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Archivi tag: Russia

Pakistan: anatomia di una crisi

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Asia, Conn Hallinan, Guerra al terrore

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Tag

A-130, Afghanistan, Alleanza del Nord, Apache, armi di precisione, Ashfaq Nadeem, Ashram Nader, attacchi chirurgici, Bonn, Boulder, CIA, Cina, confine, droni, fuoco amico, India, iran, Islamabad, Kabul, Karzai, Mullah Samiullah Rahmani, NATO, pakistan, pashtun, posti di confine, Russia, Shamsi, soldati pachistani uccisi, tagiki, talebani, usa, uzbeki, Volcano, Wajid Shamsul Hasan, Yang Jiechu

di Conn Hallinan  – 05 dicembre  2011

Successivamente agli attacchi della NATO del 26 novembre a due posti di
confine che hanno ucciso 24 soldati pachistani, ciò che ci si chiede è se
l’attacco sia stato un incidente nel “buio della guerra” o un colpo calcolato
diretto a silurare il colloqui di pace in Afghanistan.  Considerato che l’incidente ha precipitato a
un nuovo minimo le relazioni tra Washington e Islamabad in un momento critico
della guerra decennale, la risposta è di vitale importanza.

Secondo la NATO, i soldati statunitensi e afgani sono finiti sotto il fuoco
dal lato pachistano del confine e hanno reagito per difendersi.  Ufficiali statunitensi hanno suggerito che
siano stati i talebani a organizzare l’incidente al fine di avvelenare le
relazioni tra USA e Pakistan.  Ma ci sono
alcuni fatti che suggeriscono che lo scontro possa essere stato qualcosa di più
di un caso di “fuoco amico” realizzato da un nemico astuto, su un confine mal
definito e nel normale caos del campo di battaglia.

Il comandante talebano afgano Mullah Samiullah Rahmani nega che i suoi
fossero addirittura nell’area il gruppo di insorti non è mai riluttante a
prendersi il merito di conflitti militari (ovviamente, se c’è inganno, ciò è
esattamente quello che i talebani direbbero).
Tuttavia questa particolare regione è una regione che
l’esercito pachistano occupa da diversi anni ed è considerata “ripulita” da
insorti.

L’incidente non è stato un caso di un attacco di droni o di un
bombardamento andato storto, un evento abbastanza comune. Nonostante tutti i
discorsi sulle “armi di precisione” e sugli “attacchi chirurgici”, i droni
hanno inflitto centinaia di morti civili e bombe da 500 libbre
hanno poco in comune con le  sale
operatorie.  Gli strumenti della NATO
sono stati invece elicotteri da attacco Apache e, secondo l’Associated Press, e un velivolo
d’assalto A-130. In poche parole l’assalto è stato condotto da piloti in carne
ed ossa che presumibilmente hanno identificato i bersagli per i propri
superiori.

Questi bersagli sono stati due fortificazioni di confine, un’architettura
che non è mai stata associata ai talebani. E’ vero che il confine tra il
Pakistan e l’Afghanistan è permeabile e non sempre chiaramente definito, ma gli
insorti afghani non costruiscono postazioni di cemento. Un “forte” è una
banalità per un drone o per un caccia da combattimento, ed è per questo che i
talebani preferiscono le grotte e i bunker nascosti.

Abbastanza ovviamente le due parti dissentono su quel che è successo.  Gli statunitensi affermano di essere stati
attaccati dal confine pachistano, di aver ingaggiato un combattimento di tre
ore e di aver chiamato gli elicotteri alla fine della battaglia.

Ma, secondi i pachistani, non c’era stato fuoco dalla loro parte del
confine e sono stati gli elicotteri a iniziare la battaglia, che è durata un
po’ meno di due ore. I pachistani dicono anche che ci sono stati due attacchi
di Apache. Il primo ha attaccato l’avamposto Volcano e quando il forte gemello
vicino, l’avamposto Boulder, ha aperto il fuoco sugli elicotteri, anch’esso è
finito sotto attacco.  Il Pakistan
afferma che i suoi militari hanno contattato la NATO per avvertirla che stava
attaccando truppe pachistane, ma che il fuoco è proseguito.  Gli elicotteri alla fine si sono ritirati,
soltanto per riapparire e rinnovare l’attacco quando i pachistani hanno cercato
di rinforzare i forti assediati.

Può essere stato un caso di cattive informazioni d’intelligence?

Secondo i pachistani, Islamabad ha avuto cura di fornire alla NATO le
coordinate delle proprie postazioni  per
evitare incidenti esattamente di questo tipo. Il generale pachistano
Ashfaq Nadeem ha affermato
“non è possibile” che le “forze NATO non conoscessero la localizzazione
delle postazioni pachistane.”  Il generale pachistano
Ashram Nader
ha definito l’attacco un “atto deliberato di aggressione”.

Può essere stato “deliberato”? Errori si verificano in guerra, ma la
tempistica di questo scontro è profondamente sospetta.

La cosa avviene in un momento delicato, quando circa 50 paesi si stavano
preparando a riunirsi a Bonn, in Germania, per colloqui intesi a risolvere la
guerra afghana.  In quella riunione il
Pakistan è centrale, il solo paese della regione con estesi contatti tra i vari
gruppi di insorti.  Se gli USA
pianificheranno davvero il ritiro delle truppe per il 2014, avranno necessità
di una stretta collaborazione del Pakistan.

“Questo potrebbe essere uno spartiacque nelle relazioni del Pakistan con
gli Stati Uniti,” ha dichiarato al Guardian
(UK)
l’alto commissario per l’Inghilterra,
Wajid Shamsul Hasan. “Potrebbe far naufragare il calendario del ritiro delle
truppe statunitensi.”

Il Pakistan si è ora ritirato dai colloqui di Bonn e le relazioni tra
Washington e Islamabad sono pessime, quanto mai lo sono state prima.  I pachistani hanno bloccato due principali
vie di terra verso l’Afghanistan, percorsi su cui si muove circa il 50% delle
forniture belliche.  Islamabad ha anche
chiesto che la CIA chiuda la sua base di droni a Shamsi, nella provincia
pachistana del Beluchistan.

Chi trarrà vantaggio da queste ricadute?

Non è un segreto che molti nell’esercito USA sono scontenti della
prospettiva di negoziati con i talebani, in particolare con il più letale
alleato dell’organizzazione, il Gruppo Haqqani. C’è uno strappo non dichiarato
ma generalmente noto tra il Dipartimento della Difesa e il Dipartimento di
Stato, con il primo che vuole battere gli insorti prima di sedersi a discutere
mentre il secondo non è certo che tale tattica funzionerebbe.  Qualcuno del lato in uniforme della divisione
potrebbe aver deciso di far deragliare, o quanto di meno di danneggiare, l’incontro
di Bonn?

Non è nemmeno un segreto che non tutti in Afghanistan vogliono la pace, in
particolare se implica un accordo con i talebani.  L’Alleanza del Nord, costituita
principalmente da tagiki e uzbeki, non vuole avere nulla a che fare con i talebani
insediati  pashtun che sono
principalmente raggruppati al sud e ad est e nelle regioni tribali del
Pakistan.  L’esercito afgano è
prevalentemente tagiko, popolazione che non solo costituisce il grosso della
truppa, ma anche il 70% del comando.  Il
presidente Hamid Karzai è un pashtun, ma è in larga misura una facciata del
governo di Kabul dominato dall’Alleanza del Nord.

Ci sono anche in gioco temi regionali più vasti.

Non è stato sorprendente che la Cina
si sia immediatamente schierata a difesa del Pakistan, con il ministro degli
esteri cinese Yang Jiechu che ha espresso “profondo sconvolgimento e forte
preoccupazione” per l’incidente.  La Cina
non è contenta del dispiegamento della NATO in Afghanistan e ancor meno della
possibilità di basi statunitensi permanenti in quel paese.  In un incontro del 2 novembre a Istanbul, la
Cina, insieme con Pakistan, Iran e Russia, si è opposta a uno spiegamento
statunitense a lungo termine nella regione.

L’Iran è preoccupato per la minaccia costituita dalla potenza militare
statunitense ai propri confini;
Islamabad è preoccupata del fatto che prolungare la guerra
destabilizzerà ulteriormente il Pakistan e Bejing e Mosca nutrono sospetti che
gli statunitensi abbiano posto le loro mire sulle risorse petrolifere e sul gas
dell’Asia Centrale.  Sia la Russia sia la
Cina dipendono dagli idrocarburi dell’Asia Centrale, la prima per le
esportazioni in Europa e la seconda per gestire le sue fiorenti industrie.

La Cina è anche preoccupata riguardo alla recente svolta strategica dell’amministrazione
Obama in direzione dell’Asia.  Gli Stati
Uniti sono intervenuti apertamente in dispute tra la Cina e i suoi vicini dell’Asia
sud-orientale, nel sud della Cina, e recentemente hanno firmato un accorto per
dispiegare 2.500 marines in Australia. Washington ha anche rafforzato i suoi
legami con l’Indonesia e ha riscaldato quelli con il Myanmar. Per la Cina tutto
questo appare come una campagna per circondare Beijing di alleati USA e tenere
un dito premuto sulla giugulare energetica cinese.  Circa l’80% del petrolio cinese si muove
attraverso l’Oceano Indiano e il Mare Meridionale Cinese.

Un ingrediente chiave di qualsiasi formula per bilanciare il potere e l’influenza
crescenti della Cina in Asia è il ruolo dell’India. New Delhi si è
tradizionalmente mantenuta neutrale in politica estera, ma, a partire dall’amministrazione
Bush, si è fatta sempre più vicina a Washington.  La Cina e l’India hanno un rapporto spinoso
che risale alla guerra di confine del 1962 tra i due paesi e al sostegno della
Cina al tradizionale nemico dell’India, il Pakistan.  Le rivendicazioni della  Cina su parte dell’area al confine indiano non
hanno migliorato le cose.

L’India gradirebbe anche un governo a Kabul privo di talebani e qualsiasi
cosa che metta Islamabad a disagio va benissimo a New Delhi.  Ci sono elementi nell’esercito e nella comunità
diplomatica statunitensi che vorrebbero vedere Washington scaricare la sua
alleanza con il Pakistan e spingere l’India a rapporti più stretti.  Un buon numero di indiani prova gli stessi
sentimenti.

Sin qui la
Casa Bianca si è rifiutata di scusarsi
, facendo invece trapelare una storia
secondo cui mostrarsi deboli con il Pakistan in un anno di elezioni negli USA è
impossibile.

Alla fine, lo scontro al confine può rivelarsi un incidente, anche se non è
probabile che lo sapremo mai per certo.
Le indagini militari non sono famose per accuratezza e molto di quel che
è accaduto resterà secretato.

Ma con tutte queste correnti trasversali che si incrociano sui cieli bui
del Pakistan, forse qualcuno ha visto un’occasione e l’ha colta.  In un certo senso è irrilevante che l’attacco
sia stato deliberato o stupido: ne avvertiremo a lungo le conseguenze ed è
probabile che le onde si diffonderanno da una collina rocciosa del Pakistan
fino ai limiti estremi dell’Oceano Indiano e oltre.

 

Conn Hallinan può
essere letto presso middleempireseries.wordpress.com

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/pakistan-anatomy-of-a-crisis-by-conn-hallinan

Fonte: Dispatches from the Edges

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC
BY-NC-SA 3.0

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Siria: un esiliato sogna un ritorno incruento

26 sabato Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Robert Fisk

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Tag

Antakya, Arabia Saudita, Bashar al-Assad, Bengasi, Damasco, Emirati Arabi, esilio, Gheddafi, Homs, Khaled Khoja, libia, Malta, no-fly zone, re Abdullah di Giordania, Recep tayyip Erdogan, Russia, Saddam Hussein, Siria, SNC, Tartous, Tobruk, Turchia, William Hague, zona cuscinetto


di Robert Fisk  – 26 novembre 2011

“Se Bashar al-Assad sarà preso a Damasco non sarà trattato come Gheddafi. Ma se fosse preso a Homs? Noi non vogliamo che Bashar al-Assad faccia quella fine. Ma, come dice Erdogan, egli deve riflettere su quel che è successo a Gheddafi e a Saddam Hussein. I giovani ora hanno perso la testa. Tutte le rivoluzioni sono create da gente impazzita, non da uomini saggi.”

Khaled Koja si rilassa – siamo in uno dei vecchi hotel di Istanbul, la Torre Malatya del quindicesimo secolo, che domina sopra di noi la città che è stata la casa d’esilio di Khoka negli ultimi 29 anni – e mi guarda, penso, per vedere se ammiro la sua padronanza dell’inglese.

Khaled Khoja, un medico di famiglia sulla quarantina, è uno dei rappresentanti più importanti del Consiglio Nazionale Siriano (SNC) in esilio, riconosciuto solo dalla Libia come rappresentante della Siria, costantemente sollecitato dal primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan – e più di recente da William Hague [ministro degli esteri inglese – n.d.t.] – a por fine alle sue ostilità con altri gruppi siriani d’opposizione, un’istituzione che è un pericolo e una peste per il regime del presidente Assad.  Come tutti gli esiliati, Khoja si crogiola in una strana combinazione di fantasia e realtà.

“Non abbiamo un’altra possibilità” dice Khoja. “Altrimenti sarebbe un conflitto settario. Se i civili si armano sarà un disastro. Al-Assad? Gli do da sei mesi a un anno.”

Il caos nella città centrale di Homs è già un conflitto settario, una guerra civile in miniatura.  I civili, chiaramente, si sono già armati.  E tuttavia la previsione di Kohja della sopravvivenza politica di Assad – da sei mesi a un anno – è infinitamente più realistica delle assurdità spacciate dagli arabi del Golfo e dal Wall Street Journal, che suggeriscono che Assad sarà finito nel giro di settimane, se non di giorni.

Khaled Khoja ha il genere di curriculum che ogni capo dell’opposizione desidera.  Per il suo rifiuto di appoggiare il padre di Bashar [Assad], Hafez, il padre di Khoja è rimasto in carcere per 14 anni, sua madre è stata condannata a cinque anni, il quindicenne Khoja a due anni di cui uno nelle celle del quartier generale dei servizi segreti a Damasco.  Dei suoi tre zii, uno è stato impiccato; gli altri due, secondo Khoja, sono stati assassinati per strada.

Khoja ammette di aver incontrato gli insorti armati della Siria nella città turca di Antakya. “Hanno detto che si stavano organizzando e che la ribellione era iniziata a Jisr al-Shughour, a Idlib.  Hanno addestrato i giovani, là. Stanno ricevendo armi dal Libano e, in qualche modo, armi dall’Iraq. [Una] ‘zona cuscinetto’ … sarà il prossimo passo se Bashar al-Assad continuerà a uccidere la gente. La maggior parte dei rifugiati cercherà di sfollare in una zona cuscinetto.  Una zona di interdizione al volo aiuterebbe l’Esercito Siriano Libero a organizzarsi nella zona cuscinetto, senza interventi militari.”

E dunque ecco qua.  Una zona cuscinetto dell’esercito turco – tre miglia all’interno della Siria, se si deve credere ai turchi – darebbe ai ribelli armati un territorio entro la Siria (come ne possedevano i ribelli libici a Tobruk e Bengasi). Khoja, membro del “comitato per gli affari esteri” del SNC, è stato sollecitato dai compagni d’esilio degli Stati Uniti, del Canada e del Golfo a visitare Tripoli; vi è arrivato il giorno dopo che Gheddafi è stato ucciso. Ma le ambizioni del SNC non si limitano al mero appoggio politico.

“Coordinandosi con il re Abdullah di Giordania, potrebbe esserci un’altra zona cuscinetto a Deraa [nella Siria meridionale] cosicché il regime siriano sarebbe bloccato,  come accadde a Saddam Hussein nel 1990, da zone cuscinetto a nord e a sud. Ma potrebbe esserci una soluzione senza interventi armati. L’esercito siriano potrebbe riorganizzarsi.

Nei primi giorni della rivolta siriana, il ministro degli esteri degli Emirati Arabi Uniti ha visitato la Siria, proprio come aveva visitato Saddam Hussein prima dell’invasione del 2003 e aveva visitato Hosni Mubarak prima che fosse rovesciato. E quando sono coinvolti gli Emirati Arabi vuol dire che c’è un’offerta per la famiglia Assad … e io penso che se le fosse consentito di lasciare la Siria con un salvacondotto, la famiglia Assad potrebbe trasferirsi in Arabia Saudita, negli Emirati o a Malta – l’area più sicura – e sarebbe una buona soluzione. Noi non vogliamo vendicarci della famiglia Assad, specialmente se ciò contribuisce a evitare una guerra civile. “

Khoja non ha illusioni circa l’appoggio russo alla Siria. “I russi parlano con noi” dice. “Stanno cercando di convincerci a fare un compromesso con Bashar al-Assad e a dargli un’altra possibilità.  Questo atteggiamento non cambierà; sosterranno Bashar fino in fondo. Il regime russo non è diverso dal regime siriano. L’esercito russo ha interessi a Tartous [il porto navale siriano]. Ma i maggiori vantaggi che i russi ricavano dalla crisi siriana stanno nel fatto che l’economia russa sta godendo di flussi di cassa extra dalla vendita di energia nel corso della crisi in Medio Oriente.  Questo va a beneficio della Russia.”

Suggerisco che l’esilio, specialmente dopo quasi tre decenni, può spingere Khoja alla mitologia piuttosto che alla storia.  “No” dice. “Sono in grado di pensare molto chiaramente, anche in esilio. Ma non affronto i carri armati. Non affronto le pallottole del regime.”

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/exile-dreams-of-a-bloodless-return-after-a-life-spent-opposing-assad-regime-by-robert-fisk

Fonte: The Independent

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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La Libia dopo l’esecuzione di Muammar al-Gheddafi

01 martedì Nov 2011

Posted by Redazione in Africa, Richard Falk

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Tag

brasile, Carta dell'Onu, Cina, Consiglio di Sicurezza dell'ONU, Corte Penale Internazionale, Germania, Gheddafi, guerra del Kosovo, libia, Mustafa Abdeljalil, Naomi KLein, NATO, NTC, R2P, RIsoluzione 1973, Russia, Sirte, Stati Uniti, W.H.Auden

 

 

 

 

di Richard Falk (31 ottobre 2011)

La morte del disprezzato despota che ha governato la Libia per 42 anni ha naturalmente prodotto festeggiamenti in tutto il paese.  La fine di Muammar al-Gheddafi è stata sanguinosa e vendicativa, ma dovremmo ricordare che le sue tirate contro il suo stesso popolo – e la sua violenta repressione di quella che inizialmente era una sollevazione pacifica – invitavano a una dura punizione popolare. Ricordando la famosa frase di W.H.Auden “Coloro ai quali è fatto del male, fanno in cambio del male”, è quasi inevitabile, in assenza di una forte disciplina morale e politica, che non è stata presente, che quando un leader si riferisce ai suoi oppositori come a “ratti” e sollecita a dar loro la caccia casa per casa, viene predisposta la scena per l’inaccettabile tipo di reazione che si è avuta recentemente a Sirte, dove gli attacchi aerei della NATO hanno raso a zero la città e le forze anti-Gheddafi hanno giustiziato almeno 53 lealisti di Gheddafi.  E’ un minaccioso segnale d’avvertimento per il futuro il fatto che questo massacro a Sirte, assieme all’esecuzione e alla sepoltura di Gheddafi, abbiano dovuto esibire un comportamento così vendicativo e indisciplinato, sollevando dubbi rinnovati sul carattere e l’approccio della dirigenza del Consiglio Nazionale di Transizione (NTC), anche se esistono tuttora possibilità di recuperare la perdita di fiducia.

Questi avvenimenti disgraziati fanno della responsabilità complessiva per i crimini di guerra una prima verifica del fatto che il NTC si dimostrerà ancora capace di gestire la formazione di una struttura di governo politicamente e moralmente accettabile.  Il NTC avvierà indagini delle presunte malefatte delle sue stesse forze in un modo che corrisponda agli standard internazionali, o tale indagine sarà evitata perché un simile processo di promozione della fiducia internazionale stimolerebbe una faziosità interna in cui ogni dito puntato sembrerebbe un incoraggiamento a conflitti etnici e tribali? Il NTC collaborerà con la Corte Penale Internazionale per assicurare che gli accusati di crimini di guerra al servizio del regime di Gheddafi abbiano un giusto processo? Al tempo stesso vi è motivo di considerare con occhio cinico le richieste delle ONG moralistiche dell’occidente che sembrano attendersi dalla Libia quello che i regimi liberaldemocratici dell’occidente si rifiutano di fare.  Ci si dovrebbe rendere conto, al riguardo, che gli Stati Uniti si spingono straordinariamente in là nell’esonerare i propri soldati e leader da potenziali responsabilità penali mentre premono con forza perché i loro nemici siano assoggettati alla dura severità della legge penale internazionale.  Domina il doppio metro. Con così tanto che coinvolge il Nord Africa dopo le glorie del Risveglio Arabo, tutte le strade per il futuro sembrano destinate ad avere molte tortuosità e svolte, nonché buche traditrici.

Il vuoto di dirigenza in Libia non sarà probabilmente colmato presto. Non sappiamo se, come identità politiche principali,  emergeranno lealtà tribali o regionali  ora che la grande unificatrice – l’ostilità al regime di Gheddafi – non è più in grado di cancellare obiettivi e ambizioni antagonistiche. Il NTC ha prestato credibilità internazionale alle forze anti-Gheddafi, ma molti dei combattimenti nelle ultime fasi della lotta sono stati sotto il controllo di comandanti di milizia semiautonomi che sono sembrati farsi la legge da sé.  Apprenderemo presto se il NTC potrà rappresentare in misura sufficiente la volontà collettiva dei libici nel corso del processo transitorio che è necessario prima che si crei un governo eletto in grado di stilare una nuova costituzione. Il suo primo tentativo di creare una nuova unità ha avuto come premessa un richiamo all’attuazione dell’Islam politico.  Il presidente del NTC, Mustafa Abdel-Jalil, su tale falsariga ha fatto a Bengasi la seguente affermazione forte, in occasione dei festeggiamenti per la vittoria: “Siamo un paese islamico. Mettiamo la religione islamica al centro del nostro nuovo governo. La costituzione sarà basata sulla nostra religione islamica.”

Alcuni pessimisti hanno sostenuto che il futuro della Libia è prefigurato nella caotica violenza che si scatenò in Somalia dopo il rovesciamento del dittatore Mohamed Siad Barre nel 1991, un tragico insieme di situazioni nazionali che persistono tuttora. Ma, su un tono più ottimistico, val la pena di osservare che la caduta di Gheddafi – diversamente da quella di Hosni Mubarak, il cui rovesciamento non ha ancora alterato la struttura del potere in Egitto – offre all’opposizione libica vittoriosa una lavagna apparentemente pulita che potrebbe meglio accogliere la costruzione di una nazione sinceramente democratica se una politica simile emergesse.  I libici si sono dati questa opportunità, che raramente si presenta nella storia, di ottenere una trasformazione davvero rivoluzionaria della loro vita politica, economica e culturale. Così potrebbe rivelarsi paradossalmente utile, anziché essere un ostacolo, osservare che Gheddafi non si è lasciato dietro un’infrastruttura istituzionale sulla quale costruire uno stato moderno.  Quello che è avvenuto in Libia, diversamente dall’Egitto, è stato, bene o male, un totale cambiamento di regime.

La Libia si avvia su questo nuovo percorso con alcuni grandi vantaggi aggiuntivi, i più ovvi tra essi il petrolio e una popolazione relativamente ridotta. Una verifica importante nei mesi a venire sarà la misura in cui la nuova dirigenza ripristinerà la normalità dell’economia senza ipotecare la ricchezza nazionale a favore di predatori stranieri, imprenditoriali, finanziari e governativi. Ovviamente, sullo sfondo vi è la consapevolezza che la NATO è stata parte integrante del rovesciamento di Gheddafi e può aspettarsi qualcosa di più di un bigliettino di ringraziamento.  Ci sono già sussurri sui media a proposito di grandi opportunità economiche nella nuova Libia per l’occidente, compresa la sfida di ricostruire ciò che la NATO ha distrutto, cosa che sembra un’inquietante difesa dell’innovativo testo di Naomi Klein ‘The Shock Doctrine”, [in italiano “Shock Economy”, Rizzoli, 2008 – n.d.t.], una critica devastante della logica contemporanea dell’economia neoliberale mondiale.

Una valutazione dell’esperienza libica da una prospettiva internazionale solleva ulteriori preoccupazioni.  L’apprezzamento pubblico dell’intervento della NATO sarà influenzato principalmente dal fatto che la Libia emerga come una nazione stabile, democratica ed equa.  Ciò non si saprà per anni, ma aspetti dell’intervento già rendono la Libia un precedente inquietante indipendentemente dal futuro del paese. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha autorizzato l’uso della forza applicando il principio recentemente affermatosi noto come “responsabilità di proteggere”, o R2P. I cinque stati astenuti sono stati ingannati o sono stati compiacenti, e probabilmente entrambe le cose.  La Risoluzione autorizzativa 1973 dell’ONU è stata in senso ampio inquadrata nel riferimento alla creazione, con tutti mezzi necessari, di una zona di interdizione al volo, con la giustificazione dell’uso della forza associata, all’epoca, alla protezione della popolazione di Bengasi da un massacro imminente. Già questo mandato ristretto è stato ignorato fin dall’inizio. Le forze NATO sono state ovviamente di gran lunga meno impegnate nel ruolo di protezione loro assegnato piuttosto che ad assicurarsi che l’equilibrio delle forze nella lotta per il futuro della Libia pendesse a favore dell’insurrezione.  Se tale intenzione fosse stata chiara all’inizio, e quasi certo che Russia e Cina avrebbero opposto il veto alla risoluzione dell’ONU. Nel corso del dibattito questi due stati avevano espresso i loro gravi timori e sospetti per la violazione della sovranità libica e ad essi si erano uniti, nell’esprimere dubbi simili, India, Brasile e Germania, giunti anch’essi ad astenersi quando si trattò di votare al Consiglio di Sicurezza.  Se l’intenzione più generale della NATO fosse stata manifesta, i veti russo e cinese sarebbero stati virtualmente una certezza.

Ovviamente era presente un dilemma. Se la NATO avesse rivelato i suoi obiettivi non ci sarebbe stata autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e il massacro di Bengasi sarebbe apparso una catastrofe umanitaria provocata dall’inazione dell’ONU. Se la NATO avesse circoscritto il suo intervento nel modo concordato, allora avrebbe potuto seguirne una lunga guerra civile, e si avrebbe avuto anche un disastro umanitario per il popolo della Libia. In ogni caso i pericoli dell’intervento devono essere contrapposti ai pericoli del non intervento, ma se alcuni compiti di governo globale affidati alle Nazioni Unite devono evolversi in un modo costituzionalmente responsabile, allora il minimo che ci si può attendere è un’onesta rivelazione degli intenti degli stati membri che premono per l’intervento, un controllo vigile, da parte dell’organo autorizzativo dell’ONU, di qualsiasi uso della forza e uno scrupoloso rispetto dei limiti imposti dal mandato per l’uso della forza.

Da queste prospettive è estremamente allarmante che un mandato ristretto dell’ONU sia stato totalmente ignorato e che il Consiglio di Sicurezza non si sia neppure disturbato a prendere in considerazione il ripensamento del mandato originale o una censura della NATO per un ampliamento unilaterale della portata e della natura del suo ruolo militare. Ignorando i limiti dell’ONU, la NATO può aver sminuito le prospettive di legittimità futura del principio R2P, e se ciò sia un bene o un male è difficile dirlo in astratto.

Questa preoccupazione ha diverse dimensioni.  Per cominciare, la Carta dell’ONU è stata stilata per minimizzare l’uso legittimo della forza nella politica mondiale, facendo della guerra l’ultima risorsa, e solo in  circostanze di stretta autodifesa.  A ciò si aggiunge l’impegno secondario della Carta, ovvero a garantire che la stessa ONU si vincolata dall’articolo 2 (7) ad astenersi dall’intervenire in questioni essenzialmente ricadenti sotto la giurisdizione interna degli stati a meno che, in condizioni eccezionali, sia deciso che ciò è necessario per mantenere la pace e la sicurezza internazionali. L’intervento della NATO sembra impossibile da conciliare con l’uno o l’altro di questi principi cardine della Carta dell’ONU, che è il quadro costituzionale che si presume guidi il comportamento dell’ONU.  E’ vero che questi principi sono stati erosi dalla pratica fin dalla loro attivazione nel 1945.  I diritti umani sono diventati una dimensione  dell’ordine mondiale tanto forte da assumere la precedenza sui diritti sovrani, in situazioni di abuso estremo, il che contribuisce a spiegare l’ascesa della norma R2P nel corso dell’ultimo decennio, specialmente in seguito alla controversa guerra NATO in Kossovo nel 1999.  Nonostante questi sviluppi la Carta offre prevede tuttora le linee guida operative per gli usi della forza.  Al riguardo avrebbe potuto essere legalmente e moralmente accettabile, date le circostanze in cui la risoluzione autorizzativa fu adottata il 17 marzo 2011,  costruire una missione di protezione concepita in termini rigorosi, anche se vale la pena di notare che persino al momento dell’approvazione, ci fu un diffuso scetticismo all’ONU, o perché alcuni membri diffidavano delle rassicurazioni filo-interventiste degli  Stati Uniti  e dei loro partner europei o perché prevedevano che le pressioni sul terreno avrebbero con tutta probabilità determinato un ampliamento della missione con lo spostarsi della localizzazione della violenza oltre Bengasi.

L’esperienza libica solleva questioni più profonde sull’affidabilità della norma R2P come base di un’azione di principio dell’ONU nell’interesse di un popolo vulnerabile, messo in pericolo dal comportamento abusivo del suo stesso governo. Alcuni dubbi già esistevano sulla selettività dell’applicazione libica della norma, specialmente considerato il fatto che l’ONU non aveva alzato un dito nell’interesse della popolazione civile assediata di Gaza, che ha sofferto di un lungo e punitivo blocco israeliano, con l’ONU che addirittura appoggiava la posizione di Israele quando il blocco veniva sfidato dagli attivisti della società civile che cercavano di portare assistenza umanitaria direttamente al popolo di Gaza. Ma a parte questo esempio lampante di doppio metro, c’è anche la diffusa sensazione che in Libia la R2P è stata rapidamente, e senza un serio dibattito, trasformata in un’opportunità di distruggere ed estromettere, con una serie di conseguenze dannose tuttora non determinata.

Se tali iniziative di protezione devono ottenere credibilità in futuro, devono divenire distaccate dalla geopolitica e rese operative in conformità a un solido regime legale che tratti in modo uguale gli uguali. Forse il meccanismo più pratico per conseguire questi obiettivi attualmente irraggiungibili consisterebbe nella creazione di una Forza d’Emergenza dell’ONU che potrebbe essere attivata dal voto di due terzi o del Consiglio di Sicurezza o dell’Assemblea Generale, e non essere mai soggetto a veto. Una tale forza dovrebbe essere finanziata indipendentemente dai governi, possibilmente imponendo una tassa sui voli aerei internazionali o sulle transazioni finanziarie.  Per quanto sensata, una simile soluzione non sarebbe facile da porre in essere, precisamente perché la sua esistenza minaccerebbe prerogative geopolitiche attuali che dipendono da motivazioni egoistiche degli stati maggiori.  E persino questo quadro raccomandato di Forze d’Emergenza dell’ONU potrebbe essere manipolato. Ma se almeno esistesse ci sarebbero migliori prospettive che le linee guida per l’autorizzazione degli usi umanitari della forza sotto gli auspici dell’ONU sarebbero rispettate, che il loro rispetto sarebbe controllato e che pratiche più coerenti sostituirebbero l’attuale marca di diplomazia umanitaria che è deformata dall’esistenza di doppi metri.

Su un simile sfondo, possiamo solo desiderare che i libici smentiranno le aspettative pessimistiche e riusciranno a fondare uno stato democratico realizzabile e indipendente che sia rispettoso dei diritti umani ed energico nei suoi sforzi di ricostruzione, senza diventare eccessivamente ospitale nei confronti degli investitori e delle industrie straniere.  Dopo una simile campagna aerea devastante, consistita in circa 20.000 sortite, i paesi della NATO dovrebbero avere l’onestà di farsi da parte e rispettare l’inalienabile diritto dei libici all’autodeterminazione.  E’ un triste commento alla situazione globale che mettere in moto tali speranze per il futuro della Libia e per la sua popolazione che ha a lungo sofferto sembri un indulgere all’utopismo!

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/libya-after-muammar-el-qaddafi-s-execution-by-richard-falk

Fonte: Richard Falk.com

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

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Giustificazione morale

30 domenica Ott 2011

Posted by Redazione in Economia, Mondo, Noam Chomsky

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11 settembre, 99%, Afghanistan, Arabia Saudita, austerità, BCE, brasile, BRIC, Bush, CIA, Cina, concentrazione di ricchezza, droni, egitto, Emirati Arabi Uniti, FBI, figlio unico, finanziarizzazione, Francia, Germaniia, Gheddafi, grecia, Guantanamo, India, inflazione, Inghilterra, iran, libia, Medio Oriente, Obama, Osama bin Laden, pacchetto di stimolo, pakistan, politica estera, Portogallo, presunzione d'innocenza, primavera araba, recessione, Russia, Shanghai Cooperation Organization, Siria, spagna, stagnazione, terrorismo, triumvirato imperiale, Tunisia, Turchia, Unione Africana, Unione Europea, usa, Yemen

 

di Noam Chomsky e Dean Carroll (27 ottobre 2011)

 

Tu sei stato uno dei principali critici della politica estera statunitense in passato. Qual è il tuo punto di vista sulla prestazione in quest’area di Barack Obama da presidente, da quando ha assunto la carica? So che sei stato critico riguardo alla missione per uccidere Osama bin Laden.

Esisteva un principio nella legge anglo-statunitense chiamato principio d’innocenza sino a che la colpevolezza non sia provata in tribunale.  Quanto un sospetto viene preso e può facilmente essere condotto in giudizio, assassinarlo è semplicemente un crimine.  Per inciso, anche l’invasione del Pakistan è stata una violazione della legge internazionale.

C’è allora una qualsiasi giustificazione morale per gli attacchi di droni della CIA in paesi come lo Yemen e il Pakistan, che hanno presumibilmente avuto luogo durante la dirigenza della Casa Bianca da parte di Obama?

Non c’è alcuna giustificazione per gli assassinii mirati.  Erano cose che avvenivano in precedenza, sotto l’ultimo presidente, ma l’amministrazione Obama ha esteso procedure precedenti a una campagna globale di assassinii diretta contro persone sospette di incoraggiare altri a compiere quelle che gli Stati Uniti definiscono azioni terroristiche. Che cosa sia definito “azione terroristica” è qualcosa che solleva questioni piuttosto serie, e questo è un eufemismo.  Si prenda, ad esempio il caso di Guantanamo di un quindicenne che è stato accusato di aver preso un fucile per difendere il suo villaggio, in Aghanistan, quando è stato attaccato da soldati statunitensi. E’ stato accusato di terrorismo e poi inviato a Guantánamo per un totale di otto anni. Dopo otto anni di una prigionia nei quali quel che succede non è un segreto, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato ad altri otto anni di prigione. E’ terrorismo questo? Un ragazzo di quindici anni che difende il suo villaggio dal terrorismo?

Dunque tu pensi che, potenzialmente, l’approccio alla politica estera di Obama sia stato peggiore di quello di George W. Bush, in certe aree?

In termini di terrorismo di stato (ed è così che chiamerei questo) devo dire di sì, e ciò è già stato fatto presente dagli analisti dell’esercito.  La politica dell’amministrazione Bush era di rapire i sospetti e di inviarli a prigioni segrete in non erano trattati molto educatamente, come sappiamo.  Ma l’amministrazione Obama ha intensificato quella politica arrivando a non rapirli, ma a ucciderli.  Ora, ricordiamolo, si tratta di sospetti, anche nel caso di Osama bin Laden.  E’ plausibile che abbia effettivamente pianificato gli attacchi dell’11 settembre, ma quel che è plausibile e quel che è provato sono due cose diverse. Merita essere ricordato che otto mesi dopo gli attacchi, nell’aprile 2002, il capo dello FBI, nella sua più dettagliata comunicazione alla stampa, fu soltanto in grado di affermare di ritenere che il complotto fosse stato ordito in Afghanistan da bin Laden ma realizzato negli Emirati Arabi Uniti, in Germania e negli Stati Uniti. Da allora non è stata prodotta alcuna prova certa, almeno pubblicamente. La commissione sull’11 settembre, creata dal governo, ha ricevuto una quantità di materiale che costituiva una prova indiziaria che ciò era ragionevolmente plausibile, ma è dubbio che una qualsiasi parte di esso reggerebbe in un tribunale indipendente.  Le prove di cui si dispone sono state fornite alla commissione dal governo in base a interrogatori di sospetti in condizioni molto crudeli, come sappiamo.  E’ altamente improbabile che un tribunale indipendente avrebbe potuto prendere sul serio prove simili.

Come vedi il conflitto libico? Le forze occidentali, europee in particolare, hanno fatto bene a  intervenire?

Le tre tradizionali potenze imperiali, Inghilterra, Francia e Stati Uniti, hanno partecipato a una guerra civile dalla parte dei ribelli che non aveva nulla a che vedere con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Che l’azione del triumvirato imperiale sia stata appropriata è questione che penso debba essere discussa e dibattuta.  Certamente non è stata, internazionalmente, una mossa popolare; voglio dire, viene definita comunità internazionale, ma la maggior parte del mondo vi si oppone.  La Libia è un paese africano e l’Unione Africana sollecitava negoziati e diplomazia, ed è stata ignorata.  Brasile, Russia, India e Cina – i paesi BRIC – hanno tenuto all’epoca una riunione in Cina ed hanno anche diffuso una dichiarazione che sollecitava la diplomazia e i negoziati. Persino la Turchia, all’inizio, è stata tiepida e l’Egitto non ha appoggiato l’azione, e dal mondo arabo non è venuto praticamente alcun sostegno.

La domanda vera è: il mandato dell’ONU di proteggere i civili poteva essere attuato mediante la diplomazia? La Libia è una società altamente tribale e vi sono una quantità di conflitti tra le tribù; chi sa cosa verrà fuori da tutto questo!  Il governo di transizione ha già sottolineato che vi sarà una stretta osservanza della legge della Sharia e che verranno negati i diritti delle donne e così via.  Pochissimi in occidente sanno granché di tutto questo.  D’altro canto c’è stato un enorme sostegno popolare a farla finita con Gheddafi, che era un prevaricatore terribile.

E vedi un allargamento e un approfondimento della Primavera Araba con il passare del tempo e con i ribelli in stati come la Siria e l’Iran che prendono coraggio dalle conquiste dei già oppressi cittadini libici?

L’Iran è un caso diverso; ha un regime oppressivo, ma una situazione molto diversa. La Siria è in una situazione estremamente brutta che sta degenerando in guerra civile.  Nessuno ha proposto una politica sensata per gestire la cosa.  In larghe parti del mondo arabo le rivolte a favore della democrazia sono state rapidamente represse.  In Arabia Saudita, lo stato islamista più radicalmente estremo e alleato più stretto degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, ci sono stati timidi sforzi tentativi di protesta e sono stati repressi parecchio rapidamente, in modo tale che la gente ha avuto paura di scendere di nuovo in strada.  Lo stesso vale per il Kuwait e per l’intera regione, la regione del petrolio.  In Bahrain le proteste sono state inizialmente tollerate prima di essere represse violentemente con l’assistenza della forza d’invasione guidata dai sauditi in modi molti brutti, come irrompere in un ospedale ed aggredire medici e pazienti.

In Egitto e in Tunisia c’è stato un progresso significativo, ma limitato.  In Egitto l’esercito non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il suo controllo sulla società, anche se ora il paese ha una stampa libera e un movimento sindacale è stato in grado di organizzarsi ed agire in modo indipendente. Anche la Tunisia ha già una storia di attivismo sindacale. E pertanto il progresso verso la democrazia e la libertà è correlato molto strettamente con l’ascesa dell’attivismo militante di lungo termine. Ciò non dovrebbe sorprendere gli occidentali perché è esattamente quel che è accaduto in occidente.

Come vedi dispiegarsi la geopolitica nei prossimi decenni, con l’ascesa dei BRIC, la mancanza di stabilità in Medio Oriente e il declino dell’occidente?

Gli USA e l’Europa hanno problema in qualche misura diversi.  L’Europa fronteggia problemi finanziari molto gravi, questo non è un segreto, che sono in parte riconducibili all’approccio relativamente umano all’integrazione dei paesi più poveri con le nazioni più ricche.  Prima che fosse creata l’Unione Europea e i paesi del sud più poveri, come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, fossero fatti entrare, c’erano stati tentativi di ridurre la nette differenze tra i paesi avanzati ricchi e quelli più poveri, in modo tale che i lavoratori dell’Europa settentrionale non dovessero affrontare la concorrenza della classe lavoratrice impoverita e sfruttata del sud. Ci sono stati finanziamenti compensativi e altre misure che, naturalmente, non hanno eliminato il divario, ma lo hanno rimosso in misura sufficiente a far sì che le nazioni più povere fossero fatte entrare [nella UE] senza effetti pesanti su quelle ricche del nord.

L’Europa sta ora pagando il prezzo di un approccio relativamente umano e il suo non aver gestito alcuni problemi molto seri, come la straordinaria indipendenza della Banca Centrale Europea e la sua dedizione religiosa alle politiche anti-inflattive, che non sono quelle che dovrebbero essere adottate in un periodo di declino e di recessione. L’Europa dovrebbe fare l’opposto, come gli Stati Uniti dove le politiche sono in qualche modo più realistiche.

Quale ruolo pensi svolgeranno l’Europa e gli Stati Uniti in questo nuovo ordine mondiale che potenzialmente riflette la multipolarità piuttosto che l’egemonia occidentale?

L’Europa e gli Stati Uniti rappresentano ancora una parte enorme dell’economia globale; non ci sono dubbi al riguardo. Se l’Europa riesce a rimettere le proprie cose in ordine, e io penso che dovrà modificare le sue politiche economiche, ha delle opzioni.  Ciò di cui l’Europa ha bisogno ora non è un programma d’austerità, bensì  un pacchetto di stimolo che ripristini la crescita in modo da potere in seguito occuparsi del problema del debito.  Lo stesso vale per gli Stati Uniti.  E’ disponibile una quantità di denaro per programmi di stimolo in entrambe le regioni.  Ciò potrebbe aumentare il debito, ma quello è un problema più a lungo termine.  Le nostre società sono ricolme di ricchezza; la questione è come si intende utilizzarla.

Il tema comune di tutto la letteratura sugli affari internazionali è quello che viene chiamato il declino dell’occidente e la conclusione, a corollario, che il potere globale sta nuovamente passando alle potenze emergenti, Cina e India.  Tale tesi non è plausibile; la crescita economica della Cina è stata per molti versi decisamente spettacolare, ma si tratta di paesi molto poveri.  Il reddito pro capite è ben al di sotto di quello dell’occidente e hanno enormi problemi interni. La Cina, considerata il principale motore economico, è oggi ancora un impianto di assemblaggio.  Se si calcola accuratamente  il deficit commerciale USA nei confronti della Cina in termini di valore aggiunto, si rileva che il dato scende di circa il 25%, mentre aumenta nei confronti del Giappone, di Taiwan e della Corea approssimativamente della stessa percentuale.  Il motivo è che le parti, i componenti e l’alta tecnologia affluiscono in Cina da società periferiche, più industrializzate, così come dagli USA e dall’Europa, e la Cina assembla il tutto. Se si acquista un iPad o roba simile sul quale c’è scritto “esportato dalla Cina”, ben poco del valore aggiunto è cinese.

Certamente, in prosieguo la Cina salirà sulla scala della tecnologia, ma si tratta di una salita difficile e il paese ha problemi interni molto gravi, incluso un problema demografico.  Il periodo di crescita del paese è stato associato a un grande aumento di lavoratori giovani, tra i ventenni o trentenni, ma le cose stanno cambiando, in parte a motivo della politica del “figlio unico”.  Quel che sta arrivando è un declino della popolazione in età da lavoro e un aumento della popolazione più anziana. I cinesi senza dubbio cresceranno e saranno importanti, ma l’India è ancor più impoverita con centinaia di milioni di persone che vivono in miseria. Il mondo sta diventando vario e sta arrivando anche un secolo più vario.  Con l’ascesa dei BRIC, è in arrivo una distribuzione del potere. Per quanto riguarda il declino statunitense, esso è iniziato negli anni quaranta, quando possedeva letteralmente,  con incredibile sicurezza, la metà della ricchezza e della produzione del mondo; non c’era mai stato nulla di simile nella storia. Ciò ha cominciato a declinare molto rapidamente e la cosiddetta “perdita della Cina” si è verificata nel 1949.  Si dava per scontato che noi possedessimo il mondo, che ne fossimo proprietari.  Ben presto ci fu la “perdita del Sud Est Asiatico”. E per  che si sono avute le guerre inter-cinesi e il colpo di stato in Indonesia.

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a quella che è stata chiamata la “perdita del Sud America”. Il Sud America ha cominciato a muoversi in direzione dell’indipendenza e dell’integrazione e gli Stati Uniti sono stati espulsi da tutte le basi militari dell’area. Ed è in corso la creazione di unioni in America Latina, Sud America, Africa e Medio Oriente. L’occidente e i suoi alleati stanno cercando con forza di controllare ciò, ma la cosa sta proseguendo.  E in Cina vi è l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, che comprende gli stati dell’Asia Centrale, con Russia, India e Pakistan quali osservatori. Gli Stati Uniti sono stati esclusi e, sinora, si tratta un’organizzazione internazionale basata sull’energia, basata sull’economia.  E tuttavia è un’altra parte di questa diversificazione del potere nel mondo.

Il declino statunitense è in misura significativa autoinflitto. A partire dagli anni ’70, le economie occidentali hanno operato una svolta netta.  Nel corso della storia la tendenza era stata in direzione della crescita e della speranza. Ciò è cambiato negli anni ’70, quando c’è stata una svolta dell’economia verso la finanziarizzazione e il trasferimento della produzione all’estero a motivo del declino del tasso di profitto dell’industria.  Quella che si è verificata è stata un’altissima concentrazione della ricchezza, per la maggior parte in una parte minuscola del settore finanziario, e la stagnazione e il declino per la maggior parte della popolazione.  Oggi abbiamo slogan del tipo “99% e 1%”. Le cifre non sono del tutto corrette, ma il quadro generale lo è. E’ un problema molto serio e ha portata a una ricchezza spettacolare in pochissime tasche, anche se ciò è molto dannoso per i paesi interessati. Le proteste cui assistiamo in tutto il mondo in questo momento sono un altro sintomo di ciò.

 

Noam Chomsky è professore di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti. E’ autore di più di un centinaio di libri, compreso ‘Current Issues in Linguistic Theory’ [Problemi attuali della teoria linguistica].

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/moral-justification-by-noam-chomsky

Fonte: Public Service Europe

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

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Perché il 2012 scuoterà l’Asia e il mondo

20 giovedì Ott 2011

Posted by Redazione in Anonimo, Asia, Corea del Sud, Russia, Taiwan

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Corea del Sud, Russia, Taiwan

Di John Feffer, 20 ottobre 2011

Gli Stati Uniti si sono da molto tempo attribuiti il titolo di potenza del Pacifico. Nel 1899, nelle Filippine hanno stabilito il modello di contro insurrezione e hanno sconfitto i Giapponesi nella Seconda  guerra mondiale. Nel 1950  hanno sopraffatto  i Cinesi e i Nordcoreani per mantenere divisa la penisola della Corea ed hanno armato i Taiwanesi. Oggi l’America mantiene l’esercito più potente nell’area del Pacifico, appoggiata da una costellazione di basi militari, di alleanze bilaterali e da circa 100.000 dipendenti per i  vari servizi.

Ha tuttavia raggiunto il “livello di piena” della sua presenza ed influenza nel Pacifico. Sta per essere ridisegnata la mappa geopolitica di quella area. L’Asia nord orientale che è l’area del mondo con la maggiore concentrazione di potere economico e militare, è sulla soglia di una trasformazione regionale. E gli Stati Uniti, ancora preoccupati per il Medio Oriente e azzoppati da un’economia bloccata e ristagnante, saranno gli intrusi.

Le elezioni faranno parte del cambiamento. Il prossimo anno i Sudcoreani, i Russi e i Taiwanesi  andranno alle urne. Nel 2012  il Partito comunista cinese ratificherà anche la sua scelta di un nuovo capo che succederà al presidente Hu Jintao. Sarà l’uomo che si ipotizza che presiederà all’ascesa del paese dalla posizione di numero due all’apice  dell’economia mondiale.

Ma qui c’è in serbo una sorpresa per Washington. L’elemento catalizzatore del cambiamento forse si dimostrerà essere la nazione che finora  in quella area è quella che è cambiata di meno: la Corea del Nord. Nel 2012, il governo nordcoreano  ha divulgato con grande clamore al suo popolo la promessa di creare un kangsong taeguk, cioè un  paese economicamente  prospero e militarmente forte. Pyongyang deve ora in un certo qual modo tenere fede alla promessa, in un periodo di scarsità di cibo, di stagnazione economica globale e di incertezza politica. Questo sogno del 2012 sta spingendo il regime di Pyongyang a passare alla marcia più alta in campo diplomatico, il quale, a sua volta, sta già creando enormi occasioni per le potenze più importanti  del Pacifico.

Washington, che ha incentrato per anni la sua attenzione sul piccolo arsenale nucleare della Corea del Nord che però è in via di sviluppo, ha prestato poca attenzione alle situazioni di maggiore progresso  esistenti in Asia. Neanche l’imminente trasformazione dell’Asia sarà un argomento importante nella nostra elezione presidenziale del prossimo anno. Discuteremo di posti di lavoro, di assistenza sanitaria, se il presidente è un socialista o se il suo sfidante repubblicano è un caso patologico. A parte qualche rituale critica alla Cina,  l’Asia non si meriterà  molte citazioni.

Il presidente Obama, ansioso di fornire armi di attacco al suo oppositore, sarà riluttante a gingillarsi con la politica asiatica che ha già inserito il pilota automatico.  quindi, Mentre altri, quindi, lottano per rifare l’Asia Orientale, gli Stati Uniti soffriranno della loro particolare forma di deriva continentale.

                              Pyongyang tira fuori tutto il proprio fascino

 

Il 5 aprile 1912, in luogo sconosciuto dell’Impero giapponese nasceva un bambino in una famiglia cristiana orgogliosa delle proprie origini coreane. Il centesimo anniversario della nascita di Kim Sung  Il Sung, il fondatore della Corea del Nord e capo della dinastia,  cadrà il prossimo anno. Normalmente, un evento del genere, sarebbe importante soltanto per i 24 milioni di Nordcoreani e per una manciata di Coreani che vivono altrove. Questo centenario, però, segna anche la data nella quale il regime della Corea del nord ha promesso di raddrizzare le cose.

Malgrado  le sue pretese di  fiducia in se stessa, Pyongyang ha ampiamente dimostrato di potercela fare soltanto se i suoi amici la aiutano molto. Fino a poco tempo fa, però, la Corea del nord non si è comportata molto bene con gli altri.

Ha risposto in modo particolarmente intransigente, per esempio alle politiche più aggressive adottate dal nuovo presidente della Corea del Sud Lee Myung Bak, quando ha assunto la carica nel febbraio 2008. L’uccisione di un turista Sudcoreano nella località turistica di Munt Kumgang nel luglio di quello stesso anno, l’affondamento della nave della marina, la Cheonian, nel 2010, (Pyongyang sostiene ancora di non averne colpa), e il bombardamento dell’isola sud coreana di Yeonpyyeong alla fine di quell’anno, hanno tutti accelerato un crollo nelle relazioni tra il  nord e il  sud di quella nazione. In questo periodo il Nord ha testato un secondo ordigno nucleare, inducendo perfino il suo alleato più vicino, cioè la Cina, a reagire disgustata e a sostenere una dichiarazione di condanna all’ONU. Pyongyang è riuscita anche ad alienarsi ulteriormente Washington rivelando che nel 2010 stava di fatto perseguendo un programma per produrre urano altamente arricchito,  altamente distruttivo, una cosa che per parecchio tempo hanno negato.

Questi azioni hanno avuto dolorose conseguenze economiche. La Corea del Sud ha cancellato quasi tute le forme di cooperazione. Il secondo test nucleare del Nord  ha mandato a monte qualsiasi riavvicinamento incipiente con gli Stati Uniti. (L’amministrazione Bush aveva cancellato la Corea del Nord dalla lista dei paesi terroristi, e c’erano stati degli accenni che altre sanzioni d vecchia si sarebbero potute lasciar cadere prima o poi come parte di relazioni sempre più cordiali).

Soltanto il rapporto con la Cina è rimasto inalterato, soprattutto perché Pechino sta divorando importanti quantità di minerali di grande valore e sta assicurando l’accesso ai porti in cambio di cibo ed energia sufficienti a mantenere in vita il paese e a galla il regime. Tra il 2006 e il 2009, un’economa nord coreana già anemica, si è contratta, e la carenza  cronica di cibo si è acutizzata di nuovo.

A questi travagli economici si devono aggiungere quelli politici. I dirigenti del paese hanno superato da tempo l’età della pensione: il capo settantenne Kim Jonh Il è più giovane della maggior parte dell’élite che governa. Ha designato il suo figlio più giovane, Kim Jeong Eun come suo successore, ma l’unica qualità che questo ragazzo del mistero sembra avere a suo favore è la somiglianza con suo nonno, Kim Il Sung.

La Corea del Nord, tuttavia, non sembra più prossima a un collasso su vasta scala di quanto lo fosse durante crisi precedenti, come durante  la devastante carestia della metà degli anni ’90. Uno stato del tutto repressivo con una società civile nulla, sembrano assicurare che nessuna rivoluzione colorata (www.it.wikipedia.org/Rivoluzioni_colorate),  nessuna “Primavera di Pyongyang” sia imminente. Aspettare che il regime nord coreano si avvii dolcemente verso l’oscurità, è come aspettare Godot.

Questo però non significa che  il cambiamento non sia nell’aria. Per far partire la sua economia in disordine, e fornire una spinta  politica al  prossimo presidente  nell’anno del kangsong taeguk, la Corea del Nord è improvvisamente nella disposizione d’animo favorevole a fare un accordo.

La recente visita di Kim Jong Il in Siberia, per incontrarsi con il presidente russo Dmitri Medvedev, per esempio, ha fatto alzare le sopracciglia a poche persone bene informate. Conferendo con Medvedev presso una base militare russa vicino al lago Baikal, per la prima volta dopo molto tempo, il presidente Nordcoreano ha perfino fatto intravedere la possibilità di una moratoria per la produzione e la sperimentazione  di armi nucleari. Sostanzialmente, ha concluso un accordo preliminare per un gasdotto che potrebbe da solo cominciare a trasformare la politica di quella zona. Trasferirebbe il gas naturale dall’estremo Oriente russo ricco energia, attraverso la Corea del Nord alla Corea del sud economicamente in forte espansione, ma affamata di energia. L’accordo potrebbe far realizzare a Pyongyang un utile di 100 milioni di dollari all’anno.

L’offensiva del nuovo fascino del Nord non avrebbe alcuna speranza di riuscita se un analogo cambiamento di disposizione d’animo non fosse in corso nella Corea del Sud.

                                     Il calcolo sbagliato del bulldozer

Quando ha assunto la carica, il presidente conservatore della Corea del Sud, Lee, Myung Bak, noto come “il bulldozer” quando era  capo della divisione di ingegneria  della Hyundai  (www-it.wikipedia.org/wiki/Lee_Myung-bak) aveva promesso di porre i rapporti della Corea del Sud su nuove basi. Dieci anni di “politica dell’impegno” con la Corea del Nord, secondo Lee hanno prodotto un rapporto asimmetrico. Il Sud, insisteva, forniva tutto il contante, e il Nord faceva molto poco in cambio. Lee ha promesso un rapporto basato soltanto su quid pro quos (una cosa in cambio di un altra)

Ha ottenuto invece un atteggiamento vendicativo: retorica e azione militare più dura. Alla fine, sebbene il Nord non si sia fatto amici al di sotto del 38° parallelo, adottando quel sistema, la nuova era di ostilità non ha aiutato neanche l’amministrazione Lee. In generale, i Coreani del Sud guardavano con orrore come un rapporto relativamente tranquillo virasse pericolosamente verso un conflitto militare.

Il partito governante di Lee ha sofferto una sconfitta nelle ultime elezioni straordinarie svoltesi  a metà aprile e in agosto,  quando ha sostituito il suo ministro che seguiva una linea intransigente di “unificazione” con un tipo più conciliante. Anche se insiste ancora per avere le scuse per l’affondamento della nave Cheonian e per il bombardamento di Yeonpyeong, il partito al potere sta tuttavia cercando i modi di ripristinare i legami commerciali e di fornire anche assistenza umanitaria al Nord.  Fino dall’estate, rappresentanti del Nord e del Sud, si sono incontrati due volte per discutere il programma nucleare di Pyongyang. Sebbene le due parti non abbiamo fatto progressi sostanziali, il palcoscenico è pronto per la ripresa dei Colloqui del Gruppo dei Sei tra le due Coree, la Russia, il Giappone, la Cina e gli Stati Uniti che si erano interrotti nel 2007.

Anche se il partito all’opposizione non eliminerà dal potere i conservatori nelle elezioni del 2012, probabile che la Corea del sud abbandonerà il tipo di    da “uomo duro” adottata da Lee. In settembre, il probabile suo successore come candidato del partito al governo, Park Geun-Hye, ha criticato apertamente l’approccio di Lee in un articolo su Foreign Affairs  che chiedeva invece una “politica della fiducia” .

Uno dei progetti che Park ha scelto di nominare è una linea ferroviaria tra le due Coree, che dovrebbe “forse trasformare la Penisola coreana in un condotto per il commercio della zona”. E’ un’affermazione inadeguata rispetto alla realtà. Riattivare la linea e allacciarla alla ferrovia Transiberiana della Russia collegherebbe la penisola coreana all’Europa, ridurrebbe i tempi  di spedizione   delle merci da una parte all’altra dell’Eurasia di circa due settimane, e farebbe risparmiare alla Corea del sud da 34 $ a 50$ per ton (907kg. circa)di costi di spedizione. Nel frattempo, il gasdotto che la Corea del Sud ha approvato alla fine di settembre, potrebbe ridurre i costi del gas di circa il 30%. Per il secondo maggior paese importatore di gas del mondo, sarebbe un risparmio importante.

Dei seri passi in campo economico per la riunificazione delle due Corre, non sono soltanto un sogno, ma anche un buon affare. Perfino nei peggiori momenti del recente periodo di separazione, è importante che le due nazioni siano riuscite a conservare il complesso industriale di Kaesong, situato appena a nord della Zona Demilitarizzata. E’ gestito da manager  sudcoreani, dà lavoro a oltre 45.000 Nordcoreani; la zona degli affari è una benedizione per entrambe le parti. Aiuta le imprese sudcoreane ad affrontare la competizione da parte della Cina, anche se fornisce moneta forte e lavori ben retribuiti al nord. La ferrovia  e il gasdotto offrirebbero analoghi vantaggi. La Corea del Nord ha una sola arma di scambio, il suo piccolo arsenale nucleare, al quale non rinuncerà mai. Un agente immobiliare vedrebbe la situazione in maniera diversa. Ciò che la Corea del Nord possiede davvero è la sua posizione, posizione, posizione,” e finalmente sembra pronta a     approfittare della sua  posizione cruciale  nel cuore della zona economica più vitale del mondo.

La linea ferroviaria collegherebbe le due regioni economiche più  grosse in un enorme mercato eurasiatico. E il gasdotto, insieme ai progetti di energia verde in Cina, in Corea del Sud, e in  Giappone, potrebbero cominciare a “svezzare” l’Asia orientale dalla sua dipendenza dal petrolio del Medio Oriente e quindi anche dalle forze armate degli Stati Uniti per assicurarsi l’accesso e per proteggere le rotte di navigazione.

Se li consideriamo in altro modo, questi progetti e altri simili che si affacciano nel futuro eurasiatico, sono importanti non soltanto per i paesi che collegano, ma per quelli che lasciano fuori, per esempio, gli Stati Uniti.

Fuori al freddo

 

L’amministrazione  Bush ha anticipato l’approccio di Lee Myung Bak alla Corea del Nord buttando via la carota e agitando il bastone. Nel 2006, tuttavia, Washington aveva fatto una conversione a U e stava cominciando a  coinvolgere  seriamente Pyohgyang. L’amministrazione Obama ha scelto un’altra tattica, adottando di fatto una politica di “pazienza strategica”, un eufemismo per ignorare la Corea del Nord e sperare che non andasse in collera.

Non ha funzionato. La Corea del Nord si è buttata a tutta  velocità nel suo programma nucleare. La campagna aerea degli Stati Uniti e della Nato contro Muammar Gheddafi della  Libia, che aveva rinunciato al suo programma nucleare per assicurarsi relazioni migliori con l’Occidente, ha soltanto rafforzato la convinzione  di Pyongyang che  le armi nucleari   sono i garanti fondamentali della sua sicurezza. L’amministrazione Obama continua a insistere che il regime mostra la sua serietà riguardo alla denuclearizzazione  come pre-condizione per riprendere i colloqui. Anche se Washington ha inviato di recente una piccola quantità di aiuti per le alluvioni, rifiuta di offrire qualsiasi serio aiuto alimentare. In effetti in giugno, la Camera dei rappresentanti ha fatto passare un emendamento alla proposta di legge sull’agricoltura che proibiva ogni aiuto alimentare a quella nazione, malgrado ne abbiano bisogno.

Sebbene probabilmente l’amministrazione manderà l’inviato Stephen Bosworth nella Corea del Nord alla fine dell’anno, nessuno si aspetta che ne conseguano  importanti cambiamenti nella politica o nelle relazioni con quella nazione. Con l’anno delle elezioni presidenziali che si profila, l’amministrazione Obama non è probabile che spenda capitale politico per la Corea del Nord – non quando i Repubblicani indubbiamente definirebbero qualsiasi nuova mossa una  “riconciliazione” di uno “stato terrorista”.

Obama ha assunto la carica con il desiderio di spostare la politica degli Stati Uniti dall’obiettivo medio orientale e di riaffermare l’importanza dell’America come potenza del Pacifico,in particolare perché  sta aumentando l’influenza  della Cina in quella area. Il Presidente, però,ha investito di più in droni  che nella diplomazia, sostenendo la guerra al terrore a spese del tipo di impegno più baldanzoso degli avversari che Obama indicava  come candidati. Nel frattempo l‘amministrazione si prepara ad aspettare  fino a quando le prossime elezioni faranno parte della storia e, per allora, potrebbe essere già troppo tardi mettersi al passo con i progressi fatti nella zona.

Dopo tutto, Washington ha visto la Cina diventare il socio più importante di quasi tutte le nazioni asiatiche. Analogamente, i legami economici tra Cina e Taiwan si sono considerevolmente intensificati, una realtà alla quale si deve inchinare perfino il partito di opposizione di quell’isola. La recente decisione dell’amministrazione Obama di non sconvolgere troppo Pechino vendendo sofisticati jet da combattimento F-16 a Taiwan, e optando invece per un semplice aggiornamento degli F-16 comprati nel 1990, è un chiaro segno del relativo declino degli Stati Uniti in quella area, come suggerisce l’analista   Robert Kaplan che ha sempre la visione di insieme delle situazioni.

Poi c’è il puro costo della presenza militare degli Stati Uniti nel Pacifico che sembra come un obiettivo succoso ai tagliatori di bilanci di Washington. I membri più importanti del Congresso come i senatori John McCain e Carl Levin hanno già segnalato la loro ansia sull’alto prezzo del cartellino di un “riallineamento strategico” in Asia che implica, tra le altre cose, un’espansione della base militare statunitense dell’isola di  Guam e un ammodernamento delle  strutture ad Okinawa.  In risposta a una domanda sui potenziali tagli di spese militari, il nuovo Deputy Secretary alla difesa Ashton Carter, ha confermato che la riduzione delle  truppe e delle basi degli Stati Uniti oltre oceano è “sul tavolo”.

Il futuro dell’Asia orientale non è certo un dato di fatto, come non sono l’unico possibile scenario il rapido sviluppo economico e l’integrazione regionale. Praticamente ogni nazione di quell’area ha  aumentato le sue spese militari. Abbondano i punti di tensione, particolarmente le  acque potenzialmente ricche di energia che varie nazioni reclamano come proprie. L’incredibile crescita economica della Cina è probabile che non sia sostenibile a lungo termine. E la Corea del nord potrebbe alla fine decidere di accontentarsi di essere  bisognosa dal punto di vista economico,  ma adeguatamente forte come potenza militare.

Tuttavia, l’orientamento per il 2012 e in seguito, punta a un maggiore impegno nella penisola di Corea, al di là dello stretto di Taiwan, e tra l’Asia e l’Europa. Proprio adesso, gli Stati Uniti,  con tutto il loro potere militare, non fanno parte di questa immagine che sta emergendo. Non è ora che l’America elegantemente  riconosca che gli anni in cui era la super potenza del Pacifico sono passati e pensi in modo creativo a come  essere invece un socio pacifico?

 

Da: Z Net – lo spirito della resistenza è vivo

Fonte: Le Monde Diplomatique

URL: http://www.zcommunications.org/why-2012-will-shake-up-asia-and-the-world-by-john-feffer

Traduzione di Giuseppe Volpe

 

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