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~ Lo spirito della resistenza è vivo!

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Archivi della categoria: Paul Krugman

Depressione economica e democrazia

13 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Economia, Europa, Paul Krugman

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Tag

crisi economica, democrazia, ungheria, Unione Europea

di Paul Krugman -11 dicembre 2011

E’ ora di cominciare a chiamare la situazione attuale con il suo nome: depressione.  E’ vero: non è una replica esatta della Grande Depressione, ma questa è una magra consolazione.  La disoccupazione, sia negli Stati Uniti sia in Europa, resta disastrosamente elevata.  I leader e le istituzioni sono sempre più screditati. E i valori democratici sono sotto assedio.

Su quest’ultimo punto non sto abbandonandomi all’allarmismo. Sia sul fronte politico sia su quello economico è importante non cadere nella trappola del “si è visto di peggio”. L’elevata disoccupazione non diventa accettabile solo perché non ha toccato i livelli del 1933; tendenze politiche inquietanti non dovrebbero essere minimizzate solo perché non c’è un Hitler in vista.

Parliamo un po’, in particolare, di quel che succede in Europa; non perché negli Stati Uniti tutto vada bene, bensì perché la gravità degli sviluppi politici in Europa è diffusamente poco compresa.

Innanzitutto la crisi dell’euro sta uccidendo il sogno europeo. La moneta condivisa, che era stata sostenuta per unire le nazioni, ha invece creato un’atmosfera di pesante acrimonia.

Specificamente, le richieste di un’austerità sempre più severa, senza sforzi compensativi di promozione della crescita, hanno causato un doppio danno.  Sono state un fallimento come politica economica, peggiorando la disoccupazione senza ripristinare la fiducia; una recessione estesa a livello europeo sembra ora probabile anche se venisse contenuta la minaccia immediata costituita dalla crisi finanziaria. E le richieste di austerità hanno creato una rabbia immensa, con molti europei furiosi per quello che hanno percepito, correttamente o non correttamente (o in realtà, un po’ in un modo e un po’ nell’altro), come un esercizio di potere con la mano pesante da parte della Germania.

Nessuno che abbia familiarità con la storia europea può guardare a questo risorgere di ostilità senza provare un brivido.  E tuttavia può esserci ancor di peggio in arrivo.

I populisti di destra sono in ascesa dall’Austria, dove il Partito della Libertà (il cui leader era solito coltivare rapporti con i neonazisti) corre, nei  sondaggi, alla pari con i partiti consolidati, alla Finlandia, dove il Partito dei Veri Finlandesi ha avuto risultati elettorali considerevoli lo scorso aprile.  E questi sono paesi ricchi, le cui economie hanno tenuto piuttosto bene. La questione si fa ancor più inquietante nei paesi poveri dell’Europa centrale e orientale.

Il mese scorso la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo ha documentato una forte caduta del sostegno pubblico alla democrazia nei “nuovi paesi europei”, le nazioni che hanno aderito all’Unione Europea dopo la caduta del Muro di Berlino. Non sorprendentemente la perdita di fiducia nella democrazia è stata maggiore nei paesi che hanno sofferto i maggiori crolli economici.

E, mentre parliamo, in almeno una nazione, l’Ungheria, le istituzioni democratiche sono sotto attacco.

Uno dei maggiori partiti ungheresi, il Jobbik, è un incubo proveniente dagli anni ’30: e contro i rom (gli zingari), è antisemita ed ha avuto persino un braccio paramilitare.  Ma la minaccia immediata proviene dal Fidesz, il partito di governo di centrodestra.

Il Fidesz ha conquistato una maggioranza parlamentare schiacciante l’anno scorso, almeno in parte per motivi economici.  L’Ungheria non fa parte dell’eurozona, ma ha sofferto pesantemente a motivo del suo vasto indebitamento in valute straniere e anche, per essere franchi, per la cattiva amministrazione e la corruzione dei partiti liberali di sinistra allora al governo.  Ora il Fidesz, che è riuscito a imporre una nuova costituzione grazie a un voto ossequioso nei confronti della linea del partito, sembra deciso a consolidare una presa permanente sul potere.

I dettagli sono complessi. Kim Lane Scheppele, direttrice del programma per gli Affari Legali e Pubblici alla Princeton – e che ha seguito la situazione ungherese da vicino – mi dice che il Fidesz si sta affidando a una serie di misure sovrapposte per sopprimere l’opposizione.  Una proposta di legge elettorale crea distretti manipolati progettati per rendere quasi impossibile agli altri partiti la formazione di un governo; l’indipendenza della magistratura è stata compromessa e i tribunali sono stati riempiti di personaggi leali al partito; i media statali sono stati convertiti in organi di partito e c’è un giro di vite sui media indipendenti; infine, una proposta di integrazione alla costituzione criminalizzerebbe efficacemente il principale partito di sinistra.

Nel suo complesso, tutto ciò corrisponde a un ripristino di un governo autoritario, sotto una patina sottilissima di democrazia, nel cuore dell’Europa.  Ed è un esempio di quel che può accadere più diffusamente se questa depressione continua.

Non è chiaro cosa possa essere fatto per lo scivolamento dell’Ungheria verso l’autoritarismo.  Il Dipartimento di Stato USA, sia detto a suo merito, è stato particolarmente attento al caso, ma si tratta essenzialmente di una faccenda europea.  L’Unione Europea ha perso l’occasione di bloccare la presa del potere fin dall’inizio, in parte perché la nuova costituzione è stata imposta durante il turno ungherese di presidenza dell’Unione. Sarà molto difficile, ora, invertire quella direzione. E tuttavia i leader europei farebbero meglio a provarci; diversamente rischierebbero di perdere tutto ciò per cui sono schierati.

E dovrebbero anche ripensare le proprie politiche economiche fallimentari; se non lo faranno, ci sarà un ulteriore retrocessione della democrazia, e il crollo dell’euro potrebbe essere la minore delle loro preoccupazioni.

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/depression-and-democracy-by-paul-krugman

Originale: The New York Times

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Uccidere l’euro

04 domenica Dic 2011

Posted by Redazione in America, Economia, Europa, Paul Krugman

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Tag

Austria, BCE, bolla, crisi, debito, default, deficit, Economia, euro, Finlandia, grecia, inflazione, politiche espansive, prezzi, ripresa, sistema bancario, stagnazione, usa

di Paul Krugman  – 03 dicembre  2011

L’euro può essere salvato? Non molto tempo fa ci veniva detto che i possibili peggiori sviluppi consistevano in un’inadempienza della Grecia. Ora sembra sin troppo probabile un disastro molto più vasto.

E’ vero, la pressione dei mercati si è allentata un po’ mercoledì, dopo che le banche centrali hanno fatto un reboante annuncio di linee di credito ampliate (il che, di fatto, non produrrà quasi alcuna differenza).  Ma persino gli ottimisti ora vedono l’Europa avviata alla recessione, mentre i pessimisti ammoniscono che l’euro può diventare l’epicentro di un’altra crisi finanziaria globale.

Com’è che le cose sono andate in modo così sbagliato?  La risposta che sentirete di continuo è che la crisi dell’euro è stata causata dall’irresponsabilità fiscale.  Accendete la televisione e probabilmente vi ritroverete con qualche guru che dichiara che se gli Stati Uniti non tagliano le spese finiremo come la Grecia. La GRECIA!

Ma è vero quasi il contrario.  Anche se i capi dell’Europa continuano a insistere che il problema è la troppa spese delle nazioni debitrici, il problema vero è che c’è troppo poca spesa nell’Europa nel suo complesso.  E i loro tentativi di sistemare le cose chiedendo un’austerità sempre più severa hanno svolto un ruolo principale nel rendere peggiore la situazione.

La storia sin qui:  negli anni che hanno portato alla crisi del 2008 l’Europa, come gli Stati Uniti, ha avuto un sistema bancario al galoppo e un rapido accumulo del debito.  Nel caso dell’Europa, tuttavia, molti dei prestiti sono stati oltreconfine, come ad esempio fondi tedeschi affluiti in Europa meridionale.  Questi prestiti erano percepiti come a basso rischio.  Ehi!, i beneficiari stavano tutti nell’euro, cosa avrebbe potuto andar storto?

Per la maggior parte, a proposito, questi prestiti sono andati al settore privato, non ai governi.  Solo la Grecia era incorsa in ampi deficit di bilancio in quegli anni buoni; la Spagna di fatto aveva un surplus alla vigilia della crisi.

Poi è scoppiata la bolla.  La spesa privata nelle nazioni debitrici è caduta a picco. E la domanda che i capi europei avrebbero dovuto porsi era come evitare che quei tagli alle spese causassero una flessione di livello europeo.

Hanno invece reagito all’inevitabile crescita dei deficit guidata dalla recessione chiedendo che tutti i governi – non solo quelli delle nazioni debitrici – tagliassero le spese e aumentassero le tasse.  Avvertimenti che ciò avrebbe aggravato il crollo erano ignorati.  “L’idea che le misure d’austerità possano innescare la stagnazione è scorretta” dichiarava Jean-Claude Trichet, allora presidente della Banca Centrale Europea.  Perché? Perché “politiche che ispirino fiducia favoriranno, e non intralceranno, la ripresa economica.”

Ma la favola della fiducia è stata uno spettacolo mancato.

Aspettate, c’è di più.  Negli anni del denaro facile, i prezzi e i salari nell’Europa meridionale erano aumentati in modo significativamente più rapido che nell’Europa settentrionale. Questa diversità deve ora essere invertita, o con prezzi in discesa al sud o con prezzi in ascesa al nord.  Il che comporta che, se l’Europa meridionale viene costretta ad aprirsi la via alla competitività deflazionando, pagherà un caro prezzo in termini di occupazione e peggiorerà i propri problemi del debito.  Le probabilità di successo sarebbe molto maggiori se la diversità fosse colmata attraverso un aumento dei prezzi al nord.

Ma per chiudere il divario aumentando i prezzi al nord, chi decide della politica dovrebbe accettare un’inflazione temporaneamente più elevata per l’area euro nel suo complesso.  Ed è stato detto chiaramente che non sarà fatto.  Lo scorso aprile, in effetti, la Banca Centrale Europea ha cominciato ad aumentare i tassi d’interesse, anche se era ovvio alla maggior parte degli osservatori che l’inflazione sottostante era, caso mai, troppo bassa.

E probabilmente non è una coincidenza che aprile sia stato anche il periodo in cui la crisi dell’euro è entrata nella sua nuova e più tremenda fase.  Lasciamo perdere la Grecia che per l’Europa è circa quel che Miami e dintorni è per gli Stati Uniti.  A questo punto i mercati hanno perso la fiducia nell’euro nel suo complesso, spingendo al rialzo i tassi d’interesse anche di paesi come l’Austria e la Finlandia che certamente non sono noti per dissolutezza.  E non è difficile vedere il perché.  La combinazione di un’austerità per tutti e di una banca centrale morbosamente ossessionata dall’inflazione rende sostanzialmente impossibile ai paesi indebitati sfuggire alla trappola del debito ed è, perciò, una ricetta per diffuse inadempienze, corse alle banche e un collasso finanziario generale.

Spero, per il bene nostro e loro, che gli europei cambieranno corso prima che sia troppo tardi.  Ma, per essere onesto, non credo che lo faranno.  In effetti è molto più probabile che li seguiremo lungo la via verso la rovina.

Poiché negli Stati Uniti, come in Europa, l’economia è trascinata in basso da debitori tormentati, nel nostro caso principalmente i proprietari di abitazioni.  E anche al riguardo noi abbiamo un bisogno disperato di politiche monetaria e fiscali espansive a sostegno dell’economia, mentre tali debitori lottano per recuperare la salute finanziaria.  Tuttavia, come in Europa, il dibattito pubblico è dominato da rimproveri per il debito e ossessioni per l’inflazione.

Così la prossima volta che sentite qualcuno affermare che se non taglieremo la spesa ci trasformeremo nella Grecia, la vostra risposta dovrebbe essere che è proprio se taglieremo la spesa mentre l’economia è ancora in depressione che ci trasformeremo nell’Europa. Di fatto, siamo sulla buona strada.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/killing-the-euro-by-paul-krugman

Fonte: The New York Times

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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La perdita dell’immunità

18 martedì Ott 2011

Posted by Redazione in America, Economia, Paul Krugman

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occupywallstreet

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di  Paul Krugman  (18 ottobre 2011)

 

 

 

Mentre il movimento Occupy Wall Street continua a crescere, la reazione dei bersagli del movimento è gradualmente mutata: il rifiuto sprezzante è stato sostituito dai piagnucolii. (Un lettore del mio blog suggerisce che dovremmo cominciare a chiamare la nostra classe dominante “frignocrazia” [‘kvetchocracy’ nell’originale, dal termine ebraico ‘kvetch’, piagnisteo – n.d.t.]) I moderni signori della finanza guardano i manifestanti e chiedono; “Non capiscono quel che abbiamo fatto per l’economia statunitense?”

 

La risposta è: sì, molti dei dimostranti capiscono davvero quel che Wall Street, e più in generale l’élite economica della nazione, hanno fatto per noi. Ed è per questo che protestano.

 

Sabato il Times ha riferito ciò che la gente dell’industria finanziaria va dicendo privatamente delle proteste.  La mia citazione preferita viene da un gestore finanziario non nominato che ha dichiarato: “I servizi finanziari sono una delle ultime cose che facciamo in questo paese e la facciamo bene. Abbracciamola.”

 

Ciò è profondamente scorretto nei confronti dei lavoratori statunitensi che sono competenti in un mucchio di cose, e potrebbero essere anche migliori se avessimo fatto investimenti adeguati nell’istruzione e nelle infrastrutture. Ma nella misura in cui gli Stati Uniti sono in ritardo su tutto, eccetto che nei servizi finanziari, la domanda non dovrebbe essere perché, e se, si tratti di una tendenza che vogliamo proseguire?

 

Perché la finanziarizzazione degli Stati Uniti non è stata dettata dalla mano invisibile dei mercati.  Ciò che ha fatto crescere l’industria finanziaria più rapidamente del resto dell’economia, a cominciare circa dal 1980, è stata una serie di scelte politiche deliberate, in particolare un processo di deregolamentazione che è continuato fino alla vigilia della crisi del 2008.

 

Non per caso, l’era di un’industria finanziaria in continua crescita è stata anche l’era di una diseguaglianza di reddito e di patrimoni anch’essa in continua crescita. Wall Street ha dato un vasto contributo diretto alla polarizzazione economica, perché i redditi alle stelle nella finanza hanno rappresentato una quota significativa della crescente fetta del reddito della nazione incamerata dall’un per cento al vertice (e dallo 0,1 per cento al vertice, che rappresenta la maggior parte dei guadagni conseguiti dall’un per cento).

 

Più in generale, le stesse forze politiche che hanno promosso la deregolamentazione finanziaria hanno favorito la diseguaglianza complessiva in una varietà di modi, indebolendo i sindacati, sopprimendo gli “scandalosi impedimenti” che normalmente limitavano gli assegni paga dei dirigenti, eccetera.

 

Oh, e le tasse sui patrimoni sono state, ovviamente, fortemente ridotte.

 

Tutto questo si supponeva fosse giustificato dai risultati: gli assegni paga dei maghi di Wall Street erano appropriati, ci veniva detto, a motivo delle cose meravigliose che facevano.  In qualche modo, tuttavia, tutta quella meraviglia non scendeva a cascata al resto della nazione, è ciò era vero anche prima della crisi.  Il reddito medio delle famiglie, corretto per tener conto dell’inflazione, è cresciuto soltanto di un quinto, tra il 1980 e il 2007, di quanto era cresciuto nella generazione successiva alla seconda guerra mondiale, anche se l’economia postbellica era stata marcata sia da una rigida regolamentazione finanziaria, sia da aliquote fiscali molto più alte sui patrimoni rispetto a ciò di cui attualmente si dibatte in politica.

 

Poi è arrivata la crisi, che ha dimostrato che tutte quelle affermazioni su come la finanza moderna aveva ridotto i rischi e reso più stabile il sistema erano delle sciocchezze.  I salvataggi governativi sono stati tutto ciò che ci ha salvato da un crollo finanziario pari a quello che aveva causato la Grande Depressione, o addirittura peggiore di esso.

 

E la situazione attuale?  Le paghe di Wall Street sono rimbalzate anche mentre i lavoratori continuano a soffrire per l’alta disoccupazione e per la caduta dei salari reali.  Tuttavia è diventato ancor più difficile constatare cosa facciano i finanzieri per guadagnare quei soldi (ammesso che qualcosa facciano).

 

Perché, allora, Wall Street si aspetta che tutti prendano sul serio i suoi piagnucolii? Quel gestore finanziario che affermava che la finanza è l’unica cosa che gli Stati Uniti fanno bene si lamentava anche del fatto che i senatori Democratici di New York non fossero dalla sua parte, affermando che “Devono capire chi sono i loro elettori”.  In realtà sanno di sicuro benissimo chi sono i loro elettori; persino a New York 16 lavoratori su 17 lavorano in industrie non finanziarie.

 

Ma il tizio non parlava in realtà dei voti, ovviamente.  Parlava dell’unica cosa di cui vi è abbondanza a Wall Street, grazie a quei salvataggi, nonostante la sua totale perdita di credibilità: i soldi.

 

Il denaro parla nella politica statunitense e quel che il denaro dell’industria finanziaria va ultimamente dicendo è che punirà qualsiasi politico che osi criticare il comportamento di tale industria, non importa quanto educatamente. Prova ne è il modo in cui il denaro di Wall Street ha ora abbandonato il presidente Obama a favore di Mitt Romney. E questo spiega lo shock dell’industria per gli avvenimenti recenti.

 

Vedete, fino a poche settimane fa sembrava che Wall Street avesse efficacemente comprato e intimidito il nostro sistema politico affinché si dimenticasse la faccenda dell’emissione dei lauti assegni paga proprio mentre veniva distrutta l’economia mondiale.  Poi, tutto ad un tratto, alcuni hanno insistito a voler ridiscutere la cosa.

 

E la loro indignazione ha trovato eco in milioni di cittadini degli Stati Uniti. Nessuna meraviglia che Wall Street piagnucoli.

 

 

 

Da Znet – Lo spirito della resistenza è vivo

 

http://www.zcommunications.org/losing-their-immunity-by-paul-krugman

 

Fonte: New York Times

 

 

 

Traduzione di Giuseppe Volpe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di  Paul Krugman  (18 ottobre 2011)

 

Mentre il movimento Occupy Wall Street continua a crescere, la reazione dei bersagli del movimento è gradualmente mutata: il rifiuto sprezzante è stato sostituito dai piagnucolii. (Un lettore del mio blog suggerisce che dovremmo cominciare a chiamare la nostra classe dominante “frignocrazia” [‘kvetchocracy’ nell’originale, dal termine ebraico ‘kvetch’, piagnisteo – n.d.t.]) I moderni signori della finanza guardano i manifestanti e chiedono; “Non capiscono quel che abbiamo fatto per l’economia statunitense?”

La risposta è: sì, molti dei dimostranti capiscono davvero quel che Wall Street, e più in generale l’élite economica della nazione, hanno fatto per noi. Ed è per questo che protestano.

Sabato il Times ha riferito ciò che la gente dell’industria finanziaria va dicendo privatamente delle proteste.  La mia citazione preferita viene da un gestore finanziario non nominato che ha dichiarato: “I servizi finanziari sono una delle ultime cose che facciamo in questo paese e la facciamo bene. Abbracciamola.”

Ciò è profondamente scorretto nei confronti dei lavoratori statunitensi che sono competenti in un mucchio di cose, e potrebbero essere anche migliori se avessimo fatto investimenti adeguati nell’istruzione e nelle infrastrutture. Ma nella misura in cui gli Stati Uniti sono in ritardo su tutto, eccetto che nei servizi finanziari, la domanda non dovrebbe essere perché, e se, si tratti di una tendenza che vogliamo proseguire?

Perché la finanziarizzazione degli Stati Uniti non è stata dettata dalla mano invisibile dei mercati.  Ciò che ha fatto crescere l’industria finanziaria più rapidamente del resto dell’economia, a cominciare circa dal 1980, è stata una serie di scelte politiche deliberate, in particolare un processo di deregolamentazione che è continuato fino alla vigilia della crisi del 2008.

Non per caso, l’era di un’industria finanziaria in continua crescita è stata anche l’era di una diseguaglianza di reddito e di patrimoni anch’essa in continua crescita. Wall Street ha dato un vasto contributo diretto alla polarizzazione economica, perché i redditi alle stelle nella finanza hanno rappresentato una quota significativa della crescente fetta del reddito della nazione incamerata dall’un per cento al vertice (e dallo 0,1 per cento al vertice, che rappresenta la maggior parte dei guadagni conseguiti dall’un per cento).

Più in generale, le stesse forze politiche che hanno promosso la deregolamentazione finanziaria hanno favorito la diseguaglianza complessiva in una varietà di modi, indebolendo i sindacati, sopprimendo gli “scandalosi impedimenti” che normalmente limitavano gli assegni paga dei dirigenti, eccetera.

Oh, e le tasse sui patrimoni sono state, ovviamente, fortemente ridotte.

Tutto questo si supponeva fosse giustificato dai risultati: gli assegni paga dei maghi di Wall Street erano appropriati, ci veniva detto, a motivo delle cose meravigliose che facevano.  In qualche modo, tuttavia, tutta quella meraviglia non scendeva a cascata al resto della nazione, è ciò era vero anche prima della crisi.  Il reddito medio delle famiglie, corretto per tener conto dell’inflazione, è cresciuto soltanto di un quinto, tra il 1980 e il 2007, di quanto era cresciuto nella generazione successiva alla seconda guerra mondiale, anche se l’economia postbellica era stata marcata sia da una rigida regolamentazione finanziaria, sia da aliquote fiscali molto più alte sui patrimoni rispetto a ciò di cui attualmente si dibatte in politica.

Poi è arrivata la crisi, che ha dimostrato che tutte quelle affermazioni su come la finanza moderna aveva ridotto i rischi e reso più stabile il sistema erano delle sciocchezze.  I salvataggi governativi sono stati tutto ciò che ci ha salvato da un crollo finanziario pari a quello che aveva causato la Grande Depressione, o addirittura peggiore di esso.

E la situazione attuale?  Le paghe di Wall Street sono rimbalzate anche mentre i lavoratori continuano a soffrire per l’alta disoccupazione e per la caduta dei salari reali.  Tuttavia è diventato ancor più difficile constatare cosa facciano i finanzieri per guadagnare quei soldi (ammesso che qualcosa facciano).

Perché, allora, Wall Street si aspetta che tutti prendano sul serio i suoi piagnucolii? Quel gestore finanziario che affermava che la finanza è l’unica cosa che gli Stati Uniti fanno bene si lamentava anche del fatto che i senatori Democratici di New York non fossero dalla sua parte, affermando che “Devono capire chi sono i loro elettori”.  In realtà sanno di sicuro benissimo chi sono i loro elettori; persino a New York 16 lavoratori su 17 lavorano in industrie non finanziarie.

Ma il tizio non parlava in realtà dei voti, ovviamente.  Parlava dell’unica cosa di cui vi è abbondanza a Wall Street, grazie a quei salvataggi, nonostante la sua totale perdita di credibilità: i soldi.

Il denaro parla nella politica statunitense e quel che il denaro dell’industria finanziaria va ultimamente dicendo è che punirà qualsiasi politico che osi criticare il comportamento di tale industria, non importa quanto educatamente. Prova ne è il modo in cui il denaro di Wall Street ha ora abbandonato il presidente Obama a favore di Mitt Romney. E questo spiega lo shock dell’industria per gli avvenimenti recenti.

Vedete, fino a poche settimane fa sembrava che Wall Street avesse efficacemente comprato e intimidito il nostro sistema politico affinché si dimenticasse la faccenda dell’emissione dei lauti assegni paga proprio mentre veniva distrutta l’economia mondiale.  Poi, tutto ad un tratto, alcuni hanno insistito a voler ridiscutere la cosa.

E la loro indignazione ha trovato eco in milioni di cittadini degli Stati Uniti. Nessuna meraviglia che Wall Street piagnucoli.

 

Da Znet – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/losing-their-immunity-by-paul-krugman

Fonte: New York Times

 

Traduzione di Giuseppe Volpe

 

 

 

 

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Salasso terapeutico?

20 martedì Set 2011

Posted by Redazione in Economia, Paul Krugman

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austerità, crisi

20 settembre  2011

Di  Paul Krugman

I medici credevano che togliendo sangue a un paziente potevano curare gli “umori” maligni che si pensava causassero la malattia.  In realtà, ovviamente, tutto quel che producevano i loro salassi era un indebolimento, e più spesso la morte, del cliente.

Fortunatamente i medici non credono più che salassare i malati li faccia guarire. Sfortunatamente, molti di coloro che decidono la politica economica ci credono ancora. E il salasso economico non si limita ad infliggere grandi dolori; comincia a minare le prospettive di crescita a lungo termine.

Un po’ di contesto: nello scorso anno e mezzo, il dibattito politico sia in Europa sia negli Stati Uniti è stato dominato dalle richieste di austerità fiscale.  Tagliando le spese e riducendo i deficit, ci veniva detto, le nazioni potevano ripristinare la fiducia e stimolare la rinascita economica.

E l’austerità è stata reale.  In Europa, nazioni in difficoltà come la Grecia e l’Irlanda hanno imposto tagli selvaggi, mentre anche nazioni più forti imponevano programmi più miti d’austerità per conto loro.  Negli Stati Uniti, il modesto stimolo federale del 2009 è svanito, mentre le amministrazioni statali e locali hanno tagliato i loro bilanci, cosicché nel complesso abbiamo avuto una mossa di fatto in direzione dell’austerità non così diversa da quella europea.

Strano a dirsi, tuttavia, la fiducia non è aumentata. In qualche modo le imprese e i consumatori sembrano molto più preoccupati della mancanza, rispettivamente, di clienti e di posti di lavoro rispetto a quanto siano rassicurati dalla moralità fiscale dei propri governi. E la crescita sembra essere in stallo, mentre la disoccupazione resta disastrosamente alta su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Ma, dicono i difensori dei cattivi risultati sin qui, non dovremmo concentrarci sul lungo termine piuttosto che sulle sofferenze nel breve? In realtà no: l’economia ha bisogno di un aiuto concreto ora, non di ipotetici ritorni tra un decennio.  Comunque stanno cominciando ad emergere prove che i problemi dell’economia “a breve termine” – ora nel loro quarto anno e peggiorati dalla concentrazione sull’austerità – stanno esigendo un pedaggio anche sulle prospettive a lungo termine.

Si consideri, in particolare, quel che sta accadendo nella base manifatturiera statunitense.  In tempi normali la capacità dell’industria manifatturiera cresce del 2 o 3 per cento all’anno.  Ma di fronte a un’economia persistentemente debole, l’industria ha ridotto, non aumentato, la sua capacità produttiva. A questo punto, secondo stime della Federal Reserve, la capacità manifatturiera è quasi del 5 inferiore rispetto a quella del dicembre 2007.

Quello che ciò significa è che se è quando alla fine si metterà in moto una vera ripresa, l’economia incontrerà limiti di capacità e colli di bottiglia produttivi molto prima di quanto dovrebbe.  Cioè l’economia debole, che è in parte conseguenza dei tagli di bilancio, danneggia il futuro quanto danneggia il presente.

Inoltre il declino della capacità manifatturiera è probabilmente solo l’inizio delle cattive notizie.  Tagli analoghi alla capacità probabilmente si avranno nel settore dei servizi; in realtà possono già star avendo luogo. E con la disoccupazione a lungo termine ai suoi livelli più alti dalla Grande Depressione, c’è un rischio reale che molti dei disoccupati verranno considerati non occupabili.

Oh, e l’impatto maggiore di tali tagli alla spesa pubblica si sta avendo nell’istruzione. In qualche modo, licenziare centinaia di migliaia di insegnanti non sembra un buon modo per conquistare il futuro.

In effetti, quando si combina la crescente evidenza che l’austerità fiscale sta riducendo le nostre prospettive future con i bassissimi tassi di interesse del debito governativo statunitense, è difficile evitare una conclusione sorprendente: l’austerità di bilancio può ben essere controproducente anche da un punto di vista puramente fiscale, perché una più bassa crescita futura significa minori entrate fiscali.

Cosa dovrebbe aver luogo? La risposta è che abbiamo bisogno di una maggiore spinta per far sì che l’economia si muova, non in qualche data futura, ma proprio ora.  Al presente abbiamo bisogno di più, non meno, spesa governativa, supportata da politiche aggressivamente espansive della Federal Reserve e delle sue controparti estere.  E non sono solo economisti intellettuali a dire questo; dirigenti d’impresa, come Eric Schmidt di Google, dicono la stessa cosa e il mercato obbligazionario, acquistando il debito USA a tassi di interesse così bassi, sta in effetti invocando una politica più espansiva.

E,  per esser giusti, alcuni protagonisti della politica sembrano rendersene conto. Il nuovo programma occupazionale del presidente Obama è un passo nella giusta direzione, mentre alcuni membri del consiglio d’amministrazione della Federal Reserve e della Bank of England – anche se non, triste a dirsi, della Banca Centrale Europea –  stanno chiedendo politiche molto più orientate alla crescita.

Ciò di cui abbiamo davvero bisogno, comunque, è di convincere un numero sostanziale di persone con potere o influenza politica che hanno passato l’ultimo anno e mezzo a percorrere esattamente la direzione sbagliata e che ora devono fare un’inversione a U.

Non sarà facile. Ma fino a quando quell’inversione di marcia non avrà luogo, il salasso – che sta rendendo più debole la nostra economia e, al tempo stesso, minando il suo futuro – continuerà.

 

ZSpace / Testo originale

Fonte: New York Times

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

Traduzione di Giuseppe Volpe

 

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