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~ Lo spirito della resistenza è vivo!

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Archivi tag: iran

Nucleare iraniano: come i media hanno stravolto il rapporto della IAEA

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Asia, Benjamin Loehrke, Greg Grandin, Guerra al terrore

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Tag

armi nucleari, IAEA, iran, James Clapper, NIE, nucleare, servizi segreti, Teheran, usa

 

di Greg Thielmann e Benjamin Loehrke  – 06 dicembre  2011

Quando, agli inizi del mese, l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) ha diffuso un rapporto sul programma nucleare iraniano, molte agenzie mediatiche e politici ne hanno ricavato due messaggi: che l’agenzia con sede a Vienna ora confuta le stime del passato della comunità dei servizi segreti statunitensi e che ora l’Iran sta accelerando sulla bomba.  Entrambe le rappresentazioni sono sbagliate.  E tuttavia queste affermazioni sono state ripetute abbastanza spesso da dar loro credibilità presso il pubblico e il Congresso.

La maggior parte degli analisti che hanno familiarità con il rapporto sono d’accordo sul fatto che “non c’è niente nel rapporto che non fosse noto in precedenza ai governi delle maggiori potenze”;  un Iran nucleare “non è né imminente né inevitabile”.  Anche se è chiaro che la continuazione, da parte dell’Iran, sulle armi nucleari è una preoccupazione grave per la sicurezza internazionale, “non c’è stata alcuna pistola fumante quanto alle intenzioni dell’Iran riguardo alle armi nucleari.”  

E allora perché analisi contrastanti di un documento estremamente burocratico e tecnocratico?

Washington parla molto, ma non legge altrettanto.  Questo è il modo più semplice per spiegare perché i commentatori hanno trascurato la coerenza tra la Stima dell’Intelligence Nazionale (NIE) del 2007 sull’Iran e il più recente rapporto della IAEA sul programma nucleare iraniano.

Il PDF NIE del 2007 sull’Iran aveva raggiunto la conclusione, da titoloni sui giornali, che, con elevata certezza, nell’autunno 2003 l’Iran aveva interrotto il suo programma di armamenti nucleari (distinto dal programma di arricchimento dell’uranio e da quello dei missili balistici).  Inoltre il NIE affermava:

“Valutiamo anche, con certezza da moderata ad alta, che Teheran stia al minimo mantenendo aperta l’opzione di sviluppare armi nucleari …

Riteniamo, con elevata certezza, che l’interruzione sia durata almeno diversi anni. (Tuttavia, a motivo di diverse lacune del servizi di intelligence discusse altrove in questa Valutazione [il Dipartimento dell’Energia e il Consiglio Nazionale dei Servizi Segreti] stimano con una certezza solo moderata che l’interruzione di tali attività rappresenti un’interruzione dell’intero programma iraniano relativo alle armi nucleari.)

Stimiamo con moderata certezza che Teheran non abbia riavviato il suo programma di armamenti nucleari a tutta la metà del 2007, ma non sappiamo se attualmente intenda sviluppare armi nucleari.”

Tutto ciò è notevolmente coerente con il più recente rapporto della IAEA, che ha osservato:

“[Gli sforzi dell’Iran quanto alle armi nucleari] … sono stati interrotti improvvisamente in seguito a un ‘ordine di stop’ emesso alla fine del 2003 da alti dirigenti iraniani.  Secondo tale informazione, tuttavia, il personale è rimasto al suo posto per registrare e documentare i progressi dei rispettivi progetti … L’agenzia è preoccupata perché alcune delle attività intraprese dopo il 2003 sarebbero altamente rilevanti per un programma di armamento nucleare.”

Il NIE lasciava aperta la possibilità che l’Iran potesse continuare attività collegate agli armamenti.  Con quattro anni di maggior prospettiva il più recente rapporto della IAEA fornisce maggiori dettagli sul lavoro bellico condotto dall’Iran prima del 2003, poi aggiorna le informazioni disponibili sulla misura inferiore del lavoro condotto dopo il 2003. Le nuove attività hanno compreso:

– Conduzione di ricerca sperimentale, dopo il 2003, sull’iniziazione emisferica di alti esplosivi;

– Ulteriore validazione, dopo il 2006, di un progetto di iniziatori neutronico;

– Conduzione di studi su modelli, nel 2008 e 2009, che potrebbero stabilire il prodotto di un’esplosione nucleare;

Portare avanti attività disparate di ricerca non corrisponde al riavvio a pieno campo di un programma integrato di armamenti.  Quel tipo di attività continua a risultare essere stato interrotto nel 2003.  Da allora le attività sembrano più un affinamento, da parte dell’Iran, della sua precedente comprensione del progetto delle armi nucleari, non una corsa alla bomba.

Perciò, nello spiegare i più recenti documenti classificati del NIE diffusi a marzo di quest’anno, James Clapper, direttore dei servizi d’informazione nazionali, ha dichiarato al Comitato del Senato sulle Forze Armate (PDF) :

“Continuiamo a ritenere che l’Iran stia mantenendo aperta l’opzione di sviluppare armi nucleari, in parte sviluppando varie potenzialità nucleari che lo mettono in una posizione migliore per produrre tali armi, nel caso decidesse di farlo. Non sappiamo, tuttavia, se alla fine l’Iran deciderà di costruire armi nucleari.”

La testimonianza di Clapper ha confermato il recente rapporto IAEA, che ha aggiunto considerevoli dettagli al sommario ‘disinfettato’ del NIE 2007.

L’esteso rapporto della IAEA costituisce una forte indicazione che i servizi d’informazione statunitensi nel 2007 sul programma nucleare iraniano si erano basati su prove solide che non sono state smentite dalle informazioni più recenti.  La situazione dell’Iran non è statica; sono necessarie costanti rivalutazioni e analisi aggiornate per ogni processo di intelligence dinamico e professionale.

Inoltre, condividere con il pubblico le informazioni sulle conclusioni raggiunte è vitale per informare il dibattito in corso. La IAEA merita credito sia per la qualità delle sue analisi sia per condividere le sue opinioni qualificate su questi temi critici con il pubblico più vasto, in particolare visto che non è stato diffusa alcuna sintesi dei più recenti aggiornamenti del NIE.

I guru e i politici che utilizzano il rapporto più recente della IAEA per attaccare il rapporto 2007 del NIE stanno, al minimo, distorcendo le informazioni e, al peggio, facendo giochi politici con la sicurezza nazionale.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/pakistan-anatomy-of-a-crisis-by-conn-hallinan

Fonte: Bulletin of Atomic Scientists

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Pakistan: anatomia di una crisi

06 martedì Dic 2011

Posted by Redazione in Asia, Conn Hallinan, Guerra al terrore

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Tag

A-130, Afghanistan, Alleanza del Nord, Apache, armi di precisione, Ashfaq Nadeem, Ashram Nader, attacchi chirurgici, Bonn, Boulder, CIA, Cina, confine, droni, fuoco amico, India, iran, Islamabad, Kabul, Karzai, Mullah Samiullah Rahmani, NATO, pakistan, pashtun, posti di confine, Russia, Shamsi, soldati pachistani uccisi, tagiki, talebani, usa, uzbeki, Volcano, Wajid Shamsul Hasan, Yang Jiechu

di Conn Hallinan  – 05 dicembre  2011

Successivamente agli attacchi della NATO del 26 novembre a due posti di
confine che hanno ucciso 24 soldati pachistani, ciò che ci si chiede è se
l’attacco sia stato un incidente nel “buio della guerra” o un colpo calcolato
diretto a silurare il colloqui di pace in Afghanistan.  Considerato che l’incidente ha precipitato a
un nuovo minimo le relazioni tra Washington e Islamabad in un momento critico
della guerra decennale, la risposta è di vitale importanza.

Secondo la NATO, i soldati statunitensi e afgani sono finiti sotto il fuoco
dal lato pachistano del confine e hanno reagito per difendersi.  Ufficiali statunitensi hanno suggerito che
siano stati i talebani a organizzare l’incidente al fine di avvelenare le
relazioni tra USA e Pakistan.  Ma ci sono
alcuni fatti che suggeriscono che lo scontro possa essere stato qualcosa di più
di un caso di “fuoco amico” realizzato da un nemico astuto, su un confine mal
definito e nel normale caos del campo di battaglia.

Il comandante talebano afgano Mullah Samiullah Rahmani nega che i suoi
fossero addirittura nell’area il gruppo di insorti non è mai riluttante a
prendersi il merito di conflitti militari (ovviamente, se c’è inganno, ciò è
esattamente quello che i talebani direbbero).
Tuttavia questa particolare regione è una regione che
l’esercito pachistano occupa da diversi anni ed è considerata “ripulita” da
insorti.

L’incidente non è stato un caso di un attacco di droni o di un
bombardamento andato storto, un evento abbastanza comune. Nonostante tutti i
discorsi sulle “armi di precisione” e sugli “attacchi chirurgici”, i droni
hanno inflitto centinaia di morti civili e bombe da 500 libbre
hanno poco in comune con le  sale
operatorie.  Gli strumenti della NATO
sono stati invece elicotteri da attacco Apache e, secondo l’Associated Press, e un velivolo
d’assalto A-130. In poche parole l’assalto è stato condotto da piloti in carne
ed ossa che presumibilmente hanno identificato i bersagli per i propri
superiori.

Questi bersagli sono stati due fortificazioni di confine, un’architettura
che non è mai stata associata ai talebani. E’ vero che il confine tra il
Pakistan e l’Afghanistan è permeabile e non sempre chiaramente definito, ma gli
insorti afghani non costruiscono postazioni di cemento. Un “forte” è una
banalità per un drone o per un caccia da combattimento, ed è per questo che i
talebani preferiscono le grotte e i bunker nascosti.

Abbastanza ovviamente le due parti dissentono su quel che è successo.  Gli statunitensi affermano di essere stati
attaccati dal confine pachistano, di aver ingaggiato un combattimento di tre
ore e di aver chiamato gli elicotteri alla fine della battaglia.

Ma, secondi i pachistani, non c’era stato fuoco dalla loro parte del
confine e sono stati gli elicotteri a iniziare la battaglia, che è durata un
po’ meno di due ore. I pachistani dicono anche che ci sono stati due attacchi
di Apache. Il primo ha attaccato l’avamposto Volcano e quando il forte gemello
vicino, l’avamposto Boulder, ha aperto il fuoco sugli elicotteri, anch’esso è
finito sotto attacco.  Il Pakistan
afferma che i suoi militari hanno contattato la NATO per avvertirla che stava
attaccando truppe pachistane, ma che il fuoco è proseguito.  Gli elicotteri alla fine si sono ritirati,
soltanto per riapparire e rinnovare l’attacco quando i pachistani hanno cercato
di rinforzare i forti assediati.

Può essere stato un caso di cattive informazioni d’intelligence?

Secondo i pachistani, Islamabad ha avuto cura di fornire alla NATO le
coordinate delle proprie postazioni  per
evitare incidenti esattamente di questo tipo. Il generale pachistano
Ashfaq Nadeem ha affermato
“non è possibile” che le “forze NATO non conoscessero la localizzazione
delle postazioni pachistane.”  Il generale pachistano
Ashram Nader
ha definito l’attacco un “atto deliberato di aggressione”.

Può essere stato “deliberato”? Errori si verificano in guerra, ma la
tempistica di questo scontro è profondamente sospetta.

La cosa avviene in un momento delicato, quando circa 50 paesi si stavano
preparando a riunirsi a Bonn, in Germania, per colloqui intesi a risolvere la
guerra afghana.  In quella riunione il
Pakistan è centrale, il solo paese della regione con estesi contatti tra i vari
gruppi di insorti.  Se gli USA
pianificheranno davvero il ritiro delle truppe per il 2014, avranno necessità
di una stretta collaborazione del Pakistan.

“Questo potrebbe essere uno spartiacque nelle relazioni del Pakistan con
gli Stati Uniti,” ha dichiarato al Guardian
(UK)
l’alto commissario per l’Inghilterra,
Wajid Shamsul Hasan. “Potrebbe far naufragare il calendario del ritiro delle
truppe statunitensi.”

Il Pakistan si è ora ritirato dai colloqui di Bonn e le relazioni tra
Washington e Islamabad sono pessime, quanto mai lo sono state prima.  I pachistani hanno bloccato due principali
vie di terra verso l’Afghanistan, percorsi su cui si muove circa il 50% delle
forniture belliche.  Islamabad ha anche
chiesto che la CIA chiuda la sua base di droni a Shamsi, nella provincia
pachistana del Beluchistan.

Chi trarrà vantaggio da queste ricadute?

Non è un segreto che molti nell’esercito USA sono scontenti della
prospettiva di negoziati con i talebani, in particolare con il più letale
alleato dell’organizzazione, il Gruppo Haqqani. C’è uno strappo non dichiarato
ma generalmente noto tra il Dipartimento della Difesa e il Dipartimento di
Stato, con il primo che vuole battere gli insorti prima di sedersi a discutere
mentre il secondo non è certo che tale tattica funzionerebbe.  Qualcuno del lato in uniforme della divisione
potrebbe aver deciso di far deragliare, o quanto di meno di danneggiare, l’incontro
di Bonn?

Non è nemmeno un segreto che non tutti in Afghanistan vogliono la pace, in
particolare se implica un accordo con i talebani.  L’Alleanza del Nord, costituita
principalmente da tagiki e uzbeki, non vuole avere nulla a che fare con i talebani
insediati  pashtun che sono
principalmente raggruppati al sud e ad est e nelle regioni tribali del
Pakistan.  L’esercito afgano è
prevalentemente tagiko, popolazione che non solo costituisce il grosso della
truppa, ma anche il 70% del comando.  Il
presidente Hamid Karzai è un pashtun, ma è in larga misura una facciata del
governo di Kabul dominato dall’Alleanza del Nord.

Ci sono anche in gioco temi regionali più vasti.

Non è stato sorprendente che la Cina
si sia immediatamente schierata a difesa del Pakistan, con il ministro degli
esteri cinese Yang Jiechu che ha espresso “profondo sconvolgimento e forte
preoccupazione” per l’incidente.  La Cina
non è contenta del dispiegamento della NATO in Afghanistan e ancor meno della
possibilità di basi statunitensi permanenti in quel paese.  In un incontro del 2 novembre a Istanbul, la
Cina, insieme con Pakistan, Iran e Russia, si è opposta a uno spiegamento
statunitense a lungo termine nella regione.

L’Iran è preoccupato per la minaccia costituita dalla potenza militare
statunitense ai propri confini;
Islamabad è preoccupata del fatto che prolungare la guerra
destabilizzerà ulteriormente il Pakistan e Bejing e Mosca nutrono sospetti che
gli statunitensi abbiano posto le loro mire sulle risorse petrolifere e sul gas
dell’Asia Centrale.  Sia la Russia sia la
Cina dipendono dagli idrocarburi dell’Asia Centrale, la prima per le
esportazioni in Europa e la seconda per gestire le sue fiorenti industrie.

La Cina è anche preoccupata riguardo alla recente svolta strategica dell’amministrazione
Obama in direzione dell’Asia.  Gli Stati
Uniti sono intervenuti apertamente in dispute tra la Cina e i suoi vicini dell’Asia
sud-orientale, nel sud della Cina, e recentemente hanno firmato un accorto per
dispiegare 2.500 marines in Australia. Washington ha anche rafforzato i suoi
legami con l’Indonesia e ha riscaldato quelli con il Myanmar. Per la Cina tutto
questo appare come una campagna per circondare Beijing di alleati USA e tenere
un dito premuto sulla giugulare energetica cinese.  Circa l’80% del petrolio cinese si muove
attraverso l’Oceano Indiano e il Mare Meridionale Cinese.

Un ingrediente chiave di qualsiasi formula per bilanciare il potere e l’influenza
crescenti della Cina in Asia è il ruolo dell’India. New Delhi si è
tradizionalmente mantenuta neutrale in politica estera, ma, a partire dall’amministrazione
Bush, si è fatta sempre più vicina a Washington.  La Cina e l’India hanno un rapporto spinoso
che risale alla guerra di confine del 1962 tra i due paesi e al sostegno della
Cina al tradizionale nemico dell’India, il Pakistan.  Le rivendicazioni della  Cina su parte dell’area al confine indiano non
hanno migliorato le cose.

L’India gradirebbe anche un governo a Kabul privo di talebani e qualsiasi
cosa che metta Islamabad a disagio va benissimo a New Delhi.  Ci sono elementi nell’esercito e nella comunità
diplomatica statunitensi che vorrebbero vedere Washington scaricare la sua
alleanza con il Pakistan e spingere l’India a rapporti più stretti.  Un buon numero di indiani prova gli stessi
sentimenti.

Sin qui la
Casa Bianca si è rifiutata di scusarsi
, facendo invece trapelare una storia
secondo cui mostrarsi deboli con il Pakistan in un anno di elezioni negli USA è
impossibile.

Alla fine, lo scontro al confine può rivelarsi un incidente, anche se non è
probabile che lo sapremo mai per certo.
Le indagini militari non sono famose per accuratezza e molto di quel che
è accaduto resterà secretato.

Ma con tutte queste correnti trasversali che si incrociano sui cieli bui
del Pakistan, forse qualcuno ha visto un’occasione e l’ha colta.  In un certo senso è irrilevante che l’attacco
sia stato deliberato o stupido: ne avvertiremo a lungo le conseguenze ed è
probabile che le onde si diffonderanno da una collina rocciosa del Pakistan
fino ai limiti estremi dell’Oceano Indiano e oltre.

 

Conn Hallinan può
essere letto presso middleempireseries.wordpress.com

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/pakistan-anatomy-of-a-crisis-by-conn-hallinan

Fonte: Dispatches from the Edges

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC
BY-NC-SA 3.0

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Arundhati Roy all’Università Popolare (e al microfono del popolo)

21 lunedì Nov 2011

Posted by Redazione in Arundhati Roy, Economia, Mondo, Video

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Tag

Afghanistan, AIG, American Way of Life, Arabia Saudita, contadini indiani, Emirati Arabi, Grande Depressione, India, iran, iraq, Judson Memorial, occupywallstreet, Parco Zuccotti, Peoples University, suicidi, Zindabad

Arundhati Roy – 16 novembre 2011

Introduzione: Voglio ringraziarvi, voi della chiesa del Judson  Memorial,  per essere venuti  in solidarietà all’ultimo momento e per averci offerto questo splendido spazio. Senza altri commenti, abbiamo oggi con noi Arundhati Roy.

Grazie Arundhati. Controllo microfono. (Pubblico: controllo microfono). Grazie Arundhati per il tempo che ci dedichi oggi durante questa settimana di mobilitazione molto cruciale.  […]

Arundhati Roy: Controllo microfono.

Pubblico: Controllo microfono.

Arundhaty Roy: Grazie alla chiesa del Judson e grazie a voi per essere qui. Martedì mattina la polizia ha sgomberato il parco Zuccotti, ma oggi la gente c’è tornata. La polizia dovrebbe sapere che questa protesta non è una battaglia per il territorio. Non ci stiamo battendo per il diritto di occupare un parco qui o là. Noi ci battiamo per la giustizia. Giustizia non solo per il popolo degli Stati Uniti , ma per tutti.

Quello che avete conquistato, dal 17 settembre, quando il movimento Occupy ha avuto inizio negli Stati Uniti, è l’introduzione di una nuova immaginazione, di un nuovo linguaggio politico, nel cuore dell’impero.  Voi avete reintrodotto il diritto di sognare in un sistema che cerca di trasformare tutti in zombi, ipnotizzati a confondere il  consumismo spensierato  con la felicità e la realizzazione di sé.

Da scrittrice, lasciate che vi dica che questo è un risultato immenso e non sono in grado di ringraziarvi abbastanza.

Parlavamo di giustizia. Oggi, mentre parliamo, l’esercito degli Stati Uniti sta conducendo una guerra di occupazione in Iraq e in Afghanistan. I droni statunitensi uccidono civili in Pakistan e altrove. Decine di migliaia di soldati statunitensi e di squadre della morte si stanno spostando in Africa. Se spendere  trilioni di dollari dei vostri soldi per amministrare l’occupazione dell’Iraq e dell’Afghanistan non è sufficiente, si sta parlando di una guerra contro l’Iran.

Sin dalla Grande Depressione la produzione  di armi e  l’esportazione della guerra, sono stati i modi chiave in cui gli Stati Uniti hanno stimolato la propria economia. Proprio di recente, sotto il presidente Obama, gli Stati Uniti hanno concluso un accordo per la vendita di  60 miliardi di dollari di armi all’Arabia Saudita …  mussulmani moderati, vero? Sperano di vendere migliaia di bombe a penetrazione profonda agli Emirati Arabi Uniti, hanno venduto un valore di 5 miliardi di dollari di velivoli militari al mio paese, l’India, che ha più poveri di tutti i paesi più poveri dell’Africa messi insieme. Tutte queste guerre, dai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki al Vietnam, la Corea e l’America Latina, hanno reclamato milioni di vite, tutte guerre combattute per garantire la “American Way of Life” [Lo stile di vita statunitense].

Oggi sappiamo che la “American Way of Life” , cui  il resto del mondo  deve aspirare,  ha avuto come risultato 400 persone che possiedono una ricchezza pari a quella della metà della popolazione degli Stati Uniti.  Si è tradotta in migliaia di persone cacciate dalle loro case e dal loro lavoro, mentre il governo degli Stati Uniti salvava banche e multinazionali.  L’American International Group [Gruppo internazionale statunitense],  AIG, ha ricevuto da solo 182 miliardi di dollari.

Il governo indiano venera la politica economica statunitense. Come risultato di vent’anni di economia del libero mercato ogni cento tra le persone più ricche dell’India possiedono un patrimonio di valore pari a un quarto del PIL del paese, mentre più dell’80% della popolazione vive con meno di cinquanta centesimi al giorno. Duecentocinquantamila contadini presi in una spirale di morte di debiti, si sono suicidati.  Lo chiamiamo progresso e ora ci consideriamo una superpotenza. Come voi,  ne abbiamo ben titolo; abbiamo bombe atomiche e una disuguaglianza oscena.

La buona notizia è che la gente ne ha avuto abbastanza e non sopporterà oltre. Il movimento Occupy si è unito a migliaia di altri movimenti di resistenza di tutto il mondo, nel quale i popoli più poveri si stanno sollevando per bloccare la strada alle multinazionali più ricche . Pochi di avrebbero sognato di vedere voi, il popolo degli Stati Uniti, dalla nostra parte, a cercare di fare lo stesso nel cuore dell’impero.  Non so come comunicare l’enormità  che tutto questo significa.

Loro, l’uno per cento, dicono che noi non abbiamo richieste; forse non sanno che la nostra rabbia, da sola, sarebbe sufficiente per distruggerli. Ma ecco alcune cose: alcune idee prerivoluzionarie che ho formulato per riflettere insieme al riguardo.

Vogliamo fermare questo sistema che produce disuguaglianza .  Vogliamo porre un limite all’accumulo sregolato  di ricchezza e proprietà da parte sia dei singoli sia delle società. Da ‘frenatori’ e ‘limitatori’ [cap-ists e lid-ists  nell’originale – n.d.t.] noi chiediamo:

1) uno stop alle proprietà  incrociate delle imprese, ad esempio che i fabbricanti di armi non possano essere proprietari di stazioni televisive, che le società minerarie non possano gestire giornali, che le società commerciali non possano finanziare  le università, che le imprese farmaceutiche non possano controllare fondi di assistenza sanitaria pubblica;

2) le risorse naturali e le infrastrutture essenziali  (forniture d’acqua, elettricità, assistenza sanitaria e istruzione) non possono essere privatizzate;

3) tutti devono avere diritto a un alloggio, all’istruzione e all’assistenza sanitaria;

4) i figli dei ricchi non possono ereditare la ricchezza dei propri genitori;

Questa lotta ha risvegliato la nostra immaginazione. In un qualche momento del suo percorso  il capitalismo ha ridotto l’idea di giustizia a significare soltanto “diritti umani” e l’idea di sognare l’eguaglianza è diventata blasfema.

Noi non stiamo combattendo soltanto per  riparare mediante riforme  un sistema che deve essere sostituito.  In qualità di ‘frenatrice’ e ‘limitatrice’ [cap-ist e lid-ist, vedasi più sopra – n.d.t.]  saluto la vostra lotta! Salaam e Zindabad!  [ all’incirca “Pace e lunga vita” o  “Pace ed evviva!” – n.d.t.]

[….]

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/arundhati-roy-at-the-people-s-university-by-arundhati-roy

Fonte:  Peoples University

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

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Israele sta preparando un attacco all’Iran?

21 lunedì Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Guerra al terrore, Neve Gordon

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Alex Fishman, aviazione israeliana, Ehud Barak, esercitazioni, Haaretz, IAEA, iran, israele, Knesset, Leon Panetta, NATO, Netanyahu, nucleare, Or Heller, Reuven Barko, Roni Daniel, Shimon Peres, Washington, Yisrael Hayomeven, Yossi Verter, Zvi Yechezkeli

 

 

 

di Neve Gordon – 20 novembre 2011

Scorrendo i giornali mentre mi affrettavo a preparare i bambini per la scuola, mi sono improvvisamente reso conto che Israele potrebbe davvero star preparando un attacco militare all’Iran. “[Il Segretario di Stato USA alla difesa, Leon] Panetta ha chiesto un impegno a un’azione coordinata in Iran” dice un titolo, e “Una bomba a distanza di braccio” dice un altro.

Ad alimentare questo tormentone c’era una serie di eventi militari che erano stati programmati mesi in anticipo e che tuttavia sono misteriosamente coincisi con la pubblicazione del rapporto del Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) sugli sforzi iraniani per produrre una bomba atomica. Per quattro giorni filati tutti i principali canali televisivi hanno mostrato ripetutamente immagini di Israele che si prepara alla guerra.

E’ cominciato tutto con un rapporto sulla sperimentazione da parte di Israele di un missile balistico a lunga distanza, che enfatizzava la capacità del missile di montare testate nucleari. Ciò ‘è stato seguito da interviste a piloti che hanno preso parte a esercitazioni complessive dell’Aviazione Israeliana riguardanti attacchi a lunga distanza che hanno avuto luogo presso una base aerea della NATO in Italia.  Sono state mostrate anche immagini d’archivio di un missile lanciato da un sottomarino israeliano.  Ai lettori di Ha’aretz è stato detto che il sottomarino era importante perché avrebbe consentito a Israele di condurre un contrattacco in caso di guerra nucleare.

Queste immagini di soluzioni offensive sono state seguite da immagini dei preparativi israeliani di difesa. Il 3 novembre i tre principali canali giornalistici hanno dedicato molti minuti di trasmissione alla copertura di un’esercitazione che simulava un attacco alla regione centrale di Israele; questi spezzoni mostravano persone che venivano trasportate su barelle e soldati che si occupavano di vittime colpite da armi chimiche. Un giorno dopo, Ha’aretz ha riferito che i preparativi militari contro l’Iran erano stati effettivamente aggiornati.

Un Iran con una capacità nucleare è stato continuamente presentato come una minaccia all’esistenza di Israele. Il 31 ottobre, in un discorso di apertura della sessione invernale della Knesset, il primo ministro Netanyahu ha osservato che un “Iran nuclearizzato costituirà una grave minaccia al Medio Oriente e al mondo intero e ovviamente anche una minaccia diretta e grave contro di noi,” aggiungendo che la concezione della sicurezza di Israele non può essere basata sulla sola difesa ma deve anche comprendere un “potenziale offensivo che serva da base per la deterrenza.”

Analisti hanno ripetutamente affermato che il presidente Mahmoud Ahmadinejad è un negatore dell’Olocausto e Reuven Barko, di Yisrael Hayomeven , ha confrontato l’Iran alla Germania nazista. Non si può sottovalutare l’impatto di questa analogia sulla psicologia collettiva degli ebrei israeliani.

Barko ha proseguito collegando la frase di Amleto “essere o non essere” alla situazione attuale d’Israele, proponendo il dilemma con cui attualmente si confronta lo stato come “colpire o non colpire”. Il presidente Shimon Peres ha dichiarato che l’Iran è il solo paese al mondo “che minaccia l’esistenza di un altro paese” ma ha trascurato di citare il fatto che per generazioni i palestinesi sono stati privati del loro diritto all’autodeterminazione.

Il giorno in cui finalmente è stato pubblicato il rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA) praticamente tutti i canali mediatici israeliani lo descrissero come una “pistola fumante”. Il rapporto, secondo i media, fornisce prove concrete che il programma nucleare iraniano è anche mirato a produrre armi.  Zvi Yechezkeli di Canale Dieci lo ha descritto come “la fine dell’era dell’ambiguità iraniana”, ma ha mancato, naturalmente, di rimarcare che l’ambiguità dello stesso Israele riguardo al proprio potenziale nucleare continua senza intralci; Roni Daniel di Canale Due ha dichiarato che “siamo sollevati” dal rapporto, suggerendo che le affermazioni di Israele sono ora comprovate e che il rapporto può servire a giustificare sia l’imposizione di sanzioni più dure contro l’Iran sia persino un attacco.

Nonostante gli infiniti guerrafondai, la maggior parte dei commentatori israeliani ha dichiarato che la frenesia non è nulla più che “un’eccitazione nucleare”.  La maggioranza degli analisti politici è stata propensa a concordare sul fatto che la campagna mediatica, che ha presentato Israele come in corso di seria preparazione a un attacco all’Iran, è stata orchestrata soltanto al fine di esercitare pressioni sulla comunità internazionale per imporre sanzioni più severe contro l’Iran.  Or Heller, di Canale Dieci, ha riassunto la cosa affermando: “E’ evidente che né il pubblico iraniano né quello israeliano sono il bersaglio di quel che sta succedendo qui, bensì prima di tutto e soprattutto lo è la comunità internazionale, gli statunitensi, gli inglesi.”

I commentatori hanno anche osservato che c’è un’opposizione muro contro muro a un attacco israeliano, compresi gli USA, l’Europa, Russia e Cina.  Alex Fishman ha riassunto il sentimento internazionale scrivendo: “Se qualcuno in Israele pensa che ci sia un semaforo verde o giallo in arrivo da Washington per un attacco militare contro l’Iran, quel qualcuno non ha idea di quello che sta succedendo; il semaforo resta lo stesso, un rosso abbagliante.”

Il ritratto di Israele come di un vicino prepotente che finge un attacco di rabbia e chiede ai suoi amici di trattenerlo non è particolarmente rassicurante, comunque.

Dopo 10 giorni di frenesia mediatica, il ministro della difesa Ehud Barak ha cercato di calmare il pubblico affermando che nel caso di un attacco non  sarebbero uccise nemmeno 500 persone”, ma non ha detto che non  ci saranno attacchi.

Yossi Verter, di Ha’aretz, ha spiegato che il martellamento mediatico serve agli interessi di Barak. “Un attacco riuscito alle strutture nucleari iraniane sotto la sua guida ministeriale può riabilitare il suo status personale e aiutarlo a ricuperare la fiducia del pubblico.” Verter cita un membro eminente del sistema politico, che afferma che “Barak è convinto che solo una persona della sua statura riguardo alla sicurezza possa guidare la battaglia forse più fatale della storia d’Israele dalla guerra d’indipendenza.”

Indipendentemente dal fatto che  Netanyahu e Barak siano pronti a lanciare un attacco, il martellamento mediatico e il ritratto dell’Iran come costituente una minaccia all’esistenza di Israele contribuisce sicuramente a creare le condizioni necessarie per una campagna militare.

Ciò che è notevole in questo agitare di spade è la sua astrattezza. Nemmeno un analista ha osservato che entrare in guerra è facile, ma porvi termine è molto più difficile, particolarmente se dall’altra parte c’è una potenza regionale che dispone di vaste risorse e di un esercito bene addestrato (diversamente da Hamas o Hezbollah). E naturalmente nessuno ha parlato davvero della probabilità di un futuro cruento o di che tipo di vita stiamo programmando per i nostri figli. Questo tipo di astrattezza rende la guerra appetibile, rendendo un grande servizio alla macchina bellica.

Neve Gordon è autore di ‘Israel’s Occupation’ [L’occupazione di Israele] e può essere raggiunto attraverso il suo sito web www.israelsoccupation.info

Pubblicato in origine su Al Jazeera il 18 novembre 2011

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/is-israel-preparing-an-assault-against-iran-by-neve-gordon

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

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Israele non attaccherà l’Iran. Punto e a capo.

10 giovedì Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Guerra al terrore, Uri Avnery

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Ahmadinejad, armi di distruzione di massa, bomba atomica, Ehud Barak, Eisenhower, Fiji, Grande Tel Aviv, guerra dello Yom Kippur, Gush Shalom, Haaretz, Hamas, Henry Kissinger, HEzbollah, iran, Isole Marshall, Knesset, Meir Dagan, Micronesia, missili, Mossad, Netanyahu, Palau, Palestine Chronicle, petrolio, piazza Rabin, Shin Bet, Stretto di Hormuz, Suez, usa

di Ury Avnery   – 9 novembre 2011

Tutti conoscono la scena dagli anni della scuola: un piccoletto litiga con un ragazzo più grande. “Tenetemi!” grida ai suoi compagni, “Prima che gli spezzi le ossa!”

Il nostro governo sembra comportarsi in questo modo.  Ogni giorno, su tutti i canali, urla che sta per spezzare le ossa all’Iran, nel giro di qualsiasi istante.

L’Iran sta producendo una bomba nucleare. Non possiamo permetterlo. E allora li bombarderemo fino a ridurli in briciole.

Benyamin Netanyahu lo dice in ciascuno dei suoi innumerevoli discorsi, compreso il suo discorso d’apertura della sessione invernale della Knesset.  Idem Ehud Barak.  Ogni commentatore che si rispetti (si è mai visto un commentatore che non si rispetti?) ne scrive.  I media amplificano lo strepito e la furia.

“Haaretz” riempie la prima pagina di foto dei sette ministri più importanti (il “settetto della sicurezza”) indicandone tre a favore dell’attacco e quattro contro.

Un proverbio tedesco dice: “Le rivoluzioni annunciate in anticipo non avvengono mai.” Lo stesso vale per le guerre.

Le questioni nucleari sono soggette a una censura militare molto stretta. Molto, molto stretta davvero.

Tuttavia il censore sembra sorridere benevolmente.  Lasciamo che i ragazzi, compreso il Primo Ministro e il Ministro della Difesa (il capo ultimo del censore) giochino la loro partita.

Il rispettato ex capo di lungo corso del Mossad, Meir Dagan, ha ammonito pubblicamente contro l’attacco, descrivendolo come “l’idea più stupida” che egli avesse mai sentito.  Ha spiegato di ritenere suo dovere ammonire contro di essa, in vista dei piani di Netanyahu e Barak.

Mercoledì c’è stato un vero e proprio diluvio di rivelazioni.  Israele ha sperimentato un missile che può portare una testata nucleare a più di 5.000 km di distanza, oltre dove sapete voi.  E la nostra aviazione ha appena completato esercitazioni in Sardegna, a una distanza maggiore di dove sapete voi.  E giovedì il Comando del Fronte Interno ha tenuto esercitazioni nell’intera Grande Tel Aviv, con le sirene che strillavano a più non posso.

Tutto questo sembra indicare che l’intero baccano è uno stratagemma.  Forse per spaventare e dissuadere gli iraniani.  Forse per spingere gli statunitensi ad azioni più estreme.  Forse coordinato in anticipo con gli statunitensi.  (Fonti inglesi, dal canto loro, hanno rivelato che la Real Marina si sta addestrando per appoggiare un attacco statunitense all’Iran).

E’ una vecchia tattica di Israele quella di agire come se stesse dando di matto  (“Il capo è impazzito” è un richiamo consueto nei nostri mercati, per suggerire che il fruttivendolo sta vendendo sottocosto). Non ascolteremo più gli Stati Uniti. Semplicemente bombarderemo e bombarderemo e bombarderemo.

Beh, siamo seri per un momento.

Israele non attaccherà l’Iran. Punto e a capo.

Alcuni possono pensare che io mi stia mettendo nei guai. Non avrei dovuto aggiungere almeno “probabilmente” o “quasi certamente”?

No, non lo farò. Ripeto categoricamente: Israele NON Attaccherà L’Iran.

Dall’avventura di Suez del 1956, quando il presidente Dwight D. Eisenhower trasmise un ultimatum che bloccò l’azione, Israele non ha mai intrapreso alcuna azione militare significativa senza aver ottenuto prima il consenso statunitense.

Gli USA sono l’unico sostenitore affidabile di Israele nel mondo (oltre, forse, alle Fiji, alla Micronesia, alle Isole Marshall e a Palau). Distruggere questo rapporto significa tagliare l’ancora di salvezza. Per farlo bisogna essere più che solo un po’ fuori di testa. Bisogna essere pazzi furiosi.

Inoltre Israele non può combattere una guerra senza l’illimitato sostegno statunitense, perché i nostri aerei e le nostre bombe vengono dagli Stati Uniti.  Durante una guerra abbiamo bisogno di forniture, parti di ricambio, diversi tipo di equipaggiamento.  Durante la guerra dello Yom Kippur, Henry Kissinger aveva un “treno aereo” che ci riforniva ventiquattr’ore al giorno.  E quella guerra probabilmente sembrerebbe una scampagnata in confronto a una guerra con l’Iran.

Guardiamo la carta geografica. Ciò, detto per inciso, è sempre raccomandato prima di cominciare qualsiasi guerra.

La prima caratteristica che colpisce l’occhio è l’angusto Stretto di Hormutz attraverso il quale passa un barile su tre del flusso di petrolio mondiale trasportato per mare.  Quasi l’intera produzione dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo, dell’Iraq e dell’Iran deve  superare le forche caudine di questa stretta rotta marittima.

“Stretta” è un eufemismo. L’intera larghezza di questa via d’acqua è di circa 35 km (o 20 miglia). E’ circa la distanza tra Gaza e Beer Sheva, che è stata superata la settimana scorsa dai missili primitivi della jihad islamica.

Appena il primo aereo israeliano entrasse nello spazio aereo iraniano, lo stretto verrebbe chiuso. La marina iraniana ha una quantità di navi lanciamissili, ma non ne avrà bisogno. Saranno sufficienti missili lanciati da terra.

Il mondo sta già barcollando sull’orlo dell’abisso.  La piccola Grecia sta minacciando di cadere e di portare con sé grossi pezzi dell’economia mondiale.  L’eliminazione di quasi un quinto delle forniture di petrolio alle nazioni industriali porterebbe a una catastrofe difficile addirittura da immaginare.

Aprire lo Stretto con la forza richiederebbe una grossa azione militare (compreso “mettere gli scarponi sul terreno”,  un’invasione terrestre) che eclisserebbe le disavventure statunitensi in Iraq e in Afghanistan. Gli USA possono permetterselo? Lo può la NATO? Israele stesso non fa parte della stessa lega.

Ma Israele sarebbe coinvolto moltissimo nell’azione, anche se solo dalla parte passiva.

In una rara dimostrazione di unità, tutti i capi dei servizi israeliani, compresi i capi del Mossad e dello Shin Bet, si oppongono pubblicamente all’intera idea. Possiamo solo immaginare il perché.

Non so se l’operazione sia affatto possibile.  L’Iran è un paese molto vasto, circa delle dimensioni dell’Alaska; le installazioni nucleari sono ampiamente sparpagliate e in larga misura sotterranee.  Anche con le speciali bombe a penetrazione profonda degli USA, l’operazione potrebbe portare a uno stallo degli sforzi iraniani – quali che siano – solo per pochi mesi. Il prezzo potrebbe essere troppo alto per un risultato così magro.

Inoltre è quasi certo che con l’inizio di una guerra i missili grandinerebbero su Israele, non solo dall’Iran, ma anche da Hezbollah e forse anche da Hamas.  Non abbiamo una difesa adeguata per le nostre cittadine.  La quantità di morti e distruzioni sarebbe proibitiva.

Improvvisamente i media sono pieni di storie circa i nostri tre sottomarini, che presto passano a cinque o anche sei, se i tedeschi saranno comprensivi e generosi.  E’ detto apertamente che essi ci darebbero la capacità di un “secondo attacco”, se l’Iran utilizzasse le sue (ancora inesistenti) testate nucleari contro di noi.  Ma gli iraniani possono anche usare armi chimiche e altre armi di distruzione di massa.

Poi c’è il prezzo politico. Ci sono un mucchio di tensioni nel mondo islamico. L’Iran è tutt’altro che popolare in molte parti di esso. Ma un assalto israeliano a uno dei principali paesi mussulmani unirebbe istantaneamente sunniti e sciiti, dall’Egitto alla Turchia al Pakistan e oltre. Israele diventerebbe una villa in una giungla in fiamme.

Ma il parlare di guerra può servire a molti scopi, inclusi quelli politici interni.

Sabato scorso il movimento di protesta sociale si è rifatto vivo. Dopo una pausa di due mesi, una massa di gente si è riunita nella piazza Rabin di Tel Aviv. La cosa è stata particolarmente notevole per quello stesso giorno stavano cadendo missili sulle città vicine alla Striscia di Gaza. Fino ad ora in una situazione simile le dimostrazioni erano sempre state annullate.  I problemi della sicurezza hanno la priorità su ogni altra cosa. Non questa volta.

Molti, poi, ritenevano che la festa per Gilad Shalit avrebbe cancellato la protesta dalla mente del pubblico. Non ho ha fatto.

Al riguardo è successo qualcosa di degno di nota: i media, dopo essersi schierati per mesi con il movimento di protesta, hanno cambiato atteggiamento. Improvvisamente tutti, compreso Haaretz, gli piantano coltelli nella schiena. Come eseguendo un ordine, tutti i giornali il giorno dopo hanno scritto che “più di 20.000” avevano preso parte [alla manifestazione].

Beh, io c’ero, e ho realmente qualche competenza su queste cose.  C’erano almeno 100.000 persone là, per la maggior parte giovani. A fatica potevo muovermi.

La protesta non si è esaurita, come affermano i media.  Lungi da ciò.  Ma quale mezzo migliore per distogliere l’attenzione della gente dalla giustizia sociale che parlare di “pericolo esistenziale”?

Inoltre, le riforme rivendicate dai manifestanti richiederebbero  fondi. Considerata la crisi finanziaria globale, il governo si oppone strenuamente ad aumentare il bilancio statale per timore di danneggiare la propria valutazione creditizia.

E allora da dove potrebbero arrivare i soldi? Ci sono solo tre fonti plausibili: gli insediamenti (chi oserebbe?), gli ortodossi (idem!) e l’enorme bilancio militare.

Ma alla vigilia della guerra più cruciale della nostra storia, chi toccherebbe le forze armate? Abbiamo bisogno di ogni shekel per comprare altri aerei, altre bombe, altri sottomarini. Le scuole e gli ospedali, ahimè, devono aspettare.

E dunque Dio benedica Mahmoud Ahmadinejad. Dove saremmo senza di lui?

Uri Avner è un attivista pacifista israeliano ed ex membro della Knesset.  E’ il fondatore di Gush Shalom. Ha offerto questo articolo a PalestineChronicle.com.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/israel-will-not-attack-iran-period-by-uri-avnery

Fonte: Palestine Chronicle

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Giustificazione morale

30 domenica Ott 2011

Posted by Redazione in Economia, Mondo, Noam Chomsky

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11 settembre, 99%, Afghanistan, Arabia Saudita, austerità, BCE, brasile, BRIC, Bush, CIA, Cina, concentrazione di ricchezza, droni, egitto, Emirati Arabi Uniti, FBI, figlio unico, finanziarizzazione, Francia, Germaniia, Gheddafi, grecia, Guantanamo, India, inflazione, Inghilterra, iran, libia, Medio Oriente, Obama, Osama bin Laden, pacchetto di stimolo, pakistan, politica estera, Portogallo, presunzione d'innocenza, primavera araba, recessione, Russia, Shanghai Cooperation Organization, Siria, spagna, stagnazione, terrorismo, triumvirato imperiale, Tunisia, Turchia, Unione Africana, Unione Europea, usa, Yemen

 

di Noam Chomsky e Dean Carroll (27 ottobre 2011)

 

Tu sei stato uno dei principali critici della politica estera statunitense in passato. Qual è il tuo punto di vista sulla prestazione in quest’area di Barack Obama da presidente, da quando ha assunto la carica? So che sei stato critico riguardo alla missione per uccidere Osama bin Laden.

Esisteva un principio nella legge anglo-statunitense chiamato principio d’innocenza sino a che la colpevolezza non sia provata in tribunale.  Quanto un sospetto viene preso e può facilmente essere condotto in giudizio, assassinarlo è semplicemente un crimine.  Per inciso, anche l’invasione del Pakistan è stata una violazione della legge internazionale.

C’è allora una qualsiasi giustificazione morale per gli attacchi di droni della CIA in paesi come lo Yemen e il Pakistan, che hanno presumibilmente avuto luogo durante la dirigenza della Casa Bianca da parte di Obama?

Non c’è alcuna giustificazione per gli assassinii mirati.  Erano cose che avvenivano in precedenza, sotto l’ultimo presidente, ma l’amministrazione Obama ha esteso procedure precedenti a una campagna globale di assassinii diretta contro persone sospette di incoraggiare altri a compiere quelle che gli Stati Uniti definiscono azioni terroristiche. Che cosa sia definito “azione terroristica” è qualcosa che solleva questioni piuttosto serie, e questo è un eufemismo.  Si prenda, ad esempio il caso di Guantanamo di un quindicenne che è stato accusato di aver preso un fucile per difendere il suo villaggio, in Aghanistan, quando è stato attaccato da soldati statunitensi. E’ stato accusato di terrorismo e poi inviato a Guantánamo per un totale di otto anni. Dopo otto anni di una prigionia nei quali quel che succede non è un segreto, si è dichiarato colpevole ed è stato condannato ad altri otto anni di prigione. E’ terrorismo questo? Un ragazzo di quindici anni che difende il suo villaggio dal terrorismo?

Dunque tu pensi che, potenzialmente, l’approccio alla politica estera di Obama sia stato peggiore di quello di George W. Bush, in certe aree?

In termini di terrorismo di stato (ed è così che chiamerei questo) devo dire di sì, e ciò è già stato fatto presente dagli analisti dell’esercito.  La politica dell’amministrazione Bush era di rapire i sospetti e di inviarli a prigioni segrete in non erano trattati molto educatamente, come sappiamo.  Ma l’amministrazione Obama ha intensificato quella politica arrivando a non rapirli, ma a ucciderli.  Ora, ricordiamolo, si tratta di sospetti, anche nel caso di Osama bin Laden.  E’ plausibile che abbia effettivamente pianificato gli attacchi dell’11 settembre, ma quel che è plausibile e quel che è provato sono due cose diverse. Merita essere ricordato che otto mesi dopo gli attacchi, nell’aprile 2002, il capo dello FBI, nella sua più dettagliata comunicazione alla stampa, fu soltanto in grado di affermare di ritenere che il complotto fosse stato ordito in Afghanistan da bin Laden ma realizzato negli Emirati Arabi Uniti, in Germania e negli Stati Uniti. Da allora non è stata prodotta alcuna prova certa, almeno pubblicamente. La commissione sull’11 settembre, creata dal governo, ha ricevuto una quantità di materiale che costituiva una prova indiziaria che ciò era ragionevolmente plausibile, ma è dubbio che una qualsiasi parte di esso reggerebbe in un tribunale indipendente.  Le prove di cui si dispone sono state fornite alla commissione dal governo in base a interrogatori di sospetti in condizioni molto crudeli, come sappiamo.  E’ altamente improbabile che un tribunale indipendente avrebbe potuto prendere sul serio prove simili.

Come vedi il conflitto libico? Le forze occidentali, europee in particolare, hanno fatto bene a  intervenire?

Le tre tradizionali potenze imperiali, Inghilterra, Francia e Stati Uniti, hanno partecipato a una guerra civile dalla parte dei ribelli che non aveva nulla a che vedere con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Che l’azione del triumvirato imperiale sia stata appropriata è questione che penso debba essere discussa e dibattuta.  Certamente non è stata, internazionalmente, una mossa popolare; voglio dire, viene definita comunità internazionale, ma la maggior parte del mondo vi si oppone.  La Libia è un paese africano e l’Unione Africana sollecitava negoziati e diplomazia, ed è stata ignorata.  Brasile, Russia, India e Cina – i paesi BRIC – hanno tenuto all’epoca una riunione in Cina ed hanno anche diffuso una dichiarazione che sollecitava la diplomazia e i negoziati. Persino la Turchia, all’inizio, è stata tiepida e l’Egitto non ha appoggiato l’azione, e dal mondo arabo non è venuto praticamente alcun sostegno.

La domanda vera è: il mandato dell’ONU di proteggere i civili poteva essere attuato mediante la diplomazia? La Libia è una società altamente tribale e vi sono una quantità di conflitti tra le tribù; chi sa cosa verrà fuori da tutto questo!  Il governo di transizione ha già sottolineato che vi sarà una stretta osservanza della legge della Sharia e che verranno negati i diritti delle donne e così via.  Pochissimi in occidente sanno granché di tutto questo.  D’altro canto c’è stato un enorme sostegno popolare a farla finita con Gheddafi, che era un prevaricatore terribile.

E vedi un allargamento e un approfondimento della Primavera Araba con il passare del tempo e con i ribelli in stati come la Siria e l’Iran che prendono coraggio dalle conquiste dei già oppressi cittadini libici?

L’Iran è un caso diverso; ha un regime oppressivo, ma una situazione molto diversa. La Siria è in una situazione estremamente brutta che sta degenerando in guerra civile.  Nessuno ha proposto una politica sensata per gestire la cosa.  In larghe parti del mondo arabo le rivolte a favore della democrazia sono state rapidamente represse.  In Arabia Saudita, lo stato islamista più radicalmente estremo e alleato più stretto degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, ci sono stati timidi sforzi tentativi di protesta e sono stati repressi parecchio rapidamente, in modo tale che la gente ha avuto paura di scendere di nuovo in strada.  Lo stesso vale per il Kuwait e per l’intera regione, la regione del petrolio.  In Bahrain le proteste sono state inizialmente tollerate prima di essere represse violentemente con l’assistenza della forza d’invasione guidata dai sauditi in modi molti brutti, come irrompere in un ospedale ed aggredire medici e pazienti.

In Egitto e in Tunisia c’è stato un progresso significativo, ma limitato.  In Egitto l’esercito non ha mostrato alcuna intenzione di allentare il suo controllo sulla società, anche se ora il paese ha una stampa libera e un movimento sindacale è stato in grado di organizzarsi ed agire in modo indipendente. Anche la Tunisia ha già una storia di attivismo sindacale. E pertanto il progresso verso la democrazia e la libertà è correlato molto strettamente con l’ascesa dell’attivismo militante di lungo termine. Ciò non dovrebbe sorprendere gli occidentali perché è esattamente quel che è accaduto in occidente.

Come vedi dispiegarsi la geopolitica nei prossimi decenni, con l’ascesa dei BRIC, la mancanza di stabilità in Medio Oriente e il declino dell’occidente?

Gli USA e l’Europa hanno problema in qualche misura diversi.  L’Europa fronteggia problemi finanziari molto gravi, questo non è un segreto, che sono in parte riconducibili all’approccio relativamente umano all’integrazione dei paesi più poveri con le nazioni più ricche.  Prima che fosse creata l’Unione Europea e i paesi del sud più poveri, come la Grecia, il Portogallo e la Spagna, fossero fatti entrare, c’erano stati tentativi di ridurre la nette differenze tra i paesi avanzati ricchi e quelli più poveri, in modo tale che i lavoratori dell’Europa settentrionale non dovessero affrontare la concorrenza della classe lavoratrice impoverita e sfruttata del sud. Ci sono stati finanziamenti compensativi e altre misure che, naturalmente, non hanno eliminato il divario, ma lo hanno rimosso in misura sufficiente a far sì che le nazioni più povere fossero fatte entrare [nella UE] senza effetti pesanti su quelle ricche del nord.

L’Europa sta ora pagando il prezzo di un approccio relativamente umano e il suo non aver gestito alcuni problemi molto seri, come la straordinaria indipendenza della Banca Centrale Europea e la sua dedizione religiosa alle politiche anti-inflattive, che non sono quelle che dovrebbero essere adottate in un periodo di declino e di recessione. L’Europa dovrebbe fare l’opposto, come gli Stati Uniti dove le politiche sono in qualche modo più realistiche.

Quale ruolo pensi svolgeranno l’Europa e gli Stati Uniti in questo nuovo ordine mondiale che potenzialmente riflette la multipolarità piuttosto che l’egemonia occidentale?

L’Europa e gli Stati Uniti rappresentano ancora una parte enorme dell’economia globale; non ci sono dubbi al riguardo. Se l’Europa riesce a rimettere le proprie cose in ordine, e io penso che dovrà modificare le sue politiche economiche, ha delle opzioni.  Ciò di cui l’Europa ha bisogno ora non è un programma d’austerità, bensì  un pacchetto di stimolo che ripristini la crescita in modo da potere in seguito occuparsi del problema del debito.  Lo stesso vale per gli Stati Uniti.  E’ disponibile una quantità di denaro per programmi di stimolo in entrambe le regioni.  Ciò potrebbe aumentare il debito, ma quello è un problema più a lungo termine.  Le nostre società sono ricolme di ricchezza; la questione è come si intende utilizzarla.

Il tema comune di tutto la letteratura sugli affari internazionali è quello che viene chiamato il declino dell’occidente e la conclusione, a corollario, che il potere globale sta nuovamente passando alle potenze emergenti, Cina e India.  Tale tesi non è plausibile; la crescita economica della Cina è stata per molti versi decisamente spettacolare, ma si tratta di paesi molto poveri.  Il reddito pro capite è ben al di sotto di quello dell’occidente e hanno enormi problemi interni. La Cina, considerata il principale motore economico, è oggi ancora un impianto di assemblaggio.  Se si calcola accuratamente  il deficit commerciale USA nei confronti della Cina in termini di valore aggiunto, si rileva che il dato scende di circa il 25%, mentre aumenta nei confronti del Giappone, di Taiwan e della Corea approssimativamente della stessa percentuale.  Il motivo è che le parti, i componenti e l’alta tecnologia affluiscono in Cina da società periferiche, più industrializzate, così come dagli USA e dall’Europa, e la Cina assembla il tutto. Se si acquista un iPad o roba simile sul quale c’è scritto “esportato dalla Cina”, ben poco del valore aggiunto è cinese.

Certamente, in prosieguo la Cina salirà sulla scala della tecnologia, ma si tratta di una salita difficile e il paese ha problemi interni molto gravi, incluso un problema demografico.  Il periodo di crescita del paese è stato associato a un grande aumento di lavoratori giovani, tra i ventenni o trentenni, ma le cose stanno cambiando, in parte a motivo della politica del “figlio unico”.  Quel che sta arrivando è un declino della popolazione in età da lavoro e un aumento della popolazione più anziana. I cinesi senza dubbio cresceranno e saranno importanti, ma l’India è ancor più impoverita con centinaia di milioni di persone che vivono in miseria. Il mondo sta diventando vario e sta arrivando anche un secolo più vario.  Con l’ascesa dei BRIC, è in arrivo una distribuzione del potere. Per quanto riguarda il declino statunitense, esso è iniziato negli anni quaranta, quando possedeva letteralmente,  con incredibile sicurezza, la metà della ricchezza e della produzione del mondo; non c’era mai stato nulla di simile nella storia. Ciò ha cominciato a declinare molto rapidamente e la cosiddetta “perdita della Cina” si è verificata nel 1949.  Si dava per scontato che noi possedessimo il mondo, che ne fossimo proprietari.  Ben presto ci fu la “perdita del Sud Est Asiatico”. E per  che si sono avute le guerre inter-cinesi e il colpo di stato in Indonesia.

Nell’ultimo decennio abbiamo assistito a quella che è stata chiamata la “perdita del Sud America”. Il Sud America ha cominciato a muoversi in direzione dell’indipendenza e dell’integrazione e gli Stati Uniti sono stati espulsi da tutte le basi militari dell’area. Ed è in corso la creazione di unioni in America Latina, Sud America, Africa e Medio Oriente. L’occidente e i suoi alleati stanno cercando con forza di controllare ciò, ma la cosa sta proseguendo.  E in Cina vi è l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione, che comprende gli stati dell’Asia Centrale, con Russia, India e Pakistan quali osservatori. Gli Stati Uniti sono stati esclusi e, sinora, si tratta un’organizzazione internazionale basata sull’energia, basata sull’economia.  E tuttavia è un’altra parte di questa diversificazione del potere nel mondo.

Il declino statunitense è in misura significativa autoinflitto. A partire dagli anni ’70, le economie occidentali hanno operato una svolta netta.  Nel corso della storia la tendenza era stata in direzione della crescita e della speranza. Ciò è cambiato negli anni ’70, quando c’è stata una svolta dell’economia verso la finanziarizzazione e il trasferimento della produzione all’estero a motivo del declino del tasso di profitto dell’industria.  Quella che si è verificata è stata un’altissima concentrazione della ricchezza, per la maggior parte in una parte minuscola del settore finanziario, e la stagnazione e il declino per la maggior parte della popolazione.  Oggi abbiamo slogan del tipo “99% e 1%”. Le cifre non sono del tutto corrette, ma il quadro generale lo è. E’ un problema molto serio e ha portata a una ricchezza spettacolare in pochissime tasche, anche se ciò è molto dannoso per i paesi interessati. Le proteste cui assistiamo in tutto il mondo in questo momento sono un altro sintomo di ciò.

 

Noam Chomsky è professore di linguistica al Massachusetts Institute of Technology, negli Stati Uniti. E’ autore di più di un centinaio di libri, compreso ‘Current Issues in Linguistic Theory’ [Problemi attuali della teoria linguistica].

 

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/moral-justification-by-noam-chomsky

Fonte: Public Service Europe

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

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I falchi USA vogliono attaccare l’Iran

22 sabato Ott 2011

Posted by Redazione in America, Guerra al terrore, Jim Lobe

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Adel al-Jubeir, AEI, Andrew McCarthy, Brookings Institute, Bruce Riedel, CIA, COnsiglio della Sicurezza Nazionale, Dan Senor, DEA, Eric Edelman, FDD, FPI, Guardie della Rivoluzione, iran, John Bolton, lista nera, Mitt Romney, neoconservatori, Pat Lang, PNAC, Quds, Reuel Gerecht, Robert Baer, Robert Kagan, sanzioni, Vaku Nasr, William Kristol, Zeta

 

 

di Jim Lobe  (21 ottobre 2011)

Neoconservatori chiave e altri falchi di destra che si sono fatti campioni dell’invasione USA dell’Iraq nel 2003 sollecitano attacchi militari contro l’Iran per rappresaglia per l’asserito complotto omicida contro l’ambasciatore saudita qui, negli Stati Uniti.

A guidare la carica è la Foreign Policy Initiative (FPI, Iniziativa per la politica estera], l’erede ideologica del Progetto per il Nuovo Secolo Americano (PNAC), che ha svolto un ruolo cruciale nel mobilitare il sostegno al “cambiamento di regime” in Iraq nei tardi anni ’90 e successivamente ha promosso la campagna pubblica per invadere il paese dopo gli attacchi dell’11 settembre.  Il gruppo ha trasmesso lunedì ai giornalisti appelli, su carta intestata,  di due dei suoi leader per un’azione militare.

In un articolo intitolato “Parlar piano … e contrattaccare” del Weekly Standard di questa settimana, il redattore capo, William Kristol, cofondatore sia del PNCA sia del FPI, ha affermato che l’asserito complotto ha rappresentato un “invito scolpito” da parte di Teheran a usare la forza contro l’Iran.

“Possiamo attaccare le Guardie della Rivoluzione Iraniana, (IRGC) e indebolirli. E possiamo colpire il programma di armamento nucleare del regime, e ritardarlo” ha scritto, aggiungendo che il Congresso dovrebbe approvare una risoluzione che autorizzi l’uso della forza contro entità iraniana ritenute responsabili degli attacchi a soldati USA in Iraq e in Afghanistan, di atti di terrorismo o del “programma di armamento nucleare del regime”.

Il consiglio di Kristol è stato appoggiato da Jamie Fly, direttore esecutivo del FPI, che ha sollecitato il presidente Barack Obama a emulare gli ex presidenti Ronald Reagan e Bill Clinton quando ordinarono attacchi mirati contro la Libia nel 1986 e nel 1993, rispettivamente, in rappresaglia per presunti complotti terroristici contro gli Stati Uniti.

“E’ ora che il presidente Obama segua le orme dei suoi predecessori e si opponga ai tiranni che uccidono cittadini statunitensi e minacciano i nostri interessi,” ha scritto Fly, che ha lavorato presso il Consiglio della Sicurezza Nazionale e il Pentagono sotto George W. Bush, nell’edizione in rete del The National Review.

“E’ ora di intraprendere un’azione militare contro gli elementi del governo iraniano che appoggiano il terrorismo e contro il suo programma nucleare. Ulteriore diplomazia non è una risposta adeguata,” ha scritto.

Gli appelli del FPI, cui hanno fatto eco altri ex falchi della guerra in Iraq, come l’ex ambasciatore di Bush all’ONU, John Bolton, e Reuel March Gerecht della neo-conservatrice Fondazione per la Difesa delle Democrazie (FDD), sono giunti mentre le analisi, qui da noi, continuano a discutere della credibilità del presunto complotto contro l’ambasciatore saudita Adel al-Jubeir e di come reagirvi se, come asserisce l’amministrazione, esso è stato autorizzato ad alto livello a Teheran.

La probabilità che il complotto sia davvero reale – e, in tal caso, che abbia avuto un’autorizzazione al alto livello – è stata qui ampiamente messa in discussione, principalmente da due gruppi di esperti.

La reazione tra virtualmente tutti gli specialisti dell’Iran, compresi ex dipendenti del governo e dei servizi segreti, è andata dall’esplicito scetticismo allo sconcerto riguardo a cosa, se il presunto complotto fosse stato davvero consumato, Teheran avrebbe sperato di ricavare dall’assassinio dell’ambasciatore saudita su suolo statunitense.

“Incredibile, a dir poco” ha scritto Vali Nasr, un alto membro del Brookings Institute, in reazione al presunto complotto.  “Se fosse vero, questo complotto dimostrerebbe una colossale mancanza di giudizio da parte di Teheran, un audace e sventato avventurismo che si riassumerebbe in un colossale errore del regime clericale che lo indebolirebbe a livello internazionale e persino allenterebbe la sua presa sul potere …”

Esperti dell’antiterrorismo competenti riguardo alla Forza Quds dell’Iran, l’unità d’élite delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) accusate di aver patrocinato il complotto, sono stati ancor più scettici sul fatto che esso si baserebbe sui contatti non dimostrati di un commerciante di auto usate iraniano-statunitense con un presunto membro del cartello della droga Zeta in Messico per organizzare l’assassinio.

Il presunto contatto Zeta si è rivelato essere un informatore della DEA (U.S. Drug Enforcement Administration, la polizia antidroga statunitense – n.d.t.], secondo la denuncia pubblicizzata con gran fanfara la scorsa settimana dal procuratore generale.

“Puzza, puzza, puzza” ha detto Bruce Riedel, un veterano della CIA che è stato responsabile del Vicino Oriente e dell’Asia Meridionale presso il Consiglio della Sicurezza Nazionale, quando gli è stato chiesto di esprimere la sua valutazione, mentre Robert Baer, ex ufficiale operativo della CIA in Medio Oriente, ha paragonato il complotto, così come descritto nell’accusa, a un “copione di Hollywood davvero orrendo”.

“Niente di tutto questo è all’altezza dell’insuperata capacità dell’Iran di commettere assassinii” ha scritto sul sito web della rivista Time.

“Perché mai avrebbero creato una situazione in cui avrebbero dovuto affidarsi a questa risorsa non verificata, non addestrata, non guidata e incontrollata anziché ai propri uomini?” ha scritto il colonnello (in pensione) Pat Lang, ex capo analista per il Medio Oriente e l’Asia Meridionale dell’Agenzia dei Servizi Segreti della Difesa, sul suo blog Sic Semper Tirannis.

Definendo il caso governativo “spazzatura” Lang ha aggiunto che “la schiacciante probabilità è che questa sia un’ “operazione di controinformazione” di qualcuno, mirata a condizionare l’atteggiamento del pubblico a qualche fine.”

Tale scetticismo non ha tuttavia dissuaso l’amministrazione, i legislatori chiave o gli ex falchi dell’Iraq dal sollecitare una reazione dura.

In effetti lo stesso Obama ha detto giovedì che premerà per “le sanzioni più dure” contro l’Iran da parte degli alleati degli USA e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mentre alti dirigenti del Tesoro hanno affermato di star prendendo in considerazione l’inserimento della banca centrale iraniana nella lista nera, una mosse che ha goduto di forte appoggio bipartisan al Congresso, in particolare dai legislatori più strettamente collegati alla lobby israeliana, anche prima che il presunto complotto fosse scoperto.

Ma numerosi ex falchi dell’Iraq, pochi dei quali risultano nutrire molti dubbi sulla serietà o provenienza del complotto, stanno richiedendo un’azione militare.

“L’idea di ulteriori sanzioni non è male …” ha scritto Gerecht, uno dei principali sostenitori dell’invasione dell’Iraq quand’era all’American Enterprise Institute [AEI, Istituto dell’Imprenditoria Statunitense], in un articolo pubblicato venerdì sulla pagina fedelmente neo-conservatrice del Wall Street Journal. “Ma non spaventeranno [il regime iraniano]. La Casa Bianca deve rispondere militarmente a questa offesa. Se non lo faremo, ne chiederemo altre.”

Un altro promotore della guerra in Iraq, Andrew McCarthy, anche lui del FDD, si è unito al coro sulla National Review Online: “C’è una gamma di possibili risposte politiche, ovviamente, ma considerati i tre decenni di aggressioni, la risposta all’Iran deve essere militare, e decisiva. Il regime deve essere distrutto.”

L’appello di lunedì del FPI per l’azione militare è stato forse più notevole, se non altro perché tre dei quattro direttori del gruppo – Eric Edelman, Robert Kagan e Dan Senor – sono stati recentemente nominati consiglieri chiave di Mitt Romney, il candidato capolista alla nomina presidenziale Repubblicana per il 2012.

Come Kristol, Kagan è stato cofondatore sia del PNAC sia del FPI e una sostenitore cruciale dell’invasione dell’Iraq, mentre Senor ha servito in Iraq, dopo l’invasione, come alto funzionario dell’Autorità Provvisoria della Coalizione.  Edelman che, da ambasciatore in Turchia all’epoca, ha esercitato pressioni sull’esercito per appoggiare l’invasione del 2003, ha proseguito con l’incarico di sottosegretario alla difesa per la politica sotto l’ex capo del Pentagono, Donald Rumsfeld.

Anche se Romney è rimasto in silenzio sinora riguardo a come Washington dovrebbe reagire al presunto complotto, numerosi tra i suoi altri consiglieri, che si sono fatti campioni dell’invasione dell’Iraq, sollecitano da tempo gli USA a rendere più credibile la minaccia USA di un’azione militare nella regione.

Nel suo primo importante discorso politico, due settimane fa, Romney stesso ha chiesto che due portaerei siano permanentemente dispiegate nella regione come deterrente per Teheran.

Il blog di Jim Lobe’s sulla politica estera USA si può leggere al seguente indirizzo:  http://www.lobelog.com

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.zcommunications.org/u-s-hawks-behind-iraq-war-rally-for-strikes-against-iran-by-jim-lobe

Fonte: Other News

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

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Una politica iraniana per il 99%

13 giovedì Ott 2011

Posted by Redazione in Asia, Robert Naiman

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Tag

iran

13 ottobre 2011

Di Robert Naiman

Fonte: Huffington Post

Originale

Sabato ho dimostrato  al centro di Washington con la gente di “OccupateDC”. Uno degli slogan più comuni che si scandivano vicino a me era: “Come mettere fine a questo deficit? Basta con le guerre, tassate i ricchi!” Sembra che il 99% a DC non abbiano problemi a dire che bisogna  mettere fine alle guerre e contemporaneamente tassare i ricchi Spero che altri li emuleranno.

 

Considero una cosa ovvia che “mettere fine alle guerre” significa non soltanto che dovremmo ritirare tutte le truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, ma che non dovremmo iniziare una nuova guerra con l’Iran. Anche voi la pensate così? Certamente una lezione fondamentale degli ultimi dieci anni è che una volta che una guerra è iniziata, può essere incredibilmente difficile terminarla. Questo è uno dei motivi per cui i neoconservatori amano cominciare le guerre. Iniziare una guerra permette loro di creare un cambiamento strutturale a lunga scadenza sul terreno politico – un cambiamento che può sopravvivere alle loro cariche – risucchiando risorse e  l’attenzione  dall’economia interna produttiva che dà lavoro e nutre il 99%  per darle all’economia militare che rende più ricchi gli appaltatori di affari  in campo militare. Ma crea pochi posti di lavoro negli Stati Uniti paragonati alle spese private interne e  alla pubblica spesa.

 

E un’altra lezione fondamentale degli ultimi  dieci anni è questa: se vogliamo fermare le guerre nel futuro, non possiamo aspettare ad agire finché i difensori della guerra abbiano messo in fila tutti i loro birilli. Dobbiamo “interrompere i loro complotti” , per così dire. Milioni di persone hanno dimostrato in tutto il mondo prima dell’inizio della guerra in Iraq. Come espressione di una protesta popolare per la pace, è stata grandiosa. Come mezzo per fermare la guerra, però, era arrivata in ritardo. Il treno della guerra aveva già lasciato la stazione.

 

Proprio adesso, la prospettiva di una guerra con l’Iran può sembrare remota per la moltitudine. Provate però a fare questo piccolo esperimento: andate in rete, e cercate “Romney” e “Iran”.  “I consiglieri più importanti  di Romney    sollecitano la guerra contro l’Iran,” osserva Ben Armbruster su Think Progress. Poi cercate “Perry” e “Iran”. Rick Perry è in gara per diventare il “falco internazionalista” che tende la mano agli “esperti” neoconservatori, come l’ex sottosegretario alla difesa per la politica Doug Feith, un architetto fondamentale della guerra in Iraq, riferisce Josh Rogin su Foreign Policy.

 

Immaginate il mondo dopo il gennaio 2013, se Romney o Perry  diventano presidenti, se i neoconservatori riprendono  il controllo della nostra politica estera e i Repubblicani controllano la Casa Bianca. (Sfortunatamente, se i Democratici controllano teoricamente il Senato non potrebbe essere tanto importante, data la propensione di così tanti senatori democratici a votare con il partito della guerra). Sarebbe simile al terreno politico che c’era all’inizio dell’amministrazione di George W. Bush, prima che la maggior parte dei neoconservatori venissero cacciati dall’Amministrazione Bush e i Democratici riprendessero il parlamento. In altre parole,  produrrebbe un terreno simile a quello che esisteva negli Stati Uniti prima della guerra in Iraq.

 

Supponete che il governo di Netanyahu o qualche cosa di analogo fosse ancora al potere in Israele, purtroppo uno scenario estremamente simile. E poi considerate che i neoconservatori  avrebbero quattro anni per allineare i loro birilli per il loro auspicato confronto con l’Iran. E allora potrebbe esserci il movimento pacifista che sta da solo contro  l’angolo dell’amen   di Netanyahu  dotato di risorse adeguate  con i suoi agenti che controllano il ramo esecutivo e il Congresso con il suo accesso privilegiato al megafono dei mezzi di informazione del paese. Volete vedere la fine di quel film? Io no. Noi manterremo le nostre posizioni terreno nel modo migliore possibile, ma c’è un’alta probabilità che l’angolo dell’amen * di Netanyahu rotoli sopra di noi come anno i bulldozer dell’occupazione di Israele.

 

Se volete evitare questo finale dobbiamo “scombussolare il complotto”. Come possiamo farlo?

 

Uno strumento fondamentale per scombussolare il complotto sarebbe raggiungere un accordo diplomatico con l’Iran adesso che allontani  ancora di  più l’Iran dalla possibilità di produrre un’arma nucleare. Forse a voi in realtà non interessa molto, intrinsecamente, quanto sia vicino l’Iran a sviluppare la capacità di produrre un’arma nucleare. Se è così, non è compito mio far sì che ve ne importi di più. Sappiate questo, però: nel mondo degli affari pratici nel quale viviamo attualmente, non importa così tanto quanto vi preoccupiate.  Quello che importa di più è che  più Washington  percepisce che  l’Iran è più prossimo a sviluppare la capacità di produrre un’arma nucleare, migliori sono le condizioni per cui i neoconservatori incrementino lo scontro tra gli Stati Uniti e l’Iran. Fare questo favorirebbe gli interessi  dell’1% e danneggerebbe quelli del 99%: produrrebbe spese maggiori e attenzione sull’economia militare a spese dell’economia nazionale produttiva che dà lavoro e nutre il 99%. Aumenterebbe anche la probabilità di una nuova guerra.

 

E’ importante tenere a mente che anche l’Iran ha i suoi signori Mitt Romney, Rick Perry, i suoi Abraham Fozmans, e le sue Ileana Ros-Lehtinens: gente che vuole     lo scontro con gli Stati Uniti perché favorisce  i loro interessi. Non possiamo quindi  credere che lo scontro non si intensificherà, se non c’è un’efficace azione per diminuirlo anche se gli Stati Uniti non stanno spingendo verso ‘intensificazione.

 

E dovreste sapere anche questo: c’è una proposta  diplomatica modesta, fattibile, che è  sul tavolo proprio adesso  che avrebbe l’effetto di  allontanare ulteriormente l’Iran dalla capacità di produrre un’arma nucleare. Dicendo di sì a questa proposta, l’Amministrazione Obama – che, come ricorderetesono andati al governo  con la promessa di impegnarsi in maniera significativa con  l’Iran sul piano diplomatico – potrebbe scombussolare il complotto dei neoconservatori.

 

La proposta è: gli Stati Uniti forniscono combustibile per il reattore iraniano destinato alla la ricerca medica, se, in cambio, l’Iran è d’accordo a sospendere l’arricchimento dell’uranio al di sopra del 5%. Questa proposta avrebbe l’effetto di allontanare ulteriormente l’Iran in modo significativo dalla capacità di produrre un’arma nucleare.

 

Oltre a diminuire lo scontro con l’Iran sul programma nucleare, questa proposta avrebbe un vantaggio collaterale che potrebbe interessare qualcuno: garantirebbe la fornitura di isotopi medi usati in  medicina per la cura di 850.000 pazienti iraniani. Mi rendo conto che mai nessuno ha mai perso una disputa   a Washington per aver sottostimato la preoccupazione dei dirigenti della politica estera del paese che gli esseri umani che per caso vivono in nazioni “nemiche” vivano o muoiano in seguito alla politica degli Stati Uniti. Se, però, per caso siete una persona che si preoccupa di queste cose, questo è un vantaggio in più per voi: 850.000 Iraniani, malati di cancro, e almeno alcuni di loro sono completamente innocenti di qualsiasi politica del governo iraniano, avrebbero accesso alle cure assicurate.

 

Questa proposta è stata appoggiata dagli esperti nucleari iraniani presso la Federazione degli Scienziati Americani, in un contro editoriale sul New York Times;

dal direttore del Centro Belfer per la Scienza e gli affari Internazionali alla Kennedy School di Harvard, in un contro editoriale sul Washington Post. Questa approvazioni di “convalida” fanno pensare seriamente che l’attuazione  di questa proposta sia una richiesta moderata e fattibile.

 

Quindi, a voi sapientoni del mondo dei mezzi di informazione che insistono a sostenere che i dimostranti del 99% non hanno richieste pratiche, vorrei dire  due parole. Io ho una richiesta concreta. Dite di sì o di no all’accordo con l’Iran sulla medicina nucleare.

 

* amen corner:  nelle chiese protestanti era il posto occupato dai fedeli che intonavano l’amen alla fine delle preghiere oppure, secondo un’ altra definizione, l’angolo dove sedevano i fedeli più ferventi N.d.T.)

 

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

Traduzione di Maria Chiara Starace

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