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~ Lo spirito della resistenza è vivo!

Z NET Italy

Archivi della categoria: Guerra al terrore

Nucleare iraniano: come i media hanno stravolto il rapporto della IAEA

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Asia, Benjamin Loehrke, Greg Grandin, Guerra al terrore

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Tag

armi nucleari, IAEA, iran, James Clapper, NIE, nucleare, servizi segreti, Teheran, usa

 

di Greg Thielmann e Benjamin Loehrke  – 06 dicembre  2011

Quando, agli inizi del mese, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) ha diffuso un rapporto sul programma nucleare iraniano, molte agenzie mediatiche e politici ne hanno ricavato due messaggi: che l’agenzia con sede a Vienna ora confuta le stime del passato della comunità dei servizi segreti statunitensi e che ora l’Iran sta accelerando sulla bomba.  Entrambe le rappresentazioni sono sbagliate.  E tuttavia queste affermazioni sono state ripetute abbastanza spesso da dar loro credibilità presso il pubblico e il Congresso.

La maggior parte degli analisti che hanno familiarità con il rapporto sono d’accordo sul fatto che “non c’è niente nel rapporto che non fosse noto in precedenza ai governi delle maggiori potenze”;  un Iran nucleare “non è né imminente né inevitabile”.  Anche se è chiaro che la continuazione, da parte dell’Iran, sulle armi nucleari è una preoccupazione grave per la sicurezza internazionale, “non c’è stata alcuna pistola fumante quanto alle intenzioni dell’Iran riguardo alle armi nucleari.”  

E allora perché analisi contrastanti di un documento estremamente burocratico e tecnocratico?

Washington parla molto, ma non legge altrettanto.  Questo è il modo più semplice per spiegare perché i commentatori hanno trascurato la coerenza tra la Stima dell’Intelligence Nazionale (NIE) del 2007 sull’Iran e il più recente rapporto della IAEA sul programma nucleare iraniano.

Il PDF NIE del 2007 sull’Iran aveva raggiunto la conclusione, da titoloni sui giornali, che, con elevata certezza, nell’autunno 2003 l’Iran aveva interrotto il suo programma di armamenti nucleari (distinto dal programma di arricchimento dell’uranio e da quello dei missili balistici).  Inoltre il NIE affermava:

“Valutiamo anche, con certezza da moderata ad alta, che Teheran stia al minimo mantenendo aperta l’opzione di sviluppare armi nucleari …

Riteniamo, con elevata certezza, che l’interruzione sia durata almeno diversi anni. (Tuttavia, a motivo di diverse lacune del servizi di intelligence discusse altrove in questa Valutazione [il Dipartimento dell’Energia e il Consiglio Nazionale dei Servizi Segreti] stimano con una certezza solo moderata che l’interruzione di tali attività rappresenti un’interruzione dell’intero programma iraniano relativo alle armi nucleari.)

Stimiamo con moderata certezza che Teheran non abbia riavviato il suo programma di armamenti nucleari a tutta la metà del 2007, ma non sappiamo se attualmente intenda sviluppare armi nucleari.”

Tutto ciò è notevolmente coerente con il più recente rapporto della IAEA, che ha osservato:

“[Gli sforzi dell’Iran quanto alle armi nucleari] … sono stati interrotti improvvisamente in seguito a un ‘ordine di stop’ emesso alla fine del 2003 da alti dirigenti iraniani.  Secondo tale informazione, tuttavia, il personale è rimasto al suo posto per registrare e documentare i progressi dei rispettivi progetti … L’agenzia è preoccupata perché alcune delle attività intraprese dopo il 2003 sarebbero altamente rilevanti per un programma di armamento nucleare.”

Il NIE lasciava aperta la possibilità che l’Iran potesse continuare attività collegate agli armamenti.  Con quattro anni di maggior prospettiva il più recente rapporto della IAEA fornisce maggiori dettagli sul lavoro bellico condotto dall’Iran prima del 2003, poi aggiorna le informazioni disponibili sulla misura inferiore del lavoro condotto dopo il 2003. Le nuove attività hanno compreso:

– Conduzione di ricerca sperimentale, dopo il 2003, sull’iniziazione emisferica di alti esplosivi;

– Ulteriore validazione, dopo il 2006, di un progetto di iniziatori neutronico;

– Conduzione di studi su modelli, nel 2008 e 2009, che potrebbero stabilire il prodotto di un’esplosione nucleare;

Portare avanti attività disparate di ricerca non corrisponde al riavvio a pieno campo di un programma integrato di armamenti.  Quel tipo di attività continua a risultare essere stato interrotto nel 2003.  Da allora le attività sembrano più un affinamento, da parte dell’Iran, della sua precedente comprensione del progetto delle armi nucleari, non una corsa alla bomba.

Perciò, nello spiegare i più recenti documenti classificati del NIE diffusi a marzo di quest’anno, James Clapper, direttore dei servizi d’informazione nazionali, ha dichiarato al Comitato del Senato sulle Forze Armate (PDF) :

“Continuiamo a ritenere che l’Iran stia mantenendo aperta l’opzione di sviluppare armi nucleari, in parte sviluppando varie potenzialità nucleari che lo mettono in una posizione migliore per produrre tali armi, nel caso decidesse di farlo. Non sappiamo, tuttavia, se alla fine l’Iran deciderà di costruire armi nucleari.”

La testimonianza di Clapper ha confermato il recente rapporto IAEA, che ha aggiunto considerevoli dettagli al sommario ‘disinfettato’ del NIE 2007.

L’esteso rapporto della IAEA costituisce una forte indicazione che i servizi d’informazione statunitensi nel 2007 sul programma nucleare iraniano si erano basati su prove solide che non sono state smentite dalle informazioni più recenti.  La situazione dell’Iran non è statica; sono necessarie costanti rivalutazioni e analisi aggiornate per ogni processo di intelligence dinamico e professionale.

Inoltre, condividere con il pubblico le informazioni sulle conclusioni raggiunte è vitale per informare il dibattito in corso. La IAEA merita credito sia per la qualità delle sue analisi sia per condividere le sue opinioni qualificate su questi temi critici con il pubblico più vasto, in particolare visto che non è stato diffusa alcuna sintesi dei più recenti aggiornamenti del NIE.

I guru e i politici che utilizzano il rapporto più recente della IAEA per attaccare il rapporto 2007 del NIE stanno, al minimo, distorcendo le informazioni e, al peggio, facendo giochi politici con la sicurezza nazionale.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/pakistan-anatomy-of-a-crisis-by-conn-hallinan

Fonte: Bulletin of Atomic Scientists

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Pakistan: anatomia di una crisi

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Asia, Conn Hallinan, Guerra al terrore

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Tag

A-130, Afghanistan, Alleanza del Nord, Apache, armi di precisione, Ashfaq Nadeem, Ashram Nader, attacchi chirurgici, Bonn, Boulder, CIA, Cina, confine, droni, fuoco amico, India, iran, Islamabad, Kabul, Karzai, Mullah Samiullah Rahmani, NATO, pakistan, pashtun, posti di confine, Russia, Shamsi, soldati pachistani uccisi, tagiki, talebani, usa, uzbeki, Volcano, Wajid Shamsul Hasan, Yang Jiechu

di Conn Hallinan  – 05 dicembre  2011

Successivamente agli attacchi della NATO del 26 novembre a due posti di
confine che hanno ucciso 24 soldati pachistani, ciò che ci si chiede è se
l’attacco sia stato un incidente nel “buio della guerra” o un colpo calcolato
diretto a silurare il colloqui di pace in Afghanistan.  Considerato che l’incidente ha precipitato a
un nuovo minimo le relazioni tra Washington e Islamabad in un momento critico
della guerra decennale, la risposta è di vitale importanza.

Secondo la NATO, i soldati statunitensi e afgani sono finiti sotto il fuoco
dal lato pachistano del confine e hanno reagito per difendersi.  Ufficiali statunitensi hanno suggerito che
siano stati i talebani a organizzare l’incidente al fine di avvelenare le
relazioni tra USA e Pakistan.  Ma ci sono
alcuni fatti che suggeriscono che lo scontro possa essere stato qualcosa di più
di un caso di “fuoco amico” realizzato da un nemico astuto, su un confine mal
definito e nel normale caos del campo di battaglia.

Il comandante talebano afgano Mullah Samiullah Rahmani nega che i suoi
fossero addirittura nell’area il gruppo di insorti non è mai riluttante a
prendersi il merito di conflitti militari (ovviamente, se c’è inganno, ciò è
esattamente quello che i talebani direbbero).
Tuttavia questa particolare regione è una regione che
l’esercito pachistano occupa da diversi anni ed è considerata “ripulita” da
insorti.

L’incidente non è stato un caso di un attacco di droni o di un
bombardamento andato storto, un evento abbastanza comune. Nonostante tutti i
discorsi sulle “armi di precisione” e sugli “attacchi chirurgici”, i droni
hanno inflitto centinaia di morti civili e bombe da 500 libbre
hanno poco in comune con le  sale
operatorie.  Gli strumenti della NATO
sono stati invece elicotteri da attacco Apache e, secondo l’Associated Press, e un velivolo
d’assalto A-130. In poche parole l’assalto è stato condotto da piloti in carne
ed ossa che presumibilmente hanno identificato i bersagli per i propri
superiori.

Questi bersagli sono stati due fortificazioni di confine, un’architettura
che non è mai stata associata ai talebani. E’ vero che il confine tra il
Pakistan e l’Afghanistan è permeabile e non sempre chiaramente definito, ma gli
insorti afghani non costruiscono postazioni di cemento. Un “forte” è una
banalità per un drone o per un caccia da combattimento, ed è per questo che i
talebani preferiscono le grotte e i bunker nascosti.

Abbastanza ovviamente le due parti dissentono su quel che è successo.  Gli statunitensi affermano di essere stati
attaccati dal confine pachistano, di aver ingaggiato un combattimento di tre
ore e di aver chiamato gli elicotteri alla fine della battaglia.

Ma, secondi i pachistani, non c’era stato fuoco dalla loro parte del
confine e sono stati gli elicotteri a iniziare la battaglia, che è durata un
po’ meno di due ore. I pachistani dicono anche che ci sono stati due attacchi
di Apache. Il primo ha attaccato l’avamposto Volcano e quando il forte gemello
vicino, l’avamposto Boulder, ha aperto il fuoco sugli elicotteri, anch’esso è
finito sotto attacco.  Il Pakistan
afferma che i suoi militari hanno contattato la NATO per avvertirla che stava
attaccando truppe pachistane, ma che il fuoco è proseguito.  Gli elicotteri alla fine si sono ritirati,
soltanto per riapparire e rinnovare l’attacco quando i pachistani hanno cercato
di rinforzare i forti assediati.

Può essere stato un caso di cattive informazioni d’intelligence?

Secondo i pachistani, Islamabad ha avuto cura di fornire alla NATO le
coordinate delle proprie postazioni  per
evitare incidenti esattamente di questo tipo. Il generale pachistano
Ashfaq Nadeem ha affermato
“non è possibile” che le “forze NATO non conoscessero la localizzazione
delle postazioni pachistane.”  Il generale pachistano
Ashram Nader
ha definito l’attacco un “atto deliberato di aggressione”.

Può essere stato “deliberato”? Errori si verificano in guerra, ma la
tempistica di questo scontro è profondamente sospetta.

La cosa avviene in un momento delicato, quando circa 50 paesi si stavano
preparando a riunirsi a Bonn, in Germania, per colloqui intesi a risolvere la
guerra afghana.  In quella riunione il
Pakistan è centrale, il solo paese della regione con estesi contatti tra i vari
gruppi di insorti.  Se gli USA
pianificheranno davvero il ritiro delle truppe per il 2014, avranno necessità
di una stretta collaborazione del Pakistan.

“Questo potrebbe essere uno spartiacque nelle relazioni del Pakistan con
gli Stati Uniti,” ha dichiarato al Guardian
(UK)
l’alto commissario per l’Inghilterra,
Wajid Shamsul Hasan. “Potrebbe far naufragare il calendario del ritiro delle
truppe statunitensi.”

Il Pakistan si è ora ritirato dai colloqui di Bonn e le relazioni tra
Washington e Islamabad sono pessime, quanto mai lo sono state prima.  I pachistani hanno bloccato due principali
vie di terra verso l’Afghanistan, percorsi su cui si muove circa il 50% delle
forniture belliche.  Islamabad ha anche
chiesto che la CIA chiuda la sua base di droni a Shamsi, nella provincia
pachistana del Beluchistan.

Chi trarrà vantaggio da queste ricadute?

Non è un segreto che molti nell’esercito USA sono scontenti della
prospettiva di negoziati con i talebani, in particolare con il più letale
alleato dell’organizzazione, il Gruppo Haqqani. C’è uno strappo non dichiarato
ma generalmente noto tra il Dipartimento della Difesa e il Dipartimento di
Stato, con il primo che vuole battere gli insorti prima di sedersi a discutere
mentre il secondo non è certo che tale tattica funzionerebbe.  Qualcuno del lato in uniforme della divisione
potrebbe aver deciso di far deragliare, o quanto di meno di danneggiare, l’incontro
di Bonn?

Non è nemmeno un segreto che non tutti in Afghanistan vogliono la pace, in
particolare se implica un accordo con i talebani.  L’Alleanza del Nord, costituita
principalmente da tagiki e uzbeki, non vuole avere nulla a che fare con i talebani
insediati  pashtun che sono
principalmente raggruppati al sud e ad est e nelle regioni tribali del
Pakistan.  L’esercito afgano è
prevalentemente tagiko, popolazione che non solo costituisce il grosso della
truppa, ma anche il 70% del comando.  Il
presidente Hamid Karzai è un pashtun, ma è in larga misura una facciata del
governo di Kabul dominato dall’Alleanza del Nord.

Ci sono anche in gioco temi regionali più vasti.

Non è stato sorprendente che la Cina
si sia immediatamente schierata a difesa del Pakistan, con il ministro degli
esteri cinese Yang Jiechu che ha espresso “profondo sconvolgimento e forte
preoccupazione” per l’incidente.  La Cina
non è contenta del dispiegamento della NATO in Afghanistan e ancor meno della
possibilità di basi statunitensi permanenti in quel paese.  In un incontro del 2 novembre a Istanbul, la
Cina, insieme con Pakistan, Iran e Russia, si è opposta a uno spiegamento
statunitense a lungo termine nella regione.

L’Iran è preoccupato per la minaccia costituita dalla potenza militare
statunitense ai propri confini;
Islamabad è preoccupata del fatto che prolungare la guerra
destabilizzerà ulteriormente il Pakistan e Bejing e Mosca nutrono sospetti che
gli statunitensi abbiano posto le loro mire sulle risorse petrolifere e sul gas
dell’Asia Centrale.  Sia la Russia sia la
Cina dipendono dagli idrocarburi dell’Asia Centrale, la prima per le
esportazioni in Europa e la seconda per gestire le sue fiorenti industrie.

La Cina è anche preoccupata riguardo alla recente svolta strategica dell’amministrazione
Obama in direzione dell’Asia.  Gli Stati
Uniti sono intervenuti apertamente in dispute tra la Cina e i suoi vicini dell’Asia
sud-orientale, nel sud della Cina, e recentemente hanno firmato un accorto per
dispiegare 2.500 marines in Australia. Washington ha anche rafforzato i suoi
legami con l’Indonesia e ha riscaldato quelli con il Myanmar. Per la Cina tutto
questo appare come una campagna per circondare Beijing di alleati USA e tenere
un dito premuto sulla giugulare energetica cinese.  Circa l’80% del petrolio cinese si muove
attraverso l’Oceano Indiano e il Mare Meridionale Cinese.

Un ingrediente chiave di qualsiasi formula per bilanciare il potere e l’influenza
crescenti della Cina in Asia è il ruolo dell’India. New Delhi si è
tradizionalmente mantenuta neutrale in politica estera, ma, a partire dall’amministrazione
Bush, si è fatta sempre più vicina a Washington.  La Cina e l’India hanno un rapporto spinoso
che risale alla guerra di confine del 1962 tra i due paesi e al sostegno della
Cina al tradizionale nemico dell’India, il Pakistan.  Le rivendicazioni della  Cina su parte dell’area al confine indiano non
hanno migliorato le cose.

L’India gradirebbe anche un governo a Kabul privo di talebani e qualsiasi
cosa che metta Islamabad a disagio va benissimo a New Delhi.  Ci sono elementi nell’esercito e nella comunità
diplomatica statunitensi che vorrebbero vedere Washington scaricare la sua
alleanza con il Pakistan e spingere l’India a rapporti più stretti.  Un buon numero di indiani prova gli stessi
sentimenti.

Sin qui la
Casa Bianca si è rifiutata di scusarsi
, facendo invece trapelare una storia
secondo cui mostrarsi deboli con il Pakistan in un anno di elezioni negli USA è
impossibile.

Alla fine, lo scontro al confine può rivelarsi un incidente, anche se non è
probabile che lo sapremo mai per certo.
Le indagini militari non sono famose per accuratezza e molto di quel che
è accaduto resterà secretato.

Ma con tutte queste correnti trasversali che si incrociano sui cieli bui
del Pakistan, forse qualcuno ha visto un’occasione e l’ha colta.  In un certo senso è irrilevante che l’attacco
sia stato deliberato o stupido: ne avvertiremo a lungo le conseguenze ed è
probabile che le onde si diffonderanno da una collina rocciosa del Pakistan
fino ai limiti estremi dell’Oceano Indiano e oltre.

 

Conn Hallinan può
essere letto presso middleempireseries.wordpress.com

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/pakistan-anatomy-of-a-crisis-by-conn-hallinan

Fonte: Dispatches from the Edges

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC
BY-NC-SA 3.0

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NATO contro Pakistan

30 mercoledì Nov 2011

Posted by Redazione in Afghanistan, Asia, Guerra al terrore, Pakistan, Tariq Ali

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attacco, attentati, checkpoint, esercito, generale Pasha, Haqqani, ISI, Islamabad, Kabul, Mansoor Jiaz, Mike Mullen, NATO, Obama, posto di controllo, Shamsi, sovranità, tradimento, usa, Zardari, Zona Verde

di Tariq  Ali –  30 novembre  2011

L’attacco della NATO al posto di controllo pachistano in prossimità del confine afgano che sabato  ha ucciso 24 soldati deve essere stato deliberato.  Ai  comandanti NATO sono state da tempo fornite dall’esercito Pakistano mappe che segnalano questi posti di controllo. Sapevano che il bersaglio era un avamposto dell’esercito. La spiegazione che essi avevano subito per primi gli spari suona falsa ed è stata violentemente negata da Islamabad.  In precedenza attacchi simili erano dichiarati ‘accidentali’ e venivano presentate, e accettate, scuse.  Questa volta la cosa sembra più grave.  Si è verificata troppo a ridosso di altre ‘violazioni della sovranità’, nelle parole della stampa locale, ma la sovranità pakistana è una finzione.  L’alto comando dell’esercito e i capi politici hanno spontaneamente abdicato alla propria sovranità molti decenni addietro.  Quel che è oggi motivo di vera preoccupazione è che essa sia violata apertamente e brutalmente.

Per rappresaglia il Pakistan ha bloccato i convogli NATO diretti in Afghanistan (il 49% dei quali attraversa il paese) e ha chiesto agli Stati Uniti di sgombrare la base di Shamsi da essi costruita per lanciare attacchi di droni contro obiettivi sia in Afghanistan sia in Pakistan con il permesso dei governanti del paese.  A Islamabad era stata concessa una foglia di fico giuridica: nei documenti ufficiali la base era ufficialmente affittata dagli Emirati Arabi Uniti, la cui ‘sovranità’ è ancor più flessibile di quella del Pakistan.

I motivi dell’attacco restano un mistero, ma il suo impatto no.  Esso creerà ulteriori divisioni all’interno dell’esercito, indebolirà ulteriormente il venale regime di Zardari, rafforzerà i militanti religiosi e farà sì che gli Stati Uniti siano ancor più odiati in Pakistan di quanto già lo erano.

E allora perché farlo?  Era inteso come una provocazione? Obama pensa sul serio di scatenare una guerra civile in un paese già a pezzi? Alcuni commentatori di Islamabad stanno sostenendo questo, ma è improbabile che le truppe NATO occuperanno il Pakistan. Una svolta così irrazionale sarebbe difficile da giustificare in termini di qualsiasi interesse imperiale.  Forse è stato semplicemente un ‘occhio per occhio’ per punire l’esercito pakistano per aver inviato alcuni mesi fa la rete Haqqani a compiere attentati contro l’ambasciata USA e il quartier generale della NATO nella ‘Zona Verde’ di Kabul.

L’attacco NATO arriva sulla scia di un’altra crisi.  Uno dei fidati portaborse di Zardari e della sua defunta moglie a Washington, Husain Haqqani, i cui collegamenti con le agenzie dei servizi segreti USA risalenti agli anni ’70 lo hanno reso un utile intermediario e che Zardari ha nominato ambasciatore del Pakistan a Washington, è stato costretto alle dimissioni.  Haqqani, cui spesso ci si riferiva come all’ambasciatore in Pakistan, sembra essere stato colto con le mani nel sacco: egli risulterebbe aver chiesto a Mansoor Jiaz, un multimilionario vicino alla dirigenza della difesa USA, di portare un messaggio all’ammiraglio Mike Mullen, in cui si sollecitava il suo aiuto contro l’esercito pakistano e veniva offerto in cambio di disperdere la rete Haqqani e di sciogliere l’ISI [la più importante branca dei servizi segreti pakistani – n.d.t.] e di eseguire tutte le istruzioni di Washington.

Mullen ha negato di aver ricevuto un qualsiasi messaggio. Un subordinato dell’esercito lo ha contraddetto. Mullen ha cambiato la sua versione e ha detto che un messaggio era stato ricevuto e ignorato.  Quando l’ISI ha scoperto questo ‘atto di tradimento’, Haqqani, invece di dire  che stava agendo in base a ordini di Zardari, ha negato l’intera storia.  Sfortunatamente per lui, il capo dell’ISI, generale Pasha, aveva incontrato Jiaz e gli era stato dato il Blackberry con i messaggi e le istruzioni. Haqqani non ha avuto altra scelta che dimettersi. Le richieste di processarlo e impiccarlo (le due cose vanno spesso insieme quando c’è di mezzo l’esercito) vanno crescendo. Zardari è schierato con il suo uomo.  L’esercito vuole la sua testa. E ora la NATO è entrata nella mischia. Questa storia non è ancora finita.

Il libro più recente di TARIQ ALI è ‘The Obama Syndrome: Surrender at Home, War Abroad’ [La sindrome di Obama: resa in patria e guerra all’estero]

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/nato-vs-pakistan-by-tariq-ali

Fonte: Counterpunch

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Israele sta preparando un attacco all’Iran?

21 lunedì Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Guerra al terrore, Neve Gordon

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Alex Fishman, aviazione israeliana, Ehud Barak, esercitazioni, Haaretz, IAEA, iran, israele, Knesset, Leon Panetta, NATO, Netanyahu, nucleare, Or Heller, Reuven Barko, Roni Daniel, Shimon Peres, Washington, Yisrael Hayomeven, Yossi Verter, Zvi Yechezkeli

 

 

 

di Neve Gordon – 20 novembre 2011

Scorrendo i giornali mentre mi affrettavo a preparare i bambini per la scuola, mi sono improvvisamente reso conto che Israele potrebbe davvero star preparando un attacco militare all’Iran. “[Il Segretario di Stato USA alla difesa, Leon] Panetta ha chiesto un impegno a un’azione coordinata in Iran” dice un titolo, e “Una bomba a distanza di braccio” dice un altro.

Ad alimentare questo tormentone c’era una serie di eventi militari che erano stati programmati mesi in anticipo e che tuttavia sono misteriosamente coincisi con la pubblicazione del rapporto del Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) sugli sforzi iraniani per produrre una bomba atomica. Per quattro giorni filati tutti i principali canali televisivi hanno mostrato ripetutamente immagini di Israele che si prepara alla guerra.

E’ cominciato tutto con un rapporto sulla sperimentazione da parte di Israele di un missile balistico a lunga distanza, che enfatizzava la capacità del missile di montare testate nucleari. Ciò ‘è stato seguito da interviste a piloti che hanno preso parte a esercitazioni complessive dell’Aviazione Israeliana riguardanti attacchi a lunga distanza che hanno avuto luogo presso una base aerea della NATO in Italia.  Sono state mostrate anche immagini d’archivio di un missile lanciato da un sottomarino israeliano.  Ai lettori di Ha’aretz è stato detto che il sottomarino era importante perché avrebbe consentito a Israele di condurre un contrattacco in caso di guerra nucleare.

Queste immagini di soluzioni offensive sono state seguite da immagini dei preparativi israeliani di difesa. Il 3 novembre i tre principali canali giornalistici hanno dedicato molti minuti di trasmissione alla copertura di un’esercitazione che simulava un attacco alla regione centrale di Israele; questi spezzoni mostravano persone che venivano trasportate su barelle e soldati che si occupavano di vittime colpite da armi chimiche. Un giorno dopo, Ha’aretz ha riferito che i preparativi militari contro l’Iran erano stati effettivamente aggiornati.

Un Iran con una capacità nucleare è stato continuamente presentato come una minaccia all’esistenza di Israele. Il 31 ottobre, in un discorso di apertura della sessione invernale della Knesset, il primo ministro Netanyahu ha osservato che un “Iran nuclearizzato costituirà una grave minaccia al Medio Oriente e al mondo intero e ovviamente anche una minaccia diretta e grave contro di noi,” aggiungendo che la concezione della sicurezza di Israele non può essere basata sulla sola difesa ma deve anche comprendere un “potenziale offensivo che serva da base per la deterrenza.”

Analisti hanno ripetutamente affermato che il presidente Mahmoud Ahmadinejad è un negatore dell’Olocausto e Reuven Barko, di Yisrael Hayomeven , ha confrontato l’Iran alla Germania nazista. Non si può sottovalutare l’impatto di questa analogia sulla psicologia collettiva degli ebrei israeliani.

Barko ha proseguito collegando la frase di Amleto “essere o non essere” alla situazione attuale d’Israele, proponendo il dilemma con cui attualmente si confronta lo stato come “colpire o non colpire”. Il presidente Shimon Peres ha dichiarato che l’Iran è il solo paese al mondo “che minaccia l’esistenza di un altro paese” ma ha trascurato di citare il fatto che per generazioni i palestinesi sono stati privati del loro diritto all’autodeterminazione.

Il giorno in cui finalmente è stato pubblicato il rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) praticamente tutti i canali mediatici israeliani lo descrissero come una “pistola fumante”. Il rapporto, secondo i media, fornisce prove concrete che il programma nucleare iraniano è anche mirato a produrre armi.  Zvi Yechezkeli di Canale Dieci lo ha descritto come “la fine dell’era dell’ambiguità iraniana”, ma ha mancato, naturalmente, di rimarcare che l’ambiguità dello stesso Israele riguardo al proprio potenziale nucleare continua senza intralci; Roni Daniel di Canale Due ha dichiarato che “siamo sollevati” dal rapporto, suggerendo che le affermazioni di Israele sono ora comprovate e che il rapporto può servire a giustificare sia l’imposizione di sanzioni più dure contro l’Iran sia persino un attacco.

Nonostante gli infiniti guerrafondai, la maggior parte dei commentatori israeliani ha dichiarato che la frenesia non è nulla più che “un’eccitazione nucleare”.  La maggioranza degli analisti politici è stata propensa a concordare sul fatto che la campagna mediatica, che ha presentato Israele come in corso di seria preparazione a un attacco all’Iran, è stata orchestrata soltanto al fine di esercitare pressioni sulla comunità internazionale per imporre sanzioni più severe contro l’Iran.  Or Heller, di Canale Dieci, ha riassunto la cosa affermando: “E’ evidente che né il pubblico iraniano né quello israeliano sono il bersaglio di quel che sta succedendo qui, bensì prima di tutto e soprattutto lo è la comunità internazionale, gli statunitensi, gli inglesi.”

I commentatori hanno anche osservato che c’è un’opposizione muro contro muro a un attacco israeliano, compresi gli USA, l’Europa, Russia e Cina.  Alex Fishman ha riassunto il sentimento internazionale scrivendo: “Se qualcuno in Israele pensa che ci sia un semaforo verde o giallo in arrivo da Washington per un attacco militare contro l’Iran, quel qualcuno non ha idea di quello che sta succedendo; il semaforo resta lo stesso, un rosso abbagliante.”

Il ritratto di Israele come di un vicino prepotente che finge un attacco di rabbia e chiede ai suoi amici di trattenerlo non è particolarmente rassicurante, comunque.

Dopo 10 giorni di frenesia mediatica, il ministro della difesa Ehud Barak ha cercato di calmare il pubblico affermando che nel caso di un attacco non  sarebbero uccise nemmeno 500 persone”, ma non ha detto che non  ci saranno attacchi.

Yossi Verter, di Ha’aretz, ha spiegato che il martellamento mediatico serve agli interessi di Barak. “Un attacco riuscito alle strutture nucleari iraniane sotto la sua guida ministeriale può riabilitare il suo status personale e aiutarlo a ricuperare la fiducia del pubblico.” Verter cita un membro eminente del sistema politico, che afferma che “Barak è convinto che solo una persona della sua statura riguardo alla sicurezza possa guidare la battaglia forse più fatale della storia d’Israele dalla guerra d’indipendenza.”

Indipendentemente dal fatto che  Netanyahu e Barak siano pronti a lanciare un attacco, il martellamento mediatico e il ritratto dell’Iran come costituente una minaccia all’esistenza di Israele contribuisce sicuramente a creare le condizioni necessarie per una campagna militare.

Ciò che è notevole in questo agitare di spade è la sua astrattezza. Nemmeno un analista ha osservato che entrare in guerra è facile, ma porvi termine è molto più difficile, particolarmente se dall’altra parte c’è una potenza regionale che dispone di vaste risorse e di un esercito bene addestrato (diversamente da Hamas o Hezbollah). E naturalmente nessuno ha parlato davvero della probabilità di un futuro cruento o di che tipo di vita stiamo programmando per i nostri figli. Questo tipo di astrattezza rende la guerra appetibile, rendendo un grande servizio alla macchina bellica.

Neve Gordon è autore di ‘Israel’s Occupation’ [L’occupazione di Israele] e può essere raggiunto attraverso il suo sito web www.israelsoccupation.info

Pubblicato in origine su Al Jazeera il 18 novembre 2011

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/is-israel-preparing-an-assault-against-iran-by-neve-gordon

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Israele non attaccherà l’Iran. Punto e a capo.

10 giovedì Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Guerra al terrore, Uri Avnery

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di Ury Avnery   – 9 novembre 2011

Tutti conoscono la scena dagli anni della scuola: un piccoletto litiga con un ragazzo più grande. “Tenetemi!” grida ai suoi compagni, “Prima che gli spezzi le ossa!”

Il nostro governo sembra comportarsi in questo modo.  Ogni giorno, su tutti i canali, urla che sta per spezzare le ossa all’Iran, nel giro di qualsiasi istante.

L’Iran sta producendo una bomba nucleare. Non possiamo permetterlo. E allora li bombarderemo fino a ridurli in briciole.

Benyamin Netanyahu lo dice in ciascuno dei suoi innumerevoli discorsi, compreso il suo discorso d’apertura della sessione invernale della Knesset.  Idem Ehud Barak.  Ogni commentatore che si rispetti (si è mai visto un commentatore che non si rispetti?) ne scrive.  I media amplificano lo strepito e la furia.

“Haaretz” riempie la prima pagina di foto dei sette ministri più importanti (il “settetto della sicurezza”) indicandone tre a favore dell’attacco e quattro contro.

Un proverbio tedesco dice: “Le rivoluzioni annunciate in anticipo non avvengono mai.” Lo stesso vale per le guerre.

Le questioni nucleari sono soggette a una censura militare molto stretta. Molto, molto stretta davvero.

Tuttavia il censore sembra sorridere benevolmente.  Lasciamo che i ragazzi, compreso il Primo Ministro e il Ministro della Difesa (il capo ultimo del censore) giochino la loro partita.

Il rispettato ex capo di lungo corso del Mossad, Meir Dagan, ha ammonito pubblicamente contro l’attacco, descrivendolo come “l’idea più stupida” che egli avesse mai sentito.  Ha spiegato di ritenere suo dovere ammonire contro di essa, in vista dei piani di Netanyahu e Barak.

Mercoledì c’è stato un vero e proprio diluvio di rivelazioni.  Israele ha sperimentato un missile che può portare una testata nucleare a più di 5.000 km di distanza, oltre dove sapete voi.  E la nostra aviazione ha appena completato esercitazioni in Sardegna, a una distanza maggiore di dove sapete voi.  E giovedì il Comando del Fronte Interno ha tenuto esercitazioni nell’intera Grande Tel Aviv, con le sirene che strillavano a più non posso.

Tutto questo sembra indicare che l’intero baccano è uno stratagemma.  Forse per spaventare e dissuadere gli iraniani.  Forse per spingere gli statunitensi ad azioni più estreme.  Forse coordinato in anticipo con gli statunitensi.  (Fonti inglesi, dal canto loro, hanno rivelato che la Real Marina si sta addestrando per appoggiare un attacco statunitense all’Iran).

E’ una vecchia tattica di Israele quella di agire come se stesse dando di matto  (“Il capo è impazzito” è un richiamo consueto nei nostri mercati, per suggerire che il fruttivendolo sta vendendo sottocosto). Non ascolteremo più gli Stati Uniti. Semplicemente bombarderemo e bombarderemo e bombarderemo.

Beh, siamo seri per un momento.

Israele non attaccherà l’Iran. Punto e a capo.

Alcuni possono pensare che io mi stia mettendo nei guai. Non avrei dovuto aggiungere almeno “probabilmente” o “quasi certamente”?

No, non lo farò. Ripeto categoricamente: Israele NON Attaccherà L’Iran.

Dall’avventura di Suez del 1956, quando il presidente Dwight D. Eisenhower trasmise un ultimatum che bloccò l’azione, Israele non ha mai intrapreso alcuna azione militare significativa senza aver ottenuto prima il consenso statunitense.

Gli USA sono l’unico sostenitore affidabile di Israele nel mondo (oltre, forse, alle Fiji, alla Micronesia, alle Isole Marshall e a Palau). Distruggere questo rapporto significa tagliare l’ancora di salvezza. Per farlo bisogna essere più che solo un po’ fuori di testa. Bisogna essere pazzi furiosi.

Inoltre Israele non può combattere una guerra senza l’illimitato sostegno statunitense, perché i nostri aerei e le nostre bombe vengono dagli Stati Uniti.  Durante una guerra abbiamo bisogno di forniture, parti di ricambio, diversi tipo di equipaggiamento.  Durante la guerra dello Yom Kippur, Henry Kissinger aveva un “treno aereo” che ci riforniva ventiquattr’ore al giorno.  E quella guerra probabilmente sembrerebbe una scampagnata in confronto a una guerra con l’Iran.

Guardiamo la carta geografica. Ciò, detto per inciso, è sempre raccomandato prima di cominciare qualsiasi guerra.

La prima caratteristica che colpisce l’occhio è l’angusto Stretto di Hormutz attraverso il quale passa un barile su tre del flusso di petrolio mondiale trasportato per mare.  Quasi l’intera produzione dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo, dell’Iraq e dell’Iran deve  superare le forche caudine di questa stretta rotta marittima.

“Stretta” è un eufemismo. L’intera larghezza di questa via d’acqua è di circa 35 km (o 20 miglia). E’ circa la distanza tra Gaza e Beer Sheva, che è stata superata la settimana scorsa dai missili primitivi della jihad islamica.

Appena il primo aereo israeliano entrasse nello spazio aereo iraniano, lo stretto verrebbe chiuso. La marina iraniana ha una quantità di navi lanciamissili, ma non ne avrà bisogno. Saranno sufficienti missili lanciati da terra.

Il mondo sta già barcollando sull’orlo dell’abisso.  La piccola Grecia sta minacciando di cadere e di portare con sé grossi pezzi dell’economia mondiale.  L’eliminazione di quasi un quinto delle forniture di petrolio alle nazioni industriali porterebbe a una catastrofe difficile addirittura da immaginare.

Aprire lo Stretto con la forza richiederebbe una grossa azione militare (compreso “mettere gli scarponi sul terreno”,  un’invasione terrestre) che eclisserebbe le disavventure statunitensi in Iraq e in Afghanistan. Gli USA possono permetterselo? Lo può la NATO? Israele stesso non fa parte della stessa lega.

Ma Israele sarebbe coinvolto moltissimo nell’azione, anche se solo dalla parte passiva.

In una rara dimostrazione di unità, tutti i capi dei servizi israeliani, compresi i capi del Mossad e dello Shin Bet, si oppongono pubblicamente all’intera idea. Possiamo solo immaginare il perché.

Non so se l’operazione sia affatto possibile.  L’Iran è un paese molto vasto, circa delle dimensioni dell’Alaska; le installazioni nucleari sono ampiamente sparpagliate e in larga misura sotterranee.  Anche con le speciali bombe a penetrazione profonda degli USA, l’operazione potrebbe portare a uno stallo degli sforzi iraniani – quali che siano – solo per pochi mesi. Il prezzo potrebbe essere troppo alto per un risultato così magro.

Inoltre è quasi certo che con l’inizio di una guerra i missili grandinerebbero su Israele, non solo dall’Iran, ma anche da Hezbollah e forse anche da Hamas.  Non abbiamo una difesa adeguata per le nostre cittadine.  La quantità di morti e distruzioni sarebbe proibitiva.

Improvvisamente i media sono pieni di storie circa i nostri tre sottomarini, che presto passano a cinque o anche sei, se i tedeschi saranno comprensivi e generosi.  E’ detto apertamente che essi ci darebbero la capacità di un “secondo attacco”, se l’Iran utilizzasse le sue (ancora inesistenti) testate nucleari contro di noi.  Ma gli iraniani possono anche usare armi chimiche e altre armi di distruzione di massa.

Poi c’è il prezzo politico. Ci sono un mucchio di tensioni nel mondo islamico. L’Iran è tutt’altro che popolare in molte parti di esso. Ma un assalto israeliano a uno dei principali paesi mussulmani unirebbe istantaneamente sunniti e sciiti, dall’Egitto alla Turchia al Pakistan e oltre. Israele diventerebbe una villa in una giungla in fiamme.

Ma il parlare di guerra può servire a molti scopi, inclusi quelli politici interni.

Sabato scorso il movimento di protesta sociale si è rifatto vivo. Dopo una pausa di due mesi, una massa di gente si è riunita nella piazza Rabin di Tel Aviv. La cosa è stata particolarmente notevole per quello stesso giorno stavano cadendo missili sulle città vicine alla Striscia di Gaza. Fino ad ora in una situazione simile le dimostrazioni erano sempre state annullate.  I problemi della sicurezza hanno la priorità su ogni altra cosa. Non questa volta.

Molti, poi, ritenevano che la festa per Gilad Shalit avrebbe cancellato la protesta dalla mente del pubblico. Non ho ha fatto.

Al riguardo è successo qualcosa di degno di nota: i media, dopo essersi schierati per mesi con il movimento di protesta, hanno cambiato atteggiamento. Improvvisamente tutti, compreso Haaretz, gli piantano coltelli nella schiena. Come eseguendo un ordine, tutti i giornali il giorno dopo hanno scritto che “più di 20.000” avevano preso parte [alla manifestazione].

Beh, io c’ero, e ho realmente qualche competenza su queste cose.  C’erano almeno 100.000 persone là, per la maggior parte giovani. A fatica potevo muovermi.

La protesta non si è esaurita, come affermano i media.  Lungi da ciò.  Ma quale mezzo migliore per distogliere l’attenzione della gente dalla giustizia sociale che parlare di “pericolo esistenziale”?

Inoltre, le riforme rivendicate dai manifestanti richiederebbero  fondi. Considerata la crisi finanziaria globale, il governo si oppone strenuamente ad aumentare il bilancio statale per timore di danneggiare la propria valutazione creditizia.

E allora da dove potrebbero arrivare i soldi? Ci sono solo tre fonti plausibili: gli insediamenti (chi oserebbe?), gli ortodossi (idem!) e l’enorme bilancio militare.

Ma alla vigilia della guerra più cruciale della nostra storia, chi toccherebbe le forze armate? Abbiamo bisogno di ogni shekel per comprare altri aerei, altre bombe, altri sottomarini. Le scuole e gli ospedali, ahimè, devono aspettare.

E dunque Dio benedica Mahmoud Ahmadinejad. Dove saremmo senza di lui?

Uri Avner è un attivista pacifista israeliano ed ex membro della Knesset.  E’ il fondatore di Gush Shalom. Ha offerto questo articolo a PalestineChronicle.com.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/israel-will-not-attack-iran-period-by-uri-avnery

Fonte: Palestine Chronicle

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Disavventura di una cittadina nel Paese della Sicurezza

05 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in America, Ann Jones, Guerra al terrore

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Ambasciata di Oslo, Citibank, Citigroup, Dipartimento del Tesoro, Dipartimento di Stato, Fulbright, lista nera, OFAC, sicurezza, terrorismo, trasferimenti internazionali, usa

 

 

di Ann Jones  – 5 novembre 2011

Dov’è che ho sbagliato? E’ stato nel suonare le percussioni con una banda di Occupy Wall Street a Times Square quando sono stata a New York di recente?  O è stato quando sono tornata alla mia pacifica nuova casa di Oslo e ho cancellato una email di invito ad ascoltare Newt Gingrich tenere una conferenza ai norvegesi sulle elezioni statunitensi? (Sì, persino qui.)

Non so come sia successo. O, addirittura, cosa davvero sia successo. O cosa significhi.  Dunque non ne sono venuta a capo, o ricavato solo un mucchio di ansia.  Abitualmente scrivo dei problemi del mondo, ma adesso ne ho uno per conto mio. Evidentemente loro pensano che io sia una terrorista.

Cioè, qualcuno del governo USA specializzato nello scovare terroristi sembra aver scovato me e aver posto la sua mano pesante sul mio conto in banca. Penso, ovviamente, che sia uno sbaglio, ma cerco di farlo capire a un ente governativo senza volto, celato dietro un acronimo.

E’ tutto cominciato con una serie di messaggi dalla mia banca: la Citibank. Sì, lo so, avrei dovuto spostare i miei soldi tanto tempo fa, ma nel lontano passato, prima che la Citibank diventasse Citigroup,  era la mia amabile banchetta di quartiere, e immagino di essere un’abitudinaria.  Inoltre ho appreso, quando ho fatto i miei piani per traslocare in Norvegia, che se i tuoi soldi sono in una banca piccola, devono essere trasferiti a una banca grande come la Citibank o la Chase per poterteli far inviare quando ne hai bisogno, il che significa che ero in trappola comunque.

Dunque, la prima cosa che ho notato è che uno di quei bonifici di soldi che mi servivano non arrivava mai. Quando mi sono informata educatamente, la Citibank mi ha detto che l’operazione non era stata completata. Perché no? Tutta colpa mia, hanno insistito, per non aver fornito informazioni complete. Facendola breve: siamo andato avanti per un paio di settimane, con me che sputavo un numero sempre maggiore di pezzetti d’informazioni personali in precedenza non sollecitate. Solo allora ha cominciato a emergere un po’ di verità.

La banca, in realtà, non stava bloccando il trasferimento del denaro. Il denaro, di fatto, aveva lasciato il mio conto settimane prima, insieme con l’addebito di una commissione di trasferimento.  Il responsabile era l’OFAC.

Oh, cosa? Mi sono chiesta. OFAC. Fa rima con “Oh Cacch” ma bisogna stare attenti a come lo si pronuncia. [Il gioco di parole è arduo da rendere: OFAC letto come espressione, e non come acronimo, suona come “Oh, merda!” ma anche “Oh, fotti!”.  L’espressione successivamente usata dall’autrice, “Oh-Tack” (resa qui con “Oh Cacch” ovvero “Oh cacchio!”) vale all’incirca “O cazzo!” o anche “Meglio masturbarsi!” – n.d.t.).  Pronunciate [l’acronimo] in modo disattento e suonerà proprio come quel che direste venendo a sapere di essere stati risucchiati nel pozzo nero finale della burocrazia top-secret.  Risulta, mi informa la banca, che l’OFAC è una divisione del Dipartimento del Tesoro statunitense che “esamina” le transazioni.

“Perché io?” chiedo. Come giornalista di lungo corso la trovo una domanda strana, tanto strana quanto trovarmi a scrivere un articolo su me stessa.

A mo’ di risposta la banca mi rimanda a un collegamento Internet che apre rapporto di 521 pagine scritto in modo così fitto che sembra carta da parati. Intitolato “Cittadini a designazione speciale e persone bloccate”, si rivela essere una lista di quelle che sembrano essere tutte le aziende e le organizzazioni sociali mussulmane del pianeta. E’ a questo punto che digito OFAC su Google, entro nel suo sito, e scopro che l’acronimo sta per Office of Foreign Assets Control [Ufficio del controllo dei patrimoni stranieri – n.d.t.]

 La descrizione della sua missione suona raggelante. Esso “amministra e fa rispettare sanzioni economiche e commerciali basate sugli obiettivi della politica estera e della sicurezza nazionale USA contro paesi e regimi stranieri, terroristi, narcotrafficanti internazionali, coloro che sono coinvolti in attività correlate alla proliferazione di armi di distruzione di massa e altre minacce alla sicurezza nazionale, alla politica estera o all’economia degli Stati Uniti.” E vien fuori che si tratta di una succursale di qualcosa di molto più grosso che va sotto il nome terrificante di “Servizi Segreti relativi al Terrorismo e alla Finanza” [Terrorism and Financial Intelligence].

Via di testa

Urca! Forse non aiuta, in questo momento, che io stessi leggendo Top Secret America: The Rise of the New American Security State [USA Top Secret: l’ascesa del nuovo stato statunitense della sicurezza] dei giornalisti del Washington Post Dana Priest e William M. Arkin che parla delle nostre molteplici agenzie ipernutrite, iperzelanti e ad alta segretezza, con un personale composto in misura significativa non solo da dipendenti pubblici ma da subappaltatori privati orientati al profitto.  Improvvisamente mi sento presa dalla paranoia nazionale post 11 settembre che ha escogitato tutta quella nuova “sicurezza”. (E anche voi potreste trovarvi presto nei miei panni].

Controllo la lista OFAC con più attenzione.  E’ in una specie di ordine alfabetico, ma con notevoli deviazioni incomprensibili,  e se il mio nome è lì, di sicuro non riesco a trovarlo.  Poiché ho trascorso la maggior parte dell’ultimo decennio a lavorare con organizzazioni di aiuti internazionali e a trasmettere articoli dai posti più dilaniati dalla guerra del pianeta, compreso l’Afghanistan, l’unica cosa che riesco a immaginare è che forse tutti quegli strani visti sul mio grosso passaporto possano aver attivato un allarme rosso da qualche parte a Washington.

Poi cerco il nome della mia padrona di casa norvegese.  Ho detto che i fondi trasferiti e mai arrivati servivano per pagarle l’affitto?  Lei sta in India, operatrice sanitaria volontaria presso rifugiati tibetani, attualmente impegnata ad aiutare nel rinnovo di un orfanotrofio con 144 bambini. (Cosa potrebbe essere più sospetto di questo??) Non trovo nemmeno il suo nome. Niente e niente Heidi del tutto, in effetti, nel mucchio di Mohammad e Abdul.

Heidi è buddista. Io sono atea. Quasi tutti sulla lista sembrano mussulmani, compresi tizi che suonano davvero pericolosi come “Ahmed l’Egiziano”.  Ma immagino che a un cacciatore di terroristi davvero dedito e ben pagato, dobbiamo sembrare tutti uguali.

Ho un bisogno disperato di ottenere l’affitto per Heidi in modo che lei possa coprire le sue spese da volontaria; un’organizzazione internazionale paga per i bisogni dei bambini, ma Heidi fa il lavoro.  Così chiamo l’Ambasciata USA di Oslo e parlo con una giovane gentile della sezione incaricata dei “Servizi ai Cittadini Statunitensi”.  Le racconto di me e dell’OFAC e di Ahmed l’Egiziano. Dice: “Non ne ho mai sentito parlare. Ma ci sono così tanti di quei servizi di intelligence ora; immagino che sentirò più spesso storie così.” (Forse anche lei sta leggendo Top Secret America).

Lei ne parla con i suoi superiori e mi richiama.  L’Ambasciata non può aiutarmi, cittadina o non cittadina, mi dice, perché non si occupa di questioni di denaro e non ha nulla a che fare con il Dipartimento del Tesoro.

“Cosa? Il Dipartimento di Stato non ha rapporti con il Tesoro?”

“No” dice lei. “Immagino di no.”

Forse da quando vi ho prestato attenzione l’ultima volta il Tesoro ha smesso di essere considerato parte del governo. Forse ora appartiene alla Lockheed Martin.

Almeno nel Dipartimento di Stato è rimasta un po’ di compassione.  Se proprio sono priva di mezzi, mi assicura, l’Ambasciata potrebbe essere in grado di farmi un prestito per pagare un biglietto aereo che riporterebbe me e i miei due gatti negli Stati Uniti.  Immagino non le passi per la testa che, nella situazione attuale, potrei sentirmi molto più al sicuro in Norvegia.

Giù nel buco del coniglio

E comunque tutto quel che voglio fare è chiarire questo casino e così metto la testa nelle fauci del leone e mando una email direttamente all’OFAC. Racconto loro che sono in Norvegia per l’anno grazie a una borsa di studio Fulbright come ricercatrice, vale a dire come parte di un programma di scambi internazionali fondato da un senatore USA e patrocinato dal governo USA, o almeno da una parte della parte di esso del Dipartimento di Stato.  Tra le mie responsabilità informali, aggiungo, vi è quella di essere un’ambasciatrice di buona volontà degli Stati Uniti, ma trovo davvero difficile spiegare ai norvegesi che non sono in grado di pagare l’affitto un branco di cacciatori di terroristi, a libro paga del mio governo,  si è portato via i miei soldi lasciandosi dietro soltanto una lista di nomi mussulmani.

In modo notevolmente rapido lo stesso OFAC mi risponde, dandomi la sensazione raggelante che fosse rimasto appostato dietro la porta per tutto il tempo. E’ dispiaciuto che io sia “frustrata”. Mi aiuterà, ma solo se fornisco una lista intera di informazioni, per la maggior parte la stessa roba che avevo giù trasmesso tre volte alla mia banca, le stesse informazioni che in seguito la banca aveva affermato che dopo tutto non rappresentavano il problema. (Ancora dopo, la banca avrebbe detto che avevo fornito non troppo poche informazioni, bensì troppe.)  Spedisco le leccornie richieste al “Caro Funzionario, o Macchinario, OFAC, a seconda dei casi”.

Due giorni dopo arriva un altro messaggio dall’OFAC, questa volta firmato da “Michael Z.” Come gli afghani, o le spie, evidentemente lui ha solo un nome, ma le mie speranze che possa essere davvero una persona crescono comunque, inesplicabilmente … solo per precipitare di nuovo quando afferma che l’OFAC ha bisogno di ancora altre informazioni.  Il tutto affinché Michael Z., presunto essere una persona, possa aiutarmi “più efficacemente”.  (Più di quanto, mi chiedo?) Lui, insiste, sta cercando di rintracciare i miei soldi con l’aiuto della mia banca, la quale, per inciso, sta ora bloccandomi la possibilità di consultare online le informazioni sul mio conto corrente.

Mi sembra strano che questo ufficio top-secret dei servizi d’informazione sulla finanza in qualche modo non sia in grado di mettere le mani sui soldi che mi ha preso, ma che ne so io? Sono solo una cittadina.

Poi – siete pronti per questo? – arriva quello che dovrebbe essere il lieto fine. Un messaggio della banca mi dice che i soldi sono spuntati fuori, dopotutto, ed è un fatto che si trovano in una banca norvegese, solo un mese più tardi.  Non sarò sfrattata, dopo tutto, e Heidi potrà assicurarsi che quei bambini tibetani ricevano frutta fresca e delle tende verde brillante nuove di zecca.

Tuttavia non è una storia allegra. Così devo trasmettere le mie scuse al senatore da lungo tempo defunto J. William Fulbright:  sono davvero dispiaciuta che si siano verificati certi cambiamenti nello spirito e nel funzionamento degli Stati Uniti da quel giorno del 1948 in cui Lei ha lanciato il Suo lungimirante programma di borse di studio per incoraggiare scambi internazionali aperti di istruzione e cultura.  E mi scuso per il fatto che alcuni di tali cambiamenti possono avere temporaneamente paralizzato il mio stile di ambasciatrice di buona volontà; cercherò di tornare al loro se solo mi riuscirà di capire da cosa sono stata colpita.

Si è trattato semplicemente di un errore? Un intoppo tecnico? Mi piacerebbe pensarlo, ma che dire di quella lista di “Cittadini a designazione speciale e persone bloccate”? Perché sono stata indirizzata a quella? E che dire di Michael Z., che presumibilmente è una specie di analista d’intelligence presso l’OFAC e che, l’ultima volta che l’ho sentito, stava ancora sollecitando informazioni e cercando di trovare i soldi?

Francamente questa lotta durata un mese mi ha lasciata stanca e a disagio. In questo momento, senatore Fulbright, sono giù di corda, qui, in fondo al buco del coniglio, a cercare di trovare un senso alle cose.  (Ho dato un’ultima occhiata alla lista delle “Persone bloccate” è giusto questa settimana si è accresciuta di un’altra pagina).  Dunque voglio dirle la verità, senatore, e penso che con il suo grande interesse a relazioni internazionali pacifiche, Lei possa proprio comprendere. Per quanto strano possa sembrare, da quando sono accovacciata quaggiù, in fondo alla buca del coniglio,  ho elaborato una certa simpatia per Ahmed l’Egiziano che, ho la vaga sensazione, potrebbe essere quaggiù anche lui.  E’ difficile dirlo, quando si è tenuti nel buio, ma forse anche lui è soltanto un altro babbeo come me, ingarbugliato nella macchina supersegreta della sicurezza.

 

Ann Jones è in Norvegia sotto gli auspici del Programma di Studio Fulbright a condurre ricerche sulle soluzioni economiche, sociali e culturali norvegesi che fanno sì che il paese sia costantemente citato dalle Nazioni Unite come il posto migliore della terra in cui vivere.  Contribuisce regolarmente a TomDispatch; è autrice di Kabul in Winter (2006) [Kabul d’inverno] e di War Is Not Over When It’s Over (2010) [La guerra non è finita quando è conclusa].

Questo articolo è comparso originariamente su TomDispatch , un weblog del Nation Institute, che offre un flusso costante di fonti, notizie e opinioni a cura di Tom Engelhardt, direttore di edizione di lungo corso,  cofondatore dell’American Empire Project [Progetto dell’Impero Americano].  Autore di ‘The End of Victory Culture’ [La fine della cultura della vittoria] e  di un romanzo, ‘The Last Day of Publishing’ [L’ultimo giorno di pubblicazione].  Il suo libro più recente è ‘The American Way of War: How Bush’s Wars Became Obama’s’ [La via americana alla guerra: come le guerre di Bush sono diventate quelle di Obama]. (Haymarket Books)

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/one-citizen-s-misadventure-in-securityland-by-ann-jones

Fonte: TomDispatch.com  

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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I falchi USA vogliono attaccare l’Iran

22 sabato Ott 2011

Posted by Redazione in America, Guerra al terrore, Jim Lobe

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Adel al-Jubeir, AEI, Andrew McCarthy, Brookings Institute, Bruce Riedel, CIA, COnsiglio della Sicurezza Nazionale, Dan Senor, DEA, Eric Edelman, FDD, FPI, Guardie della Rivoluzione, iran, John Bolton, lista nera, Mitt Romney, neoconservatori, Pat Lang, PNAC, Quds, Reuel Gerecht, Robert Baer, Robert Kagan, sanzioni, Vaku Nasr, William Kristol, Zeta

 

 

di Jim Lobe  (21 ottobre 2011)

Neoconservatori chiave e altri falchi di destra che si sono fatti campioni dell’invasione USA dell’Iraq nel 2003 sollecitano attacchi militari contro l’Iran per rappresaglia per l’asserito complotto omicida contro l’ambasciatore saudita qui, negli Stati Uniti.

A guidare la carica è la Foreign Policy Initiative (FPI, Iniziativa per la politica estera], l’erede ideologica del Progetto per il Nuovo Secolo Americano (PNAC), che ha svolto un ruolo cruciale nel mobilitare il sostegno al “cambiamento di regime” in Iraq nei tardi anni ’90 e successivamente ha promosso la campagna pubblica per invadere il paese dopo gli attacchi dell’11 settembre.  Il gruppo ha trasmesso lunedì ai giornalisti appelli, su carta intestata,  di due dei suoi leader per un’azione militare.

In un articolo intitolato “Parlar piano … e contrattaccare” del Weekly Standard di questa settimana, il redattore capo, William Kristol, cofondatore sia del PNCA sia del FPI, ha affermato che l’asserito complotto ha rappresentato un “invito scolpito” da parte di Teheran a usare la forza contro l’Iran.

“Possiamo attaccare le Guardie della Rivoluzione Iraniana, (IRGC) e indebolirli. E possiamo colpire il programma di armamento nucleare del regime, e ritardarlo” ha scritto, aggiungendo che il Congresso dovrebbe approvare una risoluzione che autorizzi l’uso della forza contro entità iraniana ritenute responsabili degli attacchi a soldati USA in Iraq e in Afghanistan, di atti di terrorismo o del “programma di armamento nucleare del regime”.

Il consiglio di Kristol è stato appoggiato da Jamie Fly, direttore esecutivo del FPI, che ha sollecitato il presidente Barack Obama a emulare gli ex presidenti Ronald Reagan e Bill Clinton quando ordinarono attacchi mirati contro la Libia nel 1986 e nel 1993, rispettivamente, in rappresaglia per presunti complotti terroristici contro gli Stati Uniti.

“E’ ora che il presidente Obama segua le orme dei suoi predecessori e si opponga ai tiranni che uccidono cittadini statunitensi e minacciano i nostri interessi,” ha scritto Fly, che ha lavorato presso il Consiglio della Sicurezza Nazionale e il Pentagono sotto George W. Bush, nell’edizione in rete del The National Review.

“E’ ora di intraprendere un’azione militare contro gli elementi del governo iraniano che appoggiano il terrorismo e contro il suo programma nucleare. Ulteriore diplomazia non è una risposta adeguata,” ha scritto.

Gli appelli del FPI, cui hanno fatto eco altri ex falchi della guerra in Iraq, come l’ex ambasciatore di Bush all’ONU, John Bolton, e Reuel March Gerecht della neo-conservatrice Fondazione per la Difesa delle Democrazie (FDD), sono giunti mentre le analisi, qui da noi, continuano a discutere della credibilità del presunto complotto contro l’ambasciatore saudita Adel al-Jubeir e di come reagirvi se, come asserisce l’amministrazione, esso è stato autorizzato ad alto livello a Teheran.

La probabilità che il complotto sia davvero reale – e, in tal caso, che abbia avuto un’autorizzazione al alto livello – è stata qui ampiamente messa in discussione, principalmente da due gruppi di esperti.

La reazione tra virtualmente tutti gli specialisti dell’Iran, compresi ex dipendenti del governo e dei servizi segreti, è andata dall’esplicito scetticismo allo sconcerto riguardo a cosa, se il presunto complotto fosse stato davvero consumato, Teheran avrebbe sperato di ricavare dall’assassinio dell’ambasciatore saudita su suolo statunitense.

“Incredibile, a dir poco” ha scritto Vali Nasr, un alto membro del Brookings Institute, in reazione al presunto complotto.  “Se fosse vero, questo complotto dimostrerebbe una colossale mancanza di giudizio da parte di Teheran, un audace e sventato avventurismo che si riassumerebbe in un colossale errore del regime clericale che lo indebolirebbe a livello internazionale e persino allenterebbe la sua presa sul potere …”

Esperti dell’antiterrorismo competenti riguardo alla Forza Quds dell’Iran, l’unità d’élite delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) accusate di aver patrocinato il complotto, sono stati ancor più scettici sul fatto che esso si baserebbe sui contatti non dimostrati di un commerciante di auto usate iraniano-statunitense con un presunto membro del cartello della droga Zeta in Messico per organizzare l’assassinio.

Il presunto contatto Zeta si è rivelato essere un informatore della DEA (U.S. Drug Enforcement Administration, la polizia antidroga statunitense – n.d.t.], secondo la denuncia pubblicizzata con gran fanfara la scorsa settimana dal procuratore generale.

“Puzza, puzza, puzza” ha detto Bruce Riedel, un veterano della CIA che è stato responsabile del Vicino Oriente e dell’Asia Meridionale presso il Consiglio della Sicurezza Nazionale, quando gli è stato chiesto di esprimere la sua valutazione, mentre Robert Baer, ex ufficiale operativo della CIA in Medio Oriente, ha paragonato il complotto, così come descritto nell’accusa, a un “copione di Hollywood davvero orrendo”.

“Niente di tutto questo è all’altezza dell’insuperata capacità dell’Iran di commettere assassinii” ha scritto sul sito web della rivista Time.

“Perché mai avrebbero creato una situazione in cui avrebbero dovuto affidarsi a questa risorsa non verificata, non addestrata, non guidata e incontrollata anziché ai propri uomini?” ha scritto il colonnello (in pensione) Pat Lang, ex capo analista per il Medio Oriente e l’Asia Meridionale dell’Agenzia dei Servizi Segreti della Difesa, sul suo blog Sic Semper Tirannis.

Definendo il caso governativo “spazzatura” Lang ha aggiunto che “la schiacciante probabilità è che questa sia un’ “operazione di controinformazione” di qualcuno, mirata a condizionare l’atteggiamento del pubblico a qualche fine.”

Tale scetticismo non ha tuttavia dissuaso l’amministrazione, i legislatori chiave o gli ex falchi dell’Iraq dal sollecitare una reazione dura.

In effetti lo stesso Obama ha detto giovedì che premerà per “le sanzioni più dure” contro l’Iran da parte degli alleati degli USA e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre alti dirigenti del Tesoro hanno affermato di star prendendo in considerazione l’inserimento della banca centrale iraniana nella lista nera, una mosse che ha goduto di forte appoggio bipartisan al Congresso, in particolare dai legislatori più strettamente collegati alla lobby israeliana, anche prima che il presunto complotto fosse scoperto.

Ma numerosi ex falchi dell’Iraq, pochi dei quali risultano nutrire molti dubbi sulla serietà o provenienza del complotto, stanno richiedendo un’azione militare.

“L’idea di ulteriori sanzioni non è male …” ha scritto Gerecht, uno dei principali sostenitori dell’invasione dell’Iraq quand’era all’American Enterprise Institute [AEI, Istituto dell’Imprenditoria Statunitense], in un articolo pubblicato venerdì sulla pagina fedelmente neo-conservatrice del Wall Street Journal. “Ma non spaventeranno [il regime iraniano]. La Casa Bianca deve rispondere militarmente a questa offesa. Se non lo faremo, ne chiederemo altre.”

Un altro promotore della guerra in Iraq, Andrew McCarthy, anche lui del FDD, si è unito al coro sulla National Review Online: “C’è una gamma di possibili risposte politiche, ovviamente, ma considerati i tre decenni di aggressioni, la risposta all’Iran deve essere militare, e decisiva. Il regime deve essere distrutto.”

L’appello di lunedì del FPI per l’azione militare è stato forse più notevole, se non altro perché tre dei quattro direttori del gruppo – Eric Edelman, Robert Kagan e Dan Senor – sono stati recentemente nominati consiglieri chiave di Mitt Romney, il candidato capolista alla nomina presidenziale Repubblicana per il 2012.

Come Kristol, Kagan è stato cofondatore sia del PNAC sia del FPI e una sostenitore cruciale dell’invasione dell’Iraq, mentre Senor ha servito in Iraq, dopo l’invasione, come alto funzionario dell’Autorità Provvisoria della Coalizione.  Edelman che, da ambasciatore in Turchia all’epoca, ha esercitato pressioni sull’esercito per appoggiare l’invasione del 2003, ha proseguito con l’incarico di sottosegretario alla difesa per la politica sotto l’ex capo del Pentagono, Donald Rumsfeld.

Anche se Romney è rimasto in silenzio sinora riguardo a come Washington dovrebbe reagire al presunto complotto, numerosi tra i suoi altri consiglieri, che si sono fatti campioni dell’invasione dell’Iraq, sollecitano da tempo gli USA a rendere più credibile la minaccia USA di un’azione militare nella regione.

Nel suo primo importante discorso politico, due settimane fa, Romney stesso ha chiesto che due portaerei siano permanentemente dispiegate nella regione come deterrente per Teheran.

Il blog di Jim Lobe’s sulla politica estera USA si può leggere al seguente indirizzo:  http://www.lobelog.com

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.zcommunications.org/u-s-hawks-behind-iraq-war-rally-for-strikes-against-iran-by-jim-lobe

Fonte: Other News

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

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