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Di Anthony Alessandrini, 23 settembre 2011
E’ sconvolgente, ma non sorprendente, che negli Stati Uniti il modo principale di capire e analizzare il dibattito alle Nazioni Unite sullo stato palestinese sia in termini del suo effetto sulla politica statunitense.
Più specificamente, la principale attenzione dei media statunitensi è stata riservata al modo in cui l’amministrazione Obama gestirebbe la “crisi” all’ONU, inevitabilmente descritto come un aspetto delle presunte “tensioni che intorbidano la regione”. Pochissima riflessione è riservata a chiedersi se la mossa della dirigenza palestinese sia parte di una strategia più ampia per uscire dalla disastrosa stasi del quadro di Oslo o a quali possibilità potranno emergere dai potenziali risultati all’ONU. Le domande preferite hanno a che vedere con gli effetti sulle elezioni presidenziali del 2012, compresa la famosa domanda sul “voto ebraico”, variazioni della quale sembrano restare eternamente fresche e interessanti per i giornalisti e i redattori statunitensi. Persino il ruolo giocato dal dibattito all’ONU nei risultati delle recenti elezioni speciali nel distretto congressuale di Brooklyn in precedenza rappresentato dall’incapace Anthony Weiner sembrano avere per i media USA un interesse maggiore del potenziale effetto di tale dibattito sulle vite dei palestinesi.
Sconvolgente ma non sorprendente: la lunga lotta per l’autodeterminazione e la giustizia palestinese non ha mai svolto un gran ruolo nella narrazione dominante del “conflitto” come viene raccontato negli Stati Uniti. Come ha detto recentemente Joseph Massad, “l’unica interesse argomento è sempre stato quello degli interessi di Israele” e tali interessi sono semplicemente e indiscutibilmente collegati, in questa narrazione, agli interessi degli Stati Uniti.
Il punto, in questo momento, non è di esprimere semplicemente indignazione per questo stato di cose. Poiché questo momento offre alcune opportunità per fare il punto sulla situazione attuale di questa narrazione dominante del “conflitto” e idealmente, per quelli tra noi interessati alle questioni della giustizia e della solidarietà, per ripensare conformemente la nostra strategia.
Un aspetto che colpisce nella copertura del dibattito all’ONU è il modo in cui è stato inserito in una situazione più ampia in cui lo stato d’Israele è descritto come “assediato” e “isolato”. Il titolo del recente articolo di Ethan Bronner sul New York Times, che mette insieme il dibattito all’ONU con le proteste all’ambasciata israeliana al Cairo e i passi diplomatici compiuti dalla Turchia in seguito al recente Rapporto Palmer, è esplicito a proposito di questo presunto stato d’assedio: “Oltre il Cairo, Israele avverte un più vasto assedio” (può valer la pena di notare che l’articolo è stato pubblicato l’11 settembre). John Heileman, in un articolo della rivista New York, utilizza un linguaggio quasi identico a quello usato da Bronner: “Con il Medio Oriente che evidentemente precipita a capofitto nella crisi, Israele si trova sempre più isolato, bersagliato e assediato: la sua ambasciata al Cairo invasa dai dimostranti egiziani, le sue relazioni con la Turchia a brandelli, la sua continua occupazione dei territori palestinesi (e l’espansione degli insediamenti al loro interno) oggetto di vasto sdegno internazionale.”
C’è davvero bisogno di puntualizzare che lo stato descritto metaforicamente come sotto “assedio” è di fatto uno stato che sta attuando un’occupazione illegale da più di sessant’anni e sta davvero imponendo uno stato d’assedio molto reale a Gaza? O che lo stato descritto come “isolato” è di fatto protetto incondizionatamente, nelle sfere militare, economica e diplomatica, dall’unica superpotenza del mondo?
Tali rovesciamenti e perversioni linguistiche mi hanno rimandato al punto espresso così magnificamente da Mourid Barghouti nelle sue memorie “I saw Ramallah” [Ho visto Ramallah]:
“E’ facile offuscare la verità con un semplice gioco linguistico: cominciate la vostra storia con “Poi” Cominciate la vostra storia con “Poi” e il mondo sarà capovolto. Cominciate la vostra storia con “Poi” e le frecce dei nativi americani saranno i criminali originali e i fucili dei bianchi interamente le vittime. E’ sufficiente cominciare con “Poi” perché la rabbia dei neri contro i bianchi sia barbara. Si cominci con “Poi” e Gandhi diventa responsabile delle tragedie degli inglesi. Basta cominciare la propria storia con “Poi” e i vietnamiti bruciati avranno ferito l’umanità con il napalm e le canzoni di Victor Jara saranno la cosa vergognosa, non le pallottole di Pinochet, che hanno ucciso tante migliaia di persone allo stadio di Santiago. E’ sufficiente cominciare con “Poi” perché mia madre, Umm ‘Ata, diventi la criminale e Ariel Sharon la sua vittima.
Barghouti si riferisce qui al discorso tenuto da Yitzhak Rabin alla Casa Bianca in occasione della firma degli Accordi di Oslo e considera il discorso di Rabin come un esempio particolarmente brillante del rovesciamento della realtà operato cominciando una storia con “Poi”:
“Gli israeliani occupano le nostre case come vittime e ci presentano al mondo come assassini. Israele acceca il mondo con la sua generosità nei nostri confronti … Le case costruite sopra le nostre dichiarano in modo cavalleresco la loro disponibilità a capire la nostra strana predilezione a vivere in campi sparpagliati nella diaspora di dei e di mosche [probabile riferimento a Shakespeare, Re Lear – IV, 1 – “Noi siamo per gli dei quel che le mosche sono per i monelli: essi ci uccidono per il loro divertimento.” – n.d.t.] Le loro armi generose a Deir Yassin * ci perdonano il fatto che hanno impilato in grandi cumuli i nostri corpi là un giorno, all’ora del tramonto. I loro caccia da combattimento perdonano le fosse dei nostri martiri a Beirut. I loro soldati perdonano la tendenza a spezzarsi delle ossa dei nostri adolescenti. Israele la vittima fa brillare il suo caldo, rosso coltello con la lucentezza del perdono.” [ * “Il Massacro di Deir Yassin (Dayr Yāsīn), fu un massacro consumato il 9 aprile, sei settimane prima della proclamazione dello Stato di Israele e prima che scoppiasse la conseguente guerra nel 1948, ad opera di membri dell’Irgun guidati dal futuro Primo ministro israeliano Menachem Begin ai danni degli abitanti arabi dell’omonimo villaggio sito presso Gerusalemme ovest, nella Palestina all’epoca sotto Mandato britannico. La memoria fisica del villaggio – posto nelle immediate vicinanze e visibile dal sito dello Yad Vashem, il famoso memoriale dell’Olocausto sofferto dagli ebrei in Europa – fu quindi cancellata, radendo al suolo gran parte delle case e persino molte delle lapidi del cimitero, ai resti del quale non è ancor oggi consentito l’accesso ai parenti dei defunti.” – fonte Wikipedia – n.d.t.]
Ma Barghouti offre anche un omaggio a denti stretti ai più vasti effetti internazionali ottenuti mediante tale violenza linguistica come quella riscontrata nel discorso di Rabin: “Questo dirigente ha saputo come chiedere che il mondo rispetti il sangue d’Israele, il sangue di ogni singolo israeliano, senza eccezione.”
Questo è grosso modo lo stesso punto sollevato da Massad nel parlare del contesto dell’attuale dibattito all’ONU: “E’ importante sottolineare all’inizio che se l’ONU garantisse all’Autorità Palestinese il governo di uno stato sotto occupazione e sotto osservazione come stato o rifiutasse di farlo, l’uno o l’altro risultato sarebbe nell’interesse di Israele. Poiché l’unico argomento in discussione è sempre stato l’interesse di Israele, ed è chiaro che qualsiasi strategia ottenga il sostegno internazionale, con o senza l’approvazione degli USA e di Israele, deve garantire a priori gli interessi di Israele.”
Il principio alla base di ogni discussione sul “conflitto” nel dibattito statunitense è l’idea della sicurezza di Israele. Questa enfasi sulla sicurezza ha due aspetti non detti: che tale sicurezza è costantemente sotto minaccia, costantemente “assediata” (nonostante l’incontestabile superiorità militare israeliana nella regione) e che tale sicurezza sia la principale preoccupazione degli Stati Uniti. Non viene mai direttamente affermato che alle vite israeliane, in questo modo di raccontare le cose, sia attribuito un valore maggiore di quelle palestinesi. E’ solo che nella discussione sulla sicurezza israeliana, la sicurezza palestinese non sembra mai emergere come problema.
Il secondo aspetto chiave di questa narrazione è il posto dato per scontato degli Stati Uniti al suo centro. Dopotutto quando Rabin e Arafat si sono scambiati la famosa stretta di mano, è stato alla Casa Bianca, con Bill Clinton che sorrideva in mezzo a loro. Analogamente, l’ugualmente famosa stretta di mano tra Sadat e Begin sorvegliata da Jimmy Carter e persino le strette di meno (dichiaratamente meno frequente e meno amichevoli) tra Netanyahu e Abbas, dirette da un Obama chiaramente teso.
Una possibilità sollevata dall’attuale dibattito all’ONU, quale che ne sia il risultato, è che sia contestato questo ruolo dato per scontato degli Stati Uniti al centro di tutte le cose. L’assurdità di questa centralità percepita è stata messa in risalto molto bene da Mouin Rabbani che osserva che nel dibattito dominante nei media statunitensi, la decisione della leadership palestinese di rivolgersi all’ONU, che è “la definizione stessa del multilateralismo” è stata presentata in continuazione come “una mossa unilaterale, e perciò illegittima.” In forza dello stesso contorto ragionamento, come ha chiarito il discorso di Obama all’ONU, l’unica alternativa percorribile a questo supposto “unilateralismo” da parte della dirigenza palestinese consisteva nel “bilateralismo” rappresentato da negoziati diretti. Non pare necessario proclamare ad alta voce che tali negoziati (parte del “processo di pace” che è costantemente invocato anche se attualmente non esiste alcun processo del genere) sarebbero condotti sotto l’egida del governo USA.
Il mio proposito non è di prendere posizione sul dibattito all’ONU in se stesso. Concordo con quelli che suggeriscono che il riconoscimento dell’ONU potrebbe presentare certi vantaggi strategici, particolarmente nel campo della legge internazionale (anche se, come nota Massad, il problema in passato non è stato la mancanza di strumenti legali internazionali con cui contrastare le azioni di Israele, bensì piuttosto il fallimento delle istituzioni internazionali nel far valere ogni genere di sanzione legale contro Israele, in larga misura per l’intervento degli Stati Uniti per garantire l’impunità israeliana). Ma concordo anche fortemente con il suggerimento di Noura Erakat che la strategia dell’ONU viene proposta da una dirigenza palestinese che, mentre pretende di rappresentare il popolo palestinese nel suo complesso, ha rifiutato di prendere parte a qualsiasi tipo di processo realmente democratico che consentisse la partecipazione popolare a questo tipo di decisioni strategiche. Così la questione vera, indipendentemente dal risultato all’ONU, sarà, come è sempre stata, la natura della lotta popolare in corso del popolo palestinese per la giustizia e l’autodeterminazione.
E’ in questo contesto che vorrei vedere una discussione rinvigorita sulle forme di solidarietà che saranno richieste nei giorni a venire. In particolare su quale tipo di solidarietà può cominciare a operare contro i baluardi della narrativa dominante sul “conflitto” negli USA: l’enfasi sulla condizione di vittima di Israele e dunque sul primato delle sue necessità di sicurezza, e il ruolo dato per scontato degli USA come centrali nella situazione di Israele-Palestina.
Un altro modo di porre la questione sarebbe: quale tipo di solidarietà può contribuire a far progredire gli obiettivi che Rabbani considera come i risultati potenziali più positivi che possono seguire ai dibattiti all’ONU? Nelle sue parole:
“Due decenni di negoziati non hanno ottenuto nulla ad eccezione dell’ulteriore consolidamento del controllo di Israele sui territori occupati in gran parte a motivo del costante sostegno statunitense all’impunità israeliana. E’ perciò ora di un approccio alternativo e più efficace alla soluzione di questo conflitto e all’ottenimento di una credibile sistemazione a due stati. Dato il sistematico fallimento della diplomazia bilaterale israelo-palestinese sotto la sponsorizzazione unilaterale statunitense, riportare la Questione della Palestina – in tutte le sue dimensioni – al consesso multilaterale delle Nazioni Unite è un primo passo essenziale. Possono, e devono, essere sollevate questioni serie sul modo in cui ciò viene affrontato dalla dirigenza palestinese. Ma l’era in cui gli USA e altri paesi occidentali dichiarano sostegno al principio dello stato palestinese mentre lo minano interamente nella pratica deve arrivare alla fine.”
Parlando dall’interno del contesto USA vorrei porre questa come la domanda su come possiamo lavorare per rimuovere in modo più efficace l’influenza USA dall’equazione, o al minimo diminuire il coinvolgimento USA, specialmente quando tale coinvolgimento implica la garanzia dell’impunità israeliana e il finanziamento delle atrocità israeliane.
Ciò significa rivedere i nostri programmi intellettuali e attivistici e ripensare i modi della solidarietà che possano essere più efficaci nelle nuove lotte che nasceranno. Ad esempio il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) è stato senza dubbio il modo più eccitante ed efficace di solidarietà internazionale degli ultimi anni. Una delle realizzazioni chiave del BDS (tra molte altre) è stato il sollevare la questione dell’immunità israeliana e il costringere i singoli (particolarmente nel loro ruolo di consumatori) ad affrontare le proprie implicazioni nelle atrocità commesse dal governo di Israele e finanziate e consentite dagli USA e da altri governi.
In questo il movimento BDS è stato un successo ineguagliabile. Ma, almeno negli USA, questi sforzi non hanno (ancora) determinato importanti cambiamenti nel funzionamento delle narrazioni dominanti riguardo Israele-Palestina. Vorrei anche sostenere che hanno in larga misura sostituito altri tipi di azioni mirate più direttamente al ruolo del governo USA nell’avallare le azioni di Israele. Penso che la descrizione di Adam Shapiro dell’evoluzione delle strategie della solidarietà negli Stati Uniti nel corso dell’ultimo decennio sia largamente accurata:
“Negli Stati Uniti … esercitare pressioni sui dirigenti eletti sembra tanto impossibile quanto privo di significato, dato il vasto sostegno a Israele del governo USA (e dei soldi dei contribuenti). Mentre gruppi come Stop US Taxpayer Aid to Israel (SUSTAIN) [Basta agli aiuti dei contribuenti a Israele – SOSTIENI] , emersi nel 2000 e 2001 sono rimasti privi di energia a metà del decennio, nel 2009 c’erano gruppi vivaci e attivi per il boicottaggio, i disinvestimenti e le sanzioni, emergenti nelle comunità, città e nei campus universitari degli Stati Uniti.”
Senza voler in alcun modo suggerire che il lavoro del movimento BDS sia ridotto, può essere ora di rivedere, almeno negli USA, alcune di tali strategie iniziali, particolarmente quelle dirette ai finanziamenti USA ad Israele. Certamente la necessità di mantenere le azioni BDS internazionali (per non citare le forme di solidarietà internazionale al lavoro in Palestina) è cruciale. Ma può essere che gli atti di solidarietà più efficaci ora, dopo i movimenti della Primavera Araba e di ogni forma di lotta popolare che farà seguito alle strategie della dirigenza palestinese presso l’ONU, prendano la forma di una presa di posizione diretta contro il ruolo del governo USA nella regione, con l’obiettivo di neutralizzarla il più efficacemente possibile.
Per essere chiari: non si tratta di chiedere che il governo USA assuma un ruolo più “positivo” in Israele-Palestina, o nella regione più in generale. Si tratta di lavorare per rimuovere l’influenza USA dalla regione, nella misura in cui tale influenza è generalmente consistita nel sostenere gli interessi USA a spese degli interessi e delle aspirazioni della maggioranza della popolazione che vive là. Questo processo è, ovviamente, già cominciato grazie alle rivolte della Primavera Araba; di qui la ripetizione dei racconti di crisi nei media statunitensi, il tormento per i “tumultuosi” cambiamenti in corso nella regione e l’aperta dichiarazione di paura per gli effetti che queste rivolte popolari avranno sugli interessi e l’influenza USA. La solidarietà, in questo caso, consisterebbe nel fare tutto il possibile per accelerare questo processo, per “avvicinare il giorno della liberazione”, per citare il titolo del saggio di Shapiro.
Mentre scrivevo questo, ho appreso dell’esecuzione di Troy Davis da parte dello stato della Georgia, dopo che la sospensione dell’esecuzione era stata negata dalla Corte Suprema USA e dopo che il presidente Obama si era rifiutato di intervenire sul caso. Secondo un portavoce della Casa Bianca, il presidente aveva deciso che “non è corretto” coinvolgersi in specifici casi statali”. E’ significativo che questo orribile errore giudiziario sia stato compiuto dal sistema legale statunitense solo poche ore dopo che il presidente degli Stati Uniti si era presentato davanti all’ONU per dare lezioni al mondo su metodi corretti attraverso i quali i palestinesi dovrebbero, o non dovrebbero, perseguire la giustizia. Coinvolgersi in questo “specifico caso statale” della Palestina è, apparentemente, molto appropriato, secondo il presidente Obama.
Quello che accadrà all’ONU nei prossimi giorni resta da vedere. Nel frattempo la lotta per la giustizia in Israele-Palestina, e in tutta la regione, continua. Qui, nel ventre della bestia, come sempre, c’è del lavoro da fare.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
Fonte: Jadaliyya
Traduzione di Giuseppe Volpe