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di Diana Johnstone -8 dicembre 2011
In questi giorni i guerrieri umanitari alzano la cresta, grazie alla vittoria che hanno proclamato in Libia. L’unica superpotenza mondiale, con il sostegno morale, militare e mercenario dell’emirato del Qatar, amante della democrazia, e delle potenze imperialiste storiche, Inghilterra e Francia, è stata, non sorprendentemente, capace di schiacciare in soli sette mesi il governo esistente di un paese scarsamente popolato dell’Africa del Nord. Il paese è stato violentemente “liberato” e lasciato alla mercé di chi voglia appropriarsene. Chi prende quali pezzi di esso, tra le milizie armate, le tribù e i jihadisti islamici, è cosa che ai media e agli umanitari occidentali non interessa più di quanto interessasse loro la vita in Libia prima che il canale della televisione del Qatar, Al Jazeera, stimolasse il loro zelo crociato a febbraio, mediante rapporti non documentati di imminenti atrocità.
La Libia può riprecipitare nell’oscurità mentre i campioni occidentali della distruzione si accaparrano le luci della ribalta. Per dare un po’ di ulteriore sapore al proprio autocompiacimento, concedono un po’ di attenzione derisoria ai poveri sciocchi che non si sono uniti alla fanfara.
Negli Stati Uniti, e ancor più in Francia, i guastafeste contro il partito della guerra sono stati pochi di numero e quasi totalmente ignorati. Ma questa è un’occasione buona come qualsiasi altra per isolarli ancora di più.
Nel suo articolo “La Libia e la sinistra: Bengasi e dopo”, Michel Bérubé coglie questa occasione per fare un unico mazzo di diversi critici della guerra etichettandoli come “la sinistra manichea” che, secondo lui, si limita a reagire con un’opposizione automatica a qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti. Lui e quelli come lui, invece, riflettono profondamente e scoprono motivi profondi per bombardare la Libia.
Comincia così:
“ A fine marzo 2011 è stato evitato un massacro; non solo un massacro qualunque, attenzione! Perché se Gheddafi e le sue forze fossero riusciti a reprimere la ribellione libica in quella che era la sua roccaforte, Bengasi, le ricadute si sarebbero riverberate ben oltre la Libia orientale. Come ha scritto Tom Malinowski, di Human Rights Watch, ‘La vittoria di Gheddafi – parallelamente alla caduta del presidente egiziano Hosni Mubarak – avrebbe segnalato agli altri governi autoritari, dalla Siria all’Arabia Saudita alla Cina, che se si negozia con i dimostranti si perde, ma se li si uccide si vince … “
“ L’attacco guidato dalla NATO alle forze di Gheddafi ha fatto perciò molto di più che prevenire una catastrofe umanitaria in Libia, anche se si dovrebbe riconoscere che già questa sarebbe stata da sola una giustificazione sufficiente. Ha contribuito a mantenere viva la Primavera Araba … “
Ora, tutto ciò è del tutto ipotetico.
Quale che sia stato il massacro evitato a marzo, altri massacri lo hanno sostituito successivamente.
Cioè, se reprimere una ribellione armata implica un massacro, anche una ribellione armata vittoriosa implica un massacro e dunque si tratta di scegliere tra massacri.
E se le proposte di mediazione latinoamericane e africane fossero state accolte, l’ipotetico massacro avrebbe potuto essere evitato con altri mezzi, persino se la ribellione armata fosse stata sconfitta; un’ipotesi che il partito guerrafondaio si è rifiutato di prendere in considerazione dal bell’inizio.
Ma ancor più ipotetica è l’idea che il fallimento della ribellione libica avrebbe danneggiato fatalmente la ‘Primavera Araba’. Questa è una pura congettura senza uno straccio di prova a sostegno.
I governi autoritari non avevano certamente bisogno di una lezione che insegnasse loro come gestire i manifestanti, cosa che alla fin fine dipende ai loro mezzi politici e militari. Mubarak ha perso non perché ha negoziato con i dimostranti, bensì perché il suo esercito finanziato dagli Stati Uniti ha deciso di scaricarlo. In Bahrain l’Arabia Saudita contribuisce a uccidere i dimostranti. In ogni caso i governanti arabi autoritari, non ultimo l’emiro del Qatar, odiavano Gheddafi, che aveva l’abitudine di denunciare faccia a faccia la loro ipocrisia nei consessi internazionali. Potevano soltanto prendere coraggio dalla sua caduta.
Questi argomenti a favore della guerra appartengono alla classe delle “armi di distruzione di massa” in Iraq o della minaccia di “genocidio” in Kosovo: pericoli ipotetici utilizzati per giustificare una guerra preventiva. La “guerra preventiva” è quella che permette a una superpotenza militare, che è troppo potente ormai per doversi difendere da attacchi stranieri, di attaccare comunque altri paesi. Altrimenti, che ragione c’è di avere un esercito così superbo se non possiamo utilizzarlo? Come disse una volta Madeleine Albright.
Più avanti nel suo articolo, Bérubé cita il suo compagno di guerre umanitarie Ian Williams, che ha sostenuto che la litania di obiezioni all’intervento in Libia ‘si sottrae alla domanda cruciale: il mondo avrebbe dovuto lasciare che i civili libici morissero per mano di un tiranno?’ O, in altre parole, la domanda chiave è: ‘Quando un gruppo di persone che sta per essere massacrato chiede aiuto, cosa si fa?’
Con questa scelta di domande ‘cruciali’ o ‘chiave’ che fanno appello al senso di colpa, Bérubé e Williams spazzano via tutte le varie obiezioni legali, etiche e politiche all’attacco NATO contro la Libia.
Ma niente ha autorizzato questi signori a decidere quale sia la ‘domanda chiave’. In realtà la loro ‘domanda chiave’ solleva una quantità di altre domande.
Prima di tutto: chi è quel gruppo di persone? Sta davvero per essere massacrato? Qual è la fonte dell’informazione? I resoconti potrebbero essere esagerati? O potrebbero addirittura essere inventati, per far sì che le potenze straniere intervengano?
Un giovane regista francese, Julien Teil, ha filmato una notevole intervista nella quale il segretario generale della Lega Libica per i Diritti Umani, Slimane Bouchulguir, ammette candidamente di non “non avere prove” della accuse da lui avanzate davanti alla Commissione dell’ONU per i Diritti Umani che ha portato all’immediata espulsione del rappresentante libico e, da lì, alla Risoluzione dell’ONU che ha autorizzato quello che si è trasformato nella guerra della NATO per il cambiamento di regime. In realtà non è mai stata prodotta alcuna prova del “bombardamento di civili libici” denunciato da Al Jazeera, il canale televisivo finanziato dall’Emiro del Qatar, che è emerso dalla ‘guerra di liberazione’, cui il Qatar ha partecipato, con una larga fetta di affari nel settore petrolifero libico.
Limitiamoci a immaginare quanti gruppi scontenti di minoranza esistono nei paesi di tutto il mondo e che sarebbe felicissimi di avere la NATO al loro fianco per portarli al potere mediante bombardamenti. Se tutto ciò che dovessero fare per ottenerlo fosse trovare un canale televisivo che trasmetta le loro dichiarazioni di “stare per essere massacrati”, la NATO sarebbe tenuta occupata per alcuni dei prossimi decenni, con grande gioia degli interventisti umanitari.
Un tratto saliente di questi ultimi è la loro credulità selettiva. Da un lato scartano automaticamente tutte le dichiarazioni ufficiali dei governi “autoritari” come falsa propaganda. Dall’altro, sembrano non aver mai notato che le minoranze hanno interesse a mentire riguardo alle proprie condizioni al fine di conquistarsi l’appoggio esterno. Ho osservato ciò in Kosovo. Per la maggior parte degli albanesi era una questione di dovere virtuoso nei confronti del proprio gruppo nazionale raccontare qualsiasi cosa potesse conquistare il sostegno straniero alla loro causa. La verità non era un criterio importante. Non c’era bisogno di biasimarli per questo ma non c’era nemmeno bisogno di credere loro. La maggior parte dei giornalisti inviati in Kosovo, sapendo cosa i loro direttori avrebbero gradito, basava i propri dispacci su qualsiasi racconto fosse narrato loro da albanesi ansiosi di ottenere che la NATO strappasse il Kosovo alla Serbia e lo consegnasse a loro. Il che è quel che è avvenuto.
Di fatto è saggio essere prudenti riguardo a quello che dice ognuna delle parti nei conflitti etnici o religiosi, specialmente in paesi stranieri con i quali non si abbia un’intima familiarità. Forse le persone mentono raramente nell’omogenea Islanda, ma in gran parte del mondo mentire è un modo normale per promuovere gli interessi di un gruppo.
La toccante ‘domanda chiave’ riguardo al modo di reagire quando un ‘gruppo di persone sta per essere massacrato’ è un trucco retorico per spostare il problema dallo spazio della realtà contraddittoria a quella della finzione puramente moralistica. Implica che ‘noi’, in occidente, compresi i più passivi spettatori televisivi, siamo in possesso della conoscenza e dell’autorità morale per giudicare e agire in ogni evento concepibile in ogni parte del mondo. Non ne siamo in possesso. E il problema è che le istituzioni intermediarie, che dovrebbero possedere la prescritta conoscenza e autorità morale, sono state e sono indebolite e sovvertite dagli Stati Uniti nella loro insaziabile inseguimento di addentare più di quanto possano inghiottire. Poiché gli Stati Uniti dispongono della potenza militare, promuovono la potenza militare come soluzione a tutti i problemi. Diplomazia e mediazione sono sempre più trascurate e disdegnate. Non si tratta neppure di una politica deliberata, meditata, bensì di una conseguenza automatica di sessant’anni di incremento dell’esercito.
La vera domanda chiave
In Francia, il cui presidente Nicolas Sarkozy ha lanciato la crociata anti-Gheddafi, l’unanimità a favore della guerra è stata maggiore che negli Stati Uniti. Una delle poche personalità francesi di spicco a opporvisi è Rony Brauman, un ex presidente di Médecins Sans Frontières [MDF – medici senza frontiere] e un critico dell’ideologia dell’ ‘intervento umanitario’ promossa da un altro ex leader di MDF, Bernard Kouchner. Il numero del 24 novembre di Le Monde ha riportato un dibattito tra Brauman e il principale promotore della Guerra, Bernard Henry Lévy, che ha fatto effettivamente emergere la vera domanda cruciale.
Il dibattito è iniziato con alcune schermaglie sui fatti. Brauman, che inizialmente aveva appoggiato l’idea di un intervento limitato per proteggere Bengasi, ha ricordato di aver rapidamente cambiato idea dopo essersi reso conto che le minacce di cui si parlava erano una questione di propaganda, non di realtà osservabili. Gli attacchi aerei contro i dimostranti di Tripoli erano un’ “invenzione di Al Jazeera”, osservava.
Al che Bernard Henri Lévy nel suo tipico stile da sfacciato mentitore indignato: “Cosa? Un’invenzione di Al Jazeera? Come puoi, Rony Brauman, negare la realtà, cui tutto il mondo ha assistito, di quei caccia in picchiata a mitragliare i dimostranti di Tripoli?” Chi se ne frega che nel mondo intero nessuno abbia visto alcunché di simile. Bhernard Henry Lévy sa che qualsiasi cosa egli dica sarà ascoltata in televisione e letta sui giornali senza necessità di prove. “Da una parte hai avuto un esercito super-armato, equipaggiato per decenni e preparato per una rivolta popolare. Dall’altra parte c’erano i civili disarmati.”
Quasi nulla di ciò era vero. Gheddafi, temendo un colpo di stato militare, aveva sempre mantenuto relativamente debole il proprio esercito. Il tanto denunciato equipaggiamento militare occidentale non è mai stato utilizzato e il suo acquisto, così come gli acquisti di armi della maggior parte dei paesi ricchi di petrolio, è stato più un favore ai fornitori occidentali che un contributo utile alla difesa. Inoltre le rivolte in Libia, diversamente dalle proteste nei paesi vicini, erano notoriamente armate.
Ma a parte le questioni di fatto, il tema cruciale dibattuto tra i due francesi è stato una questione di principio: la guerra è o non è una cosa buona?
Richiesto circa il suo parere sul fatto che la guerra in Libia segni la vittoria del diritto d’intervento, Bauman ha risposto:
“Sì, indubbiamente … Alcuni si rallegrano di tale vittoria. Quanto a me la deploro, perché vedo che c’è una rivalutazione della guerra come mezzo per risolvere i conflitti.”
Brauman ha concluso: “A parte la superficialità con cui il Consiglio Nazionale di Transizione (NTC), la maggior parte dei cui componenti è sconosciuta, è stato immediatamente presentato da Bernard Henri Lévy come un movimento democratico laico, c’è una certa ingenuità nel voler ignorare il fatto che la guerra crea dinamiche favorevoli ai radicale a detrimento dei moderati. Questa guerra non è finita.
“Nell’operare la scelta di militarizzare la rivolta, il NTC ha concesso un’opportunità ai più violenti. Appoggiando quella scelta in nome della democrazia la NATO ha assunto una grave responsabilità al di là dei propri mezzi. E’ perché la guerra è in sé stessa una cosa cattiva che non dovremmo scatenarla …”
Bernard Henri Lévy ha avuto l’ultima parola: “La guerra non è una cosa cattiva di per sé! Se rende possibile evitare una violenza maggiore, si tratta di un male necessario … la teoria della guerra giusta sta tutta qui.”
L’idea che questo principio esista è “come una spada di Damocle sulla testa dei tiranni che si considerano padroni del proprio popolo; è già un progresso formidabile”. Bernard Henri Lévy è reso felice dal pensiero che, a partire dalla fine della guerra in Libia, Bashir Al Assad e Mahmoud Ahmadinejad dormano meno saporitamente. In breve, si rallegra alla prospettiva di ancora altre guerre.
E così eccoci alla domanda chiave, a quella cruciale: “La guerra è una cosa cattiva di per sé?” Brauman dice che lo è e la stella mediatica nota come BHL dice che non lo è “se rende possibile evitare una violenza maggiore”. Ma quale violenza è maggiore della guerra? Quando gran parte dell’Europa era ancora in rovine dopo la seconda guerra mondiale, il Tribunale di Norimberga pronunciò il suo verdetto finale proclamando:
“La guerra è essenzialmente un male. Le sue conseguenze non restano confinate ai soli stati belligeranti ma colpiscono il mondo intero. Scatenare una guerra d’aggressione, perciò, è non solo un crimine internazionale; è il crimine internazionale supremo che si differenzia dagli altri crimini di guerra solo perché riassume in sé il cumulo del male complessivo.”
E in realtà la seconda guerra mondiale riassunse in sé “cumulo del male complessivo”: la morte di 20 milioni di cittadini sovietici, Auschwitz, il bombardamento di Dresda, Hiroshima e Nagasaki e molto, molto di più.
Sessant’anni dopo per i cittadini statunitensi e per quella dell’Europa occidentale, che vivono relativamente confortevolmente, con il proprio narcisismo lusingato dall’ideologia dei “diritti umani”, è facile contemplare lo scatenamento di guerre “umanitarie” per “salvare vittime”, guerre in cui essi non corrono rischi maggiori che dedicandosi a un videogioco. Il Kosovo e la Libia sono state guerre umanitarie perfette: niente perdite, nemmeno un graffio, per i bombardieri NATO e nemmeno la necessità di contemplare il bagno di sangue sul terreno. Con lo sviluppo della guerra mediante droni, una guerra a distanza così sicura apre prospettive infinite a “interventi umanitari” esenti da rischi, che possono consentire a celebrità occidentali come Bernard Henri Lévy di pavoneggiarsi posando da campioni appassionati di vittime ipotetiche di massacri ipotetici ipoteticamente evitati da guerre vere.
La ‘domanda chiave’? Ci sono molte domande importanti sollevate dalla guerra in Libia e molti motivi validi e importanti per essersi opposti ad essa e continuare ad opporsi. Come la guerra in Kosovo, ha lasciato un’eredità di odio nel paese preso a bersaglio le cui conseguenze possono avvelenare per generazioni le vite delle persone che vi vivono. Ciò, ovviamente, non è di speciale interesse per la gente dell’occidente che non presta attenzione al danno umano causato dalle proprie uccisioni umanitarie. Si tratta soltanto del risultato meno visibile di quelle guerre.
Per parte mia, il problema chiave che motiva la mia opposizione alla guerra in Libia è ciò che essa significa per il futuro degli Stati Uniti e del mondo. Per ben oltre un secolo gli Stati Uniti sono stati fagocitati dal proprio complesso militare-industriale, che ne ha reso infantile il senso morale, ne ha dilapidato la ricchezza e ne ha minato l’integrità politica. I nostri capi politici non sono capi politici veri, ma sono stati ridotti al ruolo di apologeti di questo mostro, che ha un impulso burocratico per conto proprio: proliferare le basi militari in tutto il mondo, cercare e persino creare servili stati vassalli, provocare inutilmente altre potenze come la Russia e la Cina. Il dovere politico principale degli statunitensi e dei loro alleati europei dovrebbe consistere nel ridurre e smantellare questa gigantesca macchina militare prima che ci porti inavvertitamente al “supremo crimine internazionale” del non ritorno.
Dunque la mia principale opposizione alla recente guerra deriva precisamente dal fatto che, in un momento in cui erano esitanti persino alcuni a Washington, gli “interventisti umanitari” come Bernard Henry Lévy, con la loro sofistica pretesa di “proteggere i civili innocenti” sulla base del principio “R2P” * hanno alimentato e incoraggiato questo mostro offrendogli il “frutto a portata di mano” di una facile vittoria in Libia. Questo ha reso più difficile di quanto già non fosse la lotta per portare un’apparenza di pace e di sanità mentale nel mondo.
[* “R2P” : “La Responsibility to Protect (RtoP or R2P) [Responsabilità della Protezione] è una norma o insieme di principi basata sull’idea che la sovranità non è un privilegio, bensì una responsabilità. RtoP si concentra sulla prevenzione e l’interruzione di quattro crimini: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica, che pone sotto il termine generico complessivo di Atrocità di Massa. La Responsabilità della Protezione può essere considerata come composta da tre parti:
1. Lo Stato ha la responsabilità di proteggere la propria popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, dai crimini contro l’umanità e dalla pulizia etnica (atrocità di massa).
2.Se uno Stato non è in grado di proteggere da solo la propria popolazione, la comunità internazionale ha la responsabilità di assistere lo stato nel creare il proprio potenziale. Ciò può significare creare capacità di allerta, mediare conflitti tra partiti politici, rafforzare il settore della sicurezza, mobilitare forze di riserva e molte altre azioni.
3. Se uno stato è manifestamente incapace di proteggere i propri cittadini da atrocità di massa e le misure pacifiche non funzionano, la comunità internazionale ha la responsabilità di intervenire, dapprima diplomaticamente, poi più coercitivamente e, come ultima risorsa, mediante la forza militare.
Fonte Wikipedia – traduzione mia – n.d.t.]
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
http://www.zcommunications.org/here-s-the-key-question-in-the-libyan-war-by-diana-johnstone
Fonte: Counterpunch
traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0