di sistemare le cose chiedendo un’austerità sempre più severa hanno svolto un ruolo principale nel rendere peggiore la situazione.

La storia sin qui:  negli anni che hanno portato alla crisi del 2008 l’Europa, come gli Stati Uniti, ha avuto un sistema bancario al galoppo e un rapido accumulo del debito.  Nel caso dell’Europa, tuttavia, molti dei prestiti sono stati oltreconfine, come ad esempio fondi tedeschi affluiti in Europa meridionale.  Questi prestiti erano percepiti come a basso rischio.  Ehi!, i beneficiari stavano tutti nell’euro, cosa avrebbe potuto andar storto?

Per la maggior parte, a proposito, questi prestiti sono andati al settore privato, non ai governi.  Solo la Grecia era incorsa in ampi deficit di bilancio in quegli anni buoni; la Spagna di fatto aveva un surplus alla vigilia della crisi.

Poi è scoppiata la bolla.  La spesa privata nelle nazioni debitrici è caduta a picco. E la domanda che i capi europei avrebbero dovuto porsi era come evitare che quei tagli alle spese causassero una flessione di livello europeo.

Hanno invece reagito all’inevitabile crescita dei deficit guidata dalla recessione chiedendo che tutti i governi – non solo quelli delle nazioni debitrici – tagliassero le spese e aumentassero le tasse.  Avvertimenti che ciò avrebbe aggravato il crollo erano ignorati.  “L’idea che le misure d’austerità possano innescare la stagnazione è scorretta” dichiarava Jean-Claude Trichet, allora presidente della Banca Centrale Europea.  Perché? Perché “politiche che ispirino fiducia favoriranno, e non intralceranno, la ripresa economica.”

Ma la favola della fiducia è stata uno spettacolo mancato.

Aspettate, c’è di più.  Negli anni del denaro facile, i prezzi e i salari nell’Europa meridionale erano aumentati in modo significativamente più rapido che nell’Europa settentrionale. Questa diversità deve ora essere invertita, o con prezzi in discesa al sud o con prezzi in ascesa al nord.  Il che comporta che, se l’Europa meridionale viene costretta ad aprirsi la via alla competitività deflazionando, pagherà un caro prezzo in termini di occupazione e peggiorerà i propri problemi del debito.  Le probabilità di successo sarebbe molto maggiori se la diversità fosse colmata attraverso un aumento dei prezzi al nord.

Ma per chiudere il divario aumentando i prezzi al nord, chi decide della politica dovrebbe accettare un’inflazione temporaneamente più elevata per l’area euro nel suo complesso.  Ed è stato detto chiaramente che non sarà fatto.  Lo scorso aprile, in effetti, la Banca Centrale Europea ha cominciato ad aumentare i tassi d’interesse, anche se era ovvio alla maggior parte degli osservatori che l’inflazione sottostante era, caso mai, troppo bassa.

E probabilmente non è una coincidenza che aprile sia stato anche il periodo in cui la crisi dell’euro è entrata nella sua nuova e più tremenda fase.  Lasciamo perdere la Grecia che per l’Europa è circa quel che Miami e dintorni è per gli Stati Uniti.  A questo punto i mercati hanno perso la fiducia nell’euro nel suo complesso, spingendo al rialzo i tassi d’interesse anche di paesi come l’Austria e la Finlandia che certamente non sono noti per dissolutezza.  E non è difficile vedere il perché.  La combinazione di un’austerità per tutti e di una banca centrale morbosamente ossessionata dall’inflazione rende sostanzialmente impossibile ai paesi indebitati sfuggire alla trappola del debito ed è, perciò, una ricetta per diffuse inadempienze, corse alle banche e un collasso finanziario generale.

Spero, per il bene nostro e loro, che gli europei cambieranno corso prima che sia troppo tardi.  Ma, per essere onesto, non credo che lo faranno.  In effetti è molto più probabile che li seguiremo lungo la via verso la rovina.

Poiché negli Stati Uniti, come in Europa, l’economia è trascinata in basso da debitori tormentati, nel nostro caso principalmente i proprietari di abitazioni.  E anche al riguardo noi abbiamo un bisogno disperato di politiche monetaria e fiscali espansive a sostegno dell’economia, mentre tali debitori lottano per recuperare la salute finanziaria.  Tuttavia, come in Europa, il dibattito pubblico è dominato da rimproveri per il debito e ossessioni per l’inflazione.

Così la prossima volta che sentite qualcuno affermare che se non taglieremo la spesa ci trasformeremo nella Grecia, la vostra risposta dovrebbe essere che è proprio se taglieremo la spesa mentre l’economia è ancora in depressione che ci trasformeremo nell’Europa. Di fatto, siamo sulla buona strada.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/killing-the-euro-by-paul-krugman

Fonte: The New York Times

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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