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Israele non attaccherà l’Iran. Punto e a capo.

10 giovedì Nov 2011

Posted by Redazione in Asia, Guerra al terrore, Uri Avnery

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Ahmadinejad, armi di distruzione di massa, bomba atomica, Ehud Barak, Eisenhower, Fiji, Grande Tel Aviv, guerra dello Yom Kippur, Gush Shalom, Haaretz, Hamas, Henry Kissinger, HEzbollah, iran, Isole Marshall, Knesset, Meir Dagan, Micronesia, missili, Mossad, Netanyahu, Palau, Palestine Chronicle, petrolio, piazza Rabin, Shin Bet, Stretto di Hormuz, Suez, usa

di Ury Avnery   – 9 novembre 2011

Tutti conoscono la scena dagli anni della scuola: un piccoletto litiga con un ragazzo più grande. “Tenetemi!” grida ai suoi compagni, “Prima che gli spezzi le ossa!”

Il nostro governo sembra comportarsi in questo modo.  Ogni giorno, su tutti i canali, urla che sta per spezzare le ossa all’Iran, nel giro di qualsiasi istante.

L’Iran sta producendo una bomba nucleare. Non possiamo permetterlo. E allora li bombarderemo fino a ridurli in briciole.

Benyamin Netanyahu lo dice in ciascuno dei suoi innumerevoli discorsi, compreso il suo discorso d’apertura della sessione invernale della Knesset.  Idem Ehud Barak.  Ogni commentatore che si rispetti (si è mai visto un commentatore che non si rispetti?) ne scrive.  I media amplificano lo strepito e la furia.

“Haaretz” riempie la prima pagina di foto dei sette ministri più importanti (il “settetto della sicurezza”) indicandone tre a favore dell’attacco e quattro contro.

Un proverbio tedesco dice: “Le rivoluzioni annunciate in anticipo non avvengono mai.” Lo stesso vale per le guerre.

Le questioni nucleari sono soggette a una censura militare molto stretta. Molto, molto stretta davvero.

Tuttavia il censore sembra sorridere benevolmente.  Lasciamo che i ragazzi, compreso il Primo Ministro e il Ministro della Difesa (il capo ultimo del censore) giochino la loro partita.

Il rispettato ex capo di lungo corso del Mossad, Meir Dagan, ha ammonito pubblicamente contro l’attacco, descrivendolo come “l’idea più stupida” che egli avesse mai sentito.  Ha spiegato di ritenere suo dovere ammonire contro di essa, in vista dei piani di Netanyahu e Barak.

Mercoledì c’è stato un vero e proprio diluvio di rivelazioni.  Israele ha sperimentato un missile che può portare una testata nucleare a più di 5.000 km di distanza, oltre dove sapete voi.  E la nostra aviazione ha appena completato esercitazioni in Sardegna, a una distanza maggiore di dove sapete voi.  E giovedì il Comando del Fronte Interno ha tenuto esercitazioni nell’intera Grande Tel Aviv, con le sirene che strillavano a più non posso.

Tutto questo sembra indicare che l’intero baccano è uno stratagemma.  Forse per spaventare e dissuadere gli iraniani.  Forse per spingere gli statunitensi ad azioni più estreme.  Forse coordinato in anticipo con gli statunitensi.  (Fonti inglesi, dal canto loro, hanno rivelato che la Real Marina si sta addestrando per appoggiare un attacco statunitense all’Iran).

E’ una vecchia tattica di Israele quella di agire come se stesse dando di matto  (“Il capo è impazzito” è un richiamo consueto nei nostri mercati, per suggerire che il fruttivendolo sta vendendo sottocosto). Non ascolteremo più gli Stati Uniti. Semplicemente bombarderemo e bombarderemo e bombarderemo.

Beh, siamo seri per un momento.

Israele non attaccherà l’Iran. Punto e a capo.

Alcuni possono pensare che io mi stia mettendo nei guai. Non avrei dovuto aggiungere almeno “probabilmente” o “quasi certamente”?

No, non lo farò. Ripeto categoricamente: Israele NON Attaccherà L’Iran.

Dall’avventura di Suez del 1956, quando il presidente Dwight D. Eisenhower trasmise un ultimatum che bloccò l’azione, Israele non ha mai intrapreso alcuna azione militare significativa senza aver ottenuto prima il consenso statunitense.

Gli USA sono l’unico sostenitore affidabile di Israele nel mondo (oltre, forse, alle Fiji, alla Micronesia, alle Isole Marshall e a Palau). Distruggere questo rapporto significa tagliare l’ancora di salvezza. Per farlo bisogna essere più che solo un po’ fuori di testa. Bisogna essere pazzi furiosi.

Inoltre Israele non può combattere una guerra senza l’illimitato sostegno statunitense, perché i nostri aerei e le nostre bombe vengono dagli Stati Uniti.  Durante una guerra abbiamo bisogno di forniture, parti di ricambio, diversi tipo di equipaggiamento.  Durante la guerra dello Yom Kippur, Henry Kissinger aveva un “treno aereo” che ci riforniva ventiquattr’ore al giorno.  E quella guerra probabilmente sembrerebbe una scampagnata in confronto a una guerra con l’Iran.

Guardiamo la carta geografica. Ciò, detto per inciso, è sempre raccomandato prima di cominciare qualsiasi guerra.

La prima caratteristica che colpisce l’occhio è l’angusto Stretto di Hormutz attraverso il quale passa un barile su tre del flusso di petrolio mondiale trasportato per mare.  Quasi l’intera produzione dell’Arabia Saudita, degli Stati del Golfo, dell’Iraq e dell’Iran deve  superare le forche caudine di questa stretta rotta marittima.

“Stretta” è un eufemismo. L’intera larghezza di questa via d’acqua è di circa 35 km (o 20 miglia). E’ circa la distanza tra Gaza e Beer Sheva, che è stata superata la settimana scorsa dai missili primitivi della jihad islamica.

Appena il primo aereo israeliano entrasse nello spazio aereo iraniano, lo stretto verrebbe chiuso. La marina iraniana ha una quantità di navi lanciamissili, ma non ne avrà bisogno. Saranno sufficienti missili lanciati da terra.

Il mondo sta già barcollando sull’orlo dell’abisso.  La piccola Grecia sta minacciando di cadere e di portare con sé grossi pezzi dell’economia mondiale.  L’eliminazione di quasi un quinto delle forniture di petrolio alle nazioni industriali porterebbe a una catastrofe difficile addirittura da immaginare.

Aprire lo Stretto con la forza richiederebbe una grossa azione militare (compreso “mettere gli scarponi sul terreno”,  un’invasione terrestre) che eclisserebbe le disavventure statunitensi in Iraq e in Afghanistan. Gli USA possono permetterselo? Lo può la NATO? Israele stesso non fa parte della stessa lega.

Ma Israele sarebbe coinvolto moltissimo nell’azione, anche se solo dalla parte passiva.

In una rara dimostrazione di unità, tutti i capi dei servizi israeliani, compresi i capi del Mossad e dello Shin Bet, si oppongono pubblicamente all’intera idea. Possiamo solo immaginare il perché.

Non so se l’operazione sia affatto possibile.  L’Iran è un paese molto vasto, circa delle dimensioni dell’Alaska; le installazioni nucleari sono ampiamente sparpagliate e in larga misura sotterranee.  Anche con le speciali bombe a penetrazione profonda degli USA, l’operazione potrebbe portare a uno stallo degli sforzi iraniani – quali che siano – solo per pochi mesi. Il prezzo potrebbe essere troppo alto per un risultato così magro.

Inoltre è quasi certo che con l’inizio di una guerra i missili grandinerebbero su Israele, non solo dall’Iran, ma anche da Hezbollah e forse anche da Hamas.  Non abbiamo una difesa adeguata per le nostre cittadine.  La quantità di morti e distruzioni sarebbe proibitiva.

Improvvisamente i media sono pieni di storie circa i nostri tre sottomarini, che presto passano a cinque o anche sei, se i tedeschi saranno comprensivi e generosi.  E’ detto apertamente che essi ci darebbero la capacità di un “secondo attacco”, se l’Iran utilizzasse le sue (ancora inesistenti) testate nucleari contro di noi.  Ma gli iraniani possono anche usare armi chimiche e altre armi di distruzione di massa.

Poi c’è il prezzo politico. Ci sono un mucchio di tensioni nel mondo islamico. L’Iran è tutt’altro che popolare in molte parti di esso. Ma un assalto israeliano a uno dei principali paesi mussulmani unirebbe istantaneamente sunniti e sciiti, dall’Egitto alla Turchia al Pakistan e oltre. Israele diventerebbe una villa in una giungla in fiamme.

Ma il parlare di guerra può servire a molti scopi, inclusi quelli politici interni.

Sabato scorso il movimento di protesta sociale si è rifatto vivo. Dopo una pausa di due mesi, una massa di gente si è riunita nella piazza Rabin di Tel Aviv. La cosa è stata particolarmente notevole per quello stesso giorno stavano cadendo missili sulle città vicine alla Striscia di Gaza. Fino ad ora in una situazione simile le dimostrazioni erano sempre state annullate.  I problemi della sicurezza hanno la priorità su ogni altra cosa. Non questa volta.

Molti, poi, ritenevano che la festa per Gilad Shalit avrebbe cancellato la protesta dalla mente del pubblico. Non ho ha fatto.

Al riguardo è successo qualcosa di degno di nota: i media, dopo essersi schierati per mesi con il movimento di protesta, hanno cambiato atteggiamento. Improvvisamente tutti, compreso Haaretz, gli piantano coltelli nella schiena. Come eseguendo un ordine, tutti i giornali il giorno dopo hanno scritto che “più di 20.000” avevano preso parte [alla manifestazione].

Beh, io c’ero, e ho realmente qualche competenza su queste cose.  C’erano almeno 100.000 persone là, per la maggior parte giovani. A fatica potevo muovermi.

La protesta non si è esaurita, come affermano i media.  Lungi da ciò.  Ma quale mezzo migliore per distogliere l’attenzione della gente dalla giustizia sociale che parlare di “pericolo esistenziale”?

Inoltre, le riforme rivendicate dai manifestanti richiederebbero  fondi. Considerata la crisi finanziaria globale, il governo si oppone strenuamente ad aumentare il bilancio statale per timore di danneggiare la propria valutazione creditizia.

E allora da dove potrebbero arrivare i soldi? Ci sono solo tre fonti plausibili: gli insediamenti (chi oserebbe?), gli ortodossi (idem!) e l’enorme bilancio militare.

Ma alla vigilia della guerra più cruciale della nostra storia, chi toccherebbe le forze armate? Abbiamo bisogno di ogni shekel per comprare altri aerei, altre bombe, altri sottomarini. Le scuole e gli ospedali, ahimè, devono aspettare.

E dunque Dio benedica Mahmoud Ahmadinejad. Dove saremmo senza di lui?

Uri Avner è un attivista pacifista israeliano ed ex membro della Knesset.  E’ il fondatore di Gush Shalom. Ha offerto questo articolo a PalestineChronicle.com.

 

Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

http://www.zcommunications.org/israel-will-not-attack-iran-period-by-uri-avnery

Fonte: Palestine Chronicle

traduzione di Giuseppe Volpe

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

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Una Primavera Palestinese? Non ancora.

23 domenica Ott 2011

Posted by Redazione in Asia, Bashir Abu-Manneh, Palestina

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Tag

Abbas, accordi di Oslo, autorità palestinese, Cisgiordania, corte internazionale di giustizia, Fatah, Gaza, Gerusalemme est, Hamas, israele, palestina, Primavera, Ramallah, territori occupati

 

Di  Bashir Abu-Manneh 19 ottobre 2011

Fonte: New Politics

                                    

[Questa è una versione rivista di una conversazione tenuta durante un congresso sponsorizzato da Students for Justice in Palestine (Studenti palestinesi per la giustizia) tenutosi alla Columbia University dal 14 al 16 ottobre 2011]

 

La “Primavera palestinese” è l’unica delle “Primavere arabe” che è stata annunciata dal palco dell’assemblea generale dell’ONU. “In un momento in cui”  ha dichiarato Mahmoud Abbas nel suo discorso per il riconoscimento di uno stato palestinese da parte dell’ONU, “i popoli arabi affermano la loro ricerca di democrazia – la Primavera  Araba – è ora che ci sa una Primavera Palestinese, è l’ora  dell’indipendenza”. Questo collegamento tra la richiesta del riconoscimento come stato e le rivolte democratiche che si svolgono nel mondo arabo è stato ripetuto il giorno dopo a Ramallah. Abbas ha detto ai suoi sostenitori che lo acclamavano che erano venuti  a salutarlo: “Abbiamo detto al mondo che c’è una Primavera Araba, ma qui esiste una “Primavera Palestinese” una primavera di massa, popolare, pacifica resistente che cerca di raggiungere i nostri obiettivi —-alzate la testa perché siete Palestinesi”. (Al-Hayat, 26 settembre 2011)

 

E’importane notare che il discorso di Abbas all’ONU ha messo veramente in risalto i diritti palestinesi all’autodeterminazione e al ritorno de rifugiati. Ed è un potente atto d’accusa nei confronti del negazionismo e del  colonialismo di Israele. Questo, comunque non cambia l fatto che c’è qualche cosa di profondamente      nell’annuncio fatto da Abbas della Primavera Palestinese. Abbiamo un capo palestinese che negli ultimi 20 anni s è distinto soltanto per i suoi negoziati, per lo più segreti, con i dirigenti israeliani. Un capo:

 

la cui presidenza dell’Autorità Palestinese è scaduta;

 

la cui fazione d Fatah ha perso le ultime elezioni del 2006  con Hamas

 

che ha trascorso la maggior parte della sua presidenza ponendo un freno a movimenti popolari come Hamas (e anche alla Jihad islamica) in Cisgiordania, facendo chiudere centinaia associazioni benefiche islamiche, licenziando gli imam simpatizzanti con Hamas, e controllando il contenuto delle prediche del venerdì.

 

Un capo che, infine, continua a coordinare la sicurezza quotidianamente con le forze di occupazione israeliane  (i suoi battaglioni addestrati dalla CIA stanno là per proteggere Israele dai Palestinesi invece del  contrario).

 

Come può adesso Abbas dare il benvenuto alla democrazia araba quando soltanto ieri era dispiaciuto per la caduta di Mubarak , e quando anche oggi si vanta dal fatto che se gli Stati Uniti tirano fuori 200 milioni di dollari  per appoggiare la sicurezza dell’Autorità Palestinese, saranno invece i Sauditi  a fornirle quella somma,  cioè “il regime più antidemocratico ed autoritario della regione medio orientale?

 

Ripeto ancora:  c’è qualche cosa di strano circa un capo appoggiato dagli Stati Uniti, dipendente dall’Occidente che si oppone al suo garante principale in nome della democrazia araba. Come si può spiegare la manovra diplomatica di Abbas?

 

Primo: è un atto di auto-conservazione politica da parte dell’élite di Fatah. Dopo 20 anni di negoziati, l’occupazione si è intensificata, gli insediamenti e i coloni si sono più che raddoppiati (attualmente i coloni sono un milione), e le zone controllate da Israele sono aumentate. Gli attacchi dei coloni contro i Palestinesi e le loro proprietà sono in aumento: le moschee vengono bruciate una volta a settimana. Gerusalemme est non è certo persa per la Palestinesi, perché non c’è possibilità di passaggio per altra gente della Cisgiordania  e non c’è libertà di culto. Non c’è neanche libertà di movimento all’interno della Cisgiordania. Ci sono ancora centinaia di posti di controllo e blocchi stradali.

 

Negli ultimi 20 anni l’occupazione israeliana è soltanto diventata più  radicata  e sembra ancora più stabile di quanto sia mai stata prima. E quindi, per evitare una vera rivolta palestinese contro un’Autorità Palestinese ossequiente e appoggiata dall’Occidente, Abbas ha deciso di anticiparla e controllarla dichiarandola egli stesso, per mantenersi al potere. Qui l’auto-conservazione dell’élite di Fatah riduce una mobilitazione popolare democratica che si è organizzata da sola per protestare contro gli effetti e i risultati di Oslo, e la sostituisce con una diplomazia ancora più palestinese. Fatah era qui prima: la sua replica alla rivolta di massa della prima Intifada è stata la cooptazione e l’incanalamento verso la diplomazia segreta di Oslo. Qui la misura è preventiva.

 

La manovra sembra essere riuscita poiché la maggior parte dei Palestinesi sembra che appoggi la richiesta di riconoscimento; infatti la maggior parte dei Palestinesi capisce che essere riconosciuti come stato significa la fine dell’occupazione in  Cisgiordania e a Gaza. Anche le obiezioni di Hamas alla richiesta di riconoscimento non erano su argomenti di principio: riguardavano i mezzi con cui raggiungere il riconoscimento piuttosto che la convenienza. Hamas ha criticato Abbas per non aver completato i colloqui per la riconciliazione e l’unità prima di andare all’ONU e si è pronunciato contro la richiesta quando gli sforzi di mediazione tra fazioni fatti dalla Turchia e dall’Egitto sono falliti appena prima della richiesta di riconoscimento.

 

Andando all’ONU, allora, Fatah ha tentato di cambiare la percezione popolare palestinese di completa subordinazione a Israele e all’America: di essere un negoziatore a qualsiasi condizione. Ed è riuscito bene dato che gli Stati Uniti si impegnavano molto per fermare la richiesta di riconoscimento e non ci sono riusciti. In un’intervista con Katty Kay nella trasmissione BBC America il 16 settembre 2011, per esempio, la rappresentante degli Stati Uniti all’ONU, Susan Rice, ha chiamato la richiesta “improduttiva” e Ha perfino minacciato che “non ci sarà sovranità e non ci sarà cibo sulla tavola” come risultato di questa. Niente cibo sulla tavola è una frase famigliare nel contesto palestinese. Quello che voleva dire la Rice, in sostanza era che Ramallah rischia di essere lasciata morire di fame  come Gaza se l’Autorità Palestinese persiste nella richiesta. E’ una minaccia piuttosto sorprendente da fare così apertamente e senza una sfida. In ogni caso, frustrata dal dall’intransigenza di Israele, Fatah ha utilizzato il podio dell’ONU per esporre le brutalità e i crimini dell’occupazione israeliana. Ha alzato anche la sbarra per un ritorno ai negoziati: non soltanto il congelamento degli insediamenti in tutta la Cisgiordania, compresa Gerusalemme est, ma anche un riconoscimento da parte di Israele che il 1967 è la base per i negoziati.

 

La seconda e fondamentale ragione per  lo scontro diplomatico di Fatah con Israele sono gli sviluppi dei fatti nell’area medio orientale. Le rivolte arabe hanno indebolito gli Stati Uniti in quella zona. Se si collega questo fatto alle sconfitte militari e politiche in Iraq e in Afghanistan (dando potere al suo peggior nemico, l’Iran), sembra che gli Stati Uniti stiano perdendo la loro stretta presa  sul mondo arabo. I tiranni arabi, che gli Stati Uniti usano per proteggere per avere accesso al  petrolio e controllarlo, oggi sono più deboli. Alcuni sono stati perfino mandati via anche se i loro regimi continuano a esistere. Si stanno formando dei movimenti democratici che stanno lentamente diventando più potenti. Gli Stati Uniti capiscono chiaramente che la democrazia araba è contro i suoi interessi. Dare alla gente più    voce in capitolo e controllo sulla loro politica e sulle risorse in un’area che ha visto varie guerre americane e israeliane, può soltanto significare una presenza più debole degli Stati Uniti in quella area (per esempi, la recente catastrofe in Iraq ha provocato 1 milione di morti e 5 milioni di profughi iracheni sia nel paese che all’estero).

 

 La democrazia nel Bahrein significa la fine della presenza navale degli Stati Uniti in quel paese che è la più grande nella regione medio orientale. La democrazia in Arabia Saudita sarebbe una catastrofe per gli Stati Uniti. Il petrolio in mani arabe usato per il loro stesso  sviluppo e per una possibile proiezione di potere regionale: una vera minaccia strategica. La democrazia in Giordania significa la fine della monarchia e al suo posto uno stato governato dalla maggioranza palestinese. Infine, la democrazia in Egitto significa la fine del trattato di pace con Israele e il ritorno di quel paese ala conflitto arabo-israeliano (capovolgendo uno dei principali  successi diplomatici nella zona medio orientale e mettendo fine alla subordinazione  dell’Egitto agli Stati Uniti e a Israele. Gli Stati Uniti stanno quindi tentando di fare tutto il possibile per soffocare la democrazia nel mondo arabo e per assicurarsi che

le cosiddette “Transizioni democratiche siano così lunghe e distruttive per gli Arabi quanto lo è stato il processo di pace di Oslo per i Palestinesi. L’analogia è realmente molto precisa: il processo di Oslo (1993-2000)  è arrivato subito dopo l’avvenimento che ha precorso la Primavera Araba: la mobilitazione di massa della prima Intifada palestinese.

 

Da bravi opportunisti politici quali sono, l’élite di Fatah fiuta questo indebolimento degli Stati Uniti nell’area medio orientale. E’ il momento buono, pensano, di moneizzarll   dal punto di vista politico  e diplomatico, specialmente dal momento che Israele non sta offrendo alcuna seria  concessone, ma soltanto ancora occupazione. La richiesta di riconoscimento non può capita senza questo contesto regionale. L’abilità di Fatah di resistere alla pressione degli Stati Uniti è anche un  riflesso, vale la pena ricordarlo, del desiderio dell’Arabia Saudita di  deviare  le sue pressioni nazionali interne riguardo alle riforme democratiche verso il  problema  estero della Palestina. Contenere le aspirazioni democratiche arabe sostenendo l’unica e più importante causa araba è una manovra tentata  ed esaminata del regime arabo. Nessuna democrazia in patria, ma apparentemente  Israele viene affrontato.  Tali sono le misure populiste prese per evitare altri cambiamenti politici strutturali all’interno.

 

Che cosa ci dice questo breve abbozzo politico riguardo alla causa della Palestina oggi? Che: (1) più si rafforza la democrazia araba, meglio vanno le cose per i Palestinesi. Che: (2) una reale mobilitazione palestinese di massa deve ancora venire. Che: (3) il popolo palestinese è attualmente esausto dopo la sconfitta in due intifada, l’intensificarsi dell’occupazione e la capitolazione di Oslo e la faziosità e le divisioni interne.  Che: (4)esso è in attesa di migliori circostanze di lotta che possono venire soltanto da sviluppi nella zona che cambierebbero l’equilibro del potere tra gli Arabi e Israele, costringendo questo ultimo a ritirarsi e a riconciliarsi con il vicino.

 

Quali sono i compiti di un movimento di solidarietà in Occidente viste le condizioni che cambiano? Possiamo riassumerli così: anti-imperialismo di principio e  appoggio  costante   al diritto democratico dei Palestinesi all’autodeterminazione.

Penso che il primo sia chiaro: gli Stati Uniti fuori dal  Medio  Oriente; ritiro totale dall’Afghanistan e dall’Iraq; non devono restarci né truppe né campi militari. Politicamente, significa comprensione e appoggio per la democrazia araba e per la volontà libera del popolo di governarsi da solo: sovranità popolare. Così, semmai, il primo compito è combattere le élite imperiali qui in patria: le loro politiche e la loro visone del mondo.

Il secondo impegno è appoggiare l’autodeterminazione dei Palestinesi. Parlerò ancora un po’ di questo, perché c’è ancora confusone riguardo a che cosa implica l’opera di solidarietà e che dovrebbe decidere le tattiche e i meccanismi a riguardo. Non fa parte dei compiti del movimento di solidarietà dire a i Palestinesi quali risultati dovrebbero cercare di ottenere: porre fine all’occupazione o cercare di diventare l’unico stato, negoziare o non negoziare con Israele, votare o non votare per Hamas, ecc. L’opera di solidarietà consiste nel difendere un principio democratico di auto-governo per un popolo oppresso, nei limiti delle leggi internazionali e delle norme universali. Il diritto di autodeterminazione fondamentalmente significa che TUTTI i Palestinesi  (dovunque si trovino) hanno diritto di partecipare attivamente a dare forma al loro futuro politico. In questo modo si attivano e si salvaguardano i diritti palestinesi, senza considerarli un feticcio o sostenere che sono scolpiti nella pietra.

 

L’autodeterminazione ha bisogno della democrazia palestinese e può significare soltanto democrazia partecipativa in azione. L’opera di solidarietà decide quale è il modo migliore di sostenere questo principio. Non è un mantra e non significa neanche che le tattiche d solidarietà siano le stesse in ogni contesto. Ciò che è possibile in Europa, per esempio, non è ancora possibile negli Stati Uniti, dove si deve istruire e informare la gente  riguardo all’occupazione.

 

Chi dovrebbe dare questi giudizi sulle tattiche efficaci e i modi di sostenerle? Ognuno dei movimenti di solidarietà. In modo democratico e aperto. Il movimento di solidarietà dovrebbe essere sovrano nel decidere come difendere i Palestinesi contro le ingiustizie e le violazioni dei diritti umani. Gli Americani chiaramente conoscono gli Stati  Uniti più dei Palestinesi che risiedono nella Palestina occupata. Essi sanno che cosa è possibile dal punto di vista politico, come operare in questo ambito, e il modo migliore di ottenere il sostegno per la giustizia palestinese. Chi si impegna nella solidarietà dovrebbe insistere sulla loro libertà di perseguire i loro modi di organizzazione e i loro obiettivi.

 

La buona notizia è che il pubblico degli Stati Uniti sta  diventando più disposto ad appoggiare la causa palestinese. Dopo Gaza, la verità di Israele come occupante crudele è più chiara che mai per  tutti gli Americani. I sondaggi mostrano che una generazione più giovane di Ebrei americani si identifica di meno con Israele. Ci sono anche sintomi di scontento all’interno dell’élite americana: il Generale Petraeus stesso ha riferito al Congresso che l’appoggio americano a Israele costa vite americane in Medio Oriente. Bill Clinton ha di recente dato la colpa soltanto a Netanyahu del fatto che il processo di pace non vada avanti. Questi sviluppi dovrebbero dare più potere a chi si impegna nel campo della solidarietà per mirare a costruire il più vasto movimento possibile negli Stati Uniti.

 

 A che cosa, allora, dare la priorità e dove iniziare la lotta? La risposta è: dai  problemi che riscuotono il sostegno maggiore. Prendete come esempio la Corte Internazionale di Giustizia che  decideva riguardo al muro dell’ annessione  nel 2004: ha chiesto di smantellare il muro e gli insediamenti illegali e di porre fine all’occupazione: “tutti gli Stati sono obbligati a non riconoscere la situazione illegale provocata dalla costruzione del muro nel Territorio Palestinese Occupato ….[e] di controllare che si metta fine a qualsiasi impedimento provocato dalla costruzione del muro all’esercizio da parte del popolo palestinese del suo diritto all’autodeterminazione” (clausola 159).   

Questi sono grossi obiettivi. Questo, però, è il modo in cui si possono  aiutare i Palestinesi ad ottenere la loro libertà e a essere liberi d decidere da sol sia quello che vogliono e che il modo migliore di risolvere una delle più lunghe lotte anticoloniali della storia contemporanea.

 

Da:  Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

 

URL:  http://www.zcommunications.org/a-palestinian-spring-not-yet-by-bashir-abu-manneh

Fonte: New Politics

Traduzione di Maria Chiara

 

© 2011 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

 

 

 

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