• Amici
  • Archivio 2000 – 2010
  • Archivio 2011
  • Archivio Wikileaks
  • Autenticazione
  • Bacheca
  • Contatto
  • Elenco iscritti
  • Files
  • Forum
  • Home
  • Libri
  • Modifica profilo
  • Newsletter
  • Parecon
  • Posta interna
  • Profilo
  • Registrazione
  • Z Magazine
  • Z men!

Z NET Italy

~ Lo spirito della resistenza è vivo!

Z NET Italy

Archivi tag: Ahmadinejad

Guerra in Libia: la domanda chiave

10 sabato Dic 2011

Posted by Redazione in Africa, Diana Johnstone

≈ Lascia un commento

Tag

Ahmadinejad, al-Jazeera, Arabia Saudita, Assad, Auschwitz, Bahrain, Bengasi, Bernard Kouchner, Bernard-Henry Lévy, Dresda, Francia, genocidio, Gheddafi, Hiroshima, Human Rights Watch, Ian Williams, Inghilterra, intervento umanitario, Julien Teil, Kosovo, Le Monde, libia, massacro di civili, mediazione, MIchael Bérubé, MSF, Nagasaki, NATO, NIcolas Sarkozy, primavera araba, Qatar, R2P, rivolta, Rony Brauman, seconda guerra mondilale, Slimane Bouchuiguir, Tom Malinowski, Tribunale di Norimberga, usa

di Diana Johnstone  -8 dicembre 2011

In questi giorni i guerrieri umanitari alzano la cresta, grazie alla vittoria che hanno proclamato in Libia. L’unica superpotenza mondiale, con il sostegno morale, militare e mercenario dell’emirato del Qatar, amante della democrazia, e delle potenze imperialiste storiche, Inghilterra e Francia, è stata, non sorprendentemente, capace di schiacciare in soli sette mesi il governo esistente di un paese scarsamente popolato dell’Africa del Nord. Il paese è stato violentemente “liberato” e lasciato alla mercé di chi voglia appropriarsene. Chi prende quali pezzi di esso, tra le milizie armate, le tribù e i jihadisti islamici, è cosa che ai media e agli umanitari occidentali non interessa più di quanto interessasse loro la vita in Libia prima che il canale della televisione del Qatar, Al Jazeera, stimolasse il loro zelo crociato a febbraio, mediante rapporti non documentati di imminenti atrocità.

La Libia può riprecipitare nell’oscurità mentre i campioni occidentali della distruzione si accaparrano le luci della ribalta. Per dare un po’ di ulteriore sapore al proprio autocompiacimento, concedono un po’ di attenzione derisoria ai poveri sciocchi che non si sono uniti alla fanfara.

Negli Stati Uniti, e ancor più in Francia, i guastafeste contro il partito della guerra sono stati pochi di numero e quasi totalmente ignorati.  Ma questa è un’occasione buona come qualsiasi altra per isolarli ancora di più.

Nel suo articolo “La Libia e la sinistra: Bengasi e dopo”, Michel Bérubé coglie questa occasione per fare un unico mazzo di diversi critici della guerra etichettandoli come “la sinistra manichea” che, secondo lui, si limita a reagire con un’opposizione automatica a qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti. Lui e quelli come lui, invece, riflettono profondamente e scoprono motivi profondi per bombardare la Libia.

Comincia così:

“ A fine marzo 2011 è stato evitato un massacro; non solo un massacro qualunque, attenzione! Perché se Gheddafi e le sue forze fossero riusciti a reprimere la ribellione libica in quella che era la sua roccaforte, Bengasi, le ricadute si sarebbero riverberate ben oltre la Libia orientale.  Come ha scritto Tom Malinowski, di Human Rights Watch,  ‘La vittoria di Gheddafi – parallelamente alla caduta del presidente egiziano Hosni Mubarak – avrebbe segnalato agli altri governi autoritari, dalla Siria all’Arabia Saudita alla Cina, che se si negozia con i dimostranti si perde, ma se li si uccide si vince … “

“ L’attacco guidato dalla NATO alle forze di Gheddafi ha fatto perciò molto di più che prevenire una catastrofe umanitaria in Libia, anche se si dovrebbe riconoscere che già questa sarebbe stata da sola una giustificazione sufficiente.  Ha contribuito a mantenere viva la Primavera Araba … “

Ora, tutto ciò è del tutto ipotetico.

Quale che sia stato il massacro evitato a marzo, altri massacri lo hanno sostituito successivamente.

Cioè, se reprimere una ribellione armata implica un massacro, anche una ribellione armata vittoriosa implica un massacro e dunque si tratta di scegliere tra massacri.

E se le proposte di mediazione latinoamericane e africane fossero state accolte, l’ipotetico massacro avrebbe potuto essere evitato con altri mezzi, persino se la ribellione armata fosse stata sconfitta; un’ipotesi che il partito guerrafondaio si è rifiutato di prendere in considerazione dal bell’inizio.

Ma ancor più ipotetica è l’idea che il fallimento della ribellione libica avrebbe danneggiato fatalmente la ‘Primavera Araba’.  Questa è una pura congettura senza uno straccio di prova a sostegno.

I governi autoritari non avevano certamente bisogno di una lezione che insegnasse loro come gestire i manifestanti, cosa che alla fin fine dipende ai loro mezzi politici e militari.  Mubarak ha perso non perché ha negoziato con i dimostranti, bensì perché il suo esercito finanziato dagli Stati Uniti ha deciso di scaricarlo. In Bahrain l’Arabia Saudita contribuisce a uccidere i dimostranti. In ogni caso i governanti arabi autoritari, non ultimo l’emiro del Qatar, odiavano Gheddafi, che aveva l’abitudine di denunciare faccia a faccia la loro ipocrisia nei consessi internazionali.  Potevano soltanto prendere coraggio dalla sua caduta.

Questi argomenti a favore della guerra appartengono alla classe delle “armi di distruzione di massa” in Iraq o della minaccia di “genocidio” in Kosovo: pericoli ipotetici utilizzati per giustificare una guerra preventiva.  La “guerra preventiva” è quella che permette a una superpotenza militare, che è troppo potente ormai per doversi difendere da attacchi stranieri, di attaccare comunque altri paesi.  Altrimenti, che ragione c’è di avere un esercito così superbo se non possiamo utilizzarlo? Come disse una volta Madeleine Albright.

Più avanti nel suo articolo, Bérubé cita il suo compagno di guerre umanitarie Ian Williams, che ha sostenuto che la litania di obiezioni all’intervento in Libia ‘si sottrae alla domanda cruciale: il mondo avrebbe dovuto lasciare che i civili libici morissero per mano di un tiranno?’ O, in altre parole, la domanda chiave è: ‘Quando un gruppo di persone che sta per essere massacrato chiede aiuto, cosa si fa?’

Con questa scelta di domande ‘cruciali’ o ‘chiave’ che fanno appello al senso di colpa, Bérubé e Williams spazzano via tutte le varie obiezioni legali, etiche e politiche all’attacco NATO contro la Libia.

Ma niente ha autorizzato questi signori a decidere quale sia la ‘domanda chiave’. In realtà la loro ‘domanda chiave’ solleva una quantità di altre domande.

Prima di tutto: chi è quel gruppo di persone? Sta davvero per essere massacrato? Qual è la fonte dell’informazione? I resoconti potrebbero essere esagerati? O potrebbero addirittura essere inventati, per far sì che le potenze straniere intervengano?

Un giovane regista francese, Julien Teil, ha filmato una notevole intervista nella quale il segretario generale della Lega Libica per i Diritti Umani, Slimane Bouchulguir, ammette candidamente di non “non avere prove” della accuse da lui avanzate davanti alla Commissione dell’ONU per i Diritti Umani che ha portato all’immediata espulsione del rappresentante libico e, da lì, alla Risoluzione dell’ONU che ha autorizzato quello che si è trasformato nella guerra della NATO per il cambiamento di regime.  In realtà non è mai stata prodotta alcuna prova del “bombardamento di civili libici” denunciato da Al Jazeera, il canale televisivo finanziato dall’Emiro del Qatar, che è emerso dalla ‘guerra di liberazione’, cui il Qatar ha partecipato,  con una larga fetta di  affari nel settore  petrolifero libico.

Limitiamoci a immaginare quanti gruppi scontenti di minoranza esistono nei paesi di tutto il mondo e che sarebbe felicissimi di avere la NATO al loro fianco per portarli al potere mediante bombardamenti.  Se tutto ciò che dovessero fare per ottenerlo fosse trovare un canale televisivo che trasmetta le loro dichiarazioni di “stare per essere massacrati”, la NATO sarebbe tenuta occupata per alcuni dei prossimi decenni, con grande gioia degli interventisti umanitari.

Un tratto saliente di questi ultimi è la loro credulità selettiva. Da un lato scartano automaticamente tutte le dichiarazioni ufficiali dei governi “autoritari” come falsa propaganda. Dall’altro, sembrano non aver mai notato che le minoranze hanno interesse a mentire riguardo alle proprie condizioni al fine di conquistarsi l’appoggio esterno.  Ho osservato ciò in Kosovo. Per la maggior parte degli albanesi era una questione di dovere virtuoso nei confronti del proprio gruppo nazionale raccontare qualsiasi cosa potesse conquistare il sostegno straniero alla loro causa.  La verità non era un criterio importante.  Non c’era bisogno di biasimarli per questo ma non c’era nemmeno bisogno di credere loro.  La maggior parte dei giornalisti inviati in Kosovo, sapendo cosa i loro direttori avrebbero gradito, basava i propri dispacci su qualsiasi racconto fosse narrato loro da albanesi ansiosi di ottenere che la NATO strappasse il Kosovo alla Serbia e lo consegnasse a loro.  Il che  è quel che è avvenuto.

Di fatto è saggio essere prudenti riguardo a quello che dice ognuna delle parti nei conflitti etnici o religiosi, specialmente in paesi stranieri con i quali non si abbia un’intima familiarità.  Forse le persone mentono raramente nell’omogenea Islanda, ma in gran parte del mondo mentire è un modo normale per promuovere gli interessi di un gruppo.

La toccante ‘domanda chiave’ riguardo al modo di reagire quando un ‘gruppo di persone sta per essere massacrato’ è un trucco retorico per spostare il problema dallo spazio della realtà contraddittoria a quella della finzione puramente moralistica.  Implica che ‘noi’, in occidente, compresi i più passivi spettatori televisivi, siamo in possesso della conoscenza e dell’autorità morale per giudicare e agire in ogni evento concepibile in ogni parte del mondo.  Non ne siamo in possesso.  E il problema è che le istituzioni intermediarie, che dovrebbero possedere la prescritta conoscenza e autorità morale, sono state e sono indebolite e sovvertite dagli Stati Uniti nella loro insaziabile inseguimento di addentare più di quanto possano inghiottire.  Poiché gli Stati Uniti dispongono della potenza militare, promuovono la potenza militare come soluzione a tutti i problemi.  Diplomazia e mediazione sono sempre più trascurate e disdegnate.  Non si tratta neppure di una politica deliberata, meditata, bensì di una conseguenza automatica di sessant’anni di incremento dell’esercito.

La vera domanda chiave

In Francia, il cui presidente Nicolas Sarkozy ha lanciato la crociata anti-Gheddafi, l’unanimità a favore della guerra è stata maggiore che negli Stati Uniti. Una delle poche personalità francesi di spicco a opporvisi è Rony Brauman, un ex presidente di Médecins Sans Frontières [MDF – medici senza frontiere] e un critico dell’ideologia dell’ ‘intervento umanitario’ promossa da un altro ex leader di MDF, Bernard Kouchner. Il numero del 24 novembre di Le Monde ha riportato un dibattito tra Brauman e il principale promotore della Guerra, Bernard Henry Lévy, che ha fatto effettivamente emergere la vera domanda cruciale.

Il dibattito è iniziato con alcune schermaglie sui fatti. Brauman, che inizialmente aveva appoggiato l’idea di un intervento limitato per proteggere Bengasi, ha ricordato di aver rapidamente cambiato idea dopo essersi reso conto che le minacce di cui si parlava erano una questione di propaganda, non di realtà osservabili.  Gli attacchi aerei contro i dimostranti di Tripoli erano un’ “invenzione di Al Jazeera”, osservava.

Al che Bernard Henri Lévy nel suo tipico stile da sfacciato mentitore indignato: “Cosa? Un’invenzione di Al Jazeera? Come puoi, Rony Brauman, negare la realtà, cui tutto il mondo ha assistito,  di quei caccia in picchiata a mitragliare i dimostranti di Tripoli?” Chi se ne frega che nel mondo intero nessuno abbia visto alcunché di simile.  Bhernard Henry Lévy sa che qualsiasi cosa egli dica sarà ascoltata in televisione e letta sui giornali senza necessità di prove.  “Da una parte hai avuto un esercito super-armato, equipaggiato per decenni e preparato per una rivolta popolare. Dall’altra parte c’erano i civili disarmati.”

Quasi nulla di ciò era vero.  Gheddafi, temendo un colpo di stato militare, aveva sempre mantenuto relativamente debole il proprio esercito. Il tanto denunciato equipaggiamento militare occidentale non è mai stato utilizzato e il suo acquisto, così come gli acquisti di armi della maggior parte dei paesi ricchi di petrolio, è stato più un favore ai fornitori occidentali che un contributo utile alla difesa.  Inoltre le rivolte in Libia, diversamente dalle proteste nei paesi vicini, erano notoriamente armate.

Ma a parte le questioni di fatto, il tema cruciale dibattuto tra i due francesi è stato una questione di principio: la guerra è o non è una cosa buona?

Richiesto circa il suo parere sul fatto che la guerra in Libia segni la vittoria del diritto d’intervento, Bauman ha risposto:

“Sì, indubbiamente … Alcuni si rallegrano di tale vittoria. Quanto a me la deploro, perché vedo che c’è una rivalutazione della guerra come mezzo per risolvere i conflitti.”

Brauman ha concluso: “A parte la superficialità con cui il Consiglio Nazionale di Transizione (NTC), la maggior parte dei cui componenti è sconosciuta, è stato immediatamente presentato da Bernard Henri Lévy come un movimento democratico laico, c’è una certa ingenuità nel voler ignorare il fatto che la guerra crea dinamiche favorevoli ai radicale a detrimento dei moderati. Questa guerra non è finita.

“Nell’operare la scelta di militarizzare la rivolta, il NTC ha concesso un’opportunità ai più violenti.  Appoggiando quella scelta in nome della democrazia la NATO ha assunto una grave responsabilità al di là dei propri mezzi.  E’ perché la guerra è in sé stessa una cosa cattiva che non dovremmo scatenarla …”

Bernard Henri Lévy ha avuto l’ultima parola: “La guerra non è una cosa cattiva di per sé! Se rende possibile evitare una violenza maggiore, si tratta di un male necessario … la teoria della guerra giusta sta tutta qui.”

L’idea che questo principio esista è “come una spada di Damocle sulla testa dei tiranni che si considerano padroni del proprio popolo; è già un progresso formidabile”.  Bernard Henri Lévy è reso felice dal pensiero che, a partire dalla fine della guerra in Libia, Bashir Al Assad e Mahmoud Ahmadinejad dormano meno saporitamente.  In breve, si rallegra alla prospettiva di ancora altre guerre.

E così eccoci alla domanda chiave, a quella cruciale: “La guerra è una cosa cattiva di per sé?” Brauman dice che lo è e la stella mediatica nota come BHL dice che non lo è “se rende possibile evitare una violenza maggiore”.  Ma quale violenza è maggiore della guerra? Quando gran parte dell’Europa era ancora in rovine dopo la seconda guerra mondiale, il Tribunale di Norimberga pronunciò il suo verdetto finale proclamando:

“La guerra è essenzialmente un male.  Le sue conseguenze non restano confinate ai soli stati belligeranti ma colpiscono il mondo intero.  Scatenare una guerra d’aggressione, perciò, è non solo un crimine internazionale; è il crimine internazionale supremo che si differenzia dagli altri crimini di guerra solo perché riassume in sé il cumulo del male complessivo.”

E in realtà la seconda guerra mondiale riassunse in sé “cumulo del male complessivo”: la morte di 20 milioni di cittadini sovietici, Auschwitz, il bombardamento di Dresda, Hiroshima e Nagasaki e molto, molto di più.

Sessant’anni dopo  per i cittadini statunitensi e per quella dell’Europa occidentale, che vivono relativamente confortevolmente, con il proprio narcisismo lusingato dall’ideologia dei “diritti umani”, è facile contemplare lo scatenamento di guerre “umanitarie” per “salvare vittime”, guerre in cui essi non corrono rischi maggiori che dedicandosi a un videogioco. Il Kosovo e la Libia sono state guerre umanitarie perfette: niente perdite, nemmeno un graffio, per i bombardieri NATO e nemmeno la necessità di contemplare il bagno di sangue sul terreno.  Con lo sviluppo della guerra mediante droni, una guerra a distanza così sicura apre prospettive infinite a “interventi umanitari” esenti da rischi, che possono consentire a celebrità occidentali come Bernard Henri Lévy di pavoneggiarsi posando da campioni appassionati di vittime ipotetiche di massacri ipotetici ipoteticamente evitati da guerre vere.

La ‘domanda chiave’?  Ci sono molte domande importanti sollevate dalla guerra in Libia e molti motivi validi e importanti per essersi opposti ad essa e continuare ad opporsi.  Come la guerra in Kosovo, ha lasciato un’eredità di odio nel paese preso a bersaglio le cui conseguenze possono avvelenare per generazioni le vite delle persone che vi vivono.  Ciò, ovviamente, non è di speciale interesse per la gente dell’occidente che non presta attenzione al danno umano causato dalle proprie uccisioni umanitarie.  Si tratta soltanto del risultato meno visibile di quelle guerre.

Per parte mia, il problema chiave che motiva la mia opposizione alla guerra in Libia è ciò che essa significa per il futuro degli Stati Uniti e del mondo. Per ben oltre un secolo gli Stati Uniti sono stati fagocitati dal proprio complesso militare-industriale, che ne ha reso infantile il senso morale, ne ha dilapidato la ricchezza e ne ha minato l’integrità politica.  I nostri capi politici non sono capi politici veri, ma sono stati ridotti al ruolo di apologeti di questo mostro, che ha un impulso burocratico per conto proprio: proliferare le basi militari in tutto il mondo, cercare e persino creare servili stati vassalli, provocare inutilmente altre potenze come la Russia e la Cina. Il dovere politico principale degli statunitensi e dei loro alleati europei dovrebbe consistere nel ridurre e smantellare questa gigantesca macchina militare prima che ci porti inavvertitamente al “supremo crimine internazionale” del non ritorno.

Dunque la mia principale opposizione alla recente guerra deriva precisamente dal fatto che, in un momento in cui erano esitanti persino alcuni a Washington, gli “interventisti umanitari” come Bernard Henry Lévy, con la loro sofistica pretesa di “proteggere i civili innocenti” sulla base del principio “R2P” *  hanno alimentato e incoraggiato questo mostro offrendogli il “frutto a portata di mano” di una facile vittoria in Libia. Questo ha reso più difficile di quanto già non fosse la lotta per portare un’apparenza di pace e di sanità mentale nel mondo.

[* “R2P” : “La  Responsibility to Protect (RtoP or R2P)  [Responsabilità della Protezione] è una norma o insieme di principi basata sull’idea che la sovranità non è un privilegio, bensì una responsabilità. RtoP si concentra sulla prevenzione e l’interruzione di quattro crimini: genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e pulizia etnica, che pone sotto il termine generico complessivo di Atrocità di Massa. La Responsabilità della Protezione può essere considerata come composta da tre parti:

1. Lo Stato ha la responsabilità di proteggere la propria popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, dai crimini contro l’umanità e dalla pulizia etnica (atrocità di massa).

2.Se uno  Stato non è in grado di proteggere da solo la propria popolazione, la comunità internazionale ha la responsabilità di assistere lo stato nel creare il proprio potenziale. Ciò può significare creare capacità di allerta, mediare conflitti tra partiti politici, rafforzare il settore della sicurezza, mobilitare forze di riserva e molte altre azioni.

3. Se uno stato  è manifestamente incapace di proteggere i propri cittadini da atrocità di massa e le misure pacifiche non funzionano, la comunità internazionale ha la responsabilità di intervenire, dapprima diplomaticamente, poi più coercitivamente e, come ultima risorsa, mediante la forza militare.

Fonte Wikipedia – traduzione mia – n.d.t.]

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/here-s-the-key-question-in-the-libyan-war-by-diana-johnstone

Fonte: Counterpunch

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Israele non attaccherà l’Iran. Punto e a capo.

10 giovedì Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Guerra al terrore, Uri Avnery

≈ Lascia un commento

Tag

Ahmadinejad, armi di distruzione di massa, bomba atomica, Ehud Barak, Eisenhower, Fiji, Grande Tel Aviv, guerra dello Yom Kippur, Gush Shalom, Haaretz, Hamas, Henry Kissinger, HEzbollah, iran, Isole Marshall, Knesset, Meir Dagan, Micronesia, missili, Mossad, Netanyahu, Palau, Palestine Chronicle, petrolio, piazza Rabin, Shin Bet, Stretto di Hormuz, Suez, usa

di Ury Avnery   – 9 novembre 2011

Tutti conoscono la scena dagli anni della scuola: un piccoletto litiga con un ragazzo più grande. “Tenetemi!” grida ai suoi compagni, “Prima che gli spezzi le ossa!”

Il nostro governo sembra comportarsi in questo modo.  Ogni giorno, su tutti i canali, urla che sta per spezzare le ossa all’Iran, nel giro di qualsiasi istante.

L’Iran sta producendo una bomba nucleare. Non possiamo permetterlo. E allora li bombarderemo fino a ridurli in briciole.

Benyamin Netanyahu lo dice in ciascuno dei suoi innumerevoli discorsi, compreso il suo discorso d’apertura della sessione invernale della Knesset.  Idem Ehud Barak.  Ogni commentatore che si rispetti (si è mai visto un commentatore che non si rispetti?) ne scrive.  I media amplificano lo strepito e la furia.

“Haaretz” riempie la prima pagina di foto dei sette ministri più importanti (il “settetto della sicurezza”) indicandone tre a favore dell’attacco e quattro contro.

Un proverbio tedesco dice: “Le rivoluzioni annunciate in anticipo non avvengono mai.” Lo stesso vale per le guerre.

Le questioni nucleari sono soggette a una censura militare molto stretta. Molto, molto stretta davvero.

Tuttavia il censore sembra sorridere benevolmente.  Lasciamo che i ragazzi, compreso il Primo Ministro e il Ministro della Difesa (il capo ultimo del censore) giochino la loro partita.

Il rispettato ex capo di lungo corso del Mossad, Meir Dagan, ha ammonito pubblicamente contro l’attacco, descrivendolo come “l’idea più stupida” che egli avesse mai sentito.  Ha spiegato di ritenere suo dovere ammonire contro di essa, in vista dei piani di Netanyahu e Barak.

Mercoledì c’è stato un vero e proprio diluvio di rivelazioni.  Israele ha sperimentato un missile che può portare una testata nucleare a più di 5.000 km di distanza, oltre dove sapete voi.  E la nostra aviazione ha appena completato esercitazioni in Sardegna, a una distanza maggiore di dove sapete voi.  E giovedì il Comando del Fronte Interno ha tenuto esercitazioni nell’intera Grande Tel Aviv, con le sirene che strillavano a più non posso.

Tutto questo sembra indicare che l’intero baccano è uno stratagemma.  Forse per spaventare e dissuadere gli iraniani.  Forse per spingere gli statunitensi ad azioni più estreme.  Forse coordinato in anticipo con gli statunitensi.  (Fonti inglesi, dal canto loro, hanno rivelato che la Real Marina si sta addestrando per appoggiare un attacco statunitense all’Iran).

E’ una vecchia tattica di Israele quella di agire come se stesse dando di matto  (“Il capo è impazzito” è un richiamo consueto nei nostri mercati, per suggerire che il fruttivendolo sta vendendo sottocosto). Non ascolteremo più gli Stati Uniti. Semplicemente bombarderemo e bombarderemo e bombarderemo.

Beh, siamo seri per un momento.

Israele non attaccherà l’Iran. Punto e a capo.

Alcuni possono pensare che io mi stia mettendo nei guai. Non avrei dovuto aggiungere almeno “probabilmente” o “quasi certamente”?

No, non lo farò. Ripeto categoricamente: Israele NON Attaccherà L’Iran.

Dall’avventura di Suez del 1956, quando il presidente Dwight D. Eisenhower trasmise un ultimatum che bloccò l’azione, Israele non ha mai intrapreso alcuna azione militare significativa senza aver ottenuto prima il consenso statunitense.

Gli USA sono l’unico sostenitore affidabile di Israele nel mondo (oltre, forse, alle Fiji, alla Micronesia, alle Isole Marshall e a Palau). Distruggere questo rapporto significa tagliare l’ancora di salvezza. Per farlo bisogna essere più che solo un po’ fuori di testa. Bisogna essere pazzi furiosi.

Inoltre Israele non può combattere una guerra senza l’illimitato sostegno statunitense, perché i nostri aerei e le nostre bombe vengono dagli Stati Uniti.  Durante una guerra abbiamo bisogno di forniture, parti di ricambio, diversi tipo di equipaggiamento.  Durante la guerra dello Yom Kippur, Henry Kissinger aveva un “treno aereo” che ci riforniva ventiquattr’ore al giorno.  E quella guerra probabilmente sembrerebbe una scampagnata in confronto a una guerra con l’Iran.

Guardiamo la carta geografica. Ciò, detto per inciso, è sempre raccomandato prima di cominciare qualsiasi guerra.

La prima caratteristica che colpisce l’occhio è l’angusto Stretto di Hormutz attraverso il quale passa un barile su tre del flusso di petrolio mondiale trasportato per mare.  Quasi l’intera produzione dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo, dell’Iraq e dell’Iran deve  superare le forche caudine di questa stretta rotta marittima.

“Stretta” è un eufemismo. L’intera larghezza di questa via d’acqua è di circa 35 km (o 20 miglia). E’ circa la distanza tra Gaza e Beer Sheva, che è stata superata la settimana scorsa dai missili primitivi della jihad islamica.

Appena il primo aereo israeliano entrasse nello spazio aereo iraniano, lo stretto verrebbe chiuso. La marina iraniana ha una quantità di navi lanciamissili, ma non ne avrà bisogno. Saranno sufficienti missili lanciati da terra.

Il mondo sta già barcollando sull’orlo dell’abisso.  La piccola Grecia sta minacciando di cadere e di portare con sé grossi pezzi dell’economia mondiale.  L’eliminazione di quasi un quinto delle forniture di petrolio alle nazioni industriali porterebbe a una catastrofe difficile addirittura da immaginare.

Aprire lo Stretto con la forza richiederebbe una grossa azione militare (compreso “mettere gli scarponi sul terreno”,  un’invasione terrestre) che eclisserebbe le disavventure statunitensi in Iraq e in Afghanistan. Gli USA possono permetterselo? Lo può la NATO? Israele stesso non fa parte della stessa lega.

Ma Israele sarebbe coinvolto moltissimo nell’azione, anche se solo dalla parte passiva.

In una rara dimostrazione di unità, tutti i capi dei servizi israeliani, compresi i capi del Mossad e dello Shin Bet, si oppongono pubblicamente all’intera idea. Possiamo solo immaginare il perché.

Non so se l’operazione sia affatto possibile.  L’Iran è un paese molto vasto, circa delle dimensioni dell’Alaska; le installazioni nucleari sono ampiamente sparpagliate e in larga misura sotterranee.  Anche con le speciali bombe a penetrazione profonda degli USA, l’operazione potrebbe portare a uno stallo degli sforzi iraniani – quali che siano – solo per pochi mesi. Il prezzo potrebbe essere troppo alto per un risultato così magro.

Inoltre è quasi certo che con l’inizio di una guerra i missili grandinerebbero su Israele, non solo dall’Iran, ma anche da Hezbollah e forse anche da Hamas.  Non abbiamo una difesa adeguata per le nostre cittadine.  La quantità di morti e distruzioni sarebbe proibitiva.

Improvvisamente i media sono pieni di storie circa i nostri tre sottomarini, che presto passano a cinque o anche sei, se i tedeschi saranno comprensivi e generosi.  E’ detto apertamente che essi ci darebbero la capacità di un “secondo attacco”, se l’Iran utilizzasse le sue (ancora inesistenti) testate nucleari contro di noi.  Ma gli iraniani possono anche usare armi chimiche e altre armi di distruzione di massa.

Poi c’è il prezzo politico. Ci sono un mucchio di tensioni nel mondo islamico. L’Iran è tutt’altro che popolare in molte parti di esso. Ma un assalto israeliano a uno dei principali paesi mussulmani unirebbe istantaneamente sunniti e sciiti, dall’Egitto alla Turchia al Pakistan e oltre. Israele diventerebbe una villa in una giungla in fiamme.

Ma il parlare di guerra può servire a molti scopi, inclusi quelli politici interni.

Sabato scorso il movimento di protesta sociale si è rifatto vivo. Dopo una pausa di due mesi, una massa di gente si è riunita nella piazza Rabin di Tel Aviv. La cosa è stata particolarmente notevole per quello stesso giorno stavano cadendo missili sulle città vicine alla Striscia di Gaza. Fino ad ora in una situazione simile le dimostrazioni erano sempre state annullate.  I problemi della sicurezza hanno la priorità su ogni altra cosa. Non questa volta.

Molti, poi, ritenevano che la festa per Gilad Shalit avrebbe cancellato la protesta dalla mente del pubblico. Non ho ha fatto.

Al riguardo è successo qualcosa di degno di nota: i media, dopo essersi schierati per mesi con il movimento di protesta, hanno cambiato atteggiamento. Improvvisamente tutti, compreso Haaretz, gli piantano coltelli nella schiena. Come eseguendo un ordine, tutti i giornali il giorno dopo hanno scritto che “più di 20.000” avevano preso parte [alla manifestazione].

Beh, io c’ero, e ho realmente qualche competenza su queste cose.  C’erano almeno 100.000 persone là, per la maggior parte giovani. A fatica potevo muovermi.

La protesta non si è esaurita, come affermano i media.  Lungi da ciò.  Ma quale mezzo migliore per distogliere l’attenzione della gente dalla giustizia sociale che parlare di “pericolo esistenziale”?

Inoltre, le riforme rivendicate dai manifestanti richiederebbero  fondi. Considerata la crisi finanziaria globale, il governo si oppone strenuamente ad aumentare il bilancio statale per timore di danneggiare la propria valutazione creditizia.

E allora da dove potrebbero arrivare i soldi? Ci sono solo tre fonti plausibili: gli insediamenti (chi oserebbe?), gli ortodossi (idem!) e l’enorme bilancio militare.

Ma alla vigilia della guerra più cruciale della nostra storia, chi toccherebbe le forze armate? Abbiamo bisogno di ogni shekel per comprare altri aerei, altre bombe, altri sottomarini. Le scuole e gli ospedali, ahimè, devono aspettare.

E dunque Dio benedica Mahmoud Ahmadinejad. Dove saremmo senza di lui?

Uri Avner è un attivista pacifista israeliano ed ex membro della Knesset.  E’ il fondatore di Gush Shalom. Ha offerto questo articolo a PalestineChronicle.com.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/israel-will-not-attack-iran-period-by-uri-avnery

Fonte: Palestine Chronicle

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

Condividi:

  • Facebook
  • Twitter
  • Stampa
  • E-mail

Mi piace:

Mi piace Caricamento...

Archivio per data

  • dicembre 2011 (59)
  • novembre 2011 (94)
  • ottobre 2011 (54)
  • settembre 2011 (11)
  • luglio 2011 (2)
  • aprile 2011 (4)
  • marzo 2011 (1)
  • ottobre 2009 (1)
  • aprile 2008 (1)
  • agosto 2005 (2)
  • febbraio 2004 (1)
  • maggio 2000 (1)
  • gennaio 2000 (2)

Categorie

  • Afghanistan
  • Africa
  • Ahmed Maher
  • America
  • Amira Hass
  • Amnesty International
  • Amy Goodman
  • Anarchia
  • Ann Jones
  • Anne-Marie O'Reilly
  • Anonimo
  • Anthony Alessandrini
  • Arundhati Roy
  • Asia
  • Autori
  • Autori vari
  • Barbara Ehrenreich
  • Bashir Abu-Manneh
  • Ben Schreiner
  • Benjamin Dangl
  • Benjamin Loehrke
  • Bertrand Russell
  • Bill Fletcher jr
  • Bill Quigley
  • Boaventura de Sousa Santos
  • Bolivia
  • Boris Kagarlitsky
  • Carlos Latuff
  • Chris Maisano
  • Cindy Milstein
  • Conn Hallinan
  • Corea del Sud
  • Damian Carrington
  • Dan Iles
  • Danny Schechter
  • David Graeber
  • David Harvey
  • David Porter
  • David Swanson
  • Dean Baker
  • Deena Stryker
  • Diana Johnstone
  • Dick Meister
  • Ecologia
  • Economia
  • Ed Lewis
  • Edward Ellis
  • Egitto
  • Eric Walberg
  • Ethan Miller
  • Europa
  • Eva Bartlett
  • Eva Golinger
  • Farooq Sulehria
  • Federico Fuentes
  • Fidel Castro
  • Frances Fox Piven
  • Frauke Decoodt
  • Gar Alperovitz
  • Gilbert Achcar
  • Giuseppe Volpe
  • Grecia
  • Greg Grandin
  • Guerra al terrore
  • Haggai Matar
  • Haiti
  • Howie Hawkins
  • Hugo Radice
  • Iraq
  • Irene Gendzier
  • Israele
  • Italia
  • Jack Rasmus
  • Jean Sanuk
  • Jenny Brown
  • Jerome E. Roos
  • Jim Lobe
  • John Feffer
  • John Pilger
  • Jonathan Cook
  • Kanya D'Almeida
  • Kim Scipes
  • Lauren Carasik
  • Lee Sustar
  • Libano
  • Libia
  • Lindsey Hilsum
  • Mark Ames
  • Mark Engler
  • Mark Weisbrot
  • Mark Weisbrot
  • Michael Albert
  • MIchael Hudson
  • Michael T. Klare
  • mike carey
  • MIke Davis
  • Mike Epitropoulos
  • Mike Ferner
  • Mona el-Ghobashy
  • Mondo
  • Mondo Z
  • Mostafa Ali
  • Munir Chalabi
  • Mustafa Barghouthi
  • Nancy Elshami
  • Nelson P. Valdés
  • Neve Gordon
  • Nicholas Paphitis
  • nick turse
  • Nikos Raptis
  • Nnimmo Bassey
  • Noam Chomsky
  • Noel Sharkey
  • Norman Finkelstein
  • OWS
  • Pakistan
  • Palestina
  • Pam Martens
  • Pamela Sepulveda
  • Parecon
  • Patrick Cockburn
  • Paul Krugman
  • Paul Street
  • Pervez Hoodbhody
  • Peter Marcuse
  • Phyllis Bennis
  • Raul Zibechi
  • Rebecca Solnit
  • Richard Falk
  • Richard Seymour
  • Richard Wolff
  • Robert Fisk
  • Robert L. Borosage
  • Robert Naiman
  • Robert Reich
  • Robert Scheer
  • Robin Hahnel
  • Russ Wellen
  • Russia
  • Samer al-Atrush
  • Sarah Knuckey
  • Satoko Oka Norimatsu
  • Saul Landau
  • Serge Halimi
  • Seumas Milne
  • Shalini Adnani
  • Shamus Cooke
  • Sharif Abdel Kouddous
  • Simon Basketter
  • Siria
  • Steve Early
  • Steven Greenhouse
  • Taiwan
  • Tariq Ali
  • Ted Glick
  • Tim Dobson
  • Tom Engelhardt
  • Tom Hayden
  • Turchia
  • Una Spenser
  • Uri Avnery
  • Ursula Huws
  • Usa
  • Vandana Shiva
  • Victor Grossman
  • Video
  • Warren Clark
  • WikiLeaks
  • William Blum
  • William Scott
  • Yotam Marom

Autori

Afghanistan Africa America Amira Hass Amy Goodman Anarchia Ann Jones Anthony Alessandrini Asia Autori Autori vari Barbara Ehrenreich Bolivia Boris Kagarlitsky Corea del Sud Danny Schechter David Graeber Dean Baker Ecologia Economia Egitto Ethan Miller Europa Federico Fuentes Fidel Castro Frances Fox Piven Gilbert Achcar Grecia Greg Grandin Guerra al terrore Haiti Iraq Italia John Pilger Jonathan Cook Libano Libia Mark Weisbrot Michael Albert Mondo Mustafa Barghouthi Nancy Elshami Neve Gordon Nicholas Paphitis nick turse Nikos Raptis Nnimmo Bassey Noam Chomsky Noel Sharkey Norman Finkelstein OWS Pakistan Palestina Pamela Sepulveda Pam Martens Parecon Patrick Cockburn Paul Krugman Paul Street Pervez Hoodbhody Phyllis Bennis Raul Zibechi Rebecca Solnit Richard Falk Richard Wolff Robert Fisk Robert L. Borosage Robert Naiman Robert Reich Robert Scheer Robin Hahnel Russia Samer al-Atrush Sarah Knuckey Satoko Oka Norimatsu Saul Landau Serge Halimi Seumas Milne Shalini Adnani Shamus Cooke Simon Basketter Siria Steve Early Tariq Ali Ted Glick Tim Dobson Tom Engelhardt Turchia Una Spenser Uri Avnery Ursula Huws Usa Vandana Shiva Video Warren Clark WikiLeaks William Blum William Scott Yotam Marom

Crea un sito o un blog gratuito su WordPress.com.

Annulla
loading Annulla
L'articolo non è stato pubblicato, controlla gli indirizzi e-mail!
Verifica dell'e-mail non riuscita. Riprova.
Ci dispiace, il tuo blog non consente di condividere articoli tramite e-mail.
Privacy e cookie: Questo sito utilizza cookie. Continuando a utilizzare questo sito web, si accetta l’utilizzo dei cookie.
Per ulteriori informazioni, anche sul controllo dei cookie, leggi qui: Informativa sui cookie
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: